Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
Segui la storia  |       
Autore: Vitani    05/02/2019    1 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
LA VITA NORMALE
 
 


 
Ci pensò mentre il vaporetto attraccava a Marsiglia.
Ci pensò mentre sbarcavano e mentre salivano su un treno diretto a Parigi. Non aveva mai preso un treno in vita sua, ma aveva viaggiato su mezzi ben più avveniristici.
Nadia sedette con Jean sul sedile dello scompartimento e King si accucciò al suo fianco.
Marie corse verso il finestrino e si sedette, entusiasta all’idea di quel viaggio. Non aveva mai visto una grande città ed era ansiosa di arrivare a Parigi. Non aveva ancora capito che avrebbe significato separarsi da Jean, Nadia e King. O forse non voleva pensarci.
Nadia, invece, pensava fin troppo.
Avrebbe dovuto sentirsi spensierata, felice. Finalmente l’incubo era terminato. Avevano sconfitto Gargoyle, nessuno le dava più la caccia. Non aveva la pietra azzurra al collo, si sentiva nuda senza il gioiello ma capiva che era probabilmente solo questione di abitudine. Quella pietra le aveva condizionato la vita in modo indelebile.
Aveva scoperto le sue origini di principessa di Atlantide. Ancora non riusciva a crederci. Era un mondo che sentiva così diverso da quello in cui era cresciuta! Non avrebbe dovuto pensarci.
C’era, da qualche parte nella nebulosa M78, un pianeta in cui i suoi antenati avevano visto la luce. Senza di loro non sarebbe nata l’umanità come la conosceva. Lei stessa non aveva la piena consapevolezza di tutto. Era qualcosa di immenso se si iniziava a riflettere, talmente grande da sembrare incredibile.
L’avevano chiamata principessa ma no, non lo era. Non aveva neanche mai visto Tartesso se non quand’era in fasce. Non ne aveva alcun ricordo. Ci avrebbe messo un bel po’ a metabolizzare tutto quello che era accaduto.
Oh, era davvero meglio che non ci pensasse.
Jean, che le era sempre stato vicino, le aveva dato la risposta.
Era nata sulla Terra, quindi era una terrestre come lui e come tutti gli altri abitanti del pianeta. Poco importava quali fossero i suoi geni. Non aveva più la pietra e con essa era sparito anche il legame con la civiltà di Atlantide. Avrebbe dovuto pensare solo a vivere al meglio, a essere felice, accanto a Jean.
Accanto al ragazzo che sentiva ormai di amare.
Di motivi per essere felice, d’altra parte, ne aveva già: era con Jean e i suoi amici erano tutti salvi, la Terra era salva e la minaccia scongiurata. Si sarebbe aperto un lungo periodo di pace. Non le sembrava vero di poter vedere ancora il Sole, non dopo che aveva creduto di non farcela, imbarcata sul Red Noah e diretta verosimilmente verso un pianeta ormai morto distante milioni di anni luce dal sistema solare. Infine c’era la notizia di un fratellino in arrivo. Ecco, quello era qualcosa che non si sarebbe mai aspettata.
Non aveva mai avuto una famiglia, lei.
Aveva avuto solo tanta solitudine e un po’ di sollievo quando King era entrato nella sua vita.
Scoprire che Electra aspettava un bambino, suo fratello, l’aveva lasciata sorpresa.
Non sapeva bene cosa pensare, né che tipo di sorella avrebbe potuto essere.
Era strana, l’idea di avere un parente.
Se ne era felice?
Sì, certamente. O almeno lo credeva.
Non era certa di sapere cosa significasse davvero essere felice per qualcosa.
O forse sì.
Quando Jean aveva riaperto gli occhi.
In quel momento era stata davvero immensamente felice.
 
 
«Stiamo arrivando a Parigi! Sei contenta, Marie?»
Marie non aveva praticamente mai visto l’Europa, avendola lasciata subito dopo la nascita. Marie era figlia di commercianti originari proprio di Marsiglia, che si erano stabiliti a vivere nell’isola di Mahal, arcipelago di Capo Verde, poi tristemente occupata e distrutta da Gargoyle. Marie aveva visto i suoi genitori morire in quell’inferno. Anche se non lo ricordava così bene.
«Sì!» rispose «Contentissima!»
Era meglio così, che avesse dimenticato.
Anche Jean era felice di essere in Francia. Era stato un viaggio lungo, meraviglioso. Aveva visto cose che gli altri esseri umani avrebbero conosciuto forse dopo secoli. Era stato nello spazio! Avrebbe avuto una marea di cose da raccontare a suo zio. Forse non gli avrebbe creduto, ma cosa importava? Voleva che sapesse che era partito ed era ritornato, stava bene. Doveva essersi preoccupato tanto. Era una persona buona, suo zio. Jean non aveva dubbi che avrebbe accolto Nadia con gioia. Moriva dalla voglia di raccontargli tutto. Gli avrebbe spiegato com’era fatto il Nautilus, quali meraviglie tecnologiche nascondesse. O forse no. Il capitano Nemo s’era tanto raccomandato di tenere nascosta quella tecnologia proibita, lo stesso aveva fatto la signorina Electra. Jean non aveva forse imparato a proprie spese che la tecnologia cambia volto a seconda di chi la usa?
Ancora non aveva ben capito neanche come avesse fatto a uscire vivo dal Red Noah. Aveva provato a chiederlo a Nadia, ma lei s’era chiusa nel mutismo. Era caduto ed era sopravvissuto, questo gli aveva detto. Aveva preso una bella botta in testa ed era svenuto, ma era finita lì. Jean non sapeva se crederle. C’era stato un momento in cui era stato come se l’avessero spento all’improvviso. Non aveva sentito più nulla. Nadia però gli aveva sorriso e aveva detto che la sola cosa che contava era che fosse vivo. Il come, o il perché, non avevano importanza.
Echo l’avevano salutato a Marsiglia, era originario della Francia del Sud e probabilmente si sarebbe imbarcato su qualche altra nave dopo aver salutato la sua famiglia.
Grandis, Hanson e Sanson avevano ugualmente preferito rimanere al sud. Non avevano più il Gratan ed erano a corto di denaro, quindi non sarebbe stato male tornare ad accettare qualche incarico dei loro, taglie e gioielli soprattutto. In una città portuale girava gente di tutte le specie. Avevano promesso, però, di mettersi in contatto con loro e tornare a trovarli quanto prima. Sanson aveva pianto quando aveva dovuto salutare Marie, che l’aveva abbracciato e gli aveva promesso che lo avrebbe aspettato facendo la brava.
Ora che erano a Parigi si avvicinava il momento più difficile: separarsi da Marie.
Grazie alle conoscenze di Ayrton erano riusciti a trovare e contattare una sua zia, sorella della madre, che viveva a Parigi e aveva accettato di buon grado di accudire la bambina. Non le avevano parlato nei dettagli della morte dei genitori di Marie, le avevano soltanto detto che si era trattato di un’aggressione da parte di malviventi e che erano riusciti a salvare solo la bambina.
Il treno, sbuffando fumo e cenere, entrò alla gare de Lyon. Scesero, senza portare bagagli perché non ne avevano. Solo Marie aveva una piccola valigia che conteneva i vestiti e le piccole cose che Icolina ed Electra le avevano comprato in Giappone. Avevano preferito fare così per facilitare le cose alla nuova famiglia della bambina. Sapevano, infatti, che si trattava di una famiglia della piccola borghesia. Persone benestanti ma a cui capitava di dover fare qualche piccola economia. Avere già qualche vestito suo avrebbe aiutato Marie a farsi accettare.
Marie guardò estasiata il fiume di gente che usciva dalla stazione. Non ne aveva mai vista tanta tutta insieme. Corse verso l’ingresso, incurante dei richiami di Nadia che la esortava ad aspettare.
Parigi era immensa.
Una processione di carrozze, qualche rara automobile, persone di tutte le specie.
«Non riesco a credere che è già passato un anno dall’ultima volta che sono venuto qui!» disse Jean.
Era vero, era trascorso un anno dall’Esposizione Universale del 1889.
Era anche un anno che conosceva Nadia, anche se gli sembrava una vita intera.
Ne avevano vissute talmente tante!
«Facciamo un giro?» chiese.
«Perché no?» rispose Nadia «Non mi dispiacerebbe rivedere la Torre Eiffel.»
O quel che ne rimaneva.
Le conseguenze della battaglia contro il Red Noah, infatti, erano ancora ben visibili.
La Torre era completamente piegata su se stessa e Nadia constatò che c’erano operai al lavoro per rimuovere la parte danneggiata. Era passato ancora così poco tempo…
I giardini del Campo di Marte erano pieni di curiosi che commentavano tra loro lo svolgimento dei lavori. C’era chi non riusciva a credere a quel che era accaduto, ma la maggior parte non aveva davvero capito. Avevano intuito di essere di fronte a qualcosa di straordinario, d’altra parte sarebbe stato strano il contrario, ma avevano pensato alla propria sopravvivenza prima di tutto. L’idea di un’invasione aliena li aveva sfiorati ma, visto che non era più accaduto nulla di rilevante, la maggioranza della gente era tornata alla sua vita di sempre. Restava quella Torre Eiffel smembrata, ma anche lei sarebbe stata ricostruita. Restavano un gruppo di case distrutte, fortunatamente vuote nell’attimo in cui il Red Noah le aveva bombardate, e anche quelle le avrebbero ricostruite.
Tutto sarebbe stato come prima, come se il Red Noah e il Nuovo Nautilus non avessero mai combattuto sopra i tetti di Parigi. La Torre, però, non sarebbe mai stata davvero la stessa nel cuore di Nadia. Non era quella da cui si era buttata giù per sfuggire a Grandis e non era quella su cui aveva tenuto il muso a Jean, considerandolo solo un gran rompiscatole.
Marie guardava la Torre con occhi larghi. Non l’aveva mai vista da vicino, neanche sui libri.
Non arrivavano molti libri nell’isoletta in cui era cresciuta.
«Facciamo merenda?»
Nadia glielo propose per farla contenta, sapeva che adorava i dolci.
Lei, invece, non aveva granché appetito.
Aveva molti motivi per essere felice, però ne aveva anche uno, enorme, per cui sentirsi triste.
Salutare Marie significava che il viaggio era giunto alla fine.
 
 
Bussarono alla porta diverse volte.
Avevano accennato a Marie che sarebbe andata a stare da una sua zia che viveva a Parigi, già durante il viaggio in nave verso l’Europa. Lei s’era opposta con tutta l’indignazione e la testardaggine di una bambina di cinque anni. Era per il suo bene, quante volte gliel’avevano ripetuto! Ma lei non capiva.
Era davvero così, tra l’altro.
Nadia aveva perfino pensato di portarla con loro dagli zii di Jean. Aveva capito subito, però, che si trattava di un’idea inattuabile. Ne aveva parlato con Grandis, che aveva convenuto che, essendo stati trovati i parenti della piccola, era più giusto che stesse con loro. Tanto più che, contattati per lettera, sembravano brave persone e non avevano posto obiezioni. Avevano un bambino poco più grande di Marie e non avevano avuto altri figli propri, sarebbe stato un piacere per loro dargli una sorellina. Tra l’altro erano davvero parenti.
Inoltre, Nadia sapeva di non potersi approfittare della bontà d’animo di Jean. Se tenere Marie con loro fosse stata un’opzione da tenere in considerazione, Jean sarebbe stato il primo a proporla. Non l’aveva fatto. Nadia capiva che era già tanto se i suoi zii avessero acconsentito ad accollarsi lei e King, un’altra bambina era fuori discussione.
Aprì la porta una donna piuttosto giovane che aveva gli stessi capelli rossi di Marie.
«Buonasera», disse. Sorrideva.
«Buonasera a lei», salutò Jean.
Nadia non disse nulla. Non poteva impedirsi di stringere la mano di Marie più forte del dovuto.
«Il mio nome è Julie Moreau, sono la sorella della madre di Marie. Entrate, prego.»
La donna lasciò che si accomodassero, poi guardò Marie e si chinò verso di lei con un sorriso.
«Tu devi essere la piccola Marie. Come sei cresciuta! Ti ho vista una sola volta, poco prima che i tuoi genitori si imbarcassero per Capo Verde. Piacere di conoscerti.»
Marie non sapeva che pensare. Osservava la sconosciuta con un pizzico di timidezza, ma era incline a fidarsi. Non sapeva perché, ma le ricordava davvero sua madre. Forse erano i capelli rossi.
«Piacere», rispose.
Julie offrì loro del tè e qualcosa da mangiare, e propose loro di fermarsi a dormire per la notte.
«No, grazie», rispose Jean «troveremo una locanda.»
Sarebbero partiti per Le Havre l’indomani.
Fu straziante, quando giunse il momento di salutarsi. Nadia, che non aveva quasi parlato durante quel poco tempo che avevano trascorso in casa di Julie, abbracciò Marie e pianse.
«Le Havre non è lontana da Parigi», disse «Torneremo a trovarti anche tutte le settimane.»
Lo ripeté più volte, come a convincersene.                                                                                              
«Fai la brava. Non fare arrabbiare gli zii.»
Marie annuì, con le lacrime agli occhi.
«Sarò buona», rispose.
Jean, intanto, parlava con Julie.
«Grazie per aver accettato di prenderla con voi.»
La donna gli sorrise.
«Era il minimo. È pur sempre mia nipote, e per una bambina così piccola non dev’essere stato facile. Grazie a voi per esservene presi cura finora. Vi prometto che la tratterò come una figlia. Naturalmente sarete i benvenuti ogni volta che vorrete venire a trovarla.»
Jean era soddisfatto, sentiva di aver lasciato Marie in buone mani. Julie sembrava davvero una brava persona e lui, a giudicare le persone, non sbagliava mai.
 
 
Electra era sul tetto del palazzo di Tangeri, sdraiata a leggere un libro all’ombra dei teli di un gazebo.
Il sole stava calando, faceva meno caldo, ed era il momento ideale per godersi un po’ di brezza.
Sotto di lei, le voci del mercato del Grand Socco riempivano l’aria.
C’era profumo di datteri, frutta fresca e spezie.
Improvvisamente sussultò.
Icolina, accanto a lei, le stava preparando da bere. Si voltò verso di lei.
«Che c’è?» le chiese.
Electra si portò una mano al ventre, stupefatta e un po’ commossa, poi sorrise.
«Scalcia…» disse.
Era un sorriso che Icolina non le vedeva sul volto da tempo.
Il sorriso di una persona davvero felice.
 
 
Fu strano, per Jean e Nadia, ripercorrere la lunga strada sterrata che portava fino a casa degli zii di Jean, poco fuori Le Havre. Era stato il loro incontro a cambiare tutto, a mettere in moto la serie di eventi che li avrebbero portati fino allo spazio.
Se non avesse incontrato Jean, Nadia avrebbe forse continuato a esibirsi col circo, una vita non agiata ma piuttosto tranquilla, ignara delle proprie origini. Avrebbe continuato a desiderare una terra che non conosceva, l’Africa, credendola sua patria. Era vero, in un certo senso, perché era nata su quel continente anche se veniva dalle stelle. Oppure sarebbe finita in mano a Grandis e gli altri, che non sarebbero mai diventati suoi amici e le avrebbero rubato la pietra azzurra. Ma no, quella non era un’ipotesi da considerare. Toglierle la pietra azzurra era sempre stato impossibile.
«È strano essere qui», disse a Jean «Non pensavo che ci sarei mai tornata.»
«Sai», rispose Jean «a essere sincero nemmeno io.»
Lui aveva rischiato di non tornare per davvero.
«Credi che i tuoi zii mi lasceranno rimanere?»
Nadia era dubbiosa. Quello era un cruccio che aveva sempre avuto e, senza Jean, non avrebbe davvero saputo dove andare. Temeva la reazione della zia, più che altro, perché già in passato non era stata molto cortese nei suoi confronti.
La casa apparve davanti ai loro occhi esattamente come l’avevano lasciata, con resti di velivoli sparsi per tutto il giardino. Jean, a dire il vero, iniziava a sudare per il nervosismo. Non sapeva con che faccia si sarebbe presentato davanti ai suoi parenti dopo un anno intero di assenza.
Non ebbe bisogno di pensare a grandi discorsi.
Lo vide suo zio, che era in giardino.
Lo vide, gli corse incontro e lo abbracciò forte, come mai aveva fatto nella sua vita.
«Jean!»
Jean, dopo un attimo di sorpresa, ricambiò l’abbraccio.
«Ciao, zio. Siamo tornati.»
Era una frase stupida, banale, ma altre più appropriate non gliene vennero.
Era vero, erano tornati. Lui e Nadia.
Lo zio si accorse in quel momento della presenza di Nadia.
«Oh, ma tu sei la ragazza di quella volta, quella che mio nipote conobbe a Parigi!»
Nadia annuì.
«Piacere di rivederla.»
Lo zio quasi saltava di gioia.
«Avanti, venite in casa. Avrete un sacco di cose da raccontare.»
Non chiese loro dov’erano stati, non ancora. L’importante era che fossero tornati.
Non fu lo stesso per la zia. Li vide, sgranò gli occhi. Si sarebbe aspettata di tutto nella vita tranne che di vederseli ricomparire in casa dopo un anno, suo nipote e quella piccola zingara. Non che non fosse felice di rivedere Jean, non era così priva di sentimenti. Solo, non approvava il suo comportamento. Era cresciuto troppo ribelle, senza genitori, e aveva gli stessi grilli per la testa di suo padre e suo zio. Uno era diventato capitano di marina ed era morto in mare, l’altro era un anziano che inventava cose assurde e si rendeva ridicolo. E ora il ragazzino di quattordici anni tornava, dopo un anno, in compagnia di una ragazzina di colore dallo sguardo truce e di poche parole. Come faceva lei, signora rispettabile, a sapere che non fosse una ladra? Bisognava stare attenti a chi ci si metteva in casa.
Jean, nel raccontare dov’erano stati, fu fin troppo vago. Disse solo che si erano imbarcati perché desiderava aiutare la sua amica Nadia a tornare a casa. Non rivelò che erano stati imbarcati, sì, ma in un sottomarino.
«Siamo arrivati fino in Africa, Nadia è nata lì.»
«Se sei partito per aiutarla a tornare a casa, perché non ci è rimasta?»
A Jean non sfuggì l’astio nel tono della zia. La sua voce si fece grave, non volendo.
«Non ce l’ha più una casa.»
Nadia abbassò il capo e si morse le labbra. Jean continuò, osservando la zia con sguardo fermo.
«Quindi lei rimarrà qui con noi.»
La donna non ebbe il coraggio di obiettare.
«Se non vuoi che stiamo in casa, zia, ci sistemeremo nel magazzino.»
Il magazzino, che più che un magazzino era un laboratorio, era il luogo in cui Jean e suo zio lavoravano. Spesso ci passavano le notti ed era perfettamente attrezzato, Nadia ci aveva già dormito.
La zia lanciò loro un’occhiata poco convinta.
«Assolutamente no», rispose «Non sta bene che due ragazzi della vostra età dormano nella stessa stanza. Avrete due camere separate. Almeno la casa è grande.»
Avevano vinto.
 

Nadia si sistemò nella stanza degli ospiti. Non aveva nulla con sé né cose da sistemare. La camera era piccola ma pulita e in ordine, e aveva una bella finestra che dava sui campi.
“Sarà per poco”, le aveva detto Jean “poi ci sistemeremo nel magazzino, a costo di costruirci due stanze in più”.
Ne avevano passate tante insieme, dormire nella stessa stanza sarebbe stato l’ultimo dei problemi.
Eppure anche sul Nautilus avevano fatto gli stessi problemi. Ricordava che Electra aveva preteso che le ragazze dormissero insieme in una cabina separata, adducendo lo stesso identico motivo: non stava bene che un ragazzo e una ragazza dormissero nella stessa stanza.
Nadia sospirò. Non voleva pensare al Nautilus, non ancora. Pensare al Nautilus significava pensare a suo padre. Chissà dov’era finito l’ologramma che avevano portato via dalla cabina del capitano, non riusciva a ricordarlo e non le sembrava che Jean l’avesse portato con sé. Era un peccato. Le sarebbe piaciuto avere almeno una fotografia della sua famiglia. Almeno avrebbe potuto vedere il viso sorridente di sua madre come l’aveva visto poco prima di resuscitare Jean. Avrebbe potuto vedere suo padre.
Si dava della stupida per non avere capito chi lui davvero fosse, per non essersi fidata.
Gliel’aveva detto Jean, che il capitano Nemo era una gran brava persona.
E lei non si era fidata.
Lei l’aveva detestato, insultato. Fino all’ultimo. Fino a che lui non li aveva chiusi nella sua cabina mentre il Nautilus affondava. Sarebbero dovuti esistere i cosiddetti “presentimenti”. Invece lei non aveva mai capito niente. Tranne in quel momento. Quando lui aveva tentato di accarezzarle il viso e lei s’era ritratta, perché non si sarebbe mai fatta mettere le mani addosso da un assassino.
Dopo ci aveva ripensato.
Aveva capito che qualcosa non andava, d’istinto.
E poi era successo quel che era successo.
Lui, per ben due volte, le aveva raccomandato di vivere.
Qualsiasi cosa fosse accaduta, con ogni mezzo. Si era sacrificato per permettere loro di tornare a casa.
Lei non sarebbe venuta meno a quelle parole. Avrebbe vissuto una vita piena, felice. Lo giurava.
Glielo doveva almeno questo, a suo padre.
Era tutto ciò che poteva fare per sperare di essere in grado, un giorno, di perdonare se stessa.
 
 
Febbraio 1891, Parigi
 
Marie apre il portone d’ingresso, non senza una certa fatica.
Hanno bussato.
Sorride quando si trova davanti Grandis, Hanson e Sanson.
«Come stai, piccolina? Tutto bene? Siamo passati a trovarti.»
Marie salta di gioia.
«Sì, sto bene! La zia è molto buona con me.»
È vero, gli zii sono buoni e il fratellone acquisito pure, più o meno.
Marie sa farsi rispettare, è una signorina che ha visto il mondo.
Le mancano però, Jean, Nadia e King. Le manca viaggiare con loro. Le manca Sanson.
Gli salta in braccio, senza neanche chiedere se può.
Lui sorride.
«Fammi sapere se tuo fratello dovesse farti dei dispetti, ci penso io a rimetterlo al suo posto.»
Marie ride.
Il solito spaccone.
 
 
Un mese prima, Le Havre

La lettera era arrivata all’improvviso, una mattina come tante altre. Portava il timbro del Marocco.
Jean l’aveva aperta, aveva riconosciuto la calligrafia di Electra di cui tante volte aveva studiato gli appunti, era corso a chiamare Nadia. Una lettera da Tangeri poteva significare solo una cosa.
 

 
Cara Nadia, caro Jean,
vi scrivo, come vi avevo promesso, per informarvi che lo scorso ventisei dicembre è nato il piccolo Etienne.
Sia io che lui stiamo bene.
Allego alla presente due biglietti per il vaporetto Marsiglia-Tangeri. Sarei davvero molto felice se veniste a conoscere Etienne.
Aspetto vostre notizie.
 
Con affetto
Electra
 

Non c’era stato neanche da chiederlo.
Pochi giorni dopo erano entrambi sul vaporetto e il viaggio era ricominciato.
 
 
Parigi, febbraio 1891, di nuovo
 
«Ah!» aveva detto Marie, ancora in braccio a Sanson «Nadia mi ha detto che è nato il bambino di Electra!»
Se l’era lasciato sfuggire così, convinta di dare una grande notizia.
Era una grande notizia, certamente.
Grandis avrebbe dovuto essere più che felice, tanto più che era probabilmente una delle poche a sapere chi fosse il padre del piccolo. Il figlio del capitano Nemo. Le si stringeva il cuore al solo pensiero.
Era andata avanti con la sua vita, sì, non era tipa da piangersi addosso lei.
Non era tipa che versava lacrime sugli amori perduti.
Rispettava Electra, non avrebbe mai capito del tutto cosa ci avesse trovato Nemo, ma la rispettava.
Quel giorno, dopo aver saputo la notizia, si concesse un po’ di malinconia nel ripensare a quell’amore perduto. Il suo era stato, malgrado certe iperboli e altrettanti voli pindarici, un sentimento sincero e forte.
Confidava che questo Nemo l’avesse compreso.
Anche se lei, col senno di poi, capiva di non aver mai avuto speranze.
Chissà, magari avrebbe dovuto scrivere a Electra una lettera.
Così, per congratularsi.
Era pur sempre una donna dell’alta società, anche se in rovina, non aveva dimenticato la buona educazione. Alla luce di una lampada, nella stanzetta di un albergo di Parigi, aveva perfino preso la penna in mano.
Quando l’aveva poggiata sul foglio, però, non aveva saputo cosa scrivere.
E un foglio macchiato di lacrime, poco ma sicuro, non gliel’avrebbe mai spedito.
 
 
26 dicembre 1890
 
Medina urla.
Urla perché il dolore la taglia in due.
Non sembrano esserci complicazioni, la rassicura Icolina, è solo che il bambino è grosso.
Si tratta solo di spingere forte.
Medina spinge.
Il travaglio è durato qualche ora.
Tra una contrazione e l’altra riusciva perfino a dormire.
Una spinta, poi un’altra.
Urla.
Non vede l’ora che finisca tutto.
Non vede l’ora di averlo tra le braccia, anche.
Etienne viene al mondo sul finire del giorno.
Icolina, assistita da suo nonno, aiuta la testa a uscire.
Il resto è una sensazione scivolosa, veloce, di qualcosa che esce e del suo ventre che si svuota.
Poi il pianto.
Il bambino piange, si leva quel pianto di neonato su Tangeri e Medina non sente nient’altro.
È nato, è vivo.
È nato col tramonto, incoronato dal sole.
Icolina lo lava, glielo appoggia sul seno.
È un bambino con la pelle scura, un ciuffo di capelli neri, gli occhi ancora socchiusi.
È la sensazione più strana della sua vita.
Lo attacca al seno, col respiro ancora un po’ affannato.
Sa che lo proteggerà con la sua stessa vita, se sarà necessario.
Il bambino le si addormenta addosso, con la bocca ancora sul capezzolo.
Medina lo culla, lo stringe.
Quasi piange.
Sta provando la gioia più intensa di tutta la sua vita.
L’unica cosa che le manca è lui.
Vorrebbe che fosse accanto a loro, a godere di quella gioia.
Si stringe ancora addosso Etienne.
Lo porta sul cuore.
 


 
- continua -
 


N.d.A. Poche note dell’autore a questo giro. Spero intanto che vi sia piaciuto il capitolo. Ho solo due cose da puntualizzare e riguardano entrambe l’ultimo paragrafo. La prima è il fatto che Etienne nasce “incoronato dal sole del tramonto”. Questo è un piccolo omaggio all’etimologia del nome che ho scelto, Etienne, che è una delle due versioni francesi del nome Stefano e significa letteralmente “corona” (quindi “incoronato”). Il secondo si riferisce alla conclusione, “lo porta sul cuore”. Ci tengo a precisare, se non si fosse capito, che porta fisicamente il bambino sul cuore e la frase si riferisce a lui ma soprattutto a Nemo, nel cuore sempre. Alla prossima!
 
Vitani

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra / Vai alla pagina dell'autore: Vitani