Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    07/02/2019    2 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Go Ahead and Cry, Little Boy

Capitolo 1







 
Eren

Venerdì sera, molto dopo il mio coprifuoco.

“Niente manette?” Chiedo guardando i sedili anteriori, leggermente irritato per il modo in cui vengo trattatato.

I suoi occhi incontrano i miei attraverso lo specchietto retrovisore.

“Non sei in arresto.”

“Peccato. Sarebbe stata una bella storia da raccontare.”

Jean schiocca la lingua e si gira, un brivido di terrore mi avvolge la bocca dello stomaco. Si ferma all’inizio del mio vialetto e toglie con uno strattone la chiave dal cruscotto prima di uscire dall’auto e appoggiarsi sul mio lato del finestrino. Osservo le occhiaie e le borse sotto i suoi occhi.

“Andiamo,” comanda ed esco reclutante dall’auto.

In notti come queste, tendo a dimenticare che lui è mio cognato. O il mio ex cognato? Non lo so. La faccenda è un po’ complicata. Sta di fatto che ormai sono più abituato a pensare a lui come un semplice poliziotto, piuttosto che un parente acquisito. 

Ogni passo verso la porta di casa sembra pesante; pensavo che Jean mi avrebbe solamente aperto la portiera dell’auto per poi andarsene. Invece, rimane con me e si appoggia contro la ringhiera del portico con le braccia incrociate al petto. Guardo l’auto-volante della polizia e poi lui, ma non sembra interpretare il mio silenzio come un invito a levare le tende.

“Grazie per il passaggio.” Gli sorrido, ma siccome mi fanno male guance, smetto subito. “Ci vediamo. Notte.”

Jean preme le labbra in una linea sottile e non dice nulla. Sospiro e sollevo la mano per suonare il campanello. Lo sento trillare dall’interno e il frenetico suono di passi raggiunge le mie orecchie. La porta si spalanca e miei genitori  mi fissano, i capelli in disordine e gli occhi esausti dalla spossatezza. Quasi trasalisco nel vederli così trasandati e devo sforzarmi per mantenere la mia compostezza.

“Ciao.” Faccio un cenno e indico con il dito dietro la mia spalla. “Guardate chi è venuto a trovarci.”

Jean si solleva dalla ringhiera e fa un cenno con la testa ai miei genitori. Mia madre si avvicina per prenergli il braccio, i suoi occhi pieni di un’emozione che non riesco a sopportare. Lui ricambia lo stesso sguardo, mette la mano sopra la sua e improvvisamente mi sento come se stessi violando la loro privacy in un momento personale, o qualcosa del genere. Alzo lo sguardo verso mio padre, ma anche lui è concentrato su Jean.  

Rimango in piedi a disagio fino a quando mia madre non invita Jean dentro casa. Lui le riferisce che attualmente è in servizio, ma che passerà a farci visita uno di questi giorni. Risale in auto con uno sguardo severo puntato verso di me. Aspetto fino a quando non vedo più la macchina della polizia prima di entrare in casa, ignorando gli sguardi penetranti dei miei genitori.

“Dove sei stato?” Chiede mia madre, la sua voce passa a un tono tagliente che usa solo con me.

“Prima sono andato al parco,” comincio con la voce piatta. “Ma poi ho deciso che volevo fare qualcosa di diverso, quindi ho rapinato una povera, indifesa signora e mi sono ubriacato nei sedili posteriori di una macchina abbandonata.”

So che non mi crede e so anche che mio padre non vuole più avere niente a che fare con le mie pagliacciate. Osservo come preme le dita contro gli occhi e non dice niente. Mia madre gli afferra il braccio, spostandolo in modo da non coprirgli gli occhi e quando si guardarono l’un l’altra, quell’odiosa sensazione di disagio e smarrimento torna ad avvolgermi.  

“Eren,” comincia mio padre, suonando stanco come sembra. “Penso che tu dovresti-“

“Vado a dormire,” affermo brutalmente, non preoccupandomi nemmeno di aspettare una loro risposta mentre salgo le scale. “Notte!”

Mi butto sul letto e premo le dita sulle mie gelide guance. La lampada emette un bagliore arancione che colora tutto ciò che c’è nella mia stanza dello stesso colore. Mi chino e accendo la radio. Crepita per alcuni secondi prima di intercettare chiaramente la frequenza di una stazione di musica rock alternativa. Mi lascio cadere di nuovo all’indietro e chiudo occhi, fingendo di conoscere la canzone. Non è difficile.

Sono bravo a fingere, dopotutto.

 
***
 
Lunedì, 08:17. Sto salendo le scale della mia scuola e nella mia testa sto fingendo di non essere una merda che cammina. È più facile essere qualcosa che non sei. Innumerevoli esperienze personali hanno provato questa mia teoria, facendola diventare un dato di fatto.

Nessuno mi saluta quando passo per i corridoi. Forse è perché non ho amici. Beh, non più, almeno. Non ne ho più avuti dopo quel giorno e immagino la colpa sia mia. Se allontani le persone troppo a lungo, alla fine recepiscono il messaggio.

E oggi questa teoria si evidenzia ancora. Passo accanto a Krista Lenz, la quale ora si fa chiamare Historia per una qualche strana ragione e lei non sembra nemmeno notarmi. Può darsi che sia perché è alta un metro e quarantacinque; o forse perché l’ultima volta che mi ha parlato ho imprecato contro di lei e le ho sputato davanti al piede.

In ogni caso, mi passa affianco senza nemmeno guardarmi. Se non avessi guardato proprio verso di lei, probabilmente non l’avrei nemmeno notata. Le persone crescono e vanno avanti, sperimentando cose nuove e migliori. Non è che le relazioni siano scolpite nella pietra. Alla fine a nessuno importa se vieni lasciato indietro; anzi, finiscono col compatirti.

Prendiamo Jean, per esempio. Scommetto che non pensava che la parte 'Finché morte non ci separi' sarebbe arrivata così presto, ma al grande uomo nei cieli non fregava un cazzo cosa pensasse lui. O cosa pensasse qualcun altro, per quanto importi. Forse è per questo che non credo più in Lui. O magari è perché ha smesso di fregarmene qualcosa.

La campanella suona, emettendo una melodia stonata e assordante, ma non mi preoccupo nemmeno di accelerare il passo. Ci sono alcuni ragazzi che sembrano fare lo stesso e per alcuni secondi mi sembra quasi come se ci fosse un legame che ci accomuna. Forse neanche a loro importa qualcosa. Può anche darsi che non abbiano sentito la campanella (il che sarebbe davvero difficile, ma non si sa mai).

Noto addirittura che qualcuno sta cercado di sgattaiolare da qualche altra parte per saltare qualsiasi lezione abbiano; mi verrebbe da fare lo stesso.

Arrivo alla mia classe d'inglese con niente più che i vestiti. Quando apro la porta tutti mi fissano e poi guardano altrove, come se non fossi abbastanza interessante da guardare. Forse non lo sono. La sola cosa interessante di me sono i jeans e questo solo perché questo fine settimana ho preso delle forbici e ci ho fatto quanti più buchi ho potuto.

“Grazie per essersi unito a noi, signor Jaeger,” dice con voce gioviale il professor Smith e una parte di me vorebbe quasi odiarlo. È un uomo simpatico, ma se lo fai innervosire diventa il classico stronzo passivo-aggressivo.

Mi abbasso in un inchino esagerato, guadagnando qualche risatina da alcuni dei miei compagni di classe. Un sorriso si forma sul mio viso mentre raggiungo il mio posto. Io vivo per questo. Mi libero di tutte le occhiate, gli occhi irritati, i sussurri. Diamine, dubito che mi stancherò mai di tutto ciò. È troppo divertente.

Mi giro leggermente per vedere Levi Ackerman che solleva un sopracciglio verso di me. È seduto sulla sedia dietro la mia, praticamente curvo e abbassa lo sguardo senza guardarmi di nuovo.

Levi Ackerman è il tipico ragazzo a cui tutti sbavano dietro. È piuttosto basso, ma ha davvero degli occhi stupendi e dei bicipiti che potrebbero far desiderare a tutti quanti di scoparlo o farsi scopare. I suoi capelli all’inizio erano del corvino più scuro e lucente, ma dopo una scommessa con i suoi amici, ha dovuto tingerli di biondo. Non molti ragazzi stanno bene biondi. O forse sono a me che non piacciono. Ragazzi corvini? Porca miseria, ci sono, iscrivetemi. Ragazzi biondi? Nah, passo.

A meno che il ragazzo coi capelli biondi non sia Levi Ackerman, capitano dei Titans, la nostra famosa e vittoriosa squadra di football. Levi ha quel tipo di nome da persona famosa. Già solo pronunciarlo ti fa sentire come se fossi un contadino che sta mancando di rispetto al proprio re, il che è praticamente ciò che è Levi in questa scuola. Non perché comanda le persone o cose del genere. Anche se sono sicuro che se per caso dovesse chiedere qualcosa a qualcuno, tutti cercherebbero il modo migliore per soddisfare il suo desiderio. È più che altro per il profondo rispetto che le persone nutrono nei suoi confronti. È un ragazzo a posto, credo. Non saprei.

Chiamarlo Ackerman mi fa sentire come se fossi uno dei suoi compagni di squadra e forse non è poi una cosa così brutta. Sai, quella cosa di fingere di essere qualcuno che non si è. Il dimostrarsi di essere utile mentre si cerca di superare l’Inferno conosciuto con il nome di ‘scuole superiori’.

Ma non sono uno degli amici di Levi e posso solo fingere fintanto che resterò in questa scuola. Quindi lo chiamo Levi Ackerman ogni volta che posso. E per ogni volta che posso, intendo dire nella mia testa. Non ho mai osato cominciare una conversazione e le sole parole che lui mi abbia mai riferito sono stati piccoli commenti maligni qua e là. La cosa non mi impensierisce, però. Non sto cercando di farmi degli amici.

Una volta che tutti sono passati oltre il fatto di essermi presentato di nuovo in ritardo, il signor Smith comincia la lezione. I suoi capelli scintillano sotto la luce del Sole che entra dalla finestra, ma non è poi così impressionante. Ci ho pensato la settimana scorsa, quando Levi aveva letto un poema sulle onde che si infrangono contro le scogliere e la mia faccia era diventata rossa e calda. Anche i suoi capelli scintillavano come l’oro e quasi rimpiango di aver prestato più attenzione a questo dettaglio piuttosto che alla sua voce piatta e annoiata.

Percepii degli occhi osservarmi e i capelli nella nuca si rizzarono all’erta. Mi chiesi se Levi Ackerman sapesse quanto penso a quel dettaglio.

 
***

Martedì, 10:13. Sto marinando la scuola, piegato sotto le coperte di pile con il telefono in mano. Leggo i messaggi ancora e ancora cercando di ignorare il fatto che ormai sono nel mio cellulare da più di due anni. Leggo del piano di organizzare la festa a sorpresa di mio padre e di fare una piccola vacanza a New York e quando nascondo il telefono sotto il cuscino fingo che sia sparito, dimenticandomi che in realtà è solo a pochi centimetri da me. A volte mi piace torturarmi con i ricordi, ma è sempre troppo da gestire. Tutto è sempre fottutamente troppo da gestire.

Il mio telefono vibra, tornando così in vita. Infilo la mano sotto il cuscino e vedo che Jean sta cercando di contattarmi. Tengo il cellulare in mano, fissando lo schermo. Il telefono smette di squillare fino a quando non appare la notifica di un messaggio. Decido di aprirlo solo dopo alcuni minuti di riflessione.

Tua madre ha detto di portare il culo a scuola. Sto venendo a prenderti.
– Jean


Metto giù il telefono e registro il suono della porta della mia camera che si spalanca. Se Mikasa fosse qui, si sarebbe messa a ridere e-

Mi blocco e impallidisco di colpo quando il mio sangue decide che le guance non sono poi una tappa obbligatoria. Il suo nome mi lascia un gusto amaro in bocca. Mi siedo lentamente sul letto. Il suono dei passi di Jean si fa più pesante, tanto da rimbombarmi nelle orecchie e lui raggiunge la soglia della porta prima che possa eliminare le immagini di mia sorella in una parte oscura e recessa della mia mente dove non ho più intenzione di tornare.

“Ti sei mai chiesto cosa potrebbe accadere se le persone non si odiassero a vicenda?” Chiedo, guardando il soffitto bianco e monotono. “Perché io sì e penso che tu non avresti più un lavoro.”

Non risponde e strattona le coperte all’indietro. Si siede sul bordo del mio letto, la sua camicia crea delle increspature e le mani gli supportano la testa. Non indossa la sua uniforme da poliziotto e vederlo con dei semplici jeans risulta quasi strano. Non sono abituato a vederlo in abiti civili.

“Notte lunga?” Chiedo.

“Notte lunga,” risponde e rimaniamo seduti sul letto in questo modo fino a quando mia madre non torna a casa alle tre.

 
***

Mercoledì, nel bel mezzo della lezione d’inglese. Levi è seduto davanti, questa volta con Isabel Magnolia e Farlan Church. Isabel sta parlando nella sua alta, spumeggiante voce. Scommetto che potrebbe fare la cheerleader, ma sono sicuro che odia qualsiasi cosa abbia a che fare con lo sport. La sola ragione per cui lo so è perché siamo stati nella stessa classe di ginnastica il primo anno di superiori, insieme a Sasha Blouse. Le due si divertivano animatamente a prendere in giro i giocatori di calcio. Farlan sta tamburellando le dita sulla propria coscia in un ritmo che non riesco a seguire e Levi sta fissando uno dei banchi mentre tiene sollevato un poster colorato.

Non ricordo che compito dovevamo fare, anche se penso di non doverne esserne sorpreso. Non ricordo nemmeno l’ultima volta in cui mi è fregato qualcosa dei compiti scolastici. Levi mi guarda per una frazione di secondo prima che i suoi occhi si spostassero da qualche altra parte nella stanza. L’angolo della sua bocca si alza in un piccolo sorriso e do una veloce occhiata per vedere Reiner Braun fare delle facce stupide a qualsiasi cosa stia dicendo Isabel. Reiner è uno dei giocatori di football; se fosse almeno venti centimetri più basso e con i capelli scuri potrei anche farci un pensierino.

Levi, Isabel e Farlan presentano il loro progetto e, una volta terminata la presentazione, chiedono se abbiamo delle domande al riguardo. Volevo dire qualcosa, ma ho presto deciso che forse non era una buona idea, intrecciando le mani sotto il banco. Levi fa un cenno con la testa, come se fosse soddisfatto e realizzo che non deve piacergli molto dover parlare di fronte a tutta la classe. Prende un respiro profondo e torna al suo posto con il passo più veloce che abbia mai visto.

Probabilmente sono l’unico che lo guarda così attentamente da notare una cosa del genere e un senso di orgoglio mi avvolge completamente. Era come se avessi involontariamente scoperto uno dei suoi segreti più profondi. Non avrei mai immaginato che il capitano della squadra di football odiasse parlare in pubblico, ma Levi è forse la prova che non ho ben compreso come gira il mondo.

A volte ho dei periodi durante i quali mi avventuro in varie fasi. Alcuni giorni sono più intraprendente e faccio cose che normalmente non farei mai. Oggi è uno di quei giorni. Mi riferisco a Levi come fosse solo Levi e non guardo altrove quando mi becca a fissarlo. Una volta che è seduto al suo posto e il professor Smith ha chiamato il prossimo gruppo, mi giro e indosso uno dei miei finti sorrisi.

“Cosa c’è?” Sbotta e realizzo solo ora quanto grigi siano i suoi occhi. Mi ricordano una tempesta, un metallo liquido o l’adorabile gattino che Mikasa-

Confino immediatamente il pensiero nei meandri della mia mente. Levi mi riserva uno strano sguardo mentre guardo improvvisamente il pavimento.

“Bel progetto,” dico finalmente. “Non pensavo ti piacessero i glitter.”

Mi giro di nuovo, la mia fase intraprendente è ufficialmente conclusa. Levi non risponde e ne sono contento. Non ho nient’altro da dirgli. Confessargli di pensare che lui sia la cosa migliore da incrociare per i corridoi di questa scuola suona noioso e stupido e per una volta vorrei fingere di non esserlo. Non è vero, comunque. Non sono preso così tanto da lui.

Dopo scuola, ho preso la mia chitarra e un pacchetto di sigarette e sono andato al parco. Sono seduto su una delle panchine cercando di sembrare un tipo studioso, mordicchiando la fine della sigaretta e appoggiando le dita sulle corde della chitarra. Premendo le corde, quest’ultime sprofondano nella pelle creando quella strana sensazione sulla punta delle dita. È come se la pelle si stesse lentamente tagliando e mi ritrovo a pensare a quale sensazione proverei se invece fosse il collo a tagliarsi.

Sollevo una mano per premerla contro la gola. Quando percepisco il cuore battere ritmicamente contro le dita, getto la chitarra a terra e mi curvo mentre barcollo, cadendo quasi a terra. La sigaretta mi lascia uno strano sapore in bocca e, nonostante non sia nemmeno accesa, mi sento come se mi stesse già ostruendo i polmoni con tutte le schifezze che ci mettono dentro.

Non ho mai fumato in vita mia, ma quando chiudo gli occhi mi appare l’immagine di una finestra aperta e il fumo di sigaretta elevarsi verso il cielo.

Penso a sogni sussurrati e promesse non mantenute e una sensazione di bruciore si accende nel mio stomaco. Permetto alla mia mente di correre libera, lasciando che il mio cervello continui a mostrarmi la piscina dove andavamo a nuotare in estate o alle case di pan di zenzero a Natale. Penso a lunghi capelli neri e calmi occhi scuri; penso a una sciarpa rossa e un accenno di sorriso su quella sua bocca sottile.

Penso a mia sorella senza pronunciare il suo nome, ma in qualche modo fa ancora più male di quanto vorrei.

 
***

Sabato sera, fottutamente troppo tardi. Fisso il soffitto con le cuffie alle orecchie, mentre uno strano gruppo indie canticchia una loro canzone. Non mi è mai piaciuto l’indie. Ma eccomi qui, piedi contro il muro e testa premuta contro il materasso, a tamburellare le dita sullo stomaco.

Ho un’altra sigaretta spenta tra le labbra, il pacchetto quasi pieno giace tranquillamente in uno dei cestini della spazzatura del bagno della scuola. La mia chitarra è distrutta, niente più che un mucchio di fili e legno. I miei genitori si arrabbierebbero se lo venissero a sapere, ma ignoro tutti i pensieri che riguardano la famiglia fino a quando la sola cosa a cui sto pensando è quanto i miei gusti musicali facciano schifo.

Mi tolgo le cuffiette e afferro la giacca. Non è nemmeno freddo fuori, ma questo si aggiunge alla mia reputazione di ragazzo ansioso. Mentre cammino fuori casa, mi domando se ai miei genitori importa ancora se sgattaiolo di notte. Si può definire ancora sgattaiolare se lo si fa dalla porta principale? O si chiama semplicemente uscire di casa quando si vuole?

Rifletto sul trovare delle risposte a queste domande mentre cammino sul marciapiede, i miei passi e il mio respiro sono la sola cosa che sento. L’aria calda rende la mia pelle appiccicosa e facilmente irritabile, ma ignoro la sensazione mentre chiudo gli occhi. Una macchina mi passa affianco e immagino cosa potrebbe accadere se decidessi di saltare in mezzo alla strada mentre l’auto passa a tutta velocità. I muscoli delle gambe fremono, come se non vedessero l’ora di farlo.

Prima che potessi muovermi, la macchina mi ha già superato. La luce di uno dei lampioni sopra di me continua a lampeggiare minacciosamente e mi chiedo come sarebbe il mondo se fosse sempre buio. È così che ci sente a essere morti? Sarebbe solo una lunga ed eterna distesa di oscurità? Esiste almeno il Paradiso? Cazzo, l’Inferno esiste?

Sono domande che potrei fare a mia sorella. Lei avrebbe roteato gli occhi e mi avrebbe rimproverato, dicendo di non mettere in dubbio le stupidaggini che ti insegnano in chiesa e rimettendomi sulla retta via. Se Jean fosse a casa, probabilmente farebbe delle stupide facce divertenti dietro di me fino a quando lei non lo avrebbe colpito sul naso.

Il pensiero mi fa fermare sul posto. Mi sento come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco e appoggio la mano su quest’ultimo giusto per esserne sicuro. Il mio battito cardiaco inizia ad accelerare e prima che me ne accorga, sto correndo. Il sangue scorre nelle vene, il vento sferza duramente contro il viso e fischia nelle orecchie. I piedi si abbassano sul marciapiede e gli occhi sono offuscati dalle lacrime. Continuo a correre, saltando giù dal bordo del marciapiede e correndo tra le macchine. Nessuno è sveglio in questo momento. Nessuno può vedere come mi sento.

Sono così travolto dalle mie emozioni che non noto nemmeno la persona davanti a me prima che sia troppo tardi. Ci scontriamo sul marciapiede, la testa pulsa abbastanza forte da farmi vedere delle luci lampeggiare. I palmi delle mani scivolano contro l’asfalto e il mio mento sbatte abbastanza ferocemente da far collidere i miei denti gli uni contro gli altri. Porto le sanguinanti mani contro il petto e mi inginocchio. Il corpo trema violentemente, ma la mia visione ora è chiara.

“Cosa cazzo hai che non va?!”

Mi ci vogliono alcuni secondi per riconoscere quella voce e, quando ci riesco, alzo lo sguardo per vedere Levi fissare le ferite ai lati della mia testa. Fa scorrere le dita tra i capelli, sistemando le ciocche bionde per liberare la fronte. Si alza in piedi, le mani finiscono nelle tasche della giacca da football che hanno tutti i giocatori. Il suo nome e il numero di squadra sono stampati sul petto.

“Scusa,” sussurro, cercando di calmare il respiro. Sento la faccia sporca e il mento mi fa male da morire.

“Porca di quella puttana!” Levi si accovaccia di fronte a me e mi prende di scatto il volto tra le mani per guardarmi. “Stai bene?”

“Non dovrei essere io a chiedertelo?” Dico, piuttosto confuso, ma poi mi ricordo che lui viene spinto ogni giorno dopo scuola dalla sua squadra di football. “Lascia stare, non importa. Mi dispiace.”

Mi alzo in piedi e il mondo gira, offuscandomi la vista. Levi mi afferra il braccio per mantenermi stabile, i suoi occhi grigi si assottigliano così tanto da domandarmi se effettivamente riesce a vedermi.

“Cosa cazzo ci fai in giro a quest’ora?” Chiede, e quasi collasso a terra. Levi Ackerman sta parlando con me. Levi Ackerman è preoccupato per il mio benessere. Probabilmente anche per la mia sanità mentale, ma per il momento cerchiamo di ignorare questo dettaglio.

“Sto contemplando il significato della vita,” scherzo. “E mi chiedo perché l’essere umano si è dato così tanto da fare per inventare il tempo. Perché il coprifuoco è una cosa importante? Perché alle persone interessa se sprechi il tuo tempo o no?”

Non ho idea di cosa io stia parlando. Non poi così sorprendentemente, neanche Levi. Scorre di nuovo le dita tra i capelli e butta indietro la testa. Sussulto quando noto un succhiotto sulla sua gola e una strana sensazione mi attanaglia la bocca dello stomaco.

“Scusa ancora,” ripeto, carcando di rimettermi in piedi e non cadere di nuovo a terra.

“Come vuoi,” risponde impassibile e i nostri occhi si incrociarono di nuovo. “Tu sei Eren, giusto?”

Probabilmente sarebbe dovuta essere una domanda, ma il modo in cui lo ha detto mi fa capire che sa esattamente chi io sia. Annuisco lentamente, leccandomi le labbra screpolate.

“Eren Jaeger, perdente residente al suo servizio. Attento, un ragazzo come te non può essere visto con uno scherzo della natura come me.”

Non sono sicuro del perché glielo sto dicendo. A volte la mia bocca riesce ad avere la meglio sul cervello e dice tutte queste cose che non vorrei lasciassero la mia mente. Di solito le persone lo ignorano. In realtà, le persone ignorano me in generale.

“Sei proprio strano,” afferma, e la sua dannata mano è di nuovo tra i suoi capelli. Schiocca la lingua e rimette la mano in tasca. “Hai un aspetto orribile.”

Indosso dei jeans scoloriti e una maglietta con la stampa di un gruppo che non ascolto nemmeno. I miei capelli probabilmente sono uno schifo e riesco a percepire il sangue scorrere verso il collo dal mento. Forzo un sorriso sul volto e apro la bocca per parlare.

“Quando sei un perdente non ti interessa molto del tuo aspetto.”

Levi mi riserva uno sguardo strano, come se stessi parlando una lingua straniera e schiocca di nuovo la lingua.

“Non sei un perdente,” mormora. “Strano? Sì. Perdente? Nah. So che tipi sono i perdenti e non è ciò che sei.”

Il commento mi coglie di sorpresa. Mi sta facendo un complimento? Non so come interpretare ciò che ha appena detto. Mi schiarisco leggermente la gola e mi focalizzo sul catrame del marciapiede.

“Paragonato a te, sono un perdente. Tutti sanno chi sei. Le persone ti amano, capitano di football o no.” Di nuovo, la mia bocca sta vomitando un sacco di parole senza che il cervello faccesse nulla per fermarla.

Levi ha un’espressione illeggibile in volto. Deglutisco duramente e strofino il sangue dal collo.

“Non hai risposto alla mia domanda,” dichiara.

“Quale domanda?”

“Che ci fai qui fuori?”

“Ti ho già risposto,” affermo con testardaggine.

“Non seriamente,” ribatte, roteando gli occhi. Sembra quasi spazientito dalla mia riposta. “Non chiedermi perché m’importa, perché non è vero. Voglio solo sapere se hai intenzione di far cadere a terra un’altra persona.”

“No,” rispondo e mi lecco di nuovo le labbra. Ho bisogno di un burrocacao. Scrivo una nota mentale di comprarne uno più tardi. “Volevo solo fare una passeggiata.”

“È mezzanotte passata.”

“Beh, e tu perché sei fuori?” Sbotto. Levi solleva le sopracciglia dalla sorpresa prima di scrollare le spalle.

“Volevo solo fare una passeggiata,” copia e si allontana prima che io possa aggiungere altro.

Penso di afferrargli il braccio, di parlare con lui ancora per un po’. Ma penso di essermi messo abbastanza in imbarazzo per oggi. Arriccio le dita e ignoro l’ustionante dolore che sento nei palmi. Tiro fuori il telefono dalla tasca e chiamo Jean.

 
***
 
“Perché continui a comportarti così?” Chiede Jean non appena si avvicina al marciapiede con l’auto. “Cosa diavolo è successo alla tua faccia?”

“Stavo combattendo contro un’orda di ammiratrici,” mento, agitando casualmente una mano. “Non crederai mai a quanto ostinate siano.”

Jean non se ne va dal marciapiede. È seduto sul sedile del guidatore, studiandomi il volto. In questo momento mi ricorda il dottor Trook, il terapista che mi ha seguito dopo la morte di Mikasa. Era un vecchio con più rughe di quanto un uomo dovrebbe avere, ma era paziente e gentile. Mi trattava come se avessi cinque anni, ma non mi interessava. Venire trattato come un adulto avrebbe significato prendermi le responsabilità per le mie azioni.

Non ero pronto per questo all’epoca. E dubito lo sarò mai.

“Ho qualcosa in faccia?” Sbotto e Jean scuote la testa. Fa scorrere le dita tra i capelli e il gesto mi ricorda Levi.

“Non puoi continuare così,” sostiene Jean, con quel suo tono da padre incazzato per le bravate del figlio. Scusa, Jean. Quel posto è già occupato. “So che è dura per te, Eren. Hai perso tua sorella e io ho perso mia moglie. Ma penso che provare ad andare avanti sia importante.”

Mi sento come se stessi deglutendo una palla di neve.

“Vuoi che la dimentichi?” Lo accuso, mentre contraggo le mani trasformandole in pugni. Le unghie mi graffiano il palmo e pungono così tanto che praticamente le sento bruciare. “Non è così facile!”

So di star alzando la voce. È una tattica che mio padre usa regolarmente. Se alzi la voce, puoi sovrastare qualsiasi cosa l’altra persona stia dicendo. Se urlo abbastanza forte, posso fingere che Jean non stia dicendo qualcosa che ho bisogno di sentire.

“Lo so, Eren,” mi riferisce. Mi chiedo perché non urli anche lui. Mi chiedo perché non mi sta cacciando dalla sua auto e dirmi di camminare fino a casa. Voglio scusarmi, ma le parole non passano oltre le labbra. Mi appoggio allo schienale e non dico nulla.

Jean sospira prima di accendere la macchina e partire.



Angolo autrice:
Ciao a tutti quanti! 
Ci tengo a specificare che la storia NON è mia. Questa è semplicemente una traduzione che sto portando avanti e che ho deciso di pubblicare sul fandom italiano (per la quale ho il completo consenso dell
autrice). La storia originale in lingua inglese appartiene a Soulofme, su Ao3. 
Inoltre, i capitoli avranno pov alternati tra Eren e Levi. Mi farebbe molto piacere avere una vostra opinione!
Grazie mille, alla prossima!

Mooney
   
 
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