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Autore: _EverAfter_    28/01/2019    8 recensioni
Nives è una studentessa di quarto ginnasio. Non ha stima in sé stessa e si sente costantemente surclassata da Greta, la bella e intelligente.
A causa del suo nome e del suo atteggiamento remissivo, la ragazza non ha amici ed è preda facile di scherzi e insulti.
Quando ormai sembra accettare il suo destino d'eterna inferiore, alcune vicende giungono a stravolgere il suo punto di vista, incitandola a cambiare.
Prima classificata al contest "Terapia d'urto" indetto da molang sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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    Greta piaceva a tutti.
    Possedeva una squisita eleganza, il suo modo di parlare era forbito, ma mai pomposo. Indossava sempre degli abiti succinti e i suoi occhi erano sempre incorniciati da una linea di eyeliner – che in realtà non serviva a niente, lei era già bella così.
    Sarebbe stata magnifica persino con un sacco di juta e una pinza per capelli in testa.
    Durante l’intervallo, non era una novità osservare sull’uscio dell’aula qualche spasimante in borghese, speranzoso di poterle rubare qualche secondo di conversazione.
    Lei si alzava sempre a salutare tutti. Persino quando in aula entrava un collaboratore scolastico, la sua piccola figura s’ergeva dal primo banco con fare solenne, simboleggiando quel rispetto che aveva sempre nutrito nei confronti dell’istituzione scolastica.
    Come se tutto ciò non bastasse, Greta era brava a scuola. Una secchia, qualcuno avrebbe potuto dire, ma nessuno s’era mai azzardato a canzonarla, perché faceva parte di quella privilegiata categoria di persone talmente brillanti da metter quasi soggezione. Inoltre, era una di quelle che ti passava la versione sottobanco.
    Certo, doveva per forza essere buona, una come lei. In fondo risultava troppo, chiedere che fosse almeno una stronza senz’anima.
    Era a causa di tutta quell’aura di sempiterna virtù, che Nives proprio non riusciva a sopportarla: dalla profondità del suo ultimo banco, la piccola quattrocchi non avrebbe mai potuto raggiungerla, quella luce.
    Non che le importasse davvero. Si sarebbe accontentata volentieri perfino di passare inosservata, ma la verità era ben diversa.
    Se Greta non poteva essere scalfita dalle burle dei suoi compagni di classe, c’era pur sempre lei, la Quattrocchi. Grazie al suo modo di fare timido ed esitante tutto era più semplice, la si poteva prendere in giro come si voleva, era una ragazza così insipida e piena di tic che bastava guardarla per inventarsi un nuovo soprannome – e questo a prescindere dal suo ridicolo nome, che già era stato ampiamente testato per usarlo qualora tutti gli altri soprannomi non fossero più stati divertenti.
    Anche quel giorno se ne stava in disparte, la ragazzina bubbonica, mentre sperava che il suono della campanella potesse arrivare un po’ prima del previsto. In attesa del trillo imminente, la sua mano faceva scorrere veloce la gomma su e giù per il banco, nella vana speranza di cancellare quelle scritte a pennarello indelebile.

    Puzzi.


                          Hai del parmigiano in testa, ah no, è forfora.

                                                                                                                  Con quegli occhiali giganti non ti si vede la faccia. Meglio.

    Nives non piaceva a nessuno. Aveva le sopracciglia incolte, gli occhi incavati e non si faceva mai i baffetti – o almeno non più.
    ‒ Devi farteli con la ceretta, stupida ‒ si era sentita dire un giorno dalle sue compagne di classe, ‒ altrimenti, con i peli scuri che ti ritrovi, assomigli a un orso.
    Ci aveva provato il giorno dopo, ma sua madre le aveva risposto che era ancora troppo piccola per pensare a certe cose. Così, si era accontentata di un rasoio Wilkinson a tre lame, di quelli che suo padre utilizzava innumerevoli volte, nonostante fossero usa e getta.
    Il lunedì seguente si era presentata in aula con un taglio che le sfigurava il labbro da parte a parte. Però non aveva più i peli, almeno. Avrebbe dovuto pur contare qualcosa.
    L’avevano presa in giro fino a quando non si erano stufati. Erano loro, quelli che si stancavano di lei; per qualche ragione, non accadeva mai il contrario. Forse dipendeva dal fatto che, sebbene fosse lei il target preferito d’insulti e dispetti, Nives non cercava mai di difendersi. Se ne rimaneva zitta, stringendo le labbra e abbassando lo sguardo. Una così avrebbe fatto pietà persino ad un sadico.
    Accadeva ogni volta: passava le sue giornate pregando qualunque santo che conosceva di non dover fare nulla per cui valesse la pena esporsi. Persino durante l’appello faceva fatica ad alzare la mano e a pronunciare “Presente!”, e quando lo faceva c’era sempre qualcuno che la ridicolizzava. ‒ Non si è sentito ‒ le dicevano, ‒ alza un po’ la voce.
    A peggiorare le cose, era il suo cognome: Vitale, esattamente quello dopo Vallante. Greta Vallante.
    Poteva davvero far risuonare fieramente la sua voce gracchiante, dopo aver sentito la dolcezza del timbro vocale della compagna? Se l’era chiesto troppe volte, facendo finta di non darci troppo peso. In realtà, per quello stupido quesito aveva passato più di una notte ad occhi aperti.
    Se solo fossi un po’ più come lei, si era detta un giorno, mentre prendeva la strada per i grandi magazzini.
    Le era subito piaciuto, quel maglione giallo con sopra la scritta Make It Better. Tra l’altro si ricordava d’aver visto molte sue compagne di scuola indossare quelle felpe giganti. Oversize, le era parso di sentire durante una conversazione; chissà, magari una di loro avrebbe anche potuto chiederle dove l’avesse comprato e magari lei avrebbe potuto accompagnarla. Avrebbero potuto scambiarsi i numeri di telefono e decidere d’incontrarsi il giorno dopo per prendere un gelato alla caffetteria.
    Sì, le sarebbe piaciuto.
    Giulia De Santis fu la prima ad incrociarla, di fronte all’ingresso della scuola. Si portò le mani laccate dalle unghie di gel permanente alla bocca, trattenendosi dallo scoppiare a riderle in faccia.
    ‒ Scusa, Nives. ‒ Si era avvicinata a lei, afferrandole un lembo del nuovo acquisto. ‒ Dove hai trovato questa… cosa?
    La ragazza con gli occhiali sorrise, emozionata al pensiero che finalmente qualcuno avesse potuto notare il suo cambiamento. ‒ Ai grandi magazzini.
    ‒ E hai pagato per averla?
    ‒ Certamente ‒ s’era affrettata a dire. Ci mancava solamente che pensasse che fosse anche una ladra. ‒ Costa poco, se vuoi posso dir-
    ‒ No guarda. Ne faccio a meno.
    Si era chiusa così, quella conversazione. Senza neanche il tempo di farle terminare una frase di senso compiuto.
    Ironia della sorte fu che si venne presto a sapere che in realtà quel maglione era della vecchia collezione di abiti a basso costo – ed era la linea maschile, per giunta. In effetti, le sarebbe bastato guardare l’etichetta prima di gettarla via, e notare così la grande scritta in grassetto For Men.
    Peccato. Quel maglione le piaceva davvero.






    ‒ Vitale, riporta il dizionario nell’aula insegnanti.
    Si era alzata non appena aveva sentito l’ordine impartitole dal professore. Non aveva fatto caso ai risolini divertiti dopo ch’era inciampata in una tracolla lasciata distrattamente a terra, e aveva afferrato il vocabolario consunto per riportarlo nell’armadietto del suo docente di lettere.
    Camminava più lenta del solito, lo faceva perché sperava che il tempo scorresse un po’ più in fretta.
    Le passavano accanto tante persone, ma non sapeva dire chi fossero né da quale classe provenissero: non era abituata a guardare i volti degli altri, al limite si concedeva di fissar loro le scarpe che indossavano quel giorno.
    Se lei non li guardava, loro non la guardavano. Era un sillogismo semplice, ma efficace.
    Bussò alla piccola porta, temporeggiando prima di aprire. Non le aveva risposto nessuno, ma forse entrare era da maleducati. Inclinò la maniglia, e sbirciò dentro con la coda dell’occhio: c’erano solo due professori di liceo, intenti a risolvere qualche sciocchezza del registro elettronico. Meglio così.
    ‒ Buongiorno ‒ mormorò, i due non sembravano neanche averla notata.
    Cercò l’armadietto con sopra il nominativo del suo professore, senza successo. Fece un respiro profondo, riprendendo la ricerca dagli sportelli più bassi. Dannazione, non erano neanche in ordine alfabetico.
    Sentì la porta aprirsi; si voltò a guardare il nuovo arrivato e sentì il cuore esploderle dall’ansia: aveva alzato di poco lo sguardo, ma fu sufficiente per identificare nel corpo che le stava di fronte Greta, che la squadrava perplessa. Come non capirla, era inginocchiata a terra, con il dizionario in mezzo alle gambe. Era già un miracolo che non si fosse messa a ridere.
    ‒ Il prof mi ha mandata a controllare che non ti fossi persa ‒ si giustificò, mentre con l’indice sottile della mano indicava un armadietto posto in alto, lì dove gli occhi da talpa di Nives non riuscivano a guardare, ‒ è lì.
    Si rimise in piedi, spolverandosi il tessuto liso dei jeans sulle ginocchia. ‒ Grazie.
    ‒ Figurati, però sbrigati.
    Non rimase con lei ad aspettarla. Forse dava per scontato che fosse un incarico talmente stupido da non richiedere l’ausilio di un’altra persona. Come contraddirla.
    Nives si portò in punta di piedi, a stento riuscì a girare la chiave dell’armadietto. Afferrò il dizionario con entrambe le mani, iniziando a saltellare nella speranza che s’infilasse nell’ammucchiata sparsa di libri che il docente si riprometteva sempre di sistemare, salvo poi trovare l’ennesimo imprevisto per rimandare.
    Durante il quinto tentativo il pesante volume le sfuggì dalle mani, cadendo rovinosamente a terra con un tonfo capace di far sobbalzare gli altri due docenti rimasti all’oscuro di quel bizzarro teatrino.     Fissavano il dizionario, la cui copertina – già logora – si era strappata a seguito dell’urto improvviso.
    ‒ Ti sei fatta male? ‒ si sentì domandare.
    Alzò lo sguardo. Davanti a lei c’era quello più giovane dei due. Non ricordava in che sezione andasse, ma era certa che fosse il nuovo insegnante di storia e filosofia del primo anno di liceo.
    ‒ No, professore. Sto bene.
    Era davvero alto. La sua sagoma longilinea risultava la cornice perfetta a quel volto disteso, reso imponente dalla mascella squadrata e dalla corta barba dove alcuni corti peli bianchi avevano iniziato ad ammonirlo sui primi segni della senescenza. In realtà, le sembrava che avesse meno di quarant’anni.
    Ho fatto un casino, pensò, cercando di trovare una spiegazione da dare al proprio docente. Una che magari non la facesse apparire come una perfetta idiota.
    Forse mettendo dello scotch non se ne sarebbe accorto, o almeno era quello che sperava. In quel momento l’unica cosa a cui riusciva a pensare era di volersi mettere a piangere in un angolino per maledirsi di essere sempre così stupidamente incapace.
    Lei sarebbe riuscita a infilarlo al primo tentativo. Magari avrebbe anche sistemato i libri.
    ‒ Sicura di sentirti bene? ‒ Ancora quella voce, ma Nives non era più così vicina come il suo corpo le suggeriva. Era molto, troppo lontana da quel luogo, persa in quel labirinto fatto di frustrazione e rabbia repressa, un mondo dove, almeno per qualche istante, riusciva a compatirsi di quanto la sua esistenza fosse superflua.
    Chissà cosa avrebbero pensato i suoi genitori, nel vederla in quello stato: fosse stata in sua madre, lei non avrebbe mai accettato l’idea d’aver concepito una figlia così maldestra; non solo completamente inadatta a svolgere qualsiasi tipo di compito, ma per giunta una che rasentava la perfezione ad un perenne disadattamento sociale.
    Cos’avrebbe mai potuto raccontare, della propria vita? Che le era sfuggita dalle mani senza neanche aver avuto il tempo di capirla?
    Che risate si sarebbero fatti, nell’aldilà, nel vederla inciampare su di un sasso e cadere dritta all’inferno.
    ‒ Ehi. ‒ Si sentì afferrare delicatamente per la spalla. Il suo buonsenso rinsavì. ‒ Tutto ok?
    ‒ No.
    Come diavolo le era venuto in mente di rispondere a quel modo?
    Lo sguardo dell’insegnante sembrò impensierito per qualche istante. Lui di certo non poteva capire cosa si provasse: a giudicare dal pullover marroncino e dal colletto liso della camicia, era evidente la sua stoffa da vincente. ‒ Cosa senti?
    Nulla. Non sentiva nulla, era proprio quello il problema. Aveva lasciato le emozioni in un angolo della mente, lì dove non avrebbe potuto trovarle. Perché quelle puttane la ferivano, la ferivano come dardi infuocati, e allora al diavolo il buonsenso, al diavolo i “non fa niente”, al diavolo gli “andrà meglio la prossima volta”. La verità era che non c’era mai una prossima volta, perché nessuno le aveva mai dato seconde chance.
    A che servivano? Un incidente come lei le avrebbe usate solo per fallire un’altra volta, e un’altra volta ancora, fino a quando intorno non fosse rimasto più niente per cui valesse la pena riprovare.
    ‒ Il professore si arrabbierà ‒ disse, col tono atono e gli occhi spenti, ‒ s’arrabbierà di nuovo con me.
    ‒ È per questo che sei così triste? ‒ La sua voce era dolce, i suoi occhi le apparivano come due pozze d’acqua verde, resi ancora più grandi dagli occhiali adagiati con cura sul naso leggermente aquilino.
    Annuì senza dire null’altro, mentre si lasciava scortare nella sua aula da quell’uomo che non le sembrava affatto un insegnante. Sarà un altro scherzo?
    Bussò alla porta, Nives se ne stava tranquilla dietro le sue grandi spalle. Il professore non ci mise molto ad aprire.
    ‒ Chiedo scusa. ‒ Il tono con cui si esprimeva era diverso da quello di prima. Era più professionale, sicuro di sé. ‒ Credo di doverle delle spiegazioni.
    ‒ Nives, che hai combinato questa volta? ‒ Era ovvio che sarebbe finita in quel modo, in parte se lo aspettava.
    ‒ No, lei non c’entra ‒ s’affrettò a dire quello più giovane, ‒ la colpa è mia, involontariamente ho fatto cadere il suo dizionario per terra e la copertina si è strappata.
    La ragazza si voltò ad osservare l’espressione pacifica con la quale il suo accompagnatore si esprimeva: era rilassata, priva di nervi. Stava mentendo, eppure era come se fosse sinceramente dispiaciuto per qualcosa che non aveva fatto. Che stramboide.
    ‒ Capisco. ‒ Il professore non sembrava convinto della versione raccontata, ma si limitò ad accettarla senza domandare altro.
    ‒ So che è un vocabolario molto costoso ‒ continuò l’altro, ‒ se vuole posso sempre ricomprarglielo.
    ‒ Non serve. ‒ Si voltò verso l’alunna, squadrandola con fare severo. ‒ Torna in classe.
    Fece come le era stato ordinato, concedendosi una rapida occhiata verso chi l’aveva salvata, almeno per quel giorno. Non sapeva chi fosse, il suo nome, la classe, l’età. Non sapeva niente di lui.
    Eppure – per la prima volta – si sentiva un po’ meno triste.






    Il cielo di quella mattina era più nuvoloso del solito.
    Nives attendeva l’acquazzone da un momento all’altro, mentre si trascinava davanti al grande cancello della scuola. Con la sfiga che le carezzava la schiena, era capace di beccarsi in fronte l’unico fulmine che sarebbe caduto.
    Le converse che indossava – logore e coi lacci rosicchiati dal suo cane – sembravano divertirsi a metterla in difficoltà. Maledetti mignoli dei piedi, già l’immaginava gonfi e pieni di vesciche; una volta andata in bagno, si sarebbe messa dei fazzoletti per evitare che s’infiammassero ancora di più. Che ironia della sorte: a quell’età la sue compagne i fazzoletti se li mettevano nei push-up rigonfi manco avessero un’ottava, mentre lei… beh, a lei andavano bene nelle scarpe, d’altronde piatta com’era avrebbe dovuto consumare un intero rotolone Regina – sì, di quelli che non finivano mai. Povera foresta amazzonica.
    Si portò davanti all’ascensore, premendo la freccia in basso. Non che avesse mai capito a che servisse quell’altra. Lei – nel dubbio – le premeva sempre entrambe. Le porte si aprirono lentamente davanti a lei, e quel fastidioso temporeggiare fu ripagato dall’appagante presenza della persona che tanto aveva sperato di vedere.
    ‒ Professor Patruno. ‒ Era così sorpresa da scoprirsi inabile a parlare.
    Lui le aveva appena sorriso, con quel suo sguardo dolce e pieno di premure. ‒ Nives, che piacere vederti.
    Che piacere vederti. Qualcuno glielo aveva mai detto?
    ‒ Come sta?
    ‒ Io benissimo ‒ replicò, mentre le porte si chiudevano dietro di lui. A Nives non importava, sarebbe salita a piedi piuttosto, al diavolo i mignoli consumati. ‒ Ti vedo in forma.
    ‒ Sì, è che mi sento abbastanza preparata per la verifica di oggi.
    Sembrò sorpreso delle sue parole. ‒ La professoressa Tursi mi ha detto che sei migliorata moltissimo in greco.
    ‒ Diciamo di sì.
    Diciamo, era un mero eufemismo. Aveva imparato a memoria tutte le classi verbali, i verbi irregolari, le declinazioni dai suffissi diversi. Sapeva persino coniugare i tempi che si studiavano al quinto ginnasio. Il tutto, solo nella speranza di sentire quella stupida frase.
    ‒ Sono molto contento ‒ le rispose, entusiasta, ‒ immagino debba tenermi pronto per quando diventerai mia alunna.
    Nives non riuscì a togliersi quel sorriso compiaciuto dalla faccia neppure quando entrò in classe, fottendosene altamente degli schiamazzi e del vociare meschino con cui era solita essere accolta. Non immaginava che l’espressione “avere la testa fra le nuvole” potesse essere così calzante per quella situazione, per lei. Per certi aspetti, era piacevole.
    La docente le mise la verifica sul banco: Foglio B.
    Lo faceva sempre, la Tursi. S’ingegnava nel creare almeno quattro tracce diverse, nella speranza che copiare risultasse più complicato. Come se nel secolo degli smartphone questa cosa potesse essere efficace.
    In realtà, Nives faceva parte di quella ristretta cerchia di dannati ch’erano incapaci persino di copiare.
    ‒ Vitale, oggi tu siedi avanti ‒ sentì dire dall’insegnante, che le indicava il posto accanto a Greta. ‒ Così posso vederti.
    Certo, non si fidava di lei. Come poteva una ragazzina come lei migliorare così vistosamente nel giro di pochi mesi? Meglio diffidare, dopotutto. Al diavolo, maledetta istituzione scolastica.
    Si sedette, non concedendosi neppure di guardare nella direzione di colei la cui superiorità sembrava intimorire persino quelli che le stavano seduti alle spalle. Nives si sorprese di quanto la cosa le fosse indifferente, e con tranquillità si accinse a svolgere il primo periodo della versione.
    Sembrava più semplice di quelle su cui si era esercitata: erano tutti verbi di prima classe, con qualche congiuntivo un po’ fastidioso, ma niente che non si potesse risolvere. Sospirò sollevata, concludendo il compito con precisione certosina.
    Si voltò un istante a fissare il foglio elegantemente scritto dalla penna della compagna, e per un istante si soffermò sulla frase che stava terminando di scrivere.
    Ma quello non è un verbo medio-passivo?
    Forse non se n’era accorta. Dopotutto, Greta non sbagliava mai. Eppure quella frase non aveva assolutamente senso, tradotta in italiano; probabilmente anche lei se n’era accorta, perché la vide sbarrare il periodo con un lieve accenno di frustrazione.
    Nives sapeva come tradurre quella frase, eppure se ne stava lì, incapace di darle la soluzione che si rifiutava di uscirle dalla bocca. Se Greta avesse sbagliato, allora lei avrebbe avuto una chance. La chance di smettere di essere l’eterna inferiore, l’ultima ruota del carro, anzi no, la ruota di scorta all’ultima ruota del carro. Avrebbe potuto avere la possibilità di cambiare, di poter finalmente urlare al mondo: “Vedete, gente? La vostra fottuta perfezione non esiste!”
    Doveva solo voltare lo sguardo e fare finta di non aver visto niente, e tutto si sarebbe risolto. In fondo, Greta non le aveva mai suggerito niente – non poteva, era al primo banco, mentre lei se ne stava nel placido buio della sua seggiola in fondo a destra. Insomma, se lo meritava; forse non aveva studiato abbastanza, mentre lei non aveva fatto altro che farsi il culo dalla mattina alla sera tardi.
    Eppure si sentiva in colpa, incapace di soffocare il proprio rimorso. Greta non le aveva fatto niente, mai. Non l’aveva mai presa in giro, non l’aveva mai vista ridere alle battute maligne dei suoi compagni di classe. Una volta, durante un’assemblea d’istituto, le aveva persino ceduto il posto a sedere.
    Perché ce l’aveva con lei? Il senso d’inferiorità che aveva sempre nutrito nei suoi confronti era un mostro creato dalla sua mente insana, ma la compagna di classe non aveva fatto nulla per alimentarlo. Aveva fatto tutto Nives, da sola. Ci aveva sguazzato per mesi nel suo fare corrotto dall’incapacità, e non si era mai chiesta se vi potesse porre rimedio in qualche maniera. Forse le piaceva, essere tratta a quel modo. Le persone parlavano di lei. In quel modo, seppur con la frustrazione di essere il loro burattino preferito, Nives non era mai dimenticata. Di sicuro era quella a cui tutti prestavano attenzione.
    Le risultava improvvisamente un’ovvietà, quel suo malsano masochismo.
    ‒ Ehi ‒ sussurrò, controllando che la Tursi non le sentisse dal fondo dell’aula, ‒ ποιέω quando è medio-passivo significa “fare con le proprie forze”.
    Greta la fissò, e Nives vi scorse un’insolita sorpresa nelle sue iridi scure. Come non capirla, anche lei si stupiva di quanto appena fatto. Aveva solo bruciato l’unica occasione che aveva per brillare – almeno una volta – più di lei.
    Non attese neppure una sua replica; si alzò a consegnare il foglio sulla cattedra, tornandosene al suo posto di sempre per mettere la penna nell’astuccio prima che squillasse il suono della campanella che annunciava la fine delle lezioni.
    All’uscita, il cielo le apparve un po’ meno nuvoloso.






    L’aveva solo intravista, eppure le sembrava una donna affascinante, composta nel suo succinto tailleur color carta da zucchero; la borsa a tracolla le pendeva morbidamente dalla spalla, a litigare coi boccoli castani ch’erano rimasti incastrati sotto la cinta di pelle. La fede nuziale abbracciava il suo anulare, brillando come un piccolo miracolo dorato.
    Doveva essere in gamba, per essere stata chiamata durante l’assemblea d’istituto per la giornata contro il bullismo. Forse era una psicologa.
    Nives sapeva che lei era la moglie del professor Patruno.
    Quella notizia le bastava per renderla incapace di prendere parte all’incontro. Non voleva vederla, quella sua schifosa perfezione. Di certo non pensava che l’insegnante potesse avere un debole per le barbie.
    Sospirò, seduta sulle mattonelle scure del bagno delle ragazze, con le spalle al muro e le braccia strette attorno alle gambe. A vederla, la scena appariva persino più patetica del normale.
    Non riusciva neanche a capire il perché di tanta improvvisa depressione. Sapeva perfettamente che non avrebbe potuto sperare nient’altro da lui, dall’uomo che occupava i suoi pensieri da ormai alcuni mesi, da colui che l’aveva salvata e l’aveva inconsapevolmente incitata al cambiamento.
    Il professor Patruno – di tutto questo – non sapeva un bel niente. Forse a stento ricordava l’episodio in cui l’aveva conosciuta. Come non capirlo, rispetto a quella magnifica donna lei doveva apparirgli come uno dei Muppet.
    In quel suo piccolo mondo deprimente, Nives non aveva bisogno di scoprire cosa il docente pensasse di lei: preferiva rimanere nell’ignoranza, piuttosto che sentirsi dire di essere una studentessa come le altre. Fino a quando poteva permetterselo, le appariva piuttosto semplice considerarsi speciale.
    Quante volte si era lamentata con lui dei suoi compagni? Quante volte aveva approfittato del suo essere derisa per poter ottenere un po’ delle sue attenzioni?
    Persino quella giornata era stata pensata per lei: era per lei che quella donna stava parlando ininterrottamente da due ore ed era sempre per lei che il professore aveva chiesto alla moglie d’indire un incontro con i ragazzi.
    Eppure Nives non voleva partecipare a quell’insulso teatrino, fatto di volti che annuiscono senza capire nulla di quello che viene spiegato loro; parole insensate, quelle che il silenzio dei perdenti non era mai riuscito a esprimere. Persino qualche istante prima l’era sembrato che alcuni dei suoi compagni si fossero voltati a guardarla, non le serviva certo comprendere il perché. Finita l’amorevole chiacchierata, sarebbe tornato tutto esattamente come l’aveva lasciato: sarebbe tornata in classe, avrebbe preso la gomma e avrebbe cancellato dal banco la grande scritta Nives Seta Ultra scritta col pennarello indelebile.
    Non le importava più.
    In quel blando momento di felicità che si era concessa prima di sprofondare di nuovo nel baratro, non c’era più nessuno. Terra bruciata, riusciva a sentirne l’immaginario puzzo persino in quel momento. Forse era l’odore stantio dell’urina che riempiva l’aria di un sinistro odore azotato, o forse la sua immaginazione che si dilettava a vederla soffrire.
    La felicità è per gli stupidi, si era detta spesso. Adesso ne aveva la conferma.
    Lo stridio dell’uscio la risvegliò da quell’impasse e si trovò a fissare le ballerine bordeaux della sua acerrima compagna di classe.
    ‒ Che c’è? ‒ Forse qualche mese prima non le avrebbe neanche rivolto la parola, intimorita com’era dalla sua presenza. In quell’istante però era tutto diverso. Lei, Nives, si sentiva diversa.
    La ragazza non le aveva risposto; si era limitata a sedersi al suo fianco, stando attenta a non sgualcire la delicata gonna a campana.
    Ed erano lì, i due ossimori viventi di quella vita, le due facce della stessa medaglia che sembravano combattersi a vicenda, in quel circo massimo in cui lottavano solo per il diletto di chi le osservava dagli spalti. Nives pensava che vi fosse una certa epicità, in tutto ciò.
    ‒ Tutto bene? ‒ si sentì chiedere semplicemente, ‒ prima non sembravi avere un bell’aspetto.
    ‒ Sì, beh, non ho mai un bell’aspetto ‒ confermò la ragazza, con voce stridula.
    Aveva bisogno di piangere, di gridare come non le era mai capitato nella vita. Non solo perché sentiva di aver perso contro la moglie del suo tanto amato professore – non che si aspettasse di vincere – ma soprattutto perché era frustrante tornare alla realtà, sentirsi nuovamente sprofondare in quell’abisso fatto di soggezione e sciocche paure.
    ‒ Com’è, Greta? ‒ aveva domandato infine, senza neanche rendersene conto, ‒ com’è essere te?
    Silenzio. Immaginava fosse una domanda sciocca, tanto più perché l’aveva posta infischiandosene di quello che la compagna avrebbe potuto pensare di lei. Dopotutto, non si aspettava certo che l’opinione che aveva di lei fosse alta.
    Vide l’angelo della classe sistemarsi la treccia a spina di pesce che le ricadeva lungo la spalla sinistra. Il suo sguardo non sembrava porre attenzione alcuna a ciò che la circondava e per un istante Nives credette di veder le belle mani affusolate abbandonarsi ad un incerto tremolio.
    ‒ Uno schifo ‒ rispose, non scomponendo affatto quella sua eterea figura, ‒ davvero uno schifo.
    L’aria si faceva sempre più stantia ad ogni studentessa che entrava e usciva dal gabinetto, mentre in sottofondo potevano entrambe sentire lo sciabordio dello scarico appena tirato. Non si stavano parlando, eppure era come se quel silenzio fosse così carico di parole da non essere in grado di pronunciarne altre.
    Una come Nives rimaneva sola perché era troppo poco. Greta rimaneva sola perché era troppo e basta.
    ‒ Che ironia, ah? ‒ domandò lei che non era abbastanza.
    ‒ Già.
    Si fissarono per un istante, e senza motivo si sorrisero. O meglio, un motivo c’era, ma lo conoscevano solamente loro. In fondo, non erano poi così diverse.
    ‒ Senti ‒ s’azzardò Greta, portandosi le mani sul grembo, ‒ dopo la scuola, ti va di andare a prenderci un succo?
    In quell’innocente proposta, Nives rivide tutto.
    Le scritte sul banco.
    I sorrisi denigranti.
    Il rasoio usa e getta di suo padre.
    Il bel maglione giallo da uomo.
    Il dizionario che cadeva a terra.
    Il volto del professor Patruno che le sorrideva.
    Il tailleur color carta da zucchero della moglie.
    Le sembrava un castello fatto di carte francesi, quelle belle, lise nella custodia plastificata. Costruito su quell’insicurezza che reggeva le fondamenta di troppi piani instabili, che cadevano, si sfaldavano, e che puntualmente Nives ricostruiva, un po’ alla volta, con la mano che tremava e che rischiava di distruggere un altro piano.
    Avrebbe potuto continuare in eterno, accontentandosi di vedere solo i volti dei jack, delle regine, dei re, infischiandosene altamente di ciò che sarebbe potuto accaderle. Se c’era qualcosa che il suo spietato senso d’inferiorità le aveva insegnato, era che poteva farne a meno. Aggrapparsi ad una corda avrebbe fatto più male che lasciarla andare.
    Eppure il castello era davvero crollato, questa volta. E Nives era davvero troppo pigra per rimettersi a costruirlo pezzo dopo pezzo.
    ‒ Perché no.
    Avrebbe ricominciato da lì, per piccoli passi. Forse il senso d’oppressione sarebbe passato, forse no. Non le importava neanche.
    Seduta a gambe incrociate, accanto alla sua nemesi, con l’aria ricolma d’urea stantia.
    Quel momento, le apparve perfetto.




Fine










Ennesimo momento di sclero, sono molto contenta di aver scritto questa storia, nonostante tutto.
Per scriverla ho ripensato un po' alla vecchia me del liceo e mi sono chiesta come ci si potesse sentire ad essere esclusi da una realtà meravigliosa come quella dei propri compagni di classe.
Ancora una volta, mi sono concessa di parlare per il silenzio dei dimenticati, spero che questa storia possa farci riflettere e andare avanti, ricordando sempre le nostre debolezze e non dimenticandoci di superarle.
Ringrazio moltissimo molang per avermi dato l'opportunità di scrivere questa storia! :D
A presto!

_EverAfter_
  
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