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Autore: Freak_Nali    27/01/2019    0 recensioni
«Non è la fine del mondo, stai calma».
«Non è la fine del mondo? Davvero, Luke? Hai accidentalmente rubato la valigia piena di erba e cocaina di uno spacciatore, il quale ci sta inseguendo in giro per il mondo, un dogsitter californiano del tutto incapace ha perso un cane che ha quasi staccato la gamba ad Ashton e siamo a quindici ore di volo da casa nostra. Se permetti, io questa la definirei la fine del mondo».
Genere: Fluff, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non abbiamo perso Luke.

Ci abbiamo provato, sul serio, Ashton sicuramente con più determinazione di me. Ci abbiamo provato in aeroporto a Sydney, quando siamo andati a fare colazione da Starbucks e abbiamo tentato di alzarci dal tavolino di soppiatto mentre lui era distratto dal suo cellulare. Cinque minuti scarsi dopo, ci siamo sentiti avvolgere le spalle dalle braccia di Luke, che mi è messo in mezzo a noi ridendo per lo scherzo, a sua detta, magnificamente riuscito.

«Non del tutto riuscito», ha borbottato Ashton, ma il biondo non è parso farci caso.

Ci abbiamo riprovato quando è andato in bagno, prima di salire sull'aereo, confondendoci tra la folla in fila per l'imbarco nonostante il gate dovesse ancora aprire. Poi più tardi, ossia circa due minuti fa, con la scusa che lui fosse in un posto lontano dal nostro, noi in penultima fila e lui tra le prime. Ma ho come l'impressione che farà di tutto per venire a sedersi nelle nostre vicinanze, magari implorando qualcuno per uno scambio di posti con i suoi occhioni azzurri che, diciamocelo, sarebbero capaci di convincere chiunque di qualunque cosa.

«Se non altro, in caso dovessimo precipitare, lui sarebbe il primo a rimetterci le penne», mi dice Ashton con un ghigno divertito, mentre saliamo le scalette nella parte posteriore dell'aereo e Luke ci saluta con la mano da quelle in testa. Ricambio il saluto di Luke prima di roteare gli occhi in direzione di Ashton.

«Sarebbe questione di attimi», gli faccio notare, non appena ricambiato il saluto della hostess che ci ha accolti con un sorriso a bordo.

«Attimi di gloria», replica, posando lo zaino sul sedile accanto al corridoio e spostandosi leggermente, per poi guardarmi con un sopracciglio inarcato, cosa che faccio anche io. Stiamo bloccando il passaggio e non riesco a capire cosa stiamo esattamente facendo. «Hai intenzione di passare o vuoi un invito formale?».

«Pensavo volessi stare tu sul finestrino».

«Certo, ma do la precedenza a te, abbiamo ancora una marea di voli in cui posso rimediare», mi sorride. «Ora però sbrigati, stiamo intralciando il passaggio», ridacchia con il suo tono da ragazzina, così come faccio io mentre poso il mio zaino per terra davanti al sedile per poi sedermi, venendo presto affiancata da Ashton.

In momenti come questi, mi rendo conto in modo ancora più consapevole di quanto sia stata fortunata a incontrarlo, quel pomeriggio all'asilo.

Avevo tre anni, ero al primo anno della scuola materna quando le nostre strade si sono incrociate, per puro caso. È buffo come non diamo peso a piccoli avvenimenti che poi, ripensandoci anni dopo, si rivelano essere la scintilla che ha smosso tutto e ha reso la nostra vita quella che è ora.

Quel giorno il pranzo faceva davvero schifo, tanto che quasi nessuno lo aveva mangiato, fatta eccezione per Ronald, che noi chiamavamo non a caso "pesce rosso". Tutto è nato quando il pesce rosso di Julia, dopo che lei gli aveva dato troppo mangime, è letteralmente esploso. Ero a casa sua quel pomeriggio e, a distanza di tanti anni, ricordo ancora la scena raccapricciante e gli incubi che mi ha causato. Sua mamma ci ha poi spiegato che i pesci rossi non hanno un freno, per cui, più li nutri e più loro mangiano. E poi abbiamo scoperto da sole le conseguenze. Ecco perché Ronald è stato soprannominato così, nomignolo poi adottato anche da tutti i nostri compagni. Non ricordo di averlo mai visto lasciare del cibo, ma ricordo bene che ogni giorno allungava la forchetta con fare furtivo nel piatto dei suoi vicini di tavolo per averne un po' di più. Io e Julia eravamo terrorizzate che un giorno potesse scoppiare davanti a tutti, cosa che, per fortuna, non è mai successa. Io avevo anche paura che potesse rubarmi il mio prezioso pasto, per cui non mi sono mai seduta al suo tavolo nemmeno una volta nel corso dei tre anni di scuola materna.

Ma non è questo il punto.

Quel pomeriggio, non avendo mangiato nulla se non una fetta di pane, sentivo i crampi per la fame. Ogni giorno andavo e tornavo da scuola a piedi, mi portava sempre la nonna, e lungo la strada c'era un fornaio in cui lei mi comprava sempre la merenda prima di tornare a casa o andare al parco. Sapevo la strada, la facevo tutti i giorni. Ero piccola, ma non stupida abbastanza da non ricordarmi quel piccolo tratto di strada che mi separava dal mio tanto agognato cibo. Sentivo l'acquolina in bocca al pensiero, ma sapevo anche che mancava troppo a quel momento. Dovevo ancora fare la nanna, solo dopo quel momento arrivava la nonna. Non pensavo di poter resistere così a lungo.

Il mio piano iniziale era quello di stare attaccata al cancello verde che separava il giardino della scuola dalla strada, aspettando lì la nonna e nascondermi dal maestra per evitare la nanna. Sapevo che con quella fame non sarei riuscita a dormire. Ma tutto è cambiato nel momento in cui, accanto a me, ho sentito il rumore di una pancia brontolare. E non era la mia. Un bambino più alto di me, che non avevo quasi mai visto prima, era aggrappato al cancello verde proprio come me, guardando sconsolato la strada davanti a noi.

«Ho fame», mi ha confessato, portando una mano sul suo stomaco.

«Anche io».

Un sorriso si è dipinto sulle sue labbra, e la prima cosa che ho notato è stata la fossetta che aveva sulla guancia. Ero sicura l'avesse anche sull'altra, ma non potevo vederla dal momento che era di profilo. Ho portato un dito in quel punto, e lui ha riso.

«Andiamo a mangiare?», mi ha chiesto, poi.

«Magari...», ho risposto, sconsolata. «C'è un posto che fa le ciambelle più buone del mondo qui vicino».

«Sai la strada?», mi ha chiesto e io mi sono limitata ad annuire. «Bene, io so come uscire, ho visto i genitori farlo tante volte».

L'ho guardato allarmata, spaventata dall'idea di fuggire da scuola. Ero sempre stata una bambina modello, una bambola, con i boccoli, i vestiti sempre a posto, quasi come uscita da una rivista. Non ero mai stata in punizione, quasi mai sgridata. Ero la bambina perfetta, non potevo uscire da scuola da sola come se niente fosse. Ero più che certa che quello avrebbe compromesso radicalmente la mia immacolata reputazione.

«Aspettami qui», mi ha ordinato, senza farmi il tempo di avanzare eventuali proteste, prima di allontanarsi, raggiungere un bambino e dirgli qualcosa. Mentre tornava verso di me, il bambino con cui aveva parlato ne ha picchiato un altro, che ha iniziato a urlare attirando l'attenzione delle maestre.

Il mio compagno di fuga mi ha poi presa sulle spalle, facendomi trovare davanti a un pulsante.

«Premilo!».

Il cancello si è aperto, noi siamo caduti, ma poi siamo corsi fuori. La sua risata ha scatenato anche la mia, mentre sentivo il cuore battermi forte nel petto. Stavo facendo una cosa vietatissima e mi sentivo felice come mai prima. Il mondo era nelle mie mani.

«Io sono Ashton», mi ha detto poi, quando avevamo già girato l'angolo ed eravamo ormai lontani dalla scuola.

«Io sono Mackenzie».

Gli ho sorriso, e lui ha ricambiato. Sembrava simpatico.

«Quanti anni hai?».

Gli ho mostrato tre dita della mia mano, facendolo ridacchiare. Rideva sempre, ho pensato. E col senno di poi, avevo intuito la verità. Ashton ride sempre.

«Io cinque. A settembre vado alle elementari», mi ha spiegato con aria triste ma io, non sapendo cosa dire, sono stata in silenzio. Già a tre anni la mia incapacità di consolare gli altri era ben chiara. Una non-dote che ho sempre odiato.

Abbiamo camminato fino al solito forno, e Ashton mi ha detto di non esserci mai stato, che sua mamma non gli comprava mai la merenda ma gli faceva sempre bere un bicchiere di latte quando arrivavano a casa. Solo anni più avanti ne avrei scoperto il motivo, e sarei stata io a comprargli ogni giorno una ciambella ricoperta di glassa al cioccolato, quella che si era rivelata essere la sua preferita.

La solita signora sembrava confusa nel vedermi, quando l'ho salutata sorridendo col mio tipico entusiasmo di quando mettevo piede nel suo negozio.

«Sei qui da sola?», mi ha chiesto e io l'ho guardata con fare scettico. Forse non ci vede bene, ho pensato.

«C'è Ashton, non sono da sola!», ho indicato il mio amico, quasi offesa dal fatto che non l'avesse calcolato.

«Non c'è la nonna?».

«Non mi sembra di vederla, quindi no», ho risposto con un'alzata di spalle, senza l'intento di essere maleducata, ma semplicemente dando voce ai miei pensieri.

Ashton ha riso e ora che ci penso, quella è stata forse la prima volta in cui il mio sarcasmo ha fatto la sua apparizione nella mia vita.

Quel pomeriggio stavano accadendo tante cose, tra cui la mia perdita di fiducia nei confronti di quella signora. Pensavo fossimo amiche, ma poi ho visto arrivare la mia maestra, e ho sentito che questa ringraziava la mia presunta amica fornaia per averla avvisata.

Io ed Ashton siamo stati in punizione tutto il pomeriggio, seduti su una panchina mentre guardavamo gli altri giocare. Solo il giorno dopo avrei poi scoperto che i nostri genitori erano stati convocati dalle maestre e che per noi sarebbe iniziata una lunga punizione anche a casa. Ma almeno avevamo avuto le nostre ciambelle sfuggendo a una morte precoce dovuta alla troppa fame.

«Ashton, vuoi essere mio amico?», gli ho chiesto a un certo punto, guardandolo piena di speranza. Avevamo appena vissuto un'incredibile avventura insieme, speravo di poterlo definire mio amico.

Lui ha riso.

«Non è così che funziona Mackenzie», ha scosso la testa continuando a ridere, e io mi sono sentita offesa, tanto che ho abbassato lo sguardo. «Non arrabbiarti», ha detto mentre mi abbracciava, forse per farmi sentire meglio. «Non sei amico di qualcuno se glielo chiedi e dice di sì, quelli sono i matrimoni. Sei suo amico quando giocate sempre insieme e vi divertite».

«Io vorrei giocare con te, allora».

«Oggi siamo in punizione, ma domani possiamo giocare insieme tutto il giorno se ti va».

E in quel momento non mi è passata nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea che quel bambino sarebbe diventato il mio amico inseparabile e che, diciassette anni dopo, sarei partita insieme a lui per vivere la più grande avventura della mia vita. D'altronde, però, non era poi così inimmaginabile: la mia prima avventura significativa l'ho pur sempre vissuta con lui al mio fianco.

  
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