Dal capitolo precedente:
"E quel buio,
quel buio
non si diradava.
Stava cercando la fine di un tunnel senza sapere se effettivamente quel
tunnel
avesse una fine.
Un’uscita, una luce.
Odore di disinfettante?
Buio, di nuovo, sempre buio..."
Vivere o morire
GIORNO 38.
«Sai
mamma, papà è triste.»
esordì Aida, con un leggero sospiro, solo dopo essersi
assicurata che la nonna
fosse uscita e che l’avesse lasciata sola con la sua mamma,
distesa come sempre
immobile sul letto, a occhi chiusi.
«O forse è arrabbiato, non lo so. Spero non sia
arrabbiato con me.» continuò,
accarezzando la mano fredda e inerme di Andrea.
«Quando lo vado a trovare parla poco, forse non mi vuole
proprio vedere. Io ho
paura che sia arrabbiato con me, ma non so perché dovrebbe
esserlo... tu che cosa
ne dici, mamma?».
A risponderle furono solo i suoni intermittenti delle macchine, che
funzionavano ormai incessantemente da ventidue lunghissimi giorni.
«Dici che papà mi vuole sempre bene,
mamma?».
La bambina continuava ad accarezzarle la mano, imperterrita.
Sia nonna Helen, sia Ben avevano provato ad affrontare
l’argomento del
risveglio della mamma, cominciando a prepararla al fatto che
probabilmente
Andrea avrebbe continuato a dormire per sempre. Ma lei non ci credeva.
Non ne
voleva sapere.
«Se tu ti svegliassi, mamma, sarebbe tutto più
facile...».
«Danzare sotto la pioggia...» mormorò
Ben, assorto.
La piccola finestra rimandava come una televisione un paesaggio quasi
spettrale. Il cielo era grigio chiaro e una pioggia sottilissima
batteva
incessantemente contro il vetro, decorandolo di tante minuscole
goccioline
argentate.
Osservando un paesaggio del genere, le parole dell’anziano
signore inglese con
cui aveva parlato il giorno prima gli tornarono alla mente in modo
spontaneo.
Il suo angelo custode, così lo aveva soprannominato.
«Danzare sotto la pioggia...».
«Che cosa stai dicendo, Ben?».
La voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Quasi si era dimenticato di
trovarsi nella stanza di Semir, assorto come era rimasto, a un tratto,
tra i
suoi pensieri.
Il più giovane sorrise, avviandosi nuovamente verso il letto
dell’amico, che
era semi-seduto nonostante quella posizione ancora per lui non fosse
affatto
comoda.
«Nulla, niente di importante. Ieri ho rivisto un amico, sai
Semir?».
Il turco aggrottò la fronte.
«Sarebbe?»
«Un signore... è una storia lunga. Però
sai, parlare con lui mi ha fatto bene.»
Semir alzò gli occhi al cielo, immaginando dove
l’altro volesse andare a
parare.
«Mi ha detto che è proprio quando rimaniamo in
silenzio che in realtà avremmo
più bisogno di parlare.» concluse Ben, sedendosi
accanto al letto e guardando
l’amico negli occhi.
«Ben, piantala.» fece Semir, distogliendo lo
sguardo.
Se pensava a tutto ciò che avrebbe voluto dire, a tutto
ciò che avrebbe voluto
gridare, la testa cominciava a girargli e un nodo strettissimo
cominciava ad
attanagliargli la gola. Non voleva, non voleva parlare. Non voleva
pensare.
«Semir, guardami. Puoi guardarmi un momento?»
replicò Ben, con decisione,
scuotendo leggermente il braccio dell’amico per attirare la
sua attenzione.
Il turco si voltò verso di lui, riluttante, attendendo che
il più giovane
continuasse.
«Sono passati trentotto giorni, Semir. Da quando mi hai
parlato per la prima
volta dei tuoi problemi con Andrea. Li ho contati. Trentotto
giorni.».
«E quindi?» fece Semir, nonostante sentisse il nodo
in gola stringersi e
stringersi sempre di più.
«Trentotto giorni da quando mi hai parlato di voi, trentasei
da quando è
riemerso Keller dal passato. Ventisette da quando siete stati rapiti.
Ventidue
da quando... da quando...».
«Ben, ti prego.» lo interruppe l’altro,
sforzandosi di non lasciarsi sopraffare
dall’emozione «Lasciami in pace,
smettila.».
Ma Ben non aveva alcuna intenzione di lasciar perdere. Voleva aiutare
il suo
migliore amico, e se sbattergli in faccia ciò che era
successo, nonostante
fosse doloroso, fosse servito, avrebbe fatto anche quello.
«Quando eravate in quell’edificio, dopo averti
rapito, Keller ti ha fatto
scegliere tra me e Andrea. Me l’ha raccontato, Semir. E prima
ancora di fare
questo ti ha fatto sentire in colpa per tutto quello che sarebbe
accaduto. Ti
ha rinfacciato che se le cose tra te e Andrea non andavano
più era stata solo
colpa tua, non è così? E poi ti ha detto
anche...».
«Basta... Ben...» lo interruppe Semir.
La voce gli tremava.
«Semir, voglio solo che tu capisca che hai bisogno di
parlare. Che hai bisogno
di sfogarti, altrimenti...».
Il turco lo interruppe di nuovo. Il nodo in gola era stretto, si
sentiva
soffocare.
«Vattene, Ben. Vattene.».
«E
poi, mamma, mi manca un po’ Lily.»
continuò Aida, china sul letto di Andrea
«In realtà mi manca tanto... zio Ben dice che lei
sta bene e che mi guarda da
lontano... però io non potrò più
giocare con lei e aiutarla a fare i compiti. E
anche se mi dava fastidio io le volevo bene... secondo te, mamma, Lily
lo sa
che le voglio bene?».
La bambina si passò una mano sugli occhi, asciugandosi una
lacrima silenziosa
che si preparava a percorrerle la guancia.
«Io spero che lo sappia. Mamma, ma tu non ti svegli
perché vuoi raggiungere
Lily?» domandò ancora, come se effettivamente la
donna potesse darle una
risposta.
Ma a risponderle era sempre e soltanto il silenzio.
«Se è vero che Lily sta bene, tu non potresti
rimanere con noi? Papà non sta
bene senza di te...».
Ben
sospirò e, con calma, voltò
le spalle all’amico, avviandosi verso la porta. Forse aveva
esagerato. Forse,
per cercare di aiutarlo, aveva fatto peggio. Avrebbe solo voluto che
lui si sfogasse,
ma forse era sbagliato, forse semplicemente avrebbe dovuto aspettare
che il
dolore facesse il suo corso.
Posò la mano sulla maniglia e la abbassò.
Ma, improvvisamente, la voce del collega alle sue spalle lo
fermò.
«Ben...» lo richiamò Semir, in un
sussurro.
Il giovane si voltò, sorpreso che l’altro lo
stesse fermando. Ma non appena
vide i suoi occhi pieni di lacrime, mollò la maniglia e
tornò di corsa a
sedersi accanto al suo letto.
«Socio, che cosa succede?».
«Scusami... non ce l’ho con te,
scusami...» mormorò il turco, mentre una
lacrima silenziosa gli rigava il viso.
«Lo so, Semir, non ti preoccupare.».
«Ben... Lily è morta.».
Il ragazzo annuì, piano. Gli prese la mano.
Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Sapeva che prima o poi
l’amico avrebbe
realizzato tutto ciò che era effettivamente accaduto e da un
certo punto di
vista aveva addirittura sperato che quel momento arrivasse il
più presto
possibile.
«Lily è morta.» ripeté Semir,
in un sussurro.
Ben continuò ad annuire, guardandolo negli occhi e
stringendogli la mano,
sperando solo che lo sentisse vicino.
«Lily è morta
e Andrea sta morendo.»
continuò lui «E io... io non potrò
più camminare.».
«Ma Aida sta bene.» disse il giovane ispettore di
rimando, tutt’a un tratto
«Aida sta bene e ha bisogno di te. Devi essere forte,
socio.».
Semir scosse il capo con forza «Ma Ben, non mi posso muovere!
E Lily...».
«Sì, Semir, ma tu devi essere forte e so che puoi
esserlo, che lo sei. Aida sta
bene, quindi devi farlo per lei.».
«Dovevo morire io...».
«Ehi, socio, non dire così. Non è
vero.».
«Lily è morta...» ripeté lui,
mentre le lacrime bagnavano il cuscino.
Ben continuava a stringergli la mano, mentre gli occhi anche a lui
diventavano
lucidi.
Ma l’amico non rispondeva alla stretta. Non ne aveva la forza.
«Ben, è tutta colpa mia. È solo colpa
mia.».
«No, socio, non è così. Non
è così, devi credermi.».
Semir scosse il capo, distolse lo sguardo dagli occhi
dell’altro ispettore.
Aveva resistito a lungo perché voleva che lui non lo vedesse
così, voleva che
nessuno lo vedesse così. Non voleva parlare con nessuno. Ma
non ce la faceva
più a tenere tutto dentro, non ci sarebbe più
riuscito.
«Ben, non voglio vivere così.» disse,
piano, mentre i singhiozzi lentamente si
calmavano, ma gli occhi rimanevano lucidi.
Ben si morse il labbro.
Nonostante tutta la sua buona volontà, una lacrima fece
capolino anche sulla
sua guancia.
«Socio, non dire così... ti prego...».
«Non voglio vivere così, non ce la
faccio.» ripeté il turco. La disperazione
nella sua voce era tangibile, ma la sicurezza con cui aveva pronunciato
quella
frase gettò il più giovane nel panico.
«Ce la fai, ce la farai. Ti aiuterò io. Ma devi
volerlo, Semir, e so che in
fondo lo vuoi, perché non lasceresti sola Aida. Non la
lasceresti mai.».
Semir scosse il capo, stringendo i pugni, senza provare più
a impedire che le
lacrime scendessero.
«Non ce la faccio...».
«Semir...».
«Dovevate lasciarmi andare, Ben, ti avevo chiesto di
lasciarmi andare. Perché
non mi avete lasciato morire?».
«Papà
senza di te sta male.» ripeté Aida, con gli occhi
lucidi e la mano ancora
stretta attorno a quella immobile della madre.
«Comunque io ora vado, vado a trovare papà. Gli
porto un bacino da parte tua,
va bene mamma?» fece la bambina dopo un attimo di silenzio,
baciando la donna
sulla guancia.
Poi fece per ritrarre la mano dal letto per allontanarsi e avviarsi
verso
l’uscita, ma qualcosa la trattenne.
La piccola inizialmente non capì che cosa fosse. Si
voltò di nuovo verso la
mamma distesa, che era sempre immobile e a occhi chiusi.
Eppure, qualcosa l’aveva trattenuta.
La mano.
Con il cuore che cominciava a battere a mille, Aida si
riavvicinò al letto,
sempre tenendo la sua manina attorno alla mano di Andrea.
Perché quella mano si era mossa.
Sua mamma si era mossa, ne era sicura.
Ben
non rispose a quella domanda.
Perché non mi avete lasciato morire?
Il giovane ispettore sentì una morsa strettissima
allo stomaco e non seppe
che cosa rispondere.
Infatti rimase in silenzio, immobile, a guardare con gli occhi sbarrati
l’amico
che a sua volta lo guardava negli occhi.
«Ero sotto una colonna, Ben. Potevate lasciarmi
morire.» ripeté Semir, in un
sussurro.
«Non dire così...» bisbigliò
il più giovane «Non puoi dire così,
socio. Tu
sei...».
Ben si bloccò, interrotto da un rumore.
Corrucciò la fronte e si voltò verso la porta
della stanza, che proprio in quel
momento si aprì di scatto.
Chris Schneider comparve trafelato sulla soglia.
Non lo guardò nemmeno, si rivolse direttamente a Semir.
Ma prima di parlare dovette respirare e riprendere fiato.
Si aggiustò gli occhiali sul naso poi, tratto un profondo
respiro, si appoggiò
allo stipite della porta, fissando i propri occhi chiari in quelli del
suo
paziente.
«Ispettore... Ispettore, è appena accaduto un
miracolo.».
N.d.A.
Non sono molto soddisfatta di questo capitolo, ma eccomi qua.
Ancora quattro o cinque capitoli e siamo alla fine, grazie a chi ancora
resiste!
A presto,
Sophie