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Autore: Elef    10/02/2019    1 recensioni
Nord America, 1784
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"Si risvegliò di soprassalto, il respiro affannoso, la gola secca e la vista appannata.
«Madre...» biascicò nel suo stordimento.
Percepì un panno bagnato appoggiato sulla sua fronte e poi una forma non definita – ma indubbiamente umana – entrò nel suo campo visivo.
«Madre, sono qui…!» ripeté, allungando un braccio verso di essa. La figura prese l’arto e lo poggiò delicatamente sulla superficie su cui era coricato.
«Tranquillo, va tutto bene.» gli rispose una voce morbida. «Dormi.»
Connor lasciò che quelle parole lo guidassero in un sonno stavolta privo di incubi."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Kenway, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Questa breve fanfiction è nata dai miei filmini mentali dopo aver appreso che, ufficialmente, Connor si sposò con una donna indigena di un altro villaggio e con lei ebbe almeno tre figli, un maschio e due femmine. Io:nhióte, la più giovane, la vediamo comparire assieme al paparino nel numero a lui dedicato della serie di fumetti Assassin's Creed: Reflections. Quindi, anche se tanto di ciò che andrete a leggere non è materiale ufficiale, sappiate che la base invece lo è.
In fondo ai capitoli troverete delle brevi spiegazioni e delle curiosità legate alle ricerche che ho fatto. Perché per me è molto importante che le mie idee abbiano un solido supporto, anche se si tratta di semplici fanfiction.

Enjoy!

 

 

 


 

CAPITOLO 1

ECHI DI VIOLENZA

 

 

All’inizio fu buio, un buio pesto. Poi, dei barlumi di luce cominciarono a farsi strada in quell’oscurità, esili ed effimeri frammenti di forme e colore in cui riusciva a distinguere dei volti umani. Si sentì come risucchiato in un vortice e poi fu in mezzo alla neve.

Doveva combattere, lo sapeva, ma contro chi?

Si girò e la risposta si presentò davanti ai suoi occhi: un mercenario dai lunghi mustacchi, grosso persino più di lui, si lanciò all’attacco, puntando al suo viso con l’affilata baionetta del suo moschetto. Connor lo schivò appena in tempo e fece roteare il suo tomahawk, sbilanciandolo e disarmandolo. Il colosso cadde a terra e il voluminoso colbacco nero gli scivolò dalla testa rivelando il punto in mezzo alla fronte in cui l’assassino andò a piantargli l’ascia, uccidendolo.

Dalle gabbie sormontate sui carri del convoglio mercenario, proveniva il vociare implorante di almeno una ventina di prigionieri indigeni. Doveva liberarli, per questo si trovava lì.

«Muori, selvaggio!» ruggì alle sue spalle uno dei compagni del bruto. Un altro urlo si sovrappose, un ululato che Connor riconobbe come il grido di un guerriero Kanien'kehá:ka. Non fece quasi in tempo a voltarsi che l’altro mercenario cadde prono sulla terra innevata, una grande freccia con la coda di piume d’aquila conficcata nella schiena. Il giovane cacciatore a cui apparteneva quella freccia era in piedi dietro di lui, lo sguardo fiammeggiante e la postura fiera di un ragazzo alla soglia del mondo adulto, ma che aveva ancora molto da imparare; in un attimo, Connor si ritrovò a gettarsi su di lui per evitare che i proiettili dei moschetti lo colpissero. Colpirono lui, invece, e lo avvertì con chiaro dolore ma non poteva mollare. Il guerriero più esperto, fratello di quello più giovane, stava combattendo da solo contro altri due mercenari e i tre rimanenti stavano accorrendo per prendere parte allo scontro. Doveva aiutarlo o non ce l’avrebbe fatta.

Sentì di possedere il potere dell’aquila e non ci pensò due volte ad usarlo. Come un fulmine, planò alle spalle di un mercenario e gli spinse la lama celata nel collo. L’uomo ebbe la forza di voltarsi e, con suo grande stupore, Connor si ritrovò puntato addosso gli occhi plumbei di suo padre.

«Non credere che abbia intenzione di darti un buffetto, né di chiedere perdono. Non voglio perdermi in rimpianti.» disse Haytham Kenway a denti stretti, mentre cercava con una mano di fermare il fiume di sangue che sgorgava dalla ferita. «Avrei potuto ucciderti, sai.» aggiunse a fatica, rivoli cremisi che gli colavano dalla bocca. «Ma il mio orgoglio nei tuoi confronti me lo ha impedito.»

Il giovane lo afferrò per evitare che cadesse rovinosamente a terra e non fece in tempo a pensare a nulla che alle sue spalle avvertì il ritmo calzante di zoccoli al galoppo sull’arida terra.

Si girò e non si trovava più in mezzo alla foresta innevata ma nello spiazzo di un villaggio bruciato; il corpo esanime che aveva tra le braccia non era più quello di suo padre ma quello del suo migliore amico, Kanen’tó:kon. A poca distanza da lui, sul suo possente destriero, troneggiava George Washington, lo scettro con il Frutto dell’Eden in una mano e lacrime di pentimento a rigargli il viso.

«Sono stato costretto, Connor!» lamentò. «Era un’altra epoca! Non avrei mai bruciato il tuo villaggio!»

L’assassino sentì un moto di rabbia crescergli in corpo come una tempesta improvvisa. «Tuttavia nessuno vi costringe a tenere con voi quell’artefatto maledetto!» replicò furibondo, lasciando a terra la salma di Kanen’tó:kon per andargli incontro.

L’espressione di Washington cambiò repentinamente passando dal rimorso alla sete di potere.

«E nessuno - nemmeno tu - può portarmelo via, uomo-lupo

Come se fosse stato evocato dal comandante stesso, il giovane sentì il potere dello spirito animale dentro di sé e ne approfittò per nascondersi alla vista. In pochi istanti raggiunse Washington e riuscì a disarcionarlo ma l’uomo lo respinse con lo scettro. Un’ondata di dolore offuscò per un attimo ogni percezione visiva di Connor e dal profondo nero in cui si ritrovò a brancolare, giurò di sentire una voce in lontananza tentare di calmarlo.

Quando le immagini riemersero dall’oscurità, era circondato da decine e decine di copie di Washington, sul tetto in vetro della piramide che il comandante dell’altra realtà, preso dalla megalomania, si era fatto costruire nel cuore di New York.

Il potere dell’orso venne in suo aiuto; l’impatto delle sue mani con la superficie causò l’esplosione del vetro.

Connor cadde tra pezzi di lastra smaltata e continuò a precipitare nel buio per quelle che sembrarono leghe.

Qualora la sua caduta si arrestò fu solo perché qualcuno lo aveva afferrato per il bavero e sollevato da terra, sbattendolo contro il tronco di un albero, in un giorno assolato di primavera. E quel qualcuno non era altri che Charles Lee.

Nonostante il suo aspetto non desse l’idea di un uomo particolarmente rispettabile, i suoi occhi cerulei conservavano una freddezza tale che si sentì come trapassato dal suo sguardo.

«Ricordatelo, ragazzo: tu non sei niente, se non un granello di polvere.»

L’assassino cercò di divincolarsi dalla presa ferrea ma riuscì ad avere la meglio solamente nel momento in cui qualcuno piantò una lama dentro la schiena del suo più acerrimo nemico.

«È troppo tardi.» rantolò Lee facendo qualche passo indietro. Con un dito insanguinato, indicò delle colonne di fumo che si innalzavano al di sopra della foresta di conifere e si contorcevano in un cielo tinto di rosso. «Hai solamente perso tempo.» rincarò, prima di cadere a terra senza vita.

Da dietro, si delineò la sagoma di un uomo di colore appoggiato ad un bastone, con un cappello ad ampie falde in testa.

«Achille!» esclamò Connor, riconoscendo il suo mentore.

«Va’, ragazzo, corri a casa.» lo incoraggiò semplicemente il vecchio e lui si allontanò.

Lo spirito dell’aquila gli prestò ancora una volta le sue ali. Connor si librò al di sopra della foresta prima che il fuoco di un incendio improvviso potesse chiuderlo nella sua morsa e atterrò alla soglia della palizzata che circondava il suo villaggio. Una ragazza dalla pelle d’ebano, capelli crespi cortissimi e vestiti da uomo logori addosso uscì correndo, impugnando una pistola a pietra focaia che gli puntò contro.

«Fatti da parte o ti faccio male!» urlò, fronteggiandolo tenacemente.

Lui sapeva chi era: il suo nome era Patience Gibbs, giovanissima schiava proveniente da Rhode Island che aveva tentato – senza successo – di convincere ad entrare a far parte della Confraternita.

Tuttavia in quel preciso momento era l’ultima cosa di cui gli importava. «Sto solo cercando mia madre.» si ritrovò a rispondere con la voce incrinata dalla disperazione. Lei abbassò l’arma.

«Allora sbrigati, perché sta morendo.» gli disse prima di scappare, sparendo tra le lingue di fuoco nella foresta.

L’assassino si addentrò nel villaggio in fiamme e si diresse in fretta e furia verso la casa lunga dove sapeva che avrebbe trovato sua madre.

«Istá! (*)» gridò più che poteva mentre entrava. Cercò di spostare una trave di legno che sbarrava la strada ma era come se tutta la sua forza fosse svanita all’improvviso. Nemmeno gli spiriti animali erano con lui.

«Istá!» urlò di nuovo guardandosi attorno e vedendo solo fuoco e legno bruciato.

«Ratonhnhaké:ton!» lo chiamò una voce da un cumulo di macerie in fondo all’enorme stanza.

«Ti salverò, istá! Stavolta ci riuscirò!» Connor tentò disperatamente di raggiungerla ma gli ostacoli da superare sembravano non finire mai.
«Ratonhnhaké:ton, vattene da qui! Scappa!» gridò sua madre, di cui ora riusciva a distinguere la forma, segnata da ferite e bruciature e schiacciata sotto grosse travi crollate.

«No! Non ti lascio!» protestò il giovane inginocchiandosi davanti a lei e cercando, invano, di spostare i pesi che le gravavano addosso. Si sentì afferrare debolmente un braccio.

«Devi farlo. Devi andare o morirai.»

Connor conosceva bene quello sguardo triste, quell’espressione di profondo dolore sul volto insanguinato; ce l’aveva marchiata a fuoco nella mente da tempo immemore.

«Ti ho già persa due volte, madre!»

«Tu non mi hai mai persa, figlio mio. Io vivo dentro di te. Io sarò sempre con te.»

Kaniehtí:io allungò una mano per carezzargli la guancia. Nel farlo, una piacevole sensazione di fresco si irradiò per tutto il suo corpo, partendo dalla fronte.

«Ti voglio bene.»

Fu l’ultima eco che udì prima di essere nuovamente avvolto dal buio totale.
 

***
 

Si risvegliò di soprassalto, il respiro affannoso, la gola secca e la vista appannata.

«Madre...» biascicò nel suo stordimento.

Percepì un panno bagnato appoggiato sulla sua fronte e poi una forma non definita – ma indubbiamente umana – entrò nel suo campo visivo.

«Madre, sono qui…!» ripeté, allungando un braccio verso di essa. La figura prese l’arto e lo poggiò delicatamente sulla superficie su cui era coricato.

«Tranquillo, va tutto bene.» gli rispose una voce morbida. «Dormi.»

Connor lasciò che quelle parole lo guidassero in un sonno stavolta privo di incubi.


 


 


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Un caloroso saluto a tutti coloro che sono arrivati fin qui a leggere. Anche se non avete voglia di lasciarmi recensioni, sono contenta che vi siate incuriositi!
Giusto per far comprendere a tutti le varie citazioni contenute in questo capitolo: tralasciando la parte iniziale, abbiamo un Haytham nei suoi ultimi istanti di vita e con lui un po' di feels; comparsata di Kanen’tó:kon con altri feels, perché sì; un George Washington psicopatico proveniente dall’espansione La Tirannia di Re Washington, insieme al fatto che Connor sia un mutaforma; Charles Lee e non aggiungo altro; comparsata di Achille, non poteva mancare il “secondo padre” del nostro eroe; Patience Gibbs, che appare nel contenuto scaricabile Aveline di Black Flag, anche se l’accenno dell’episodio del tentativo fallito di Connor di reclutarla l’ho immaginato io; infine, ancora feels con l’ultima straziante scena, una ripresa del ricordo più doloroso del nostro ragazzo.

 

(*) Parole in Mohawk

Istá = mamma

  
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