Storie originali > Soprannaturale > Fantasmi
Segui la storia  |       
Autore: Old Fashioned    10/02/2019    20 recensioni
Una favolosa tenuta ai Caraibi smerciata per pochi soldi: per James Donovan, imprenditore non troppo fortunato, sembra l'affare della vita. Peccato che in quel luogo ci sia qualcosa che spinge chiunque vi si avventuri a scappare dopo poco in preda al terrore.
Toccherà al meticoloso uomo di fiducia del signor Donovan, Roderick Austin, occuparsi della faccenda. Egli indagherà sul passato della tenuta scoprendo verità scomode, che qualcuno vorrebbe assolutamente tenere nascoste.
Seconda classificata al contest “Terapia d'urto” indetto da molang sul forum di EFP.
Prima classificata al contest "I Doni della Medicina” Indetto da Dollarbaby sul forum di EFP e giudicato da Shilyss, a pari merito con "Di ghiaccio e di oscurità" di Yonoi
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Gente, abbiamo finito anche questo mappazzone. Grazie per avermi seguito fin qui, un grande grazie a chi mi ha lasciato un parere.
Alla prossima!^^



Capitolo 3

Austin rientrò alla villa dopo essersi fermato a comprare da mangiare. Andò in cucina, passò una spugna sul tavolo e lo asciugò, vi stese sopra una tovaglietta di carta in modo che fosse esattamente a filo del bordo, al centro di essa posò una confezione con un’insalata pronta ai cui lati allineò con cura le posate, la forchetta a sinistra e il coltello a destra e con la lama rivolta verso l’interno.
Fatto questo prese un bicchiere di plastica e lo collocò esattamente in corrispondenza della piega mediana della tovaglietta, poi trasse dal sacchetto del supermercato una bottiglia d’acqua e per qualche secondo rimase indeciso su dove appoggiarla per non rovinare la simmetria. Alla fine si riempì il bicchiere e poi la ripose nuovamente nel sacchetto.
Si stese un tovagliolo sulle ginocchia.
Consumò il pasto con la compitezza che avrebbe potuto ostentare a Buckingham Palace, quindi raccolse tutti i rifiuti, suddividendo carta, plastica e organico in diversi contenitori. Pulì il tavolo.
Quando ebbe finito, prese il libro che la signora Boyer gli aveva venduto e cominciò a sfogliarlo.
Ci trovò ben poco di interessante, in relazione al suo problema. Il testo aveva l’obiettività dei pamphlet anti-giapponesi della seconda guerra mondiale e le fotografie, perlopiù sgranate e poco nitide, avrebbero potuto provenire da Christineberg come da qualsiasi altra tenuta dei Caraibi. L’unica immagine che Austin trovò vagamente interessante fu quella dei coniugi Barrow, in piedi davanti alla fontana del cortile principale. La foto ricordava vagamente ‘American Gothic’, anche se i due avevano l’aria decisamente meno arcigna della coppia di Grant Wood. La donna anzi sorrideva e sembrava sul punto di salutare qualcuno con la mano. Era una bella signora dai boccoli biondi, snella, dall’aria elegante.
A un tratto sentì le note modulate di un canto. Tese l’orecchio cercando di localizzare la provenienza del suono e si trovò a rabbrividire, perché di colpo l’aria si era fatta decisamente più fredda. Si alzò e si guardò intorno passandosi le mani sulle braccia come per riscaldarsi, poi si diresse silenziosamente verso il punto da cui gli pareva che provenisse la voce.
La sua idea era quella di cogliere sul fatto l'autrice dei vocalizzi, o perlomeno di individuare la zona della villa in cui lei e i suoi complici si nascondevano, ma invariabilmente trovava vuota ogni stanza su cui si affacciava, mentre il canto sembrava sempre provenire da quella successiva. Alla fine raggiunse una porta socchiusa, oltre la quale c'era un vano senza porte né finestre. Il canto si interruppe. Egli accese la luce e si trovò di fronte il muro deturpato di cui Borowicz aveva mandato la fotografia.
Lì il freddo era particolarmente intenso.
Austin osservò l'ambiente: soffitti altissimi, una lampadina fioca che pendeva da un filo. Picchiettò con le nocche le gelide pareti, che però gli rimandarono ovunque lo stesso suono. Fece scorrere lo sguardo sul muro vandalizzato, ma al solito non riuscì ad attribuire ai segni che lo deturpavano nessun significato a parte quello di rovinare un lavoro appena fatto.
Uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Prese il mazzo di chiavi che il signor Donovan gli aveva lasciato e con quello che doveva essere una specie di passepartout fece scattare la serratura.
La guardò poco soddisfatto: era evidente che lo stesso mazzo di chiavi, magari con un passepartout identico, doveva averlo anche chi stava girando per la villa insieme a lui, perché da nessuna parte c'erano segni di scasso, eppure le porte che lui era certo di aver chiuso a chiave – e lui era uno che in queste cose non si sbagliava – erano tutte aperte.
Si chiese quale fosse il razionale alla base di quel comportamento: forse i vandali volevano fargli credere che ci fosse il famoso fantasma? Alzò le spalle: avevano decisamente sbagliato persona.

Andò a Cruz Bay, entrò nella prima ferramenta e comprò una serie di attrezzi, lucchetti e catenacci, quindi rientrò alla proprietà.
Il resto del pomeriggio lo passò ispezionando ogni singolo edificio di Christineberg. Si portava dietro una planimetria, una tavoletta di supporto per scrivere, una gomma e una matita, oltre naturalmente alle attrezzature acquistate: in ogni costruzione sbarrava tutte le finestre dall'interno, ispezionava il luogo in ogni sua parte, prendeva qualche fotografia, annotava eventuali appunti sulla mappa, quindi usciva e applicava sulla porta un catenaccio nuovo, chiuso con uno dei lucchetti acquistati. Da ultimo, fotografava anche la porta dall'esterno.
Quando terminò il lavoro, ormai era l'imbrunire.
Rientrò nella villa e anche lì fece il giro delle finestre, bloccando il meccanismo di ognuna di esse con diversi giri di filo di ferro, in modo che fosse impossibile scassinarle dall'esterno. Lo fece con particolare cura nella camera da letto della signora Barrow, ovvero quella dove l'aveva trovata per ben due volte aperta.
Passò poi alle porte, bloccando serrature e catenacci in modo che fosse impossibile azionarli dall'esterno. A quel punto, eseguì un nuovo giro d'ispezione in tutta la dimora, come sempre non trovando anima viva.
Si guardò intorno pensoso: se n'erano andati? Li aveva chiusi fuori? Erano nascosti in qualche stanza segreta che non aveva ancora individuato? Ricontrollò la planimetria: le tavole risalivano agli anni '60 del secolo precedente, epoca in cui probabilmente erano stati eseguiti i rilievi catastali di tutte le proprietà dell'isola. Porte nascoste o passaggi segreti precedenti a quell'epoca ovviamente non apparivano sulle mappe.
Tornò in cucina. Il libro sugli orrori di Christineberg, che aveva lasciato chiuso sul tavolo, era aperto e a pagine in giù sul pavimento. Alzò stupito le sopracciglia e istintivamente si guardò intorno, ma tutto sembrava a posto. Si chinò a raccoglierlo e notò che era aperto esattamente sul ritratto di Ingeborg Barrow.
Lo ripose e di nuovo si guardò intorno. Un libro non cade da solo, si disse. Un libro cade se a esso viene applicata una forza sufficiente a spingerlo giù dal tavolo su cui è posato.
Era quindi evidente, tornando alle sue ipotesi di prima, che i personaggi che giravano nella villa non se n'erano andati e non li aveva chiusi fuori, chiunque essi fossero.
Forse lo stavano addirittura tenendo d'occhio, con sistemi che non era ancora riuscito a scoprire.
Si forzò ad apparecchiare ostentando indifferenza e consumò il pasto tendendo l'orecchio a ogni minimo rumore.
Nulla turbò la quiete. Il silenzio era tale, anzi, che se si concentrava riusciva a udire il battito del proprio cuore. All'esterno non tirava un filo d'aria e sembrava che anche i mille rumori della notte tropicale si fossero sopiti. Era come se tutto fosse immobile in attesa di qualcosa.
Austin guardò l'orologio, quindi si alzò con l'intento di fare un nuovo giro di ispezione. Tolse la suoneria al cellulare e se lo infilò in tasca, poi si avventurò nei corridoi ormai immersi nelle tenebre portandosi dietro solo una torcia elettrica, per non annunciare il suo arrivo tramite l'accendersi e spegnersi delle luci nelle varie stanze.
Questa volta li avrebbe sorpresi e poi avrebbe chiamato la polizia, così avrebbe sistemato definitivamente la questione.

Raggiunse il salone delle feste e vi si affacciò. La stanza era praticamente vuota. Il pavimento sgombro permetteva di apprezzare il sontuoso disegno di una palladiana bianca e rossa, in alto si coglieva il vago baluginio di gocce di cristallo.
I pochi mobili erano stati spinti contro le pareti, e coperti com'erano di lenzuoli bianchi evocavano sinistre presenze.
Austin fece qualche passo all'interno e subito fu investito da un'ondata di freddo così intenso che si trovò a rabbrividire. Nello stesso momento, il fascio di luce della torcia si affievolì fin quasi a scomparire, trasformandosi in un vago lucore giallastro.
Sì udì l'eco flebile di un canto femminile.
In quella luce fioca, ad Austin parve che uno dei lenzuoli stesse ondeggiando. Puntò la torcia in quella direzione, ma non riuscì a capire se quello che stava vedendo era un reale movimento o solo un gioco di ombre.
Si trovò a deglutire: forse aveva scoperto in che modo la gente si nascondeva nella villa.
Forse sotto quel telo – sotto quanti teli, a questo punto? – c'era qualcuno che chissà da quanto tempo lo stava tenendo d'occhio.
Un passo dopo l'altro, si avvicinò. Il freddo era intenso, la sensazione di essere osservato anche. Più la luce investiva il lenzuolo ormai ingrigito, più esso appariva immobile.
Si avvicinò ancora, rimase immobile con l'orecchio teso, pronto a cogliere il minimo rumore. La stoffa si era mossa o era semplicemente passato un refolo d'aria?
Allungò una mano, afferrò un lembo del lenzuolo. Tirò.
Il telo cadde a terra in uno sbuffo di polvere. Austin si trovò a fare un salto indietro col cuore che gli balzava nel petto, ma poi emise in un sospiro sollevato il fiato che aveva involontariamente trattenuto: quella che gli era apparsa davanti era solo una vecchia pendola.
Sospirò e si passò una mano sulla fronte, umida di sudore nonostante il freddo, e a quel punto percepì un lieve odore di fumo.
Si girò brusco e corse nella direzione da cui era venuto, guardandosi intorno alla ricerca di possibili focolai d'incendi. Quando raggiunse la zona delle stanze di servizio, si accorse che il fumo stava uscendo dalla cucina. Vi entrò e si trovò davanti il libro su Christineberg, in mezzo al pavimento, che bruciava a fiamma chiara.
Lesto corse al lavello, spillò una ciotola d’acqua e gliela buttò sopra, e le fiamme si spensero sfrigolando. Rimase per qualche secondo immobile a osservare il mucchio di cenere fumigante, poi dal piano superiore giunse di nuovo il canto, questa volta associato allo sbattere di una finestra.
Corse su e a colpo sicuro si diresse verso la camera di Ingeborg Barrow: le ante erano spalancate, i vetri coperti di brina. Sul muro, sempre incisa con qualcosa di acuminato, era comparsa una parola:

Verità

Dapprima si immobilizzò, poi fece girare intorno lo sguardo alla ricerca di qualcosa che potesse fungere da arma. Perché a quel punto era chiaro: non solo c’era qualcuno, ma quel qualcuno era vicinissimo a lui, forse anche in quel preciso momento, ed era abilissimo a rendersi invisibile.
Si chiese che cosa significasse quella scritta. Perché proprio ‘verità’ e non, ad esempio, ‘andatevene’?
Non c’era risposta, ovviamente.
Non trovando nulla che potesse essere usato a scopo difensivo, infilò la mano in tasca e strinse in pugno il mazzo di chiavi, facendo sì che esse sporgessero come aculei fra un dito e l’altro, poi avanzò adagio.
Nella villa frattanto si era ristabilito il silenzio, la patina di ghiaccio che aveva ricoperto i vetri si andava sciogliendo e gocciolava adagio sul pavimento. Assieme alla brezza tiepida, entravano dalla finestra aperta il profumo del frangipani e il canto degli uccelli notturni.
Con il cuore che ancora gli pulsava nelle orecchie, Austin si avvicinò adagio e osservò il meccanismo di chiusura: il filo di ferro non c’era più. Qualche spezzone era sparso in giro, ma del resto non c’era traccia.
Serrò comunque le ante, vi trascinò contro un mobile per maggiore sicurezza, quindi tornò in cucina. Lì le cose erano come le aveva lasciate: al centro del pavimento c’era ancora la pozzanghera annerita con dentro quel che rimaneva del libro, la luce era accesa e la temperatura normale. Per scrupolo andò a controllare anche i suoi effetti personali, ma di nuovo li trovò intatti.
Certo che non avrebbe più dormito, tanto per fare qualcosa si mise a pulire il pavimento.

§

Seduto nel patio di un caffè del centro, una tazza fumante davanti, Austin rifletteva sugli avvenimenti della notte precedente.
Per la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che pesci pigliare. Non capiva in che modo i misteriosi sabotatori riuscissero a fare quello che aveva visto, né quanti fossero o dove si nascondessero. Possibile che sotto alcuni dei lenzuoli che coprivano i mobili ci fossero in realtà delle persone? Come entravano in stanze chiuse a chiave? Come graffiavano un muro fino ai mattoni senza lasciare un'impronta sul pavimento?
Nessuna di quelle domande aveva una risposta. Non ne aveva una plausibile, perlomeno.
Bevve un sorso, quindi riappoggiò la tazza esattamente nel cerchio marrone che essa aveva lasciato sul tovagliolo, poi la girò in modo che il manico fosse parallelo al bordo del tavolino. Raddrizzò il cucchiaino, che nel movimento si era inclinato di qualche grado.
Trucchi cinematografici? Avrebbero richiesto attrezzature che non aveva trovato da nessuna parte. Fenomeni naturali o perlomeno fisici? Aveva sentito dire che le famose pareti che trasudavano sangue di certe case infestate erano in realtà eventi perfettamente spiegabili, legati a umidità, muffe o altri normalissimi problemi. Peccato che i muri di Christineberg fossero da quel punto di vista del tutto sani.
Allucinazioni, allora? Suggestione? Sonnambulismo? Magari era lui stesso che prima sigillava le finestre e poi andava a riaprirle in stato di trance?
Ormai era disposto ad aspettarsi qualsiasi cosa.
Bevve un altro sorso di caffè e per un po' rimase a guardare la gente che passava. Doveva essere arrivata una nave da crociera e gruppetti di turisti in abiti leggeri, con spalle e nasi arrossati dal sole tropicale, si guardavano intorno alla ricerca di divertimenti. Operatori locali offrivano souvenir ed escursioni.
Aggrottò le sopracciglia all'ennesimo strillo di bambino e si girò in modo da dare le spalle alla chiassosa masnada: aveva bisogno di concentrarsi e quel disordine non faceva altro che renderlo nervoso.
Nella sua nuova posizione, si trovò a contemplare una di quelle cassette di vecchi libri che andava di moda tenere nei locali. Generalmente erano piene di manuali di cucito del secolo precedente o di enciclopedie per ragazzini, quindi niente di interessante, ma in quel caso una copertina attirò la sua attenzione. Si trattava di un disegno a colori che riproduceva il ritratto dei coniugi Barrow, con tanto di fontana zampillante alle loro spalle. Il titolo recitava: 'Mama Inga: il jumbie[1] buono'.
Austin raccolse il libro e lo osservò: sembrava una pubblicazione di qualche ufficio turistico locale e faceva parte di una collana che trattava delle curiosità di St. John. A giudicare dallo stato di conservazione e dalla grafica, doveva avere come minimo trent'anni ed era il classico esempio di libercolo che durante le grandi pulizie veniva indirizzato alle vendite di beneficenza o alle biblioteche condivise.
Aprì la valigetta che aveva con sé, tirò fuori 'Scienza della Logica', di Hegel, e lo depose nella cassetta, quindi cominciò a sfogliare il libro che aveva trovato.
Praticamente fu come prendere il libro dell'associazione storica e rivoltarlo come un calzino. Forse quello esagerava dalla parte opposta, ma descriveva tutt'altro che una crudele negriera dedita a sevizie ed esperimenti su cavie umane.
Ingeborg Barrow – Mama Inga, come affettuosamente veniva chiamata – veniva rappresentata come una specie di filantropa, impegnata in diuturne opere di carità. Laureata in medicina, aveva allestito un ambulatorio per curare gli schiavi, ma in pratica tutti gli abitanti dell'isola si recavano da lei in caso di bisogno. La sua tenuta era un impianto modello, con tanto di orari di lavoro e pensione per gli anziani. I bambini andavano a scuola, i nuclei familiari che si formavano ricevevano abitazioni separate. Vi erano orti e animali da cortile per provvedere alle necessità degli schiavi.
Gli schiavi, peraltro, lo erano solo di nome, perché ricevevano un regolare salario. Morendo senza eredi, la donna aveva dato disposizioni affinché gli essi fossero liberati e Christineberg diventasse di loro proprietà.
Alla morte di Mama Inga, diceva a quel punto il libro, era nata anche una curiosa leggenda: si diceva che il suo fantasma continuasse ad aleggiare nella tenuta, ma solo per aiutare chi vi si recava. Qualche escursionista che si era perso nei dintorni di Christineberg aveva raccontato di essersi imbattuto in una vecchia signora in abiti antiquati che lo aveva accompagnato fino a che non aveva ritrovato la strada e poi era misteriosamente scomparsa senza lasciare tracce.
Altri dicevano che, colpiti da malattie, si erano recati alla tenuta e vi avevano dormito. Mama Inga era apparsa loro in sogno e aveva dato suggerimenti per cure che si erano poi rivelate efficaci.
In generale, spiegava il libro, non era difficile incontrare quel gentile jumbie. Più spesso lo si sentiva cantare, ma a volte si faceva vedere come anziana signora dai capelli bianchi oppure lasciava altri segni del suo passaggio.
Una fotografia mostrava una parete sulla quale era inciso un grazioso disegno a motivi floreali.
A quel punto, Austin abbassò il libro. Per quanto sciocco e inattendibile, quel testo gli dava importanti informazioni: primo, esisteva davvero una leggenda sul fantasma. Secondo, chi stava tentando di sabotare gli affari del signor Donovan doveva come minimo conoscerla, perché imitava in tutto e per tutto quelle che il libro descriveva come sue tipiche manifestazioni.
Infilò l'opuscolo nella valigetta, quindi pagò il conto e se ne andò.
Quando fu sulla strada tirò fuori la mappa di Cruz Bay, individuò un negozio di audio e video e vi si diresse.

§

Austin.”
Senta, il tempo stringe, la banca deve aver fiutato qualcosa e mi sta col fiato sul collo. Come stanno andando le cose?”
Ci sto lavorando, signor Donovan.”
Beh, veda di sbrigarsi. Questi mi stanno alle costole.”
Il problema è che non abbiamo a che fare con degli sprovveduti.”
Dall'altra parte ci fu qualche secondo di meditativo silenzio, quindi Donovan chiese: “Lei pensa che quelli là potrebbero essere stati inviati dalla banca? Mi mandano a puttane tutto l'investimento, io non riesco a restituire il prestito e loro si beccano la tenuta?”
Devo ancora capire chi sono.”
Ma la sua impressione qual è?”
Al momento non sono in grado di elaborare un parere attendibile,” rispose Austin in tono neutro.
Donovan imprecò e chiuse la comunicazione.

§

Seduto al tavolo della cucina, Austin controllò lo schermo del computer portatile. Quel pomeriggio aveva nascosto una videocamera a infrarossi nella stanza della signora Barrow. Di tanto in tanto controllava se c'erano movimenti sospetti, ma fino a quel momento non aveva visto nulla.
Improvvisamente le luci sfarfallarono, si affievolirono e poi ripresero l’intensità solita. Da qualche punto imprecisato della casa giunse l’eco di un canto.
Con una strana sensazione di aspettativa, l’uomo fissò lo sguardo sullo schermo del computer.
Sul muro sembrò delinearsi una figura umana. Dapprima appena un’ombra, che pian piano andò definendosi e arricchendosi di particolari, fino a diventare una donna con una pettinatura ottocentesca e un abito lungo.
Austin trattenne il respiro.
Ella si mosse, dapprima lentamente, poi in modo sempre più percettibile. Di pari passo, la sua sagoma diafana andava in qualche modo facendosi tridimensionale, pur mantenendo l’aspetto incorporeo. Dietro di lei si intravedevano i segni del muro come attraverso un vetro semiopaco.
Mama Inga,” mormorò Austin.
Come se l’avesse sentito, l’apparizione si girò verso la videocamera. Sebbene l’uomo fosse certo di averla nascosta bene, ella la individuò immediatamente e vi si avvicinò fissandola con intensità.
Austin deglutì e si fece indietro sulla sedia mentre lo schermo del computer veniva completamente invaso dal volto della misteriosa signora e gli occhi di lei, neri come pozzi nel lucore innaturale dell’infrarosso, scrutavano attenti, come alla ricerca di qualcosa.
Infine guizzarono sicuri e si avvinsero al suo sguardo.
Egli avrebbe voluto sottrarsi, allontanarsi l’apparecchio, uscire dalla stanza, ma si accorse di non riuscire a muovere un muscolo. Quegli occhi non lo abbandonavano.
Il computer si spense facendolo sussultare, poi arrivò il freddo. Un gelo siderale, che istantaneamente coprì di brina lo schermo ormai nero dell’apparecchio e tutta la superficie del tavolo. Di nuovo le luci sfarfallarono e si affievolirono, negli armadietti le stoviglie sbatacchiarono come per effetto di una scossa tellurica.
A quel punto, Austin ebbe la consapevolezza di non essere più solo.
Fioco e dolce, echeggiò il canto. Era vicinissimo.
Egli rimase immobile, con la precisa percezione dei capelli che lentamente gli si rizzavano sulla nuca. “Chi sei?” mormorò. Il fiato gli si condensò in una nuvola di vapore.
Non giunse risposta. Eppure Austin aveva la netta sensazione di occhi attenti che lo scrutavano.
Strinse i pugni così forte che quasi si piantò le unghie nei palmi, poi si girò di scatto. Colse la fugace visione di una figura in piedi dietro la sua sedia, ma così diafana che quasi si confondeva con la parete, poi la luce e la temperatura tornarono normali e fu come se essa non fosse mai esistita.

Per un tempo imprecisato, egli rimase immobile, ansante, con lo sguardo fisso sul computer spento e le braccia penzoloni. Si sentiva spossato come dopo una corsa di chilometri, il sudore freddo gli aveva appiccicato la camicia alla schiena.
Si passò una mano sulla fronte e lasciò vagare intorno lo sguardo di chi si è appena svegliato da un coma. Inutile girarci intorno: era sconcertato. Se pensava alle teorie con cui aveva affrontato la faccenda della villa, si sentiva come uno che ha costruito un castello con dodici mazzi di carte e se lo vede franare a terra per un colpo di vento.
Non c’era nessuno, a Christineberg, e non c’era per un semplice motivo: che la tenuta era infestata da un fantasma.
Niente sabotatori, niente concorrenti astuti del signor Donovan. Ora capiva la reticenza dell’avvocato Keynes e il rancore della signora Boyle, ora capiva perché quel posto era stato letteralmente regalato.
Passò un dito sullo schermo del computer, che dopo essere stato coperto di brina era rimasto imperlato di condensa. Nessun fenomeno fisico a lui noto sarebbe stato in grado di produrre un effetto del genere. Non certo in meno di tre secondi e con una temperatura esterna intorno ai cento gradi.
Si mosse sulla sedia, facendo scricchiolare il vecchio legno. Recuperò un fazzoletto di carta e asciugò meticolosamente il portatile, quindi lo ripose.
Di nuovo si guardò intorno, ma ormai non c’era più nessuno a parte lui.
Si alzò con fatica, appoggiandosi al bordo del tavolo, poi guardò fuori dalla finestra: stava albeggiando, il cielo si era fatto color pervinca, vagamente sfumato di rosa verso il basso. Gli edifici emergevano pian piano dalla foschia del mattino, i primi uccelli diurni cominciavano a far sentire i loro richiami.
Si portò all’aperto ed emise un sospiro di sollievo nel sentire l’aria tiepida sulla pelle. Dopo il silenzio gelido della villa, gli parve di cogliere nella natura innumerevoli, rassicuranti rumori.
Attraversò il cortile sul quale si affacciavano gli edifici di servizio, raggiunse il limitare della vegetazione. Coperto di rampicanti, il piccolo mausoleo appariva indistinto nelle brume dell’alba.
Lo raggiunse. Tutto era come l’aveva lasciato, ma al tempo stesso era come se non lo fosse, perché in ultima analisi era cambiato il significato di quello che stava vedendo: ciò che aveva fino a quel momento interpretato come vandalismi o sabotaggi era in realtà la protesta di un fantasma adirato.
Si appoggiò a una delle colonnine dell’edificio mentre una sorta di vertigine minacciava di sopraffarlo: un fantasma. I fantasmi non esistono, avrebbe detto a chiunque prima di quella notte.
I fantasmi sono proiezioni psichiche, sono leggende per spaventare gli allocchi. Sono il retaggio irrazionale di una cultura popolare basata su credenze e non su dati scientifici.
Sì, col cazzo,” si trovò a dire a voce alta.
Abbassò gli occhi sulla tomba e per un po’ rimase a contemplarla in silenzio. Cosa avrebbe dovuto fare? Non lo sapeva.
Riusciva a riconoscere una contabilità fraudolenta con una semplice occhiata ai libri mastri, gli bastava un colloquio di dieci minuti per individuare il marcio in un’offerta commerciale, sapeva stare dietro a un debitore con la perseveranza impersonale di un branco di iene che insegue il bufalo ferito, ma fino a quel momento aveva relegato con disprezzo il soprannaturale tra le chiacchiere da comari e non se n’era mai occupato.
Quindi che fare?
Di nuovo fissò la tomba. La prima cosa che gli venne in mente fu quella di vedere cosa c’era dentro. Non che si aspettasse di trovare la sposa di Dracula o cose del genere, tuttavia la sua impostazione era e rimaneva scientifica, anche di fronte a una faccenda di quel genere, e risolvere un problema implicava necessariamente conoscerne tutti i termini.
Peraltro, non gli pareva esattamente una cosa normale che ci fosse una tomba in un giardino. Il posto delle tombe era notoriamente il cimitero.
Si chiese se fosse quello il problema: magari la signora Barrow era nel posto sbagliato. Magari – va a sapere – in un cimitero si creavano le condizioni ottimali per far finire gli spiriti nel posto giusto, qualunque esso fosse, mentre al di fuori delle mura consacrate questo non succedeva.
Il ragionamento era debole, lo riconosceva da solo, non teneva conto di innumerevoli variabili, come l’inumazione di atei o tombe al di fuori dei camposanti da cui però non scaturivano fantasmi, ma in effetti non aveva altri elementi da cui partire.
Andò all’edificio nel quale erano conservati gli attrezzi e si procurò un palanchino, poi tornò al mausoleo.
Per l’ennesima volta fissò la tomba: era una lapide bianca, semplice e linda, probabilmente come doveva essere stata la signora Barrow in vita. Faceva venire voglia di sedersi lì di fianco, di parlarle, quasi, come si sarebbe fatto con una vecchia zia buona e saggia.
L’idea di serenità che comunicava sembrava non avere nulla a che fare con tutto il bailamme che succedeva di notte.
Piantò il palanchino in una fessura e fece forza. Con un rumore raschiante che sembrava uscito da un film horror, il blocco di marmo si spostò di mezzo pollice[2].
Non successe assolutamente niente. Non scaturirono dalla fossa entità soprannaturali e non si udirono lamenti o grida. Il cielo rimase azzurro, la temperatura non si abbassò, gli uccelli continuarono a cantare imperterriti.
Altra spinta, altro movimento della lapide.
Pian piano, la pietra fu spostata quel tanto che avrebbe consentito di dare un’occhiata a quello che c’era sotto.
Austin appoggiò da una parte il palanchino, quindi si terse il sudore dalla fronte. Scrutò dapprima con vaga esitazione il buco nero che gli si apriva davanti ai piedi, quindi trasse di tasca il cellulare, attivò la torcia e la puntò nella fossa.
Non c’era niente.
L’uomo aggrottò le sopracciglia e si inginocchiò per guardare meglio, ma dovette arrendersi all’evidenza: quella che stava illuminando era una cavità completamente vuota.
Si rialzò perplesso e di nuovo si pose la fatidica domanda: che fare?

§

Austin si sedette al tavolo della cucina. Gettò un’occhiata al contenitore con l’insalata pronta, ma la forchetta rimase al suo posto, a sinistra e perfettamente allineata al bordo della tovaglietta.
La giornata era trascorsa infruttuosa. L’avvocato Keynes non si era fatto trovare, la signora Boyle aveva rifiutato di vederlo. Il signor Donovan gli aveva fatto un’altra telefonata: la banca aveva sicuramente capito qualcosa, non c’era più tempo.
E lui, per la prima volta nella sua vita professionale, non sapeva che pesci pigliare. Dedicò un’altra occhiata alla cena, ma poi la spinse addirittura via.
Le luci ebbero un’oscillazione: eccola che tornava, e lui non sapeva che fare.
Cosa vuoi?” chiese a voce alta.
Le luci sfarfallarono di nuovo.
Dimmi cosa vuoi, no? Così la facciamo finita.”
Le luci si spensero e si riaccesero.
Bah,” brontolò Austin poco convinto. Diede un’altra occhiata alla cena, poi girò le spalle e si ritirò in camera.
Quella notte fece un sogno: nella stanza senza finestre, quella dove Borowicz aveva fotografato la prima parete deturpata, c’era una porta e da essa si dipartiva una scala che scendeva.

Nonostante la sua consolidata abitudine di lavarsi e sbarbarsi prima di qualsiasi altra cosa, non appena si svegliò, Austin si vestì sommariamente e corse nel piccolo vano.
Sul muro opposto alla porta c’era un crepa verticale, che partiva dal pavimento e si fermava a metà altezza.
A quella vista, egli corse a prendere la mazza da muratore e con tutte le sue forze l’abbatté contro la parete. Un mattone cadde rivelando un vano buio, dal quale uscì una zaffata di muffa e limo. Austin prese il cellulare, attivò la torcia e scrutò al di là: c’era una scala, e andava verso il basso.
I successivi quaranta minuti li trascorse a demolire la parete. Quando ebbe creato un vano sufficiente a consentire il passaggio, si procurò una torcia più potente e scese.
I gradini erano scavati direttamente nella pietra e le pareti, man mano che procedeva verso il basso, diventavano sempre più grezze e irregolari.
Alla fine c’era una grotta. Il vano era probabilmente di origine naturale, ma era stato scavato e ampliato da mani umane, che l’avevano anche reso approssimativamente quadrangolare.
Al centro, su due cavalletti, c’era una bara coperta da uno strato di polvere e muffa. Contro una parete c’era una cassa di metallo chiusa da un catenaccio.
La temperatura, già fredda in quel luogo sotterraneo e chiuso, calò d’improvviso. “Sei qui, vero?” chiese Austin.
Ah, memoria, nemica mortale del mio riposo,” sussurrò una voce femminile, così lieve che l’uomo non avrebbe saputo dire se l’aveva sentita veramente o solo immaginata.
Egli non gettò nemmeno un’occhiata al feretro, era abbastanza chiaro chi contenesse. Rivolse invece la sua attenzione alla cassa: vi si chinò dinnanzi e l’aprì, rivelando una serie di volumi. Ne prese uno a caso: era un libro mastro vergato a mano. Con qualche difficoltà per la grafia antiquata, scorse le varie voci, trovando fra le altre quaderni da scuola, una lavagna, medicinali, cuoio per fare scarpe, stoffa per corredi e simili.
Il documento era in un ordine scrupoloso.
Trovò poi dei libri paga e una cartella nella quale erano conservate numerose ricevute, anch’esse in un ordine che stupì persino lui.
Infine c’era un diario.
Portò tutto in cucina, si procurò carta e penna per prendere appunti, poi si immerse nella lettura. Di tanto in tanto aveva la sensazione che qualcuno stesse leggendo da sopra la sua spalla, ma per il resto nulla turbò la sua concentrazione.
Quando ebbe terminato, aveva praticamente riempito il blocco. Scorse le pagine coperte della sua scrittura fine e ordinata, quindi si procurò un ulteriore foglio, sul quale cominciò a elencare una serie di punti:

- I fantasmi esistono.
- A Christineberg c’è un fantasma, cosa vuole? Risp.: Verità, cfr. scritta su muro.
- Verità, perché? Risp.: Associazione storica dice calunnie su tenuta. Perché? Disonestà intellettuale? Forse figura sig.ra Barrow inaccettabile per mentalità attuale?
- Opuscolo vecchio vero – Libro associazione falso (cfr. libri mastri etc. + diario).
- Museo chiuso causa intervento soprannaturale?Ira sig.ra Barrow?
- Frase memoria/riposo: forse situazione attuale non permette eterno riposo a sig.ra Barrow? Sig.ra vuole andare a… (dove vanno gli spiriti)?
- Bara nella grotta: sig.ra Barrow desidera sue spoglie rimanere Christineberg (cfr. diario per descriz. evento). Possibile murare nuovamente accesso? Controllare problemi sanitari.
- Cosa dire sig. Donovan?

Picchiettando sul tavolo con la penna, Austin rilesse attentamente ciò che aveva scritto. Fatto questo posò il foglio collocandolo con il margine inferiore esattamente parallelo al bordo del tavolo, si alzò e accese la macchina per il caffè, quindi, nell’attesa che la bevanda fosse pronta, andò finalmente in bagno a lavarsi e a farsi la barba.
Al ritorno si versò una tazza di caffè, la sorbì con calma, lavò il recipiente e lo depose capovolto nell’acquaio.
Fu solo a quel punto che prese il cellulare e compose il numero del signor Donovan.
Come sta andando?” berciò nel microfono l’imprenditore.
Bene.”
Seguirono alcuni secondi di silenzio, poi giunse la stupefatta replica: “Bene? Come sarebbe a dire? Il problema è risolto?”
Diciamo che lo sarà se lei farà alcune cose.”
Altri secondi di pausa, poi: “Chi è che vuole mazzette?”
Nessuna mazzetta, signor Donovan. Ho trovato alcuni documenti storici nella villa, sarà necessario farli pubblicare.”
Cosa? Cosa cazzo hanno a che fare dei documenti storici con gli stronzi che mi sabotavano il lavoro?”
Ho stipulato un accordo: se ci sarà la garanzia che i documenti verranno pubblicati, gli atti di sabotaggio cesseranno.”
La voce dell’imprenditore assunse un tono di incredulità: “Con chi l’avrebbe stipulato, questo cazzo di accordo? La pubblicazione, poi, quanto mi verrà a costare?”
Sicuramente meno di quello che al momento sta rischiando di pagare alla banca.”

§

La festa di inaugurazione era nel pieno dello svolgimento. Abbronzatura perfetta, smoking di sartoria, un raggiante signor Donovan riceveva gli ospiti sulla porta.
La villa era aperta e completamente illuminata, uomini e donne in abito da sera, chi con un bicchiere e chi con un piatto del buffet in mano, chiacchieravano distrattamente, ammirando gli arredi d’epoca e i pavimenti a palladiana, per l’occasione lucidati praticamente a specchio.
Un po’ discosto dalla folla, Austin osservava serio lo svolgersi dell’evento. Teneva d’occhio soprattutto un tavolino sul quale, disposte a piramide, c’erano un certo numero di copie omaggio di un libro dal titolo: ‘La verità su Ingeborg Barrow’. La gente passava, le sfogliava, qualcuno se ne portava anche via una.
Il fantasma non aveva più dato segno di sé, il che forse significava che se n’era andato, o magari stava rispettando la sua parte dell’accordo.
Uscì in giardino: il garden designer aveva superato se stesso e la distesa di piante mezze inselvatichite che circondava la tenuta si era trasformata in un magnifico parco. Il mausoleo era rimasto, ma il signor Donovan aveva voluto che la lapide fosse rimossa.
La cosa in fondo aveva poca importanza.
Austin si sedette su un gradino, si appoggiò all’indietro e chiuse gli occhi. Dalla villa giungevano musica forte e voci, percepì la risata stridula di qualcuno che doveva già essere parecchio ubriaco.
Poi udì il fruscio di passi in avvicinamento e una voce chiese: “Signor Austin, è qui?”
L’uomo si riscosse bruscamente. Scattò in piedi e si sistemò le falde della giacca. Individuò lo spencer bianco di un cameriere. “Eccomi,” rispose.
Meno male, l’ho cercata dappertutto. Il signor Donovan vuole fare un discorso, ci tiene che ci sia anche lei.”
D’accordo,” rispose lui con poco entusiasmo, “vengo subito.”
Mentre stava per allontanarsi in direzione della villa, un refolo freddo gli scompigliò i capelli. Percepì qualcosa come un bacio sulla guancia mentre nell’aria echeggiava, di certo per l’ultima volta, il canto che ormai aveva imparato a conoscere.







[1] Nel folklore locale, lo spirito di un trapassato.
[2] Un pollice corrisponde a 2,54 cm.
   
 
Leggi le 20 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Fantasmi / Vai alla pagina dell'autore: Old Fashioned