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Autore: Old Fashioned    04/02/2019    6 recensioni
La vicenda si colloca nel secondo libro della saga del comandante Aubrey (Costa sottovento) e ha luogo subito dopo la battaglia della rada di Chaulieu, scontro nel quale il comandante Aubrey viene ferito molto gravemente.
Maturin fa di tutto per salvarlo, ovviamente, ma intanto ripensa a quando si sono sfidati a duello perché invaghitisi della stessa donna e non riesce ad evitare di sentirsi in colpa.
È un mio piccolo omaggio a Spoocky, grande esperta di questo fandom, che spero non la troverà troppo schifosa.
(ATTENZIONE: contiene spoiler sul secondo libro della saga, "Costa sottovento")
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Un piccolo spiegone, prima di cominciare: nel secondo libro della saga Aubrey/Maturin, “Costa sottovento”, i due si invaghiscono entrambi della stessa donna. Il fatto porta a un progressivo raffreddamento dei rapporti, che culmina con una sfida a duello.
La cosa procede, vengono interpellati i secondi e tutto quanto, senonché poco prima che si dia corso alla sfida, Aubrey deve rientrare in azione e la faccenda è come da regolamento accantonata.
Nel corso di tale azione, il capitano viene ferito così gravemente da essere in pericolo di vita e Maturin lo assiste come sempre.
O’Brian non ci fa vedere nessun chiarimento fra di loro: la faccenda del duello semplicemente scompare e alla fine del libro i due sono amici come sempre.
Io ho provato a immaginare che in occasione della grave ferita di Aubrey entrambi ripensino all’accaduto. Aubrey in modo particolarmente crepuscolare, perché tra le conseguenze di una forte perdita di sangue c’è anche una maggiore fragilità emotiva.

Specifico naturalmente che i personaggi non sono miei e che non guadagno nulla (se non lanci di pomodori marci) scrivendo di loro.









LE COLPE DI UN AMICO SCRIVILE NELLA SABBIA






“Vieni, fratello,” gli disse Stephen all'orecchio, come in un sogno, “devi scendere da basso, stai perdendo troppo sangue. Vieni, vieni. Presto, Bonden, aiutatemi a trasportarlo.”[1]
Aubrey si sentì sospingere in avanti, vacillò e braccia robuste si protesero per sostenerlo. Percepì la voce del suo timoniere e subito dopo quella del dottor Maturin, ma gli parve che giungessero da distanze siderali. Che fossero fioche, vaghe.
Aveva l’impressione di camminare nell’ovatta, in una penombra che andava di momento in momento infittendosi. Sbatté la mano da qualche parte e se ne accorse solo per il rumore che essa produsse.
Non sentì dolore.
Non sentiva quasi più niente, per la verità: né il pulsare sordo della spalla, né le fitte alla testa. Era solo stanco, terribilmente, disperatamente stanco…

“Aiutatemi, Bonden,” ripeté Maturin. La fatica non fu persuadere il comandante a sdraiarsi sulle quattro casse che fungevano da tavolo operatorio, ma evitare che vi crollasse sopra di peso.
Il medico lo fissò preoccupato: giaceva immobile, il volto di un pallore mortale, il respiro ormai appena percettibile. Intrisi di sangue, i capelli gli pendevano a lato del viso come una stoffa fradicia. La camicia era quasi completamente rossa.
Si piegò su di lui, gli voltò delicatamente la testa da un lato, mettendo in evidenza una lunga ferita dai bordi irregolari che partiva dalla fronte e finiva dietro l’orecchio. Nei punti in cui essa era più profonda si intravedeva il biancore dell'osso sottostante. Vi infilò dentro un dito, sondandola delicatamente alla ricerca di linee di frattura. Aubrey rimase immobile, ma non di quell’immobilità tesa di chi sente dolore e si impone di sopportarlo: era inerte, abbandonato. Stephen non riuscì nemmeno a capire se fosse ancora cosciente.
Si obbligò al distacco, la sua apprensione non sarebbe stata di nessuna utilità all’amico.
Passò a esaminare lo squarcio che gli si allargava sulla spalla sinistra, lasciato probabilmente da un colpo di sciabola: la punta dell'arma era penetrata poco sotto la clavicola e si era diretta verso il basso, ma per qualche miracolo non erano state recise né la succlavia né l’arteria ascellare; l'assenza di bolle d'aria deponeva a favore del fatto che anche l'apice polmonare fosse indenne. La ferita comunque era profonda e continuava a sanguinare.
Strinse le labbra e valutò brevemente a quale delle due lesioni dare la precedenza, quindi preparò ago e filo da sutura. “Ora dovrò farti un po’ male, Jack,” lo avvisò con voce sommessa, come faceva ogni volta che si apprestava a ricucirlo. Normalmente sarebbe seguita qualche risposta fintamente noncurante del capitano, detta più che altro per rassicurare lui o i suoi uomini, oppure qualche battuta.
In quel caso ci fu solo silenzio.
“Jack?”
Aubrey giaceva esanime.
Senza indugiare oltre, Maturin cominciò ad applicare punti di sutura per chiudere la ferita alla spalla.

Stephen emise un sospiro e finì di asciugarsi le mani. Nel bacile in cui se le era lavate, l'acqua era diventata di un rosso cupo e denso.
Si voltò verso la sua branda, nella quale aveva fatto sistemare il comandante, e di nuovo strinse le labbra mentre una ruga verticale si gli disegnava sulla fronte: Jack era immobile, il volto era cereo, i bendaggi al capo e alla spalla erano già macchiati in più punti di sangue. Se non fosse stato per il movimento quasi impercettibile del petto, che si alzava e si abbassava negli atti del respiro, si sarebbe detto già morto.
Si sedette accanto a lui e gli tastò il polso, trovandolo aritmico e filiforme. Come molti medici, anche lui sarebbe stato in grado di riconoscere i suoi pazienti persino al buio, semplicemente auscultandoli o valutando le loro pulsazioni: il contrasto fra quel palpitare incerto e il battito vigoroso e regolare che di solito caratterizzava Jack Aubrey lo sconcertò, dandogli la reale misura, se mai ce ne fosse stato bisogno, delle condizioni in cui versava l'amico. Gli riadagiò il braccio lungo il corpo.
“Fratello,” mormorò poi, posandogli una mano sulla fronte. La cute era fredda, umida del sudore malsano dell'ipovolemia.
Un rumore di passi lo distrasse. Si voltò verso la porta e vide comparire la figura alta e snella di Tom Pullings. Il giovane ufficiale si fermò sulla soglia. Fece per aprire bocca, ma il suo sguardo scattò immediatamente verso il comandante. Egli rinunciò a parlare e rimase a contemplarlo con una sorta di doloroso sconcerto, come se non si capacitasse di quello che stava vedendo.
Stephen notò la contrazione del massetere sul suo volto magro: Pullings stava stringendo i denti.
Distolse gli occhi da lui e li riportò sulla figura immobile di Jack. “Ha perso moltissimo sangue,” si limitò a spiegare.
Il giovane ufficiale abbassò lo sguardo. “Capisco.”
Maturin fu certo che effettivamente capisse e che anzi gli fosse ben chiara tutta la drammatica portata di quella scarna informazione: per uno come lui, abituato a combattere, la conseguenza estrema della perdita di sangue non era certo un mistero.
“Ma voi lo guarirete, non è così, dottore?” chiese il giovane dopo qualche secondo di doloroso silenzio.
“È nelle mani di Dio,” gli rispose Stephen con franchezza. “Posso solo dirvi che farò anche l'impossibile per salvarlo.”
Pullings non rispose. Di nuovo fissò il comandante e di nuovo sulle sue mascelle i muscoli si tesero. “Il capitano Aubrey è molto forte,” disse. Il tono aveva una vaga nota di premura, sembrava che gli stesse ricordando un particolare del quale forse lui non aveva tenuto il debito conto nella formulazione della prognosi. Subito dopo gli rivolse uno sguardo speranzoso.
Maturin si limitò ad annuire. “Sì, lo è,” confermò, “un altro probabilmente sarebbe già morto.”
“Ma lui non morirà, vero?”
“È nelle mani di Dio,” ripeté il medico.
Il giovane si costrinse a un lieve sorriso e rispose: “No, è nelle vostre, dottore, che con il vostro permesso mi danno molto più affidamento.”

Stephen rimase di nuovo solo con Jack. Per l'ennesima volta gli sentì il polso e quasi sospirò di sollievo quando le sue dita incontrarono il palpitare lieve dell'arteria radiale. Rimase a valutalo per un po', quindi raccolse una pezzuola da una bacinella che aveva a fianco, la strizzò e gliela passò sul viso.
Lo fissò preoccupato: Jack era talmente pallido che quasi si indovinava sotto la pelle il disegno dei vasi superficiali. Le labbra avevano perso colore, intorno agli occhi aveva un vago alone violaceo. Il volto sembrava smagrito, come svuotato. Sparsi sul cuscino, i capelli biondi conservavano ancora qualche incrostazione di sangue rappreso.
Protese una mano a sistemargli delicatamente la medicazione alla testa, poi si allungò appena sulla sedia e si pose sulle ginocchia un trattato di entomologia.
Per un po' cercò di leggere, ma quando, giunto alla fine della pagina, realizzò di non ricordarsi nemmeno se il testo parlava di Archostemata o Adephaga, abbandonò il libro ed emise un sospiro di frustrazione.
Inutile negarlo: la preoccupazione per l'amico minava la sua proverbiale capacità di mantenere il distacco e la lucidità anche nelle situazioni più critiche.
Il problema non era però solo quello. Anzi, avrebbe potuto sbilanciarsi nell'affermare che il problema non era decisamente quello. Gli bastava alzare lo sguardo per avere davanti agli occhi lo stipo nel quale erano riposte le sue pistole: non più di pochi giorni prima le aveva pulite e caricate per sparare a Jack Aubrey e ora era seduto accanto a lui, con la prospettiva di passare quello che restava del giorno e tutta la notte senza staccargli gli occhi di dosso, pregando Dio, la Vergine e tutti i santi di non dover vedere sul suo corpo prostrato la comparsa e poi l'inesorabile progredire dei segni dell'agonia.
Sospirò di nuovo. In un gesto ormai automatico, la sua mano corse al polso di Jack e per l'ennesima volta cercò l'arteria radiale.
Si chiese cosa sarebbe successo, se si fossero veramente affrontati in duello. Era certo che Aubrey non sarebbe riuscito a ucciderlo: l’aveva visto abbattere innumerevoli nemici nella foga della battaglia, ma non l’aveva mai visto fare del male a qualcuno al di fuori di una situazione di guerra. Aveva un coraggio che rasentava l’incoscienza, sapeva buttarsi negli scontri senza un attimo di esitazione, trascinando gli uomini con sé in una sorta di barbarica esaltazione guerresca, ma forse gli mancava il particolare tipo di freddezza che gli avrebbe consentito di mirare a un suo punto vitale e premere il grilletto senza che la mano gli tremasse.
E lui, si chiese, sarebbe riuscito a uccidere Jack in duello?
Di nuovo emise un lungo sospiro: l’avrebbe fatto, per giorni era stato deciso a farlo.
Spostò nuovamente lo sguardo su di lui, per l'ennesima volta gli tastò il polso e gli sistemò i bendaggi. Il capitano diede un lieve gemito a quel contatto, ma per il resto rimase immobile.
“Fratello,” mormorò Maturin. Prese la pezzuola umida e gliela passò sul viso, indugiando sulle sue labbra aride. Valutò che Jack avrebbe avuto bisogno di bere, data la consistente emorragia, ma finché era in stato di incoscienza la cosa era ovviamente impossibile.

Una voce aspra lo distrasse: “Sarebbe che vi ho portato un po' di caffè, dottore.”
Maturin si voltò: sulla porta c'era Killick con un bricco fumante in una mano e una tazza nell'altra. “È bello caldo come piace a voi, dottore,” specificò il famiglio.
Stephen si fece da parte per consentirgli di passare, egli entrò nella cabina e pose il recipiente sul tavolino, quindi gettò un'occhiata a Aubrey, scosse la testa e brontolò: “La giacca numero uno lasciata chissà dove, la camicia da buttare, per non parlare dei calzoni. Non verranno mai più puliti, con tutto quel sangue. Ma nessuno ci pensa al povero Killick, nossignore. Nessuno che gli dia uno straccio di notizia, neanche.” Di nuovo fissò il capitano e profonde rughe gli comparvero sulla fronte. “Sarebbe che uno vuole solo sapere come stanno le cose, ” borbottò poi senza staccare gli occhi da Jack, “ecco che cosa vuole.”
“È presto per dirlo, Kllick,” sospirò Maturin.
A quelle parole, il famiglio parve ingobbirsi come se un peso gli fosse di colpo calato sulle spalle.
“Beh, lo saprete voi,” brontolò infine fra i denti, quindi fece per andarsene.
Stephen lo richiamò indietro: “Killick, vorresti fare qualcosa per il comandante?”
L’altro ritrovò un barlume della consueta insolenza: “Sarebbe che sono qui apposta, dottore.”
“Allora portami dell’acqua pura. Acqua di fonte, se possibile.”
Killick gli rivolse uno sguardo truce, con l’aria di essere incerto se considerare la strana richiesta uno scherzo di cattivo gusto o una delle innumerevoli eccentricità del medico.
“Acqua pura,” ripeté Maturin imperterrito. “Di fonte, pulitissima. E succo di limoncello.”
Il famiglio uscì scuotendo la testa. Stephen si versò una tazza di caffè e di nuovo si sedette accanto a Jack. Abbassò gli occhi sulla bevanda fumante e subito gli tornarono in mente gli innumerevoli episodi in cui lui e Aubrey si erano spartiti un bricco di caffè. Ricordò le chiacchiere sommesse, il senso di complicità, il calore dell’affetto reciproco. Appoggiò la tazza ancora piena, chiedendosi se le cose fra loro sarebbero mai tornate come prima. Ripensò a una frase di Pitagora: le colpe di un amico scrivile nella sabbia.
In quel momento, Aubrey emise un lieve gemito. Subito Maturin abbandonò le sue angosciose meditazioni per chinarsi su di lui: Jack aveva gli occhi socchiusi, due schegge celesti che nella penombra risaltavano sul volto pallido, ma non doveva essere cosciente. Tentò di muoversi e i suoi lineamenti si contrassero in un’espressione di dolore.
“Fratello, devi stare fermo,” gli raccomandò Stephen con voce sommessa, prendendolo delicatamente per le spalle, “altrimenti ti si riaprono le ferite.”
Di nuovo Aubrey tentò di muoversi, ma era talmente debole che Maturin non fece alcuna fatica a impedirglielo. “Sta’ tranquillo,” gli raccomandò. “Ci sono io qui con te, sta’ tranquillo.” Attese che l’altro si fosse calmato, quindi abbandonò la presa e raccolse dalla bacinella la pezzuola umida, la strizzò e poi gliela passò sul viso. “Tranquillo,” sussurrò ancora una volta. Aubrey fece un altro fiacco tentativo di muoversi, ma sotto il suo tocco rassicurante pian piano si rilassò di nuovo.
Stephen ripose la pezzuola e gli tastò di nuovo il polso, ricavandone l’impressione che esso fosse più debole rispetto all’ultima volta che l’aveva controllato, più fiacco, più aritmico. Prese lo stetoscopio e gli auscultò il torace, traendone segni ancora meno rassicuranti.
Si sedette di nuovo, intrecciò le mani in grembo e lo fissò. Dopo qualche secondo distolse gli occhi, come per non doversi trovare a vedere l’insorgenza di quei segni che tante volte aveva visto manifestarsi prima dell’exitus.

Passò un tempo imprecisato. Jack era sempre immobile, ma perlomeno respirava ancora. Stephen aveva provato a riprendere il trattato di entomologia, ma dopo poco aveva dovuto abbandonarlo, perché ogni mezzo rigo i suoi occhi saettavano verso l’amico, nell’affannosa ricerca di qualche variazione del quadro clinico.
Si era dovuto fare violenza per non auscultarlo e non palpargli il polso continuamente, lui che di solito considerava con una sorta di distaccata sufficienza chi si lasciava prendere dall’emozione nei momenti critici.
Percepì l’avvicinarsi di un passo pesante. Alzò la testa. “Sei tu, Killick?” chiese.
Quello che comparve non era il famiglio, ma Bonden, con un orcio di terracotta stretto al petto e un paio di limoni nella mano libera. “Vi ho portato l’acqua di fonte, dottore,” annunciò il nuovo arrivato. “E anche dei limoni.”
Depose tutto sul tavolino.
Maturin sollevò il coperchio dell’orcio, constatò che l’acqua era effettivamente pura e cristallina come richiesto, poi disse: “Molto bene. Andate pure, Bonden.”
Il timoniere non si mosse.
Il medico lo fissò. “Che c’è adesso?”
“Gli uomini chiedono come vanno le cose, signore.” Lo sguardo corse al comandante esanime. “Sarebbe che si fanno delle brutte idee, signore.” Tacque per qualche secondo, forse indeciso se proseguire, quindi in tono lugubre aggiunse: “Brutte davvero, signore.”
“L’ho già detto,” replicò Maturin in tono tagliente, “potrò dirvi qualcosa di certo solo domani.”
“Voi lo guarirete, vero, signore?”
Il medico aggrottò le sopracciglia, gli occhi chiarissimi parvero mandare lampi. “Vi ho già detto che non sopporto questa fede bovina nelle mie capacità. Credete forse che io sia uno stregone in grado di compiere magie?”
“Perdonatemi, signore,” rispose in fretta Bonden, poi pensò bene di battere in ritirata.
Maturin si sedette con un sospiro, ripromettendosi di chiedergli scusa alla prima occasione. Si voltò verso Jack e per l’ennesima volta gli tastò il polso, traendone come ogni volta le stesse sconfortanti conclusioni. Sospirò di nuovo.
Tornò all’orcio d’acqua, ne attinse un bicchiere e vi spremette dentro alcune gocce di succo di limone, quindi si chinò accanto all’amico e gli passò la mano libera dietro la nuca. “Fratello, devi bere un po’ d’acqua,” gli sussurrò all’orecchio. Gli sollevò appena la testa.
Aubrey gemette, di nuovo socchiuse gli occhi. Maturin gli appoggiò il bicchiere alle labbra. “Acqua e limone,” gli disse in tono sommesso, “tonico e astringente. Bevi.” Anche se era certo che l’amico fosse ben lontano dall’essere lucido, conoscendo la superstiziosità dei marinai, evitò di specificare che si trattava della stessa bevanda somministrata a Lord Nelson quando era stato ferito a Trafalgar.
Inclinò appena il recipiente. “Bevi, fratello,” ripeté.
Aubrey tossì, un rivolo d’acqua gli scorse lungo il mento.
“Adagio,” gli raccomandò Maturin, senza abbassare il bicchiere. Jack doveva bere, perlomeno finché non fosse comparsa la benedetta diuresi, a dimostrare che la funzionalità renale si era ristabilita.
Se ciò non fosse accaduto, se la perdita di sangue si fosse rivelata eccessiva anche per un uomo della sua tempra, ebbene…
Non finì la frase nemmeno col pensiero. Exitus.
Jack socchiuse gli occhi, diede un lieve colpo di tosse.
Stephen inclinò il bicchiere fino a che l’acqua non gli bagnò di nuovo le labbra, quindi pazientemente ripeté: “Fratello, manda giù qualche sorso, per favore. Devi bere per ricreare il sangue perduto.”

Jack si rivide in acqua, mentre nuotava sul dorso trascinandosi dietro una cima. Era notte e il cielo era solcato dai lampi delle esplosioni. Poi però c’erano due lune, Cassiopea non era nella posizione giusta. E la cima che si trascinava dietro diventava a ogni bracciata più pesante.
L’acqua gli invase la gola, tossì e una fitta lancinante gli attraversò la spalla. Gemette e udì una voce rassicurante che diceva: “Sta’ tranquillo, Jack.”
Sbatté gli occhi. Lo scenario della battaglia sbiadì lentamente e al suo posto comparve quello di una cabina. Vide libri allineati su uno scaffale, una giacca appesa. Percepì il rassicurante scricchiolio delle strutture di una nave.
Una voce attirò nuovamente la sua attenzione: “Fratello?”
Girò lo sguardo, incontrando un volto che pur sfocato gli comunicò una piacevole sensazione di calore. Abbozzò un pallido sorriso.
“Fratello, sono io.”
“...Stephen…?”
“Jack.”
Aubrey percepì il bordo di un bicchiere contro il labbro e istintivamente bevve un sorso.
“Così, bravo.”
Bevve ancora, realizzando di essere terribilmente assetato.
“Un altro bicchiere,” gli raccomandò Maturin quando ebbe vuotato il primo.
Jack bevve obbediente, con l’impressione che ogni sorso cadesse su un terreno screpolato dall’aridità e venisse immediatamente assorbito. Man mano che l’acqua lo ristorava, tornava anche la consapevolezza delle cose. “Stephen, gli uomini?” chiese allora ansiosamente. “Ci sono state molte perdite?”
“No, Jack. Sta’ tranquillo.”
“Io devo...” fece per muoversi, ma immediatamente Maturin lo trattenne e in tono duro gli ingiunse: “Non devi muoverti! Vuoi far riaprire le ferite? È questo che vuoi?”
“No, io...”
“Non devi muoverti,” ripeté Stephen in tono più gentile, lasciando che Jack adagiasse nuovamente il capo sul cuscino. Recuperò la pezzuola e ancora una volta gliela passò sul viso. “Hai avuto una forte emorragia,” disse poi a mo’ di spiegazione, “sei molto debole.”
Aubrey non rispose. Si rendeva conto da solo che non sarebbe stato in grado nemmeno di sollevare una mano senza aiuto. Era spossato, svuotato, anche solo dire una parola gli costava una fatica terribile. Se chiudeva gli occhi, continuava a rivedere la Polychrest che affondava, ancora e ancora, ma nella sua visione la nave, invece di posarsi sul fondo sabbioso e rimanere lì con gli alberi che spuntavano dall’acqua, continuava ad affondare in un abisso sempre più scuro, fino a che non scompariva nel buio.
Era stato ferito molte altre volte, ma non aveva mai provato una spossatezza così profonda, in grado di abbattere lo spirito oltre al corpo. Perché sì, si sentiva fisicamente uno straccio, ma soprattutto si sentiva prostrato nell’animo.
La vittoria conseguita non gli dava nessuna soddisfazione. Gli conferiva anzi un penoso senso di inadeguatezza, come se in qualche modo non fosse riuscito a fare tutto ciò che ci si sarebbe aspettato da lui. Il veliero conquistato, la Fanciulla, sul quale doveva trovarsi in quel momento, gli sembrava di nessun valore a fronte della perdita della sua nave.
L’idea che molti dei suoi uomini fossero morti lo riempiva di una forma particolarmente amara di disperazione.
“Stephen...” mormorò.
Subito l’amico fu al suo fianco. “Cosa c’è, Jack?”
“Stephen, se io dovessi non farcela...” cominciò faticosamente, e poi si rese conto che non avrebbe saputo come continuare. Chi c’era da avvertire, nel caso non ce l’avesse fatta? L’Ammiragliato avrebbe ricevuto la comunicazione della sua morte dal signor Parker, per il resto non c’era nessuno cui la cosa potesse interessare. Sophie avrebbe pianto per un paio di settimane, forse, poi si sarebbe trovata un brav’uomo con cui mettere su famiglia e si sarebbe dimenticata di lui. Diana Villiers, per la quale aveva sfidato a duello il suo migliore amico, probabilmente di lui s’era già dimenticata. “Se io dovessi...” riprovò, ma questa volta Maturin lo fermò. Gli pose una mano sull’avambraccio e disse: “Ora basta con queste sciocchezze, Jack. Ti rimetterai presto.”
Aubrey provò a voltarsi verso di lui, e già quel semplice movimento gli parve pesante come far girare il cabestano da solo. Sentì la sua mano fresca sulla fronte e realizzò che probabilmente Stephen era l’unica persona cui sarebbe importato veramente se lui fosse morto.
Si sentì indegno di quella considerazione. Aveva mancato in tanti modi nei suoi confronti. Con pensieri, azioni e omissioni, come piaceva tanto ripetere ai cappellani.
“Perdonami,” mormorò.
“Per cosa dovrei perdonarti, fratello?”
Jack avrebbe voluto replicare in modo articolato, ma faceva fatica a parlare, e prostrato com’era faceva anche fatica a mettere in ordine i concetti. Era come avere un gran mucchio di cime tutte aggrovigliate e non avere la forza per addugliarle una per una. “Lo sai,” si limitò a rispondere.
Stephen gli accarezzò la fronte e di nuovo gli prese il polso fra le dita. Per un po’ rimase a valutarlo assorto, infine disse: “Sono io che dovrei chiedere perdono a te, amico mio.”
Aubrey lo fissò stranito. Fece per replicare, ma l’altro, serio, scosse la testa. “Ora basta, devi assolutamente riposare.”
Jack si limitò ad abbassare le palpebre e di nuovo gli ricomparve davanti agli occhi la Polychrest che si inabissava e andava sempre più giù… sempre più giù...

Maturin gli contò per l’ennesima volta le pulsazioni, gli sistemò le fasciature e constatò che le macchie di sangue che le sporcavano perlomeno non si erano allargate.
La sudorazione algida forse era diminuita un po’, indubbiamente grazie ai liquidi che era riuscito a fargli ingerire.
Indugiò con lo sguardo sulle sue spalle larghe, che si intravedevano appena sotto la coperta. È forte, si ripeté per l’ennesima volta, si rimetterà.
Si accomodò meglio sulla sedia che si trovava accanto alla branda: nessuna forza terrena o ultraterrena sarebbe stata in grado di smuoverlo da lì fino a che non fosse stato certo che la crisi era superata. Ripensò a quello che era successo fra loro e tutto gli parve terribilmente stupido e privo di senso.
Forse aveva proprio ragione Pitagora, quella faccenda andava scritta sulla sabbia, così che vento e acqua avrebbero potuto cancellarla per sempre.






[1] Costa sottovento.
   
 
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