Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: _EverAfter_    05/02/2019    6 recensioni
Azzurra fa la cameriera in un bar.
Ha una laurea in lettere che non le serve a nulla e un sorriso falso. Si costringe ad essere felice di ciò che ha, non aspettandosi nulla di meglio dalla vita.
Almeno finché uno dei suoi clienti non la costringe ad affrontare la vera sé, quella frustrata e che si rifiuta di mostrare agli altri.
Seconda classificata al contest "Il Contest dell'Antieroe!" indetto da MaryLondon sul Forum di EFP.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nome su EFP/Forum: _EverAfter_ | _Vintage_
Titolo della storia: Atelofobia
Bonus Usati: Citazione + Oggetto + Luogo
Note/Avvertimenti: è una storia un po' particolare, che tratta di una tematica poco conosciuta a livello cognitivo, ma che affligge molta gente. Spero vi possa piacere il modo in cui l'ho resa.







Atelofobia






Atelofobia (in greco ατελής, atelès, "imperfetto, incompleto" e φόβος, phóbos, "paura") è la paura di non essere abbastanza capaci o di essere imperfetti. L'atelofobia è classificata come un disturbo d'ansia, che influenza le relazioni personali e che si traduce in un costante senso di inadeguatezza. Fa credere che tutto ciò che si fa sia sbagliato.

_____________________________



‒ Guarda che puoi chiedermelo. ‒ L’uomo socchiude gli occhi per mettere a fuoco il minuscolo nome scritto sul cartellino di riconoscimento della barista. ‒ Azzurra, giusto?
La giovane ragazza dall’altro lato del bancone lo fissa senza capire. ‒ Chiederle cosa, signore?
‒ Per esempio cosa ci faccio qui ogni cazzo di mattina ‒ le suggerisce, contrariato, ‒ immaginavo avessi più spirito d’iniziativa.
Fissa il bicchiere di cognac, maledicendosi di non essere stato in grado di finirlo prima che il ghiaccio si sciogliesse: gli toccherà berlo annacquato, e dovrà spendere altri quattro euro per poter farsi un bicchierino decente. Tutto questo, solo perché ha avuto voglia di scherzare un po’ con la barista – ammesso che lei l’abbia capito, data l’evidente perplessità sul suo bel volto giovanile.
‒ Quanti anni hai? ‒ le chiede, non aspettandosi una risposta.
‒ Ventiquattro, signore.
‒ E piantala con ‘sto signore, mi fai sentire depresso.
La barista lo scruta di sottecchi, intenta a pulire la schiuma rimasta sul fondo di una tazza da cappuccino. Oggi c’è poca gente rispetto al solito, sarà per questo che quell’uomo ha avuto la possibilità di rivolgerle la parola. A guardarlo, non sembra neanche il tipo che abbia voglia di fare conversazione.
‒ Lei quanti anni ha? ‒ gli domanda infine, passando uno straccio sul bancone.
‒ Non te lo dico ‒ le risponde, con uno strano sorriso.
‒ Non è corretto.
‒ E perché no?
‒ Perché lei sa la mia età. È giusto che io sappia la sua ‒ gli fa notare, accettando quella sfida fatta di botte e risposte, ‒ è una questione di principio.
L’uomo si sporge dal bancone, avvicinandosi al bel volto della giovane, che da quella distanza riesce perfettamente a percepire l’odore del cognac mischiato a quello di sigarette.
‒ Se è per questo non sai neanche come mi chiamo. ‒ Sorride, ma sembra piuttosto contrariato. ‒ È educazione chiedere il nome al proprio interlocutore.
La ragazza accusa il colpo, indispettita da quell’atteggiamento arrogante e poco affabile. ‒ Non so dove abita, ma le posso assicurare che qui è buona norma presentarsi, piuttosto che attendere che sia l’interlocutore a chiedere.
L’uomo torna a sedersi, tracannando l’ultimo sorso di cognac e lasciando scivolare il bicchiere sulla superficie liscia del bancone, in direzione della barista.
‒ Un altro, per favore ‒ le intima, poi, non scomponendosi affatto, le domanda: ‒ Cos’hai studiato?
‒ Perché mi fa questa domanda? ‒ chiede di rimando la ragazza, prendendo il ghiaccio dal freezer.
Lui sospira, poi risponde mimando due apici con le dita: ‒ Buona norma.
‒ Sì, e allora?
‒ Parli in maniera decorosa, da qualche parte devi pur avere studiato, a meno che di cognome tu non faccia Alighieri.
Lo fissa, poi volge lo sguardo al grembiule sul quale si sta asciugando le mani. ‒ Lettere moderne.
‒ E dove?
‒ Alla Tuscia.
L’uomo sorride, portandosi il bicchiere alla bocca. ‒ Hai vissuto a Viterbo, quindi.
La ragazza annuisce, voltandosi per pulire la macchina da caffè. In cuor suo spera che quella conversazione possa finire presto; quel tipo non le piace affatto, e non ha voglia di passare il resto della mattinata ad ascoltare i suoi discorsi aleatori.
‒ Ho un fratello che abita a Viterbo ‒ continua imperterrito, ruotando il ghiaccio nel bicchiere con un movimento impercettibile della mano, ‒ però lui ha studiato ingegneria.
‒ È simpatico come lei? ‒ È sarcastica, ma lui sembra non voglia notarlo.
‒ È un perfetto stronzo ‒ risponde, e questa volta la ragazza rimane in silenzio, ‒ di quelli che ti rovinano volentieri la vita.
Non sa dire se per l’alcol o per il suo atteggiamento lunatico, ma qualcosa in quell’uomo la incupisce. È come osservare un dipinto monocromo e asettico, l’immagine triste e solitaria di una persona che non ha altre alternative se non quella di parlare di sé ad una perfetta sconosciuta come lei. Per certi aspetti, le fa addirittura pena. Non che sia mai stata solidale con quelli come lui: fin da piccola è stata sempre accettata dai genitori, dai suoi compagni di classe. Non ha mai avuto problemi a relazionarsi con nessuno, neppure coi professori dell’università. Ha avuto quella che si sarebbe potuta definire una vita normale, monotona magari, ma non l’è mai mancato niente.
L’uomo che ha di fronte le appare come la sua più grande antitesi. Lo fissa incuriosita, scruta le borse sotto gli occhi incavati, il fisico nerboruto nascosto dal maglione infeltrito, sotto al quale – ci scommette – la camicia bianca inizia a imperlarsi di sudore sotto alle ascelle. Non è affatto brutto, eppure non è degno di nota. Non è alto, né basso. Non ha una voce profonda, ma neppure una fastidiosa vocetta infantile. Tutto in lui urla alla mediocrità, il limbo tra la stoffa del vincente e quella dello sconfitto.
‒ Posso farle una domanda? ‒ chiede infine.
‒ Fa’ pure.
‒ Cosa ci fa qui ogni cazzo di mattina?
L’uomo la fissa, per un attimo gli appare incapace di rispondere. Poi scoppia a ridere.
‒ Immagino che sia una domanda lecita ‒ replica, grattandosi nervosamente la nuca, ‒ magari sono qui perché ho bisogno di un motivo.
‒ Un motivo?
‒ Già. Un motivo.
‒ E per fare cosa, scusi? ‒ La ragazza non capisce, e mai prima di adesso l’è capitato di pensare ad una conversazione senza senso.
L’uomo poggia i quattro euro sul bancone, poi si volta verso l’uscita. ‒ Per andare avanti, forse.
Esce salutandola con un lieve cenno della mano. La barista rimane a fissare la sagoma che si allontana per via del Corso. Per qualche strana ragione, si sente triste.







Il giorno dopo è di nuovo lì, nonostante non abbia ancora ordinato niente. Lo scruta da dietro il banco, mentre porge una tazzina di caffè alla coppietta di amiche che viene sempre il sabato.
‒ Azzurra ‒ la chiama la collega più grande, ‒ quel tizio ha chiesto di te.
Si pulisce le mani sporche di caffè sul grembiule che le cinge la vita, portandosi di fronte alla sedia dell’uomo. Non dice una parola, si limita a sorridere educatamente.
‒ Mi fai un bourbon? ‒ le chiede, con gli occhi incatenati ad un taccuino sul quale sta scrivendo, deliberatamente ignorando il suo sguardo indagatore.
‒ Poteva farglielo anche la mia collega ‒ precisa, afferrando la bottiglia sopra allo scaffale.
‒ No, invece.
La ragazza versa il liquido dentro al bicchierino, mettendoci dentro i due soliti cubetti di ghiaccio. ‒ Perché no?
‒ Il ghiaccio.
Lo fissa senza capire. Lui non sembra sorprendersi, mentre sospira insoddisfatto.
‒ Avrei dovuto dirle di aggiungerci il ghiaccio, con te posso farne a meno, così avrei risparmiato circa quattro parole ‒ risponde, ‒ ed ora, grazie alle tue illuminanti domande, ne ho sprecate diciannove.
Non sa se mandarlo a ‘fanculo o scoppiare a ridergli in faccia. Signore, quel tipo è davvero un invasato, non sa neanche perché continua a perdere il suo tempo in compagnia di quell’assurdo scherzo della natura. Rimane lì imbambolata, mentre avvicina il bicchiere al bordo del bancone perché possa prenderlo più agevolmente. Deve ammetterlo, non le capita molto spesso di rimanere senza parole.
‒ Cosa scrive su quel taccuino? ‒ domanda, puntando i gomiti sul bancone e poggiando la testa sui palmi delle mani. ‒ Sembra importante.
La fissa, e per la prima volta si accorge di quanto siano magnetici quegli occhi: non sono propriamente marroni, assomigliano più al colore del caramello, di quello da quattro soldi che si mette sopra la panna cotta. Non distoglie subito lo sguardo com’è solita fare quando qualcuno la guarda a quel modo, e lui le concede uno dei suoi rarissimi sorrisi.
‒ Te lo dico ‒ risponde, ‒ ma ad una condizione.
‒ Ovvero?
L’uomo afferra un tovagliolo dal portatovaglioli di alluminio – di quelli che si toccano in continuazione quando si attende di ordinare – e vi scrive sopra qualcosa con la penna stilografica. Non appena finisce di scrivere, porge il fazzoletto alla ragazza. ‒ Ecco fatto.
‒ Cosa sarebbe? ‒ domanda lei, stringendolo tra le mani. È una domanda retorica, quello è chiaramente un numero di telefono.
‒ Il mio contatto ‒ si limita a rispondere, bevendo d’un sorso il whiskey invecchiato, ‒ esci con me e ti dirò cosa c’è in questo taccuino.
Questo non sta bene, è quello che dovrebbe pensare. E invece se ne sta lì, col foglietto stretto tra le dita affusolate, senza sapere davvero cosa replicare. Lui continua a guardarla, ma non sembra avere intenzione di pronunciarsi ancora, e non le appare neanche imbarazzato dalla cosa. La fissa e basta, mentre sul volto gli si forma un sorriso divertito.
‒ Ma che razza di gioco è? ‒ mormora infine, non riuscendo più a reprimere il disagio. ‒ Cos’è, non ha altro da fare se non prendere in giro la barista sfigata che non sa fare altro che servire caffè?
‒ È questo che pensi di te? ‒ Lo sguardo caramellato si dipinge di bizzarro biasimo.
Vorrebbe tanto riuscire a rispondergli, ma in quel momento l’unica cosa a cui pensa è che ha ragione. In quel miscuglio di rabbia e confusione, Azzurra scorge tutta la frustrazione provata fino a quel momento, un sentimento viscido e sottile che le si è attaccato come una sanguisuga per anni, prima di diventare parte integrante del suo essere. Sì, è proprio questo ciò che pensa di sé stessa. Che è stata una bella statuina per anni, sempre la prima della classe, la prima nella vita, salvo poi ritrovarsi all’interno di uno squallido bar a servire caffè a persone che neanche si degnano di salutarla, quando finiscono di cazzeggiare e tornano a rendersi utili in qualche squallido studiolo da quattro soldi, percependo uno stipendio mille volte maggiore del suo.
È frustrante sapere di aver ottenuto una laurea senza avere la possibilità di usarla. Frustrante venire a conoscenza che gli unici a chiederle del proprio curriculum siano stati proprio i gestori del bar. Frustante immaginare Paolo – il più sfigato della classe, quello che prendeva cinque se gli suggerivano le risposte – che sfoggia sornione il premio per il “miglior contabile dell’anno”, mentre gl’illustri colleghi dell’agenzia gli stringono calorosamente la mano.
A tutto quell’assurdo rimuginare s’aggiungono gli occhi diligenti dell’uomo che le sta di fronte: quello sguardo inizia a darle fastidio, e non solo perché riesce a scrutarla senza mai perderla di vista, ma perché si sente terribilmente indifesa dinnanzi a quelle iridi che sembrano succhiarle via i pensieri.
‒ Smettila di guardarmi così ‒ gli intima, attraverso ciò che sembra più un ringhio che una cortese richiesta, ‒ mi dà fastidio.
‒ Siamo passati al tu?
‒ Sì, beh, se uno mi chiede di uscire di certo non si aspetta che io mantenga le formalità, giusto?
Lei è arrabbiata, ma lui non se ne cura. La cosa le dà ancora più ai nervi di prima, mentre sente scivolare via il bel ritratto dell’Azzurra carina e coccolosa, che cede il posto a quella parte di sé più cinica e introversa, quella parte che per anni ha urlato nella speranza di farsi vedere. Tutto questo, solo per uno dei tanti clienti molesti.
‒ Allora? ‒ si sente domandare infine. ‒ Che fai? Accetti?
Si morde le labbra, le capita raramente – e solo quando è risentita.
‒ Non accetto inviti da uno sconosciuto.
‒ Giusta osservazione ‒ replica l’altro, strappandole via il foglietto dalle mani e premendo il bottone della penna per scriverci sopra. Una volta finito, rimette la stilografica nel taschino interno della giacca e le ripassa il fazzoletto. ‒ Meglio, adesso?
La ragazza china lo sguardo in direzione dell’inchiostro ancora fresco: Walter. No, decisamente non ci avrebbe mai scommesso. Quel gesto la tranquillizza, o per meglio dire la lascia talmente basita da farle dimenticare il perché si sia tanto innervosita prima.
‒ Walter ‒ ripete tra sé e sé, ma quel nome non riesce proprio ad associarlo alla persona che ha di fronte.
‒ Che c’è? Ti pare brutto?
‒ No, è che ti facevo più tipo da Fabio o Luca. ‒ È una sua fissazione, ovviamente. Se c’è una cosa che non è mai riuscita a sopportare è proprio questa: immaginare il nome di una persona, per poi scoprire che ne ha uno completamente diverso. È una sciocchezza, così inutile che la irrita più di ogni altra cosa.
Sente una risata, e non si sorprende quando lo vede portarsi una mano alla fronte. Certo, quella sua considerazione deve apparirgli parecchio stupida.
‒ Beh, non so se può contare, ma il tuo nome è azzeccato ‒ dice infine, afferrando la cartella di pelle poggiata sullo sgabello di fianco al suo, ‒ voglio dire, sembri davvero Azzurra, tu.
‒ Questa frase è ancora più stupida di quella che ho detto io.
‒ Consolati, allora. ‒ Ancora una volta poggia i quattro euro sul bancone e si volta verso la porta. ‒ Significa che sono più stupido di te.
Non le dà il tempo di replicare, mentre vede il suo riflesso sui vetri imboccare la solita via, quella che prende sempre quando esce dal bar. Azzurra poggia la schiena contro il muro alle proprie spalle, fissando il foglietto che stringe tra l’indice e il medio della mano destra. Lui ha proprio una bella grafia, pulita e senza alcuna traccia d’inchiostro colato. Lui è strano, eppure la sua presenza non la infastidisce come gli altri volti intorno a sé, quelle facce sorridenti e piene di buchi, lì dove può vedere il marcio di ognuno, mentre gli echi dei loro pensieri sussurrano: “dì alla cameriera di prendere questo fottuto ordine”, “ma quanto tempo ci mette?”, “mamma mia, eh sì che deve solo servire ai tavoli”.
Ma sì. ‘Fanculo tutti.
Afferra il cellulare, digita frettolosamente il numero senza neanche ricontrollarlo. Se perde altro tempo, sa che il suo orgoglio la prenderebbe a capelli pur di non farle inviare quel messaggio. Scrive di getto e non ricontrolla, lasciando la grammatica al destino – o al correttore automatico dell’IPhone, che si sa, non brilla certo per intelligenza. Invia.
Legge la scritta "consegnato" con la stessa gravità di un giudice che s’appresta a leggere il verdetto d’una condanna a morte. E dire che non è mai stata una tipa molto fantasiosa.

Davvero mi farai sapere cosa scrivi sul taccuino?

Si maledice per la sciocchezza appena scritta: davvero? Cos’ha, dieci anni?
Picchietta le dita contro il vetro del bancone, mangiucchiandosi le unghie per il nervoso. Solo una disagiata sociale potrebbe scrivere un messaggio del genere. Per questo sul gruppo di WhatsApp del liceo si limitava ad inviare il pollice in su ai messaggi dei compagni.
Sente il trillo del telefono annunciare il messaggio. Fa un respiro profondo, prima di poggiare il pollice sul vetro per sbloccare il telefono. Chiaramente non si sblocca mai al primo tentativo, specie quando si ha fretta. Inizia a premere convulsamente il pulsante, ma vani sono i tentativi, prima di decidersi a digitare il codice che ricorda a malapena.
Finalmente le appare la notifica.

Sì, se rispetti la condizione.

‒ La condizione sarebbe che io esca con lui? ‒ si domanda, mentre l’assale un’ondata di panico.
L’ultima volta che è uscita con un ragazzo è stata all’università. Non la ricorda con grande piacere.
Oscar. Lui era un laureando in matematica, davvero brillante, spiritoso e persino carino. Lei era al secondo anno di lettere, e se spiccava in aula non era certo per doti naturali, ma solo perché studiava come una matta fino a tarda notte, con sempre accanto il thermos di caffè. Si sarebbero potute spiegare molte cose, se il karma avesse davvero deciso di punirla per tutto il caffè che aveva egoisticamente bevuto a scapito degli occhi incavati delle sue coinquiline di quel tempo. Ti piace bere il caffè altrui? Ecco, adesso servilo agli altri! Sì, se il karma avesse potuto parlare, sicuramente glielo avrebbe detto.
Durante quell’uscita si era sentita una sfigata. Oscar. Al diavolo, aveva persino il nome di un premio rinomato, che non faceva altro che ricordarle quanto fosse più in gamba di lei. Non aveva parlato quasi per niente, in realtà non sapeva neanche cosa dirgli. Lui aveva passato il pomeriggio a farle i complimenti, e lei non aveva fatto altro che scambiare la sua sincera ammirazione per un blando tentativo di consolarla dal suo essere così mediocre. Lui l’aveva riaccompagnata a casa, aspettandosi chissà che da quella delicata accortezza, e lei per tutta risposta l’aveva salutato con un freddo cenno della mano, prima di sbattergli in faccia il portone del vano scala e rifugiarsi in casa, arrotolandosi nel piumone e nascondendo la faccia sotto al cuscino.
Ora che ci ripensa, non è stata patetica. Di più. Tutto solo perché non si sentiva abbastanza per lui. Per il suo successo.
Si ritrova ancora a digitare senza davvero pensare a cosa stia scrivendo.

Ok, ma poi non lamentarti se lo trovi noioso. Non sono una grande compagnia.

Sì, meglio avvisarlo. Almeno non si ritroverà con la stessa faccia perplessa di Oscar e lei non dovrà per forza fingersi un’oratrice ciceroniana.
Un altro trillo.

Non è un problema.

‒ Sì, certo ‒ sbuffa, riponendo il cellulare nella borsa sull’appendiabiti, ‒ voglio proprio vedere quando parlerai da solo.







Ansia. Nausea. Bruciore di stomaco. Vertigini. Mani sudate.
A saperlo non se ne starebbe lì, ad attendere l’arrivo di un uomo che probabilmente le ha tirato un pacco, mentre tutto il suo corpo sembra essere uscito dalle controindicazioni di un foglietto illustrativo.
Cosa dovrebbe dirgli per salutarlo?
Ciao, come va? Più triste dei “k fai?” che inviava durante le medie.
Ehilà? Beh, non avrebbe neanche il coraggio di dirglielo.
Ciao e basta? Freddo. Terribilmente freddo.
‒ Azzurra? ‒ Si sente chiamare, ma non ha il coraggio di voltarsi. Quando lo fa, Walter è già al suo fianco. ‒ Sei già qui, mi aspettavo che tardassi.
Sofferma per un attimo lo sguardo sull’uomo, indugiando sul cappotto nero che gli ricade lungo tutto il bel corpo prestante: indossa la camicia con sopra una giacca grigia, porta i soliti jeans slavati e la cintura marrone stretta al terzo buco. Tutto come sempre, se non fosse che in quel momento non c’è il bancone del bar a dividerli.
Ansia. Nausea. Bruciore di stomaco. Vertigini. Mani sudate.
‒ E perché mai? ‒ La sua voce diviene più isterica. Perfetto, al diavolo il training autogeno.
‒ Mi fa piacere che tu non sia una di quelle che passa la giornata davanti all’armadio prima di un appuntamento.
Certo, lei non l’ha mica fatto, d’altronde in un modo o nell’altro non sarebbe certo stato abbastanza accontentarsi di un look da vincente – specie quando non lo sei davvero. Forse avrebbe dovuto mettersi il vestito nero, quello con le maniche a palloncino e la cinta a vita alta – o forse meglio che non l’abbia messo, si è sempre sentita una gotica, con quella palandrana addosso.
Adesso potrebbe rispondergli con qualche frase a effetto come “Io non sono una di quelle”, sì insomma, quelle affermazioni azzardate che solamente un’attrice riuscirebbe a dire senza essere scambiata per una prostituta. Lei – con il suo per nulla invidiabile sex appeal di Topo Gigio – non riuscirebbe mai a dire una cosa del genere senza prendersi per il culo spontaneamente.
Dio, è proprio una sfigata. Di fronte a quell’uomo con il quale riusciva perfettamente ad esprimersi al bar, adesso ipotizza che ciò che ha da dirgli non sia in realtà poi così interessante. Potrebbe annoiarlo o – peggio – intimorirlo. Non si stupirebbe di vederlo accampare qualche scusa assurda pur di rinunciare a quell’uscita che sembra già aver preso un brutto andazzo.
‒ Allora, dove vuoi andare? ‒ gli chiede, mantenendo un rigido contegno.
‒ Tu dove vorresti andare?
Porca miseria, non vale rigirare la frittata a quel modo. Si scopre a pensare a quante volte abbia davvero preso una decisione in autonomia, sorprendendosi di quante siano state poche. Ansia su altra ansia: avere ventiquattro anni e sentirsi improvvisamente una bimba di cinque. Scruta il suo accompagnatore, impensierita: se sbagliasse la destinazione, lui potrebbe rimanerne contrariato. Dopotutto non conosce i suoi gusti, non sa davvero cosa potrebbe piacergli.
‒ Io non saprei. ‒ Nah. Risposta sbagliata.
Lui la scruta, sorridendole: ‒ Ci sarà pure un posto dove ti piace andare.
Certo che c’è, vorrebbe tanto rispondergli, a casa mia, sotto le coperte, con Netflix ed una bella tazza di latte ricolma delle Macine della Mulino Bianco. Immagina che non sia decoroso fargli presente che, in quel suo piccolo posto ideale, non ci sia spazio per lui – così come per qualsiasi altro essere bipede sulla faccia della terra.
Si sente un po’ in colpa; quell’uomo è lì davanti, e si sforza di trattarla con ogni riguardo. Probabilmente starà già pensando a quanto sia sciocco ed infantile il suo comportamento, non lo biasima affatto. Nella scala dallo schifo più assoluto al meno peggio, lei pende con certezza verso il baratro dei falliti, una categoria di dannati che sono anche felici di farsi prendere per il culo dalla vita – ammesso che ne abbiano mai vissuta veramente una.
‒ Ascolta ‒ dice infine, indietreggiando di qualche passo verso il sottoscala della metro, ‒ questa uscita non è stata una buona idea.
Walter la fissa senza proferir parola, poi le si avvicina, non facendo caso all’espressione contratta che sembra divorarle il volto.
‒ Azzurra ‒ la chiama, ‒ ti ho solo chiesto dove vuoi andare, non quale filo tagliare per disinnescare una bomba.
‒ Lo so, questo. ‒ Le dà ai nervi il suo modo pacifico di risolvere la questione. Preferirebbe vederlo incazzato e mandarla al diavolo, almeno avrebbe un buon motivo per tornarsene a casa.
‒ Bene allora, vorrà dire che deciderò io ‒ replica infine, sfiorandole il braccio.
La ragazza china lo sguardo e si lascia condurre. ‒ Scusa.
‒ E per cosa?
‒ Beh, per essere così...
‒ Così come? Indecisa? Spaventata? Misantropa?
‒ Immagino tutte e tre.
Si fa pena da sola, ma l’uomo non sembra affatto badarci. Le stringe delicatamente il polso, mentre la guida per la calca che ogni domenica s’ammassa tra i negozi, in mezzo alla strada, persino su quelle tristissime panchine con le palme su cui di solito non pisciano neanche i cani. Tutto prende vita, in quel tumulto illogico e chiassoso che non fa che irrigidirla, perché lei non è mai stata in grado di amarla, quella vita. A ventiquattro anni si sente come se le sia bastata quella vissuta fino a quel momento.
Non ha mai fatto un viaggio con le amiche, non ha mai partecipato al veglione di Natale o di Capodanno con i compagni di classe, non ha mai preso parte agli eventi della scuola, non si è mai ubriacata un sabato sera coi colleghi dell’università, né ha mai stretto davvero amicizia con i suoi coinquilini. Non ha mai comprato un abito leggermente più costoso solo perché le piaceva di più, non è mai uscita due volte di fila con lo stesso ragazzo.

Il perché di tutto questo?
Sarebbe più semplice, se potesse davvero darsi una risposta.
Semplicemente non le andava. Non è mai stato giusto il momento, propizia la situazione. Ha lasciato che la primavera dei suoi anni fosse in realtà l’autunno, ed ha abbandonato i magnifici fiori dei ciliegi per ammirare il decadimento degli strobili dei pini, aggrappandosi allo studio, all’idea di far bene solo per non dover essere biasimata in futuro.
E adesso che lo sta vivendo – quel futuro –, non le piace. Per meglio dire le fa schifo.
E se ne sta ancorata alla mano sicura di un uomo che conosce a malapena, del quale non sa niente, che le parla con tranquillità come se quell’essere un’eterna frustrata non gl’importi affatto. Sarebbe bello, se fosse davvero così. Ma dai sogni – in un modo o nell’altro – ci si sveglia sempre, alla fine. Si sorprende non appena vede l’insegna del bar dove lavora. Walter si volta a guardarla, indicandole l’ingresso. ‒ Allora, entriamo?
‒ Ma sei serio? ‒ È senza parole, e non le esce nulla di meglio dalla bocca.
‒ Serissimo ‒ le risponde, spingendole una mano dietro la schiena, ‒ forza.
Entrano e lui la guida verso il bancone. È domenica e c’è sempre meno gente del solito, a quell’ora. Meglio così, le seccherebbe vedere i clienti di tutti i giorni che la scrutano con quel loro atteggiamento d’ineluttabile superiorità.
Walter le apre la porticina con sopra scritto “Non entrare. Riservato al personale”. Lei tentenna, incapace di afferrare ciò che le sta chiedendo di fare.
‒ Vai.
È davvero questo, quello a cui sta pensando? Non s’interroga più, afferrando il grembiule appeso all’appendiabiti e legandoselo alla vita. È il suo giorno libero e Marta – l’altra barista – la fissa con evidente stupore. Come non capirla.
‒ Dunque ‒ le fa il suo accompagnatore, dall’altro lato del bancone, ‒ voglio uno scotch.
Ciò che prima le sembrava una sensazione, adesso appare sul suo volto sotto forma di un sorriso imbarazzato. ‒ Ma che hai fatto?
‒ Sto ordinando.
‒ No, perché mi hai portata qui! ‒ sbotta, senza rabbia. ‒ Insomma, c’erano mille altri posti che potevi scegliere, perché qui, dove puoi vedermi tutti i giorni?
Walter non sembra sorpreso della sua improvvisa domanda. Immagina che se lo aspettasse, in un certo senso. Quell’appuntamento sembra tutto, fuorché un appuntamento.
‒ Ti rendi conto, vero, che è la prima frase di senso compiuto che hai detto da quando ci siamo visti stamattina? ‒ mi domanda, giochicchiando con il bottone della manica. ‒ Intendo oltre ai monosillabi, ovviamente.
‒ Che stai cercando di dirmi?
‒ Che tu mi piaci, Azzurra. ‒ È troppo stupita e confusa per poter replicare, mentre lo sente continuare: ‒ E non mi piaci per tutte le tare mentali che pensi, che devo essere completamente pazzo per trovare gradevole parlare con te. Ti ho vista qui per mesi, ti ho sgridata quando mi annacquavi il whiskey, presa in giro durante il pienone, canzonata. Ho cercato di parlarti come avrei fatto con una persona qualsiasi. E tu mi hai sempre risposto. ‒ Poggia deciso una mano sul bancone, incatenando lo sguardo a quello di lei. Le appare improvvisamente più serio. ‒ Adesso vorresti davvero farmi credere che sei riuscita a parlarmi solo per questo fottuto pezzo di vetro che ci separa?
Stordita da quella rivelazione, così accorata d’apparirle più una supplica, si sente d’improvviso smarrita. Di fronte a quell’uomo si riscopre a perdere ogni fiducia in quella sé su cui ha tanto scommesso in passato, ed assapora uno sconfinato senso di colpa per chi, non conoscendola, ha tentato di starle accanto. Lo vede frugare nella tasca interna della giacca, prima di posare lo sguardo sul logoro taccuino di pelle che poggia sul vetro.
‒ Come promesso ‒ dice infine.
‒ Cos’è? ‒ domanda lei, mentre la sua voce tradisce un velo d’incertezza, incrinandosi al pensiero di quanto le ha appena confessato.
‒ È un diario “segreto”, per così dire. ‒ Si massaggia le tempie con le dita. Dev’essere dura, per lui, parlarle così apertamente. ‒ Pensi sia inquietante, per un uomo?
‒ No. ‒ , eccome se lo pensa.
‒ Azzurra.
‒ Ok, forse un po’.
Walter sorride, sfogliando le pagine striminzite. Si sofferma su una in particolare. ‒ Tieni.
La ragazza si avvicina, e legge la virtuosa grafia inchiostrata sul foglio di carta di riso.

La ragazza del bancone.
Sorride sempre, ma per qualche ragione mi appare sempre arrabbiata.
Ieri l’ho sgridata perché ha messo quattro cubetti di ghiaccio nel mio scotch, oggi ne ha messi solo due. Ha un sapore magnifico, con solo due cubetti.
Oggi c’era la fila alla cassa, l’ho vista chiamare la collega e tornare al banco: deduco che non sappia dare il resto.

‒ Ritratto. È davvero inquietante. ‒ Lo dice, ma sta sorridendo.

Mi chiama sempre “signore”. Assurdo, quanti anni pensa che abbia?
Ieri l’ho vista ridere durante le repliche di Friends. Ha una risata di quelle col risucchio. Non deve piacerle, perché l’ho vista portarsi una mano davanti alla bocca.
Peccato, mi piaceva sentirla ridere.
Oggi ha litigato con un tipo che l’ha chiamata schioccando le dita.
Pazzesco, se non l’avesse fatto lei, gliele avrei suonate di santa ragione a quel maleducato.

‒ Me lo ricordo quello stramboide ‒ sussurra, intenta nella lettura.

Comincio a capirla, Azzurra.
Mi ha detto di aver studiato Lettere.
Immagino non sia bello per lei, essere diventata una cameriera.
Capisco finalmente perché mi appare sempre così triste, anche se è un peccato.

Interrompe la lettura, incerta su cosa provare: è irritata dal fatto che lui l’abbia scannerizzata a quel modo, ma da un certo punto di vista si sente perfino lusingata.
Walter è un uomo semplice. Non attira l’attenzione per nessuna caratteristica degna di nota, parla in maniera decisamente corretta, eppure non è un paroliere, vive la vita giocandosi il tutto per tutto con la sua strabiliante personalità. Per certi versi, ammira la semplice scommessa che ha fatto con la sua vita, quel susseguirsi ininterrotto di giorni, mesi e anni durante i quali ha scelto di essere libero dall’ossessione di non essere abbastanza per questo mondo. Lo invidia, perché ha rinunciato al brusio della gente.
‒ Sei arrabbiata? ‒ si sente domandare, ma nello sguardo dell’uomo non scorge il minimo rimpianto.
‒ Walter ‒ lo chiama, troppo concentrata per potergli rispondere, ‒ perché io? Insomma, non sono…
Abbastanza? ‒ L’uomo la guarda, sorride. ‒ Esattamente cosa pensi che sia “essere abbastanza”?
‒ Non è questo il punto, lo sai cosa voglio dire.
‒ No, invece ‒ le risponde, accigliandosi, ‒ non lo so. Dimmelo tu.
Azzurra sente le vertigini oscurarle la vista e la gola seccarsi; le pulsazioni sbattono prepotentemente contro la cassa toracica, lo sterno le duole e il fiato s’accorcia. Se non sapesse cosa fosse, probabilmente si allarmerebbe, ma quell’austera sensazione che sente piombarle addosso la conosce fin troppo bene, l’ha accompagnata sin da quando era un’infante: è un semplice attacco d’ansia, di quelli che le vengono quando la sua corazza di cartapesta viene crepata. E a nulla valgono le menzogne, i sussurrati “sto bene” tanto per convincersi del contrario, le mille maschere che adora indossare sul volto, così tante da far invidia al carnevale di Rio.
Di fronte al cuore che batte troppo velocemente, non riesce a scappare. Neppure di fronte agli occhi sereni di Walter, che non sembra sorprendersi del suo silenzio.
‒ Mi sento una scema ‒ dice, facendosi scappare un singhiozzo, il primo di una lunga serie, ‒ non sono neanche in grado di guardarti negli occhi, quando ti parlo. Eppure te ne stai lì, ad aspettare magari che una stupida come me sia in grado di cambiare, ma sai una cosa? Non succederà, non succederà affatto. Perché se non l’ho fatto per tutti questi anni, io, le mie fisime, i miei pindarici cambiamenti d’umore, allora vuol dire che non voglio dover cambiare, non voglio far finta di essere una persona migliore. Fa schifo essere me, ma va bene, fino a quando sono io ad esserlo.
Riprende fiato, asciuga le lacrime con la manica del pullover, poi riprende: ‒ Eh sì, sono un’asociale che odia dover stare a contatto con la gente, sorrido solo perché l’etica sociale m’impone che non si possa mandare a ‘fanculo un cliente, non sopporto la mia risata perché è isterica e sembro un maiale quando la faccio, mi faccio mille pippe mentali su ciò che pensa la gente di me, mi sento una fallita per non essere riuscita a trovare un lavoro migliore di questo squallido bar e mi odio per farmi andare bene tutto questo.
Fissa il suo interlocutore, infischiandosene del mascara che le cola dalle ciglia e le riga il volto con tanti sottili rivoli scuri. Ha gli occhi gonfi e stanchi, il moccio che le cola dal naso e le mani che tremano, abbandonate anch’esse a quella catarsi che sembra rasserenarle il battito cardiaco. Si sente meglio, non sa neanche il perché. Forse perché non dovrà più fingere di essere migliore, adesso che lui sa la verità.
Walter le porge un fazzoletto di stoffa, che la ragazza afferra con titubanza. Chissà quanti, nel XXI secolo, portano ancora con sé un fazzoletto di stoffa nel taschino.
‒ Ti senti meglio? ‒ le domanda. Nessun accenno al suo sclero, non sembra neanche perplesso. Prosegue la conversazione come se nulla di tutto ciò sia mai accaduto: ‒ Vuoi un po’ d’acqua?
‒ Sono io quella che sta dietro al bancone ‒ prova a scherzare, strofinandosi via il trucco residuo.
‒ Fai pietà come barista ‒ le dice accigliato, ‒ sono venti minuti che sto aspettando il mio scotch.
Azzurra non riesce a trattenere la risata che sente partirle dal cuore. Ironia della sorte, è proprio quella col risucchio, ma questa volta non è in grado di frenarla – o forse semplicemente non vuole. È una strana sensazione, quella di non aver nulla da nascondere. Versa il whiskey scozzese nel bicchierino di vetro liscio.
‒ Ricordati il ghiaccio.
‒ Lo so ‒ sbuffa, tirando il cassetto della ghiacciaia, ‒ non c’è bisogno che me lo ricordi.
Rimangono lì, a parlare per tutto il pomeriggio. Non pranzano, eppure non hanno fame. Discutono di ogni cosa: del tempo, del traffico in via del Corso durante l’ora di punta, di quelle orrende luminarie che montano durante la festa patronale, di come Walter non riesca a guarda la tv se il volume non è un multiplo di cinque o un numero pari, di quanto dia fastidio ad Azzurra dormire con la porta della camera aperta. Parlano di loro, di ciò che sono per davvero: alienati, sarcastici, ridicoli, con fisime assurde che la gente comune ha paura di mostrare.
‒ Insomma, anche tu sei una specie di disadattato sociale ‒ gli dice infine sorniona, ‒ non riesco a crederlo.
‒ E non ti ho parlato del mio debole per Media Shopping e per tutti i loro assurdi marchingegni, tipo il caricabatteria da auto che è anche un rasoio elettrico.
La ragazza scoppia a ridere, mentre l’ultimo cliente del bar s’avvia verso l’uscita. Fuori il cielo è scuro, non sa neppure per quanto tempo abbiano parlato. Marta si sporge dal camerino sul retro: non ha più addosso il grembiule e ha spento tutte le macchine da caffè.
‒ Ehi, Azzurra ‒ la chiama, lanciandole le chiavi del locale, ‒ chiudi tu?
‒ Va bene ‒ si limita a rispondere.
Le brontola lo stomaco e il suo interlocutore sembra accorgersene. ‒ Dovremmo cucinare qualcosa.
‒ Non siamo un ristorante ‒ gli risponde, frugando nel banco frigo, ‒ però ci sono questi panini.
‒ Da quanto tempo sono lì?
La ragazza ne afferra uno, studiando la pellicola che lo avvolge. Trattiene a stento una risata. ‒ Probabilmente dal dopoguerra.
‒ Perfetto. ‒ Walter allunga una mano, attendendo la cena.
‒ Crudo o cotto? ‒ domanda lei.
‒ Tu quale preferisci?
‒ Io il crudo ‒ risponde, ‒ posso togliere il grasso.
‒ Un’altra fisima? ‒ le chiede, iniziando a scartare la pellicola.
‒ Già, un’altra fisima.
Non si è mai presa così alla leggera come ora, la cosa la diletta e al tempo stesso le lascia uno strano senso di perdita. Per questa giornata, può dire addio a quella giovane donna piena di sé, quella che forse si prende un po’ troppo sul serio, dimenticandosi del resto: è con un uomo, del quale conosce poco o niente, eppure non si è mai trovata così a suo agio come con lui, forse neanche coi suoi genitori.
La verità è che siamo un po’ tutti dei misantropi disadattati, le ha detto durante la loro chiacchierata, ci piace nascondere i nostri difetti perché ne siamo spaventati, o almeno pensiamo di esserlo. In realtà abbiamo solo paura degli altri. È una rivelazione scontata, ma Azzurra non ha mai avuto il coraggio di pensarci; vedendosi allo specchio, ciò che ha sempre osservato non le è mai piaciuto. L’unico sguardo che non ha mai voluto incrociare è proprio quello del suo bizzarro alter ego frustrato dalla sua inettitudine. Che cazzo fai in quel bar? Le avrebbe gridato contro, se solo avesse potuto, hai una fottutissima laurea in lettere moderne, prendila e vattene, scansafatiche.
Lei non è una di quelle che passa la giornata a rigirarsi i pollici. Eppure non ha mai fatto quel tentativo in più, nella speranza magari di trovare la sua vera strada. Sarà solo un’altra delusione, si è detta, prima di girare la maniglia che la separava dal prossimo colloquio. Solo un’altra delusione. Se n’è andata a casa e il giorno dopo ha accettato il lavoro al bar. In pratica, ha solo perso, niente di cui sorprendersi.
Ma non è stata la vita a sconfiggerla, quel giorno. È stata lei. Da sola, con il silente urlo del fallimento che le rimbombava nel petto e la scritta sulla sua fronte che urlava “sei una perdente!”. È stata sconfitta perché troppo stanca dei continui “le faremo sapere”, stanca dei pomelli dorati delle mille porte che aveva aperto, stanca del biondo finto delle segretarie al centralino che la scortavano verso il prossimo rovinoso colloquio. Non ha mai pianto, per tutto questo. Si è limitata ad incatenare i suoi sogni al cuore, cosicché non potessero scappare.
Altro che diario segreto. È lei, quella inquietante.
‒ Walter ‒ lo chiama, sedendosi a gambe incrociate sul bancone, ‒ hai mai mandato all’aria un progetto ambizioso solo perché non credevi d’essere adatto?
L’uomo annuisce: ‒ Milioni di volte.
‒ Davvero? ‒ Lo ammette, è davvero stupita.
‒ Quand’ero piccolo mia madre ci portava spesso al palaghiaccio durante l’inverno. Io non ero molto bravo coi pattini, così me ne rimanevo sempre sugli spalti, ad osservare mio fratello. ‒ Strappa coi denti un altro boccone dal panino. ‒ Un giorno decisi di voler fare un altro tentativo, ma quando sfiorai con le dita la lama del pattino mi dissi che era troppo affilata e che, se fossi caduto, mi sarei di sicuro fatto male, senza contare che tutti avrebbero riso di me e del mio capitombolo. Così me li tolsi e li lasciai sugli spalti, mentre attendevo che mamma ci venisse a prendere.
Azzurra lo squadra, alzando un sopracciglio. ‒ Ma quello di mettersi un paio di pattini ai piedi non è un progetto ambizioso.
‒ Per un bambino lo è ‒ replica l’uomo, fissandosi i piedi, ‒ per quel che ne sapevo all’epoca, sarei potuto diventare il più grande giocatore di hockey vivente.
‒ Che esagerato.
Walter sogghigna, poi la fissa: ‒ Quando si ha paura degli altri è più difficile pensare in grande, non trovi?
La ragazza annuisce, accartoccia la pellicola tra le mani e la lancia verso il cestino con un canestro secco.
Homo faber fortunae suae ‒ dice poi, ‒ “l’uomo è artefice della propria sorte”.
È una frase semplice, che ricorda d’aver studiato persino al liceo. Non è complicata, non ha risvolti diversi: è un monito, una scomoda rivelazione che lei ha dimenticato per molto, troppo tempo. È da qui, che deve ripartire. Da quei sogni incatenati, derisi e dimenticati. Dalla sé ferita, quella spaventata e che ha paura.
Giochicchia coi lacci delle converse, poi sorride. Sì.
È da sé, che deve ricominciare.







Osserva il grande cartello scritto col pennarello nero, attaccato alla bell’e meglio sul vetro del locale con dello scotch di scarsa qualità. Cercasi barista.
Afferra lo smartphone dentro al taschino interno della giacca.

Ti sei licenziata?

Risponde quasi subito.

Sì. Se voglio trovare il lavoro che voglio non posso perdere tempo a servire ancora caffè.

È felice di quella decisione, eppure sente uno strano nodo allo stomaco al pensiero che non sarà più in grado di vederla tutti i giorni.


Cosa dirà la nuova cameriera, quando mi servirà il whiskey annacquato?

Risponde ancora.


Probabilmente la sgriderai e lei ti sputerà nel bicchiere.

Acciglia lo sguardo, mentre gli scappa un sorriso.


Non sarà abbastanza coraggiosa da farlo.

Due spunte blu. Aspetta il trillo che non tarda ad arrivare.


Io l’ho fatto.

Ha voglia di vederla, ma si trattiene dallo scriverglielo. Sarà troppo impegnata adesso, per poter trovare un po’ di tempo per lui. Sta per riporre il telefono, quando un trillo inaspettato gli giunge all’orecchio. Avvicina gli occhi allo schermo.


Non avrei fatto nulla di tutto questo se non fosse stato per te, Walter. Se non hai impegni per stasera, ti andrebbe di andare da qualche parte?

Ha trentatré anni, ma non riesce a trattenersi dal sorridere come una scolaretta di sedici. Davvero, se le persone vedessero questo lato di lui, probabilmente lo prenderebbe per il culo fino alla fine dei suoi giorni.


Hai qualche idea in mente?

Attende un minuto come fosse un’eternità, poi si tranquillizza al suono della notifica.


Pensavo di andare al palaghiaccio.

Se le dicesse di no, sa che si arrabbierebbe. Non vuole ammettere d’essere rimasto lo stesso fifone di vent’anni fa, eppure sa che quel bambino seduto sugli spalti, con accanto quei bei nuovi pattini bianchi, sta solo aspettando di avere una seconda possibilità: quella di sbagliare, quella di cadere per potersi rialzare. Quella di dimostrargli che anche lui è cresciuto.

Al diavolo. Inspira profondamente, digita il messaggio.

Perché no.

Dopotutto c’è ancora tempo per diventare il più grande giocatore di hockey del mondo.








Fine






Note autrice:
Salve a tutti/e!
Ho scritto questa storia immedesimandomi molto nella protagonista, e forse è davvero la prima volta che sento un personaggio così vicino a me. Azzurra è una ragazza assolutamente normale, ci tengo a dirlo, il suo complesso d'inferiorità non è dovuto al semplice carattere, ma a continui tentativi fallimentari che la rendono una sconfitta della vita.
Credo - anzi sono fermamente convinta - che prima o poi tutti nella vita veniamo sovrastati da una potenza che non riusciamo a controllare: ci sentiamo persi, abbiamo bisogno di aiuto, fino al momento in cui smettiamo di lottare.
Sono sicura che a tutti, a tuti, sia capitato di arrendersi, almeno una volta. Questa storia nasce per ricordarci sempre che non serve per forza nascondersi dietro ad un dito quando le cose vanno male.
Ringrazio dal profondo del cuore MaryLondon e il suo contest fantastico per avermi dato la possibilità di scrivere di una persona vera, una persona che sento mia e che spero sia un po' parte anche di voi.
A presto,

_EverAfter_
  
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: _EverAfter_