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Autore: Lady1990    10/02/2019    3 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Scrocchiandosi le dita, Regan contemplò i tre ragazzi riversi a terra. Dilatò le narici per riempirsi i polmoni dell’odore del loro sangue e si umettò le labbra secche, per poi curvarle in un ghigno. Esso si trasformò in una smorfia alla lieve fitta che gli fece pulsare lo zigomo destro, dove sfoggiava un livido rossastro. A parte quello, era illeso. La stessa cosa non si poteva dire di Gregory e i suoi galoppini.

Gregory era quello messo peggio: aveva il naso rotto, un polso lussato, un grosso livido sul mento e abrasioni su gomiti e ginocchia. Kevin e Derek, invece, esibivano un occhio nero a testa, qualche graffio sulle gambe e sbucciature superficiali sulle braccia. L’occhio nero era opera di Regan, il resto delle ferite se le erano procurate da soli quando li aveva scaraventati sul pavimento come sacchi d’immondizia.

Il trio aveva deciso di tendergli un’imboscata, approfittando dell’assenza di Roman e del fatto che, per una volta, non fosse accerchiato dal suo nuovo fan club di popolari. Dimentichi del fatto che Regan sapeva difendersi egregiamente da solo. Lo avevano acciuffato per la felpa mentre si dirigeva in mensa e trascinato nei locali delle caldaie, una zona interdetta agli studenti. Il custode, evidentemente, si era dimenticato di chiudere a chiave la porta.

“È mai possibile che ancora non abbiate capito che non sono una fragile bambolina? Quante altre volte dovrò pestarvi prima che impariate la lezione?” domandò annoiato.

Derek grugnì e rotolò sulla schiena, sforzandosi di vedere oltre la patina opaca che gli copriva gli occhi.

Regan lo raggiunse e torreggiò su di lui: “Che dici, Derek? Hai capito?”

“Sì…” gracchiò.

“Sicuro?”

“Sicuro.”

“Bene.”

Regan si accostò a Kevin. Gli agguantò una spalla e lo girò supino.

“E tu? Hai capito?”

“Fottiti.”

Regan gli sferrò un calcio nello stomaco, strappandogli l’ossigeno, e ripeté: “Hai capito?”

“S-Sì…”

“Ottimo.”

Fu il turno di Gregory. Regan non si illudeva di riuscire a dissuaderlo dal rompergli le scatole per il resto della sua miserabile vita, ma magari, con qualche calcio in più, lo avrebbe convinto a lasciarlo in pace fino alla fine dell’anno scolastico.

“Tu che mi dici, palla di lardo? Ne hai abbastanza o ne vuoi ancora?” gli chiese, chinandosi su di lui per guardarlo dritto in faccia, “Ho parecchia energia repressa da sfogare, e tu sembri nato per incassare pugni.”

Gregory sputò. Sebbene avesse mirato a un’area qualsiasi del viso di Regan, la gravità fece sì che il bolo di saliva gli ricadesse sul naso. Patetico.

Regan gli tirò un pugno nel plesso solare, mozzandogli il fiato, poi un altro nella zona pelvica. Lo ammirò contorcersi e piagnucolare finché non si stufò.

“Ne hai avuto abbastanza?”

“No.” rantolò Gregory e gli scoccò un’occhiata satura di sfida.

Regan non comprendeva quali fossero le sue intenzioni, cosa lo spingesse a cercarlo e provocarlo di continuo. Si accovacciò, gli strinse il mento e lo obbligò a ricambiare il suo sguardo.

“Perché non ti arrendi?”

“Sei uno fottuto psicopatico.”

“Oh, smettila, mi farai arrossire.”

“Gli altri non lo vedono, ma io sì. Io ti ho sempre visto per ciò che sei. Faremmo un favore a tutta la comunità se ti togliessimo di mezzo. Credi che, solo perché adesso sei il beniamino dei ragazzi più popolari della scuola, sarai al riparo da ogni sospetto? Quanto durerà? Non puoi sopprimere la tua natura, prima o poi commetterai un errore. E allora tutti vedranno, tutti capiranno…”

“Che cosa sai di me?” indagò cauto Regan.

“Molto più di quel che pensi.” sputacchiò Gregory, per poi stirare le labbra sui denti macchiati di sangue, “Dovrebbero abbatterti come un cane rabbioso. Sei come un’infezione. Se nessuno ti fermerà, ti diffonderai ovunque.”

“E sarai tu a farlo? Da quel che vedo, ne dubito. Non sei all’altezza, nemmeno quando sei spalleggiato dai tuoi amichetti. Sei un codardo, un perdente.” sibilò e, inalando appena il suo odore, ridacchiò sotto i baffi, “Oh, Gregory. Te la stai facendo sotto, mh?”

“Non mi fai paura.”

“Fingerò di crederti. Se non è per paura, perché ce l’hai con me? Cosa ti ho mai fatto, a parte difendermi dai tuoi attacchi restituendoti occhio per occhio? Forse sei masochista e ti piace prenderle per sentirti vivo. Oppure sei triste perché, a parte questi due idioti, nessuno ti considera?”

Abbassandosi fino a trovarsi a pochi centimetri dal suo naso, lo trafisse con un’occhiata crudele.

“Sono più forte di voi tre messi insieme, quindi come mai continui a provocarmi? Se è una valvola di sfogo che vuoi, iscriviti a un corso di box in palestra e prendi a pugni un sacco di sabbia. A me non va più di darti corda. È stato divertente, ma adesso mi sono scocciato. Ho altri progetti, non mi va di perdere tempo a pestare la spazzatura. Fatti una vita, trovati un hobby. So che l’uncinetto fa miracoli per l’umore! E, per l’ultima volta, stammi lontano. Se non lo farai, ti prometto solennemente che ti ridurrò in uno stato così pietoso che nemmeno i migliori medici riusciranno a ricucirti. E se per caso dovessero farcela, ti prometto che renderò i giorni che ti restano da vivere un vero inferno. È chiaro?”

Senza attendere una risposta, mollò la presa e si rialzò. Dopo essersi spolverato i pantaloni e la felpa, raccolse lo zaino e si voltò per andarsene. Poggiò il piede sul primo gradino proprio quando il trillo della campanella che segnalava la fine della pausa pranzo riecheggiò per tutto l’edificio. Tempismo perfetto.

Mentre saliva le scale in fretta e furia, con lo zaino in spalla e le mani affondate nelle tasche dei jeans, rifletté sull’ammissione di Gregory. Aveva detto di sapere molto più di quel che Regan pensava, ma cosa intendeva esattamente? Conosceva il suo segreto? Impossibile. Lui e Deirdre erano sempre stati molto prudenti.

L’ansia lo stava divorando. Doveva assolutamente fare una chiacchierata con Gregory al più presto e scoprire la verità. Avrebbe calcolato la prossima mossa in base alla sua risposta. Se necessario, lo avrebbe fatto sparire. Deirdre avrebbe capito.

Regan raggiunse rapido il suo armadietto per recuperare il libro di Chimica e corse verso l’aula. Arrivò due secondi prima del professore. Si sedette al suo solito posto e salutò con un cenno del capo la sua compagna di banco, Cecilia Burns.

Era una ragazza un po’ sovrappeso, di carnagione scura. Portava i capelli sempre legati in due trecce e indossava abiti di seconda mano. Gli occhi marroni erano coperti da due lenti a fondo di bottiglia, il naso a patata sovrastava una bocca carnosa. Era un membro della band della scuola, suonava il violino e faceva parte del club degli scacchi. Regan non sapeva altro su di lei.

Brad, un giocatore di football del primo anno, seduto al banco davanti a Regan, si girò sullo sgabello per lanciargli un’occhiata preoccupata.

“Che hai fatto alla faccia? Sei di nuovo inciampato nei lacci delle scarpe?”

Regan roteò gli occhi: “È successo una sola volta! E no, è stato Gregory.”

“Ancora? È per questo che non eri in mensa?”

“Già.”

“Te la sei cavata con poco.”

“Dovresti vedere come sono ridotti lui e la sua gang.” rispose con un ghigno.

Il professore pose fine alla conversazione entrando nell’aula e ordinando a tutti di aprire il libro.

 “Andate a pagina 62 e mettete in pratica il terzo esercizio. Dosate i composti con attenzione, non vogliamo far esplodere niente! Signor Cunningham, sto guardando lei.”

Brad deglutì e abbassò la testa imbarazzato, mentre i compagni sghignazzavano sotto i baffi.

A fine lezioni, Lorie si accostò a Regan di fronte agli armadietti. Non esitò a incorniciare il suo viso con le mani e muoverlo da un lato e dall’altro per valutare i danni.

“Mi è stato riferito che dobbiamo ringraziare Gregory per questo.” disse gelida e sfiorò con un polpastrello il livido sullo zigomo.

“Chi te lo ha detto?”

“Ho occhi e orecchie dappertutto, tesoro.”

“Non è niente, Lorie, sul serio.” la rassicurò, sopprimendo a stento l’impulso di scansarsi, “Guarirà in un paio di giorni.”

“Sia quel che sia, quel grassone dovrebbe imparare le buone maniere.”

Charlotte nascose un sorrisetto dietro il palmo: “Scommetto che se ci fosse Roman, sarebbe già andato a fargli il culo a strisce.”

“Se ne occuperanno i miei ragazzi.” dichiarò Lorie e agitò la mano in un gesto annoiato, “Mike considera Regan il suo fratellino. Se vuole, sa essere persino più protettivo di Roman.”

Stando ai pettegolezzi, lei e Mike avevano avuto una storia al secondo anno. Anche se si erano lasciati la scorsa estate, se ce n’era bisogno agivano ancora di comune accordo per il bene dei loro “protetti”.

“Lorie…” sospirò Regan, fingendosi imbarazzato.

“Shhh. Non dire niente.”

“Okay. Ci vediamo domani.”

“A domani.” lo salutò con un bacio a stampo sulla guancia e sculettò via seguita dalla sua corte.

Regan attraversò il parcheggio, scambiando altri saluti con alcuni ragazzi popolari, e si diresse alla transenna delle bici. Prima di montare in sella, trangugiò l’acqua della borraccia e addentò metà del panino che non aveva avuto tempo di mangiare a pranzo. Dopodiché, sventolò di nuovo una mano in direzione del gruppetto di studenti assiepati attorno a una Porsche e pedalò alla volta di casa.

Venti minuti più tardi entrò nel vialetto e scese dalla bici. Scoccò un sorriso alla signora Greenwood, appollaiata sulla sedia di vimini sotto il portico, e aprì la porta. Poe schizzò nello spazio fra le sue gambe e si tuffò in un cespuglio. C’era un biglietto sul tavolo di cucina da parte di Deirdre, dove lo avvisava che era fuori per delle commissioni.

Salì in camera, gettò lo zaino sul pavimento e si sdraiò a pancia in giù sul letto. Rimase immobile per un po’, per ricaricare le energie e smaltire lo stress accumulato durante la giornata. Quindi si spogliò, indossò la tuta e tornò a sedersi sul letto con il computer portatile appoggiato sulle ginocchia.

Scrisse il saggio di Letteratura che doveva consegnare l’indomani e, una volta terminato, cominciò ad avvantaggiarsi con gli esercizi di matematica. Quando l’orologio segnò le sei, decise che aveva studiato abbastanza per quel giorno.

Lo sguardo gli cadde sul fantasma che se ne stava in piedi in un angolo della camera. Se non fosse stato per il plic plic dell’acqua che sgocciolava sul pavimento, Regan avrebbe continuato volentieri a ignorarlo. Quel suono, però, lo stava facendo innervosire.

Era un vecchio marinaio, vestito con un impermeabile nero e anfibi blu. I ricci capelli bianchi, fradici e sporchi, ricadevano sul viso smunto, grinzoso, di un pallore cadaverico. Due occhi scuri, privi di vita, fissavano il vuoto. La barba incolta gli incorniciava il mento e gli ricopriva buona parte del collo.

In quel momento, gli tornarono in mente le cose strane che erano accadute prima della scomparsa di Teresa. Non ci pensava più da un pezzo, dato che non c’erano stati altri incontri ravvicinati del terzo tipo dopo il faccia a faccia con Matthew Doyle.

In mancanza di altri stimoli, si mise a spulciare Google a caccia di teorie. Si imbatté in parecchi siti dedicati ai fantasmi, ma li scartò subito, perché sentiva che non era uno spettro a tormentarlo.

Stufo di ritrovarsi in vicoli ciechi, optò per fare un tentativo con la melodia del suo incubo. Scaricò un programma per ricrearla e un altro per verificare se appartenesse a qualche gruppo musicale. Purtroppo, oltre a portargli via un sacco di tempo, si rivelò l’ennesimo buco nell’acqua. L’unica cosa che guadagnò fu il nome degli strumenti usati: il tombak, il ney e il qanun. Il primo era un tamburo, il secondo un flauto e il terzo una specie di strumento a corde, di forma trapezoidale, che ricordava vagamente l’arpa.

La notifica di un messaggio sul cellulare lo distrasse.

Da Roman:
Mi annoioooo. Dimmi qualcosa, una qualsiasi, non mi interessa.
 
A Roman:
Stamattina ho ingoiato per sbaglio un pelo di Poe.
 
Da Roman:
Che schifo.
 
A Roman:
Domani torni?
 
Da Roman:
Ti manco?
 
A Roman:
Sono io che ti manco.
 
Da Roman:
Mi permetto di dissentire.
 
A Roman:
Allora ciao.
 
Da Roman:
Scherzavo! Ovvio che mi manca il mio migliore amico.
 
Il cuore di Regan saltò un battito. Migliore amico. Cioè, non solo amico, ma anche il migliore. Wow. Si era evoluta in fretta.

A Roman:
Pensa a guarire. Dalla regia mi dicono che perdi più muco di una lumaca.
 
Da Roman:
Una Signora lumaca, per cortesia e grazie. Novità?
 
A Roman:
Sono stato nominato “fratellino adottivo” di Mike e ho fatto a botte con Gregory.
 
Da Roman:
Chi ha vinto?
 
A Roman:
Che domande.
 
Da Roman:
Aspetta. Fratellino??? Sono geloso.
 
A Roman:
Non preoccuparti, c’è abbastanza Regan per tutti.
 
Da Roman:
Ti stai paragonando a una torta, per caso?

A Roman:
Una Signora torta, per cortesia e grazie. Buonanotte, Roman.
 
Da Roman:
Uffa. Notte  x
 
Roman gli aveva appena mandato un bacio? Davvero? Gli amici facevano questo? Scrollò una spalla e ripose il cellulare sul comodino, per poi stiracchiarsi e sbadigliare.

Erano le sette passate quando Deirdre rientrò, e non era sola. Curioso, Regan scese le scale e si affacciò in cucina. Le sue labbra si piegarono in un sorriso genuino quando posò gli occhi sull’ospite. La luce della lampada dell’ingresso si riflesse sul distintivo da sceriffo che abbelliva l’uniforme beige tipica delle forze dell’ordine.

“Zia Hillary!”

“Ciao, ragazzino! Vieni qui, fatti abbracciare.”

Regan si lasciò avviluppare dalle braccia della donna e inspirò a pieni polmoni il suo odore. Polvere da sparo, ammorbidente alla lavanda e menta piperita. Gli era mancato.

“Regan, aiutami ad apparecchiare. Hillary ci ha offerto il cinese.” disse Deirdre e Regan si affrettò a ubbidire, già con l’acquolina in bocca.

“Cosa ci fai qui? Cioè, non che non sia contento di vederti, anzi, per di più con appresso cibo cinese. È che nonna mi aveva detto che sei parecchio occupata.”

“Ed è vero, però mi mancavate troppo, così ho deciso di farvi una visita a sorpresa. Ho incontrato Deirdre di ritorno dal supermercato e le ho dato uno strappo con la volante.” spiegò Hillary.

“Non state in piedi, sedetevi.” li invitò la padrona di casa e tutti presero posto.

Poe saltò sul tavolo e si avventò sul contenitore dei ravioli al vapore. Hillary lo afferrò per la collottola prima che potesse ghermirlo tra le fauci e portarselo via.

“Ciao, palla di pelo! Mi sei mancato anche tu!” chiocciò e rise quando Poe soffiò infastidito, “Ah, sempre adorabile, vedo.”

Dopo aver posato il gatto sul pavimento, impugnò le bacchette e aprì la scatola più vicina. I capelli biondi, raccolti in una crocchia sulla nuca, assunsero riflessi dorati quando inclinò il capo.

“Come sta andando la scuola?”

“Per ora bene, gli argomenti sono semplici.”

“Non mi stupisce. Sei sempre stato intelligente, un passo avanti rispetto ai tuoi coetanei.” lo lodò, gli occhi azzurri saturi di autentico orgoglio, “Deirdre mi ha detto che ti sei fatto degli amici. Chi sono?”

“Buona compagnia, zia Hillary, non preoccuparti. Sono il nuovo beniamino delle cheerleader. E il capitano della squadra di football mi ha preso sotto la sua ala. Oh, e poi ho anche un migliore amico. Si chiama Roman.”

“Roman Sinclair.” precisò Deirdre.

“Sinclair. Presumo sia il figlio di Vincent. Un uomo tutto d’un pezzo, quello, non c’è che dire.” borbottò sarcastica.

“In che senso?” domandò Regan.

Hillary finì di masticare l’involtino primavera e infilò le bacchette nel contenitore del pollo alle mandorle. Regan non l’aveva mai vista tanto affamata.

“Il signor Sinclair è venuto un paio di settimane fa in centrale per presentarsi. Fa l’avvocato, sai. Il suo ego mette in ridicolo persino quello dell’agente Santiago, ci credi? Mentre parlava, potevo quasi assaporare sulla lingua la sua arroganza. E il modo in cui ha fatto scivolare lo sguardo per la stanza, uh! Sono stata spesso sul punto di dirgli che poteva andarsene se il nostro ambiente non si confaceva ai suoi gusti sofisticati. Mi è bastato adocchiare il suo completo d’alta sartoria per capire che tipo è. Maledetti avvocati.” azzannò un gamberetto e deglutì sonoramente, “Devo ammettere, però, che è un bell’uomo. Carismatico.”

“I Sinclair sono ricchi.” commentò Regan, “Anche se a guardare Roman non si direbbe. È un ragazzo normale. Non si veste da fighetto e non ha l’aria da snob.”

“Io mi sono imbattuta nella madre, invece.” si intromise Deirdre, “L’altro giorno ero al bar con la signora Keller a bere un tè. Tamara Sinclair è entrata nel locale come se danzasse, con la grazia di una ballerina, e con al seguito due bambini veramente rumorosi, un maschio e una femmina. Quest’ultima è inciampata e mi è caduta addosso, e la signora Sinclair si è scusata e presentata. Non è rimasta a parlare, ma mi ha dato l’impressione di essere una persona educata. È anche molto bella.”

“I due bambini dovevano essere Trevor e Nina, i cugini di Roman.” disse Regan.

“So che sono originari di Brooklyn. Vivono nella grande villa vicino al bosco, giusto?” indagò Deirdre.

“Come lo sai?” chiese Regan.

“La signora Greenwood.” fu tutto ciò che rispose e bastò, poiché era noto il fiuto dell’anziana donna per i pettegolezzi, sapeva tutto di tutti.

“Ho fatto delle ricerche su di loro e non ho trovato niente di sospetto. Sono puliti.” disse Hillary, “Oh, eccetto Roman. Il ragazzo è stato arrestato a marzo per atti vandalici. Il padre ha pagato la cauzione e gli ha fatto completare l’anno scolastico a casa, anche se alla fine è bocciato. Poi si sono trasferiti qui.”

“Sì, me ne ha parlato. Dell’arresto, intendo.” spiegò Regan, “Frequentava una brutta compagnia.”

“A parte lui, sembra una famiglia per bene.”

“Roman è a posto, zia Hillary.”

“Sarà, ma stai attento.”

“Ricevuto, capo.” le sorrise facendole il saluto militare.

“Come vanno le cose in centrale?” domandò Deirdre.

“Sto affogando nelle scartoffie. Abbiamo avuto più arresti in questo mese di quanti ne abbiamo normalmente in un anno. La gente è impazzita.”

“Cioè?” biascicò Regan intorno a un raviolo.

“Non si parla con la bocca piena.” lo rimproverò la nonna.

“Il numero di furti è triplicato, tanto per dirne una. Ogni giorno i miei agenti devono sedare delle risse o fare multe per eccesso di velocità e sosta vietata. Un tizio ha parcheggiato sul marciapiede e se n’è andato al bar come se nulla fosse! Altri due sono venuti in centrale, qualche giorno fa, accusandosi a vicenda di aver sottratto il posto d’auto all’altro, nonostante entrambi posseggano un garage. Oppure, una donna ci ha chiamati in lacrime dicendo di aver beccato il marito con l’amante. Questa ha tentato di accoltellarla, finendo invece per colpire l’uomo a una spalla. Un marinaio ha fatto irruzione nel mio ufficio pretendendo che arrestassimo il suo socio per avergli rubato metà del carico. Fatto sta che, quando siamo andati a controllare, non c’era nessun carico. E il suo socio è morto l’anno scorso. Allora il marinaio ha accusato me di avergli rubato il carico!”

“Era ubriaco?”

“No, era perfettamente lucido! Non un millilitro di alcool nel suo sangue. Oh, e dovete assolutamente sentire questa.” ingoiò il boccone che stava masticando e bevve un sorso d’acqua, “Lo scorso venerdì, il pescatore che uno dei miei aveva arrestato per aver partecipato a una rissa al pub giù al porto si è alzato dalla sedia, a spezzato le manette a mani nude e si è messo a gridare. Poi ha afferrato una penna e ha fatto per conficcarsela nel collo. L’agente Lang lo ha fermato appena in tempo. Quando gli abbiamo chiesto che diavolo gli era preso, ha cominciato a farneticare, dicendo che erano stati i serpenti a ordinargli di farlo. Assurdo, vero?”

Regan si bloccò con le bacchette a mezz’aria: “Serpenti?”

“A-ha.”

Non ebbero modo di approfondire la questione, perché il cercapersone di Hillary suonò.

“Devo andare.” grugnì, si pulì la bocca col tovagliolo di carta e si alzò, “Grazie per la cena, Deirdre.”

“L’hai offerta tu! Semmai siamo noi a ringraziarti.”

“Grazie, zia Hillary.”

“Di nulla. Spero di rivedervi presto.”

In piedi sulla porta, Hillary si legò la cintura con la pistola e le manette intorno ai fianchi e indossò il giubbotto.

“A presto, Deirdre. E tu, ragazzino, stai lontano dai guai, capito?”

Regan disegnò con un dito un’aureola invisibile sopra la propria testa.

La porta si chiuse e calò il silenzio. Regan aiutò la nonna a sparecchiare e riporre gli avanzi nel frigo. Poi sorseggiò con calma la sua dose serale di sangue mentre Deirdre portava fuori la spazzatura. Quando la nonna tornò in cucina, lo invitò a sedersi di fronte a lei. 

“A cosa pensi, leprotto? E non dire che non è niente, stai facendo quella faccia.”

“Quale faccia?”

“Quella che fai quando un pezzo del puzzle sta per incastrarsi nel posto giusto.”

Regan sbuffò divertito e alzò le mani in segno di resa: “Pensavo ai serpenti.”

“Elabora.”

“Nel mio incubo, quello con il grammofono, sotto la musica e le voci sento dei sibili, come di serpenti.”

“E?”

“È solo una teoria, ma forse l’aumento degli incidenti e della criminalità è causato da qualcosa di…” lasciò la frase in sospeso, non sapendo bene come terminarla.

Deirdre abbandonò il suo posto senza dire una parola. Raggiunse il cassettone antico del salotto e da un cassetto estrasse una piccola scatola. Era semplice, priva di ornamenti, in legno di ciliegio. Stringendola fra le mani, si recò di nuovo in cucina e la posò sul tavolo. Afferrò dalla credenza una zuppiera di ceramica dipinta a mano, che riempì per un quarto di olio d’oliva. Nell’olio versò una spolverata di centaurea, un’erba per favorire la divinazione che conservava dietro il sacco di farina, dentro uno degli sportelli in basso. Infine, si risedette, poggiò la zuppiera ed estrasse dalla scatola un mazzo di tarocchi.

Stava per offrirli a Regan, ma si fermò prima che le carte toccassero il suo palmo: “Ti va bene se ti leggo?”

“Non ti ho mai negato il consenso.”

Regan accettò il mazzo e cominciò a mischiarlo. Dopodiché, scelse delle carte e le predispose sul tavolo in sette colonne di tre, in posizione coperta. Le carte avanzate le mise da parte.

“Scoprile una per volta, partendo da quella in alto a sinistra.” lo istruì Deirdre.

“Lo so.”

Mentre le girava, Deirdre accese un fiammifero per bruciare l’olio e si chinò sulla zuppiera per inalare i fumi, mugolando una cantilena ripetitiva composta da quattro note. Dopo aver meditato a sufficienza, si sporse per osservarle.

“Pessimo presagio.” decretò dopo qualche minuto di silenzio.

“Pessime carte.” la corresse Regan.

“Le carte non sono né buone né cattive. È la loro posizione che ne determina il significato.”

“Sai darmi una lettura precisa?”

“Posso tentare.”

Regan le cedette la propria sedia e restò in piedi al suo fianco. Poe saltò sul tavolo e si accucciò vicino alle carte, studiandole attentamente con gli occhi gialli ridotti a fessure.

“Per cominciare, abbiamo l’Asso di denari, il Bagatto e il Cavaliere di bastoni, tutti diritti. Direi che significa che hai successo nel campo intellettuale, quindi a scuola, che hai iniziativa e fiducia in te stesso e, in ultimo, che il tuo obiettivo si è compiuto. Infatti, hai instaurato delle amicizie che ti permetteranno di inserirti nella comunità e ti aiuteranno a farti un nome. Proprio come avevamo pianificato.”

Regan mimò un inchino teatrale.

“Ma vedi questa carta?” Deirdre indicò la carta centrale della seconda colonna, “La Giustizia rovesciata. Può indicare soprusi, intolleranza. Cosa ti fa venire in mente?”

“Gregory.” disse senza esitare.

“Allora questa carta rappresenta Gregory. È accerchiata dalla Temperanza rovesciata e dall’Imperatrice rovesciata. La prima, tra le altre cose, può significare caos, discriminazione, mentre la seconda arroganza e disaccordo.”

“Cioè, Gregory tornerà a rompere le scatole.”

“E provocherà seri danni, se non farai attenzione. La stabilità che hai raggiunto è precaria.” Deirdre indicò la terza colonna, “L’eremita diritto: prudenza, oppure isolamento e misantropia.”

“Devo essere prudente, ma allo stesso tempo non devo farmi terra bruciata intorno, continuando a fingere che mi piacciano tutti?”

“Se tu senti che è così, allora è così. Basati sulle tue percezioni, fidati dell’istinto.”

“Okay. Sotto l’Eremita cosa c’è?”

“La Morte e il Matto, entrambi rovesciati.”

“Non promette niente di buono.” grugnì esasperato.

“La prima potrebbe significare fallimento o perdita, la seconda follia, ossessione, violenza. Senti che sono riferite a te?”

“Forse.” mugugnò con aria meditabonda, lo sguardo gelido fisso sulle carte, “Se non pianificherò bene le mie prossime mosse, potrei perdere tutto ciò che ho guadagnato. Gregory è ossessionato da me. La sua ossessione è sempre sfociata nella violenza.”

Deirdre annuì, accettando la sua interpretazione.

“Quarta colonna: Carro rovesciato, Forza diritta e Torre rovesciata. Curioso…” commentò stranita, “Ti imbarcherai in un viaggio irto di pericoli, che forse ti condurrà alla rovina. Sarai forte, coraggioso, e lotterai per ottenere ciò che vuoi. Eppure, nonostante gli sforzi, alla fine ti ritroverai in un vicolo cieco.”

Deirdre analizzò la colonna successiva con crescente angoscia. Aveva un terribile presentimento.

“Luna diritta, Nove di bastoni diritto e Tre di denari rovesciato. La Luna indica pericoli nascosti, una fervida immaginazione soggetta a errori, menzogna, calunnia, cattiva influenza esterna e… incubi. Il nove è un numero magico e i bastoni hanno a che fare con il comando, la virilità e la terra. Interessante.” contemplò la carta per qualche secondo di troppo, poi andò avanti, “Il Tre di denari, di nuovo, indica il fallimento.”

Regan serrò le labbra, teso come una corda di violino.

“Sette di spade diritto, Ruota della Fortuna rovesciata, Appeso rovesciato.” snocciolò Deirdre con voce grondante di panico.

“Nonna?”

“Pace forzata, precaria. Sfortuna, instabilità. Paura, illusioni, sacrificio inutile.”

“Nonna.”

“Regina di coppe rovesciata, Tre di coppe rovesciato, Diavolo diritto.” balbettò, pallida come uno spettro, gli occhi sempre più vacui via via che scivolava in una trance più profonda, “La coppa è il simbolo della femminilità. Una donna… una donna importante, legata al mondo dell’arte e della cultura. Il Tre rovesciato è un cattivo presagio, ed è legato alla donna. Il Diavolo… il Diavolo…”

“Nonna!” la chiamò Regan, stringendola per le spalle, ma lei seguitò a fissare la carta del Diavolo come se racchiudesse tutte le risposte.

“Il Diavolo…” ripeté sottovoce, più volte.

“Cosa significa?” chiese Regan.

“C’è qualcosa di malvagio in giro. La città è il suo parco giochi. La donna è connessa a lui. Trova la donna e troverai lui.” sussurrò, lo sguardo fisso nel vuoto.

“Lui chi?”

L’avvertimento di Matthew riecheggiò all’improvviso nella sua memoria.

“Lui è qui.”

Deirdre prese la carta del Diavolo e gliela mise in mano.

 
*

Regan si svegliò di buon umore. Aveva sognato il lupo e insieme erano andati a caccia di conigli, nel bosco illuminato dai soffici raggi della luna piena. Nemmeno il fantasma di una vecchia donna di colore, in piedi sulla soglia di camera, riuscì ad attenuare l’ondata di serenità che lo pervadeva.

Almeno finché suddetto fantasma non si mise a cantare.
 
L’ombra il serpente curioso acchiappò
La sua superbia nel palmo schiacciò
La sua voce con gli artigli strappò.
 
Regan emise uno squittio virile e, per la sorpresa, rotolò giù dal letto, atterrando sul pavimento con un tonfo e un’imprecazione. Il fantasma non parve disturbato dal fracasso e continuò a cantare.

Nella notte i suoi sibili nitidi
Sulla pelle fan nascere brividi.
 
Un amico fedele il suo caro lasciò
L’agnello pianse e, solo, disperò
L’ombra affamata pure lui mangiò.
 
Scappa, lesto, a più non posso
Non guardare dentro al fosso.
Cerca, trova il cerchio nascosto
Che giace nel buio sotto il sole d’agosto.
Corri, salta, balla, sogna
L’ombra prende quel che agogna
Grida, grida ciò che è omesso
La canzone dell’abisso.
 
La donna ammutolì e, senza fare rumore, scomparve in un battito di ciglia.

Regan rimase a fissare il punto in cui si trovava sino a un momento prima per svariati secondi, imponendosi di non muovere un muscolo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto farlo, perché era letteralmente pietrificato.

“Regan! La colazione è pronta!”

La voce di Deirdre lo ridestò dal torpore. Scattò in piedi come una molla, si precipitò alla scrivania e, su un foglio a caso, trascrisse a memoria la canzone del fantasma. La rilesse un paio di volte, prima di gettare la spugna e ammettere che non capiva neanche un rigo. Sembrava un indovinello.

Maledetti fantasmi e maledetti i loro indovinelli, pensò. Mai una volta che parlassero chiaro. Prima Matthew, ora questa qui… chi è, a proposito? Non abbiamo ricevuto nuovi ospiti, ieri.

Ancora in pigiama, scese in cucina, marciò verso il tavolo e ci sbatté sopra il foglio con la canzone.

Deirdre interruppe quello che stava facendo e si accigliò: “Regan?”

“Spiegami questo. Un fantasma me lo ha cantato poco fa, in camera mia.”

“C-Che? Ha parla-”

“Sì, ha parlato! Ora traducimi questa roba.” ordinò gesticolando.

Deirdre posò la spatola sul piano cottura, spense i fornelli e si pulì le mani sullo strofinaccio abbandonato sullo schienale di una sedia. Quindi prese il foglio con espressione interrogativa e lesse ad alta voce.

“Mmm… è chiaramente un presagio di morte.”

Regan levò occhi e braccia al cielo: “Puoi essere più precisa? Chi morirà? Quando? Dove? Come? L’ultima volta che un fantasma mi ha parlato, o, insomma, che ho creduto che mi parlasse, Teresa Meyers è scomparsa.”

“Mmm…”

“Cosa.” sputò, dimenticandosi il punto interrogativo.

“Che aspetto aveva il fantasma?”

“Una donna di colore, anziana. Indossava un vestito nero con un colletto di pizzo. Al petto aveva una spilla a forma di margherita.”

“Meredith Flynch. È stata sepolta due giorni fa. Me l’hanno portata mentre eri a scuola. Non l’hai mai vista, eppure mi hai descritto l’aspetto che aveva quando l’ho adagiata nella bara. Non puoi essertela immaginata. Forse non ti sei immaginato nemmeno Matthew Doyle.”

“Vuoi dire che il mio subconscio non c’entra niente e che davvero ho visto…”

“A questo punto non possiamo più escluderlo, nonostante sembri impossibile. E questa filastrocca… ho l’impressione che Meredith desideri mandarti in una qualche caccia al tesoro. Ti ha fornito degli indizi sia su di esso, sia a chi appartiene. Matthew ti ha avvertito su sua cugina, perciò è probabile che Meredith stia cercando di fare lo stesso.”

“Un suo parente sta per sparire?”

“Non lo so, Regan. Studierò le strofe mentre lavoro, magari riesco a interpretarle. Ora tu mangia veloce e va’ a vestirti, o farai tardi.”

Regan maledisse la scuola. Gli sarebbe piaciuto restare e venire a capo di quell’indovinello. Si vestì, afferrò lo zaino e si fiondò fuori dalla porta. Parcheggiò la bici davanti al liceo al suono dell’ultima campanella.

Corse verso l’armadietto per prendere il libro di Algebra e poi alla volta dell’aula, sgusciando dentro un momento prima che il professore chiudesse la porta. Andò a sedersi dietro Charlotte e ignorò le sue occhiate preoccupate.

A fine lezione, la ragazza lo aspettò per chiedergli come mai fosse arrivato tutto trafelato.

“Non ho sentito la sveglia.” mentì Regan, “Tu come stai?”

Charlotte si lasciò distrarre. Gli sorrise radiosa e inclinò il capo da una parte e dall’altra.

“Noti nulla di diverso?”

“Ti sei tagliata i capelli.”

“Sì! Che ne dici?”

Aveva solo dato una spuntatina, non aveva esattamente cambiato pettinatura.

“Stai molto bene. Ti dona.”

“Oh, quanto sei dolce!”

“Scusa, non posso restare, ho educazione fisica. Ci vediamo dopo!”

La giornata trascorse lenta, priva di eventi interessanti, se non si contava il test a sorpresa di Latino. Regan tornò a casa stravolto e assetato. Al fine di distogliere i pensieri dalla brama di sangue, si gettò nello studio, avvantaggiandosi nelle letture, negli esercizi e nella stesura dei saggi.

Tuttavia, quando il sole tramontò, il suo cervello gli ripropose la canzone del fantasma, parola per parola. Arreso, accantonò i compiti, aprì Google e digitò i primi versi, nella speranza di trovare uno straccio di indizio. La ricerca lo portò su Youtube in mezzo a filastrocche della buonanotte dai toni sinistri.

Sabato declinò cortesemente la proposta di Charlotte per un’uscita tra amici e rimase chiuso in camera a guardare documentari sugli animali della savana. Deirdre non seppe dirgli nulla di nuovo sull’indovinello del fantasma, ma promise che avrebbe continuato a studiarla.

Regan si ricordò di Roman solo quando lui gli scrisse un messaggio domenica, intorno all’ora di pranzo, per invitarlo a uscire insieme, dato che era guarito. Regan fu tentato di ignorare pure lui, ma, memore del verdetto dei tarocchi, optò per la prudenza: meglio tenere stretti gli amici che aveva, non si poteva mai sapere quando ne avrebbe avuto bisogno.

Regan gli rispose con il proprio indirizzo, poiché Roman si era offerto di venirlo a prendere in macchina. Pranzò, si fece una doccia e si vestì con le prime cose pulite che gli capitarono sotto mano.

Alle tre andò ad affacciarsi nel seminterrato, dove sua nonna stava lavorando. La radio diffondeva le note di un brano di John Coltrane per tutto l’ambiente. La salutò dicendole che sarebbe rientrato per cena e uscì.

La macchina di Roman accostò proprio in quel momento davanti al vialetto. La signora Greenwood sollevò il cannocchiale e lo puntò verso di loro. Regan le elargì un saluto e salì al posto del passeggero, senza neanche rivolgere un’occhiata al guidatore.

“Ciao, Regan. Come stai?”

“Oh, sei qui. Non ti avevo visto.”

“Non fare lo stronzo, sono convalescente.”

“A me sembri parecchio arzillo.”

Regan lo scrutò con la coda dell’occhio e notò che, salvo delle leggere occhiaie, aveva un aspetto sano. I suoi capelli profumavano di shampoo, i vestiti erano freschi di bucato e le guance avevano un colorito roseo. Era il ritratto della salute.

“Senti, pensavo di visitare i cimiteri. Ho letto che Ashwood Port ne ha due molto pittoreschi.”

“Se ti interessa osservare file di lapidi, okay.”

“Sono molto frequentati?”

“Non direi.”

“Perfetto. Allacciati la cintura.”

“Non sono un bambino.”

“E io non voglio perdere punti sulla patente.”

“Non siamo in una metropoli. Qui tutti rispettano il codice della strada. Il massimo che può capitarti è incontrare uno che va a cinquanta all’ora invece che a quaranta.”

“E se sbucasse un procione all’improvviso?”

“Un procione? Perché mai un procione dovrebbe-”

“Allacciati.”

Regan sbuffò, ma obbedì.

Roman era contento che Regan avesse accettato il suo invito. Onestamente, non ci contava. Dopo la luna piena, aveva trascorso tre giorni interi con suo padre ad allenarsi nella trasformazione e nel combattimento, a subire i suoi rimproveri, i suoi graffi e i suoi ringhi, e a lasciarsi malmenare per sviluppare il controllo sulle nuove abilità. Non avrebbe sopportato un’altra sessione, soprattutto considerando che l’indomani c’era scuola. Era immensamente grato all’universo per aver fatto sì che Regan fosse disponibile.

“Com’è che tu non hai la macchina?”

“Mia nonna la ritiene una spesa inutile. Insomma, non ci è mai servita.”

“E se devi percorrere lunghe distanze?”

“Esistono i taxi e gli autobus.”

“Ma le pompe funebri non dovrebbero possedere anche un carro funebre?”

“I familiari del defunto se lo noleggiano da soli.”

“Taccagni.” borbottò Roman.

“Pragmatici.” lo corresse Regan.

Dieci minuti dopo, parcheggiò nei pressi del cimitero St James. Si ergeva su grandi terrazzamenti in mezzo al verde e i sentieri erano circondati da alberi, cripte e lapidi. Regan gli fece una panoramica storica del posto, dicendogli che era stato costruito nel 1720, dopo che la moda delle fosse comuni e dei funerali in mare si esaurì. Vantava alcuni monumenti storici, come dei cannoni risalenti alla Guerra Civile, e mausolei, statue e tombe di confederati. I militi ignoti avevano un’area tutta per loro, nella parte est del cimitero.

La tomba più famosa apparteneva all’ammiraglio Wilson, antenato di Charlotte. Lo scultore lo aveva raffigurato in una posa marziale, curando nei minimi dettagli il suo abbigliamento e la foggia delle armi appese alla cintura. Il piede destro poggiava su uno scoglio di pietra, la mano sinistra era avvolta attorno alla spada e il suo sguardo severo puntava verso l’oceano.

Più di tutto, però, Roman rimase colpito dalla cappella gotica dedicata ai soldati che si erano distinti in battaglia. La facciata di pietra era ricoperta di edera rossa, che si arrampicava sopra gli archi dell’entrata e intorno al rosone. Somigliava a una cascata di sangue, che partiva dal tetto e colava giù per le colonne doriche, fino a depositarsi sul terreno.

A fine tour si fermarono a riposare in riva a un piccolo lago, avvolti dalla quiete. Sotto il pelo dell’acqua, i pesci nuotavano in gruppi, mentre tra gli alberi gli uccelli cinguettavano senza posa. Un leggero venticello fresco accarezzava il fogliame, scompigliando i capelli dei due ragazzi. Il sole era già basso sull’orizzonte, ma mancava ancora un po’ al tramonto.

Roman osservò curioso l’amico strappare distrattamente gli steli d’erba che circondavano i suoi piedi. Ne prendeva uno, lo tirava, lo guardava intensamente e poi lo buttava via. La ripetizione metodica di quei gesti lo stava ipnotizzando, così dovette scuotere la testa per non fare la figura dello stupido.

“Parlami di te, Regan.” disse infine, quando il silenzio smise di essere piacevole.

“Che vuoi che ti dica?”

“Quello che ti pare.”

Regan parve ponderare sulla risposta per un po’. Poi sbuffò e infilò le mani nelle tasche del giubbotto, lo sguardo puntato sulla superficie liscia del lago.

“La mia materia preferita è Latino, odio gli sport e adoro i gatti.”

Roman mugugnò sovrappensiero, finché non ruppe il silenzio con delle domande che gli stavano ronzando nel cervello da settimane.

“Come stanno le cose tra te e Gregory? Quand’è iniziata la vostra faida?”

“Siamo nemici giurati. Per sua scelta, non mia. Non mi sarei mai accorto della sua esistenza, se al secondo anno delle medie non si fosse avvicinato a me con un insulto pronto sulla lingua. In quel momento, ha avuto inizio la guerra. Le battaglie le innesca sempre lui, spalleggiato da Derek e Kevin. Io mi limito a difendermi.”

“Perché ce l’ha con te?”

“Questa è una domanda da un milione di dollari.”

“Tua nonna non è mai intervenuta? Cioè, immagino che la scuola abbia preso provvedimenti disciplinari contro Gregory, a un certo punto.”

“No. Mia nonna non voleva attirare su di me più attenzione del necessario e alla scuola non importava un fico secco.”

“Mi stai dicendo che Gregory gode dell’immunità dalla seconda media?”

“Già. Non che mi importi, dato che lo riduco a un colabrodo tutte le volte che prova ad attaccarmi. E se mi fa un dispetto, glielo restituisco con gli interessi. Non sono il tipo che resta zitto a subire.”

“Ma Deirdre… tua nonna davvero non ha mai fatto niente per proteggerti?”

“So proteggermi da solo, Roman.”

“Ho capito, ma-”

“Deirdre non ha mai combattuto le mie battaglie. Piuttosto, mi ha insegnato ad affrontarle a testa alta, a rialzarmi dopo una sconfitta e a vincere con le mie sole forze. È grazie a lei se oggi non ho più paura del dolore o di un branco di stupidi bulletti.”

Roman scosse il capo, incredulo e confuso.

“Eri solo un bambino!”

“E allora?”

Roman gesticolò con enfasi, cercando di comunicare con le mani e ciò che non riusciva a esprimere a parole.

“Deirdre non è mia madre, Roman. E anche se lo fosse, non sarebbe la tipica madre da pubblicità. Invece che le favole della buonanotte, prima di andare a dormire mi leggeva L’arte della guerra!” sorrise al ricordo, per poi tornare subito serio, “Pensa quello che vuoi, ma lei c’è sempre stata per me, non mi ha mai fatto mancare nulla. Mi ha dimostrato amore insegnandomi ad accettare me stesso; mi ha protetto insegnandomi a proteggere me stesso; si è presa cura di me insegnandomi che il mondo non è rose e fiori, e prima lo si capisce, meglio è. C’è forse qualcosa di sbagliato in questo?”

“Certo che no. Solo…” sbuffò e afflosciò le spalle, “Suppongo tu abbia ragione. Se non avesse fatto quello che ha fatto, credo che oggi saresti un ragazzino viziato che non sa neanche come allacciarsi le scarpe.”

“Esatto.”

Un velo d’amarezza calò sulle iridi azzurre di Roman, puntate sulla linea dell’orizzonte.

“Fino a poco tempo fa, anch’io vantavo un rapporto simile, speciale.”

“Con chi?”

“Declan. Lui è l’unico che… era l’unico…” la sua voce si perse nel vento, il suo sguardo di fece lontano.

Regan incrociò le gambe e intrecciò le mani in grembo. La sua postura più aperta sciolse gli ultimi stralci di tensione in Roman, incoraggiandolo a buttar fuori la negatività che lo stava avvelenando da settimane. Anzi, forse da anni.

“Ultimamente, i rapporti con i miei non sono più così distesi. Con mio padre non lo sono mai stati, a dire il vero. Lui è il tipico maschio alfa, autoritario, severo, freddo. Quando ti trovi al suo cospetto, provi l’impulso di chinare il capo in sottomissione e obbedire a ogni suo ordine. Da piccolo, mi faceva tanta paura. Mi nascondevo sempre dietro a mia madre. Non mi importava di fare la figura del bambino fifone. Ero un bambino fifone.”

“Ti ci vedo.”

“Stronzo.” lo insultò, anche se non risultò credibile a causa del sorriso che gli curvava le labbra, “Con mia madre me la intendevo un po’ di più, ma lei, come tutti, era sottomessa a mio padre, perciò non era il difensore che prediligevo. Questo era Declan.”

“Studia alla Columbia, giusto?”

“Sì.”

“Ti manca.” disse Regan, e venne fuori più come un’affermazione che una domanda.

Roman sospirò e annuì, adombrandosi: “Siamo sempre stati vicini. Fratelli, migliori amici, una squadra, l’inseparabile duo. Almeno fino a un paio d’anni fa.”

“Cosa è successo?” chiese reprimendo uno sbadiglio, ma Roman non se ne accorse.

“Declan è sempre stato un ribelle, e io lo ammiravo per questo. Sognavo di diventare come lui, un giorno: forte, orgoglioso dei miei successi, fiero delle mie scelte e della mia indipendenza. Da bambini, era lui la mente di quasi tutte le nostre marachelle. Gli piaceva giocare sporco, usare i trucchetti e i sotterfugi; non gli importava chi veniva danneggiato nel processo, solo che lo scherzo andasse come lui aveva pianificato. Quando ci beccavano – cosa che accadeva puntualmente – riusciva a districarsi dall’inevitabile punizione ogni dannata volta. Non so come facesse, è un genio del male. Ma se in passato si limitava a dispetti infantili, tipo nascondere la penna preferita di nostro padre o disegnare fiorellini sulla sua cravatta subito prima di un incontro di lavoro importante con gente altrettanto importante, da ormai due anni ha alzato la posta. Sta facendo sul serio, e questo mi spaventa. Schierarsi dalla parte sbagliata, cioè contro nostro padre, può portare soltanto alla rovina.”

“Perché lo sta sfidando?”

“Brama la libertà.”

“Libertà da cosa?”

“È il primogenito, Regan. La nostra è una famiglia all’antica. Declan è l’erede, colui che, sin da quando era nel ventre di nostra madre, è stato destinato a prendere il posto di papà. Le scuole che ha frequentato, le persone a cui è stato presentato, perfino quelle con cui ha fatto sesso: tutto è stato progettato a tavolino da nostro padre e i suoi… alleati, chiamiamoli così. Un giorno le redini dell’impero passeranno a lui e papà vuole che sia pronto.”

“Siamo nel ventunesimo secolo. Dovrebbe essere libero di compiere le sue scelte.”

Roman sbuffò, puntellò le mani sul terreno erboso dietro di sé e alzò lo sguardo verso il cielo color indaco, tinto di sfumature rossastre vicino all’orizzonte.

“Lo so, ma finché ci sarà nostro padre non è che pura utopia. Sai, un tempo io e Declan ci confidavamo l’uno con l’altro, ci raccontavamo tutto. In una di quelle occasioni, mi confessò di sentirsi in trappola. Nostro padre ha cercato di plasmarlo a sua immagine, ma Declan è… beh, Declan. Bastardo, intelligente, arguto, privo di scrupoli, ambizioso, devoto a coloro che ama. Un po’ come te, ora che ci penso.” gli scoccò un sorriso, “Prendere ordini da qualcuno va contro la sua natura. Per questo lui e papà litigano ogni volta che si trovano per più di due minuti nella stessa stanza. Credimi, è parecchio spiacevole. Papà era convinto che il college gli avrebbe insegnato il rispetto per l’autorità e la disciplina, invece ha solo aumentato il divario tra loro.”

Roman si sdraiò, strappò uno stelo d’erba e se lo mise in bocca. Regan si rassegnò ad ascoltare, anche se tutto ciò che voleva era tornarsene a casa a vegetare sul divano.

“Non torna a casa da mesi. Non chiama più, non risponde ai miei messaggi. Se dovesse davvero decidere di staccarsi dalla famiglia, papà mi proibirà di vederlo. Cancellerà il suo nome dall’albero genealogico e ordinerà a tutti di non pronunciarlo mai più. Sarà come se fosse morto. Sembra esagerato, ma è così che funziona. E non riesco ad accettarlo.” la sua voce si incrinò, ma trattenne stoicamente le lacrime, “Non so nemmeno se si ricorda la nostra promessa.”

“Quale promessa?”

“Che saremmo sempre stati una squadra. Lui la mente, io il braccio. Ci saremmo allontanati insieme dalla famiglia, ci saremmo fatti un nome tutto nostro, da soli, lavorando sodo giorno dopo giorno. Ci giurammo che nessuno avrebbe abbandonato l’altro, mai.”

“Uhm. Okay.”

Roman lo fissò basito, chiedendosi se facesse sul serio. Regan inarcò un sopracciglio, piegò il capo di lato e assunse un’aria perplessa.

“Io apro il mio cuore e tu lo calpesti così?”

“Ti aspettavi una perla di saggezza?”

“Sì!”

“Va bene, eccola: smetti di fare la vittima e dimenticati di tuo fratello, perché è chiaro che lui si è già dimenticato di te. Ti ha abbandonato su una metaforica spiaggia come una balena morente e, se non ti ritufferai in mare con le tue forze, ti essiccherai e marcirai lentamente, finché di te non rimarrà altro che una putrida carcassa.”

“Che immagine poetica.”

“Tutto è destinato a finire, Roman. Prendi questo fiore, per esempio.” gli mostrò una margherita vicina a sé, “Nasce, sboccia e fiorisce. Pare un inno alla vita. Invece, la sua bellezza non è che il riflesso dell’ineluttabilità della morte, perché è effimera. Il fiore è destinato ad appassire. Niente dura per sempre, nemmeno i legami di fratellanza. In un modo o nell’altro, prima o poi, tu e Declan vi sareste allontanati. È accaduto adesso, e fa schifo, ma che vuoi farci? C’est la vie. Ma mentre tu sarai occupato a crogiolarti nel rammarico, io mi godrò le nuove ricchezze che mi circondano, senza alcun riserbo o rispetto del tuo lutto, perché la vita è troppo breve per perdere tempo dietro ai rimorsi, a ciò che avrebbe potuto essere e invece non è. Quando deciderai di smettere di piangerti addosso, fammi uno squillo.”

Il diciassettenne lo squadrò sbalordito per un’altra manciata di istanti, poi scoppiò in una risata grassa, liberatoria, sincera, che spazzò via rancore, tristezza e rabbia in un batter d’occhio.

“Solo tu, Regan. Solo tu.” commentò sconsolato tra risolini isterici.

“Sono speciale.” rispose piatto, provocando un secondo attacco d’ilarità nell’altro.

Non appena si fu calmato, Roman propose di visitare l’altro cimitero prima che facesse buio. Regan gli rivolse un ghigno inquietante.

“Perché fai quella faccia?” indagò Roman, sulle spine.

“Lo scoprirai.”

Dopo essersi fermati a mangiare un panino a un chiosco, a piedi raggiunsero il cimitero di Blackhill. Si stagliava su una collina circondata dal bosco, appena fuori città. Le lapidi erano antiche e i nomi incisi sopra di esse illeggibili. La pietra consumata dal tempo e dalle intemperie era ricoperta di edera e muschio. Le erbacce dominavano lo spiazzo di terra annerita, un indizio più che chiaro del fatto che il cimitero fosse abbandonato da anni. Forse addirittura secoli.

“È uno dei posti più infestati dell’intero stato. Blackhill, ‘la collina nera’. Il nome deriva dal colore del terreno.” spiegò Regan.

“Come mai è così?”

“Colpa del fuoco. Questo luogo viene chiamato anche ‘la collina della cenere’.”

“Ci fu un incendio?”

“Mh-hm.” Regan scosse il capo per negare e rinnovò il ghigno, intrecciando le mani dietro la testa, “Secondo le leggende locali, le vere streghe abitavano qui, ad Ashwood Port. Quelle di Salem erano solo povere donne che amavano la natura e si divertivano a disegnare pentacoli per combattere la noia. Le persecuzioni scoppiarono nell’autunno del 1693, a distanza di un anno dall’inizio di quelle che si abbatterono su Salem. In una settimana, una presunta congrega venne individuata e messa al rogo, proprio dove ci troviamo noi adesso. Tredici donne morirono, tra cui una ragazzina di quattordici anni.”

“È terribile…” balbettò sgomento Roman.

“Vennero sepolte qui, dove esalarono l’ultimo respiro, perché gli abitanti non volevano che la loro aura negativa avvelenasse la terra altrove. All’epoca, questo era terreno sconsacrato, poi, nell’Ottocento, il pastore Baldwin lo benedì e dichiarò che le donne uccise sarebbero state considerate delle martiri. Nella chiesa in città ci sono degli affreschi sulle pareti che le ritraggono come sante.”

“Andrò a vederli. Ma perché dici che questo cimitero è infestato?”

“C’è chi racconta di aver udito latrati di cani tra le lapidi. Altri affermano di essersi sentiti osservati per tutto il tempo. Altri ancora hanno detto di aver fiutato l’odore di fumo e carne bruciata. Gli investigatori del paranormale hanno rilevato voci di uomini e donne con i loro dispositivi. Uno ha pure detto di aver visto un fantasma. Sai, c’è un sito web dedicato a Blackhill, è piuttosto famoso.”

“Wow. Tu credi ai fantasmi?”

Regan gli scoccò un’occhiata in tralice e decise di metterlo alla prova.

“Sì.”

“Ne hai mai visto uno?”

“Più di quanti vorrei…” bofonchiò, “E tu ci credi?”

“Non lo so. Un attimo, li hai visti davvero?”

“Ti ricordo che nel seminterrato accogliamo cadaveri un giorno sì e l’altro pure.”

“E sono come nei film?”

“Vuoi dire ‘inquietanti’? Alcuni sì.”

“E come funziona? Cioè, cosa fanno?”

Regan si stupì di non sentirsi prendere in giro. Una persona normale si sarebbe fatta grasse risate o lo avrebbe guardato storto, come se fosse pazzo. Roman si stava rivelando una piacevole sorpresa.

“Non fanno niente. I fantasmi non sanno dove si trovano, non percepiscono la realtà. Non sono in grado né di sentirci né di vederci, tanto meno toccarci. Vagano tra i vivi per un breve periodo, finché non ricevono le esequie, poi passano oltre il Velo.”

“Allora perché la gente è convinta che possano interagire con il mondo materiale? Deve esserci un fondo di verità, altrimenti la credenza non sarebbe così diffusa.”

“Gli spettri sono quelli da cui hanno origine le storie che sentiamo in giro. Sono spiriti malvagi. Alcuni sono semplicemente dispettosi, altri dei veri e propri esseri maligni con cattive intenzioni. Tormentano i viventi perché si annoiano. Sono rarissimi, però.”

“Perché?”

“Esistono delle entità che regolano il flusso degli spiriti da questo mondo a quello oltre il Velo. Sono chiamati Mietitori. Raccolgono le anime dei defunti e le accompagnano nel luogo che diventerà la loro dimora fino al Giorno del Giudizio. Nessuno sfugge loro. Tutto ciò che è spirito deve passare oltre, non può indugiare su questo piano più del dovuto. Se un Mietitore si imbatte in uno spettro, lo trascina dall’altra parte all’istante.”

“Come sai che è così? Hai mai visto un Mietitore?”

“A-ha. Somigliano ai Dissennatori di Harry Potter, ma hanno le corna, denti affilati e la faccia dipinta di rosso come le maschere dei demoni giapponesi.”

“Sul serio?”

“No, Roman, ti sto prendendo per il culo. I Mietitori non possono attraversare il Velo, quindi nessun vivente può vederli.” disse con voce neutra, sforzandosi di non abbandonarsi alle risate.

Roman assunse un’aria offesa e, per qualche secondo, parve indeciso se rispondere a tono o lasciar perdere. Alla fine, tornò alla carica con le domande, più curioso che mai.

“Se non possono attraversare il Velo, come riescono a… traghettare i defunti dall’altra parte?”

“Li risucchiano.”

“Come una specie di aspirapolvere soprannaturale?”

Regan ridacchiò: “Questa non l’avevo ancora sentita.”

“E dove si trova il Velo?”

“È ovunque, intorno, sotto, sopra di noi. Ma non possiamo vederlo, perché siamo vivi.”

“Intendi che un Mietitore potrebbe stare camminando accanto a me, in questo momento, dall’altro lato del Velo?”

“Potrebbe.” annuì e sbirciò in direzione di Roman con un’espressione sospettosa, “Non ti vedo tanto scosso.”

“Dovrei fuggire via urlando?”

“Più o meno. O darmi dello svitato e riderci su.”

“Ho sempre avuto una mente aperta.” ammise Roman con una scrollata di spalle, “I fantasmi non mi piacciono particolarmente, pensare ai Mietitori mi mette i brividi – grazie per l’immagine mentale, a proposito, non me la leverò più dalla testa – ma non disdegno acquisire nuove conoscenze, qualunque sia l’ambito.”

Regan inarcò un sopracciglio e non commentò.

Passarono il resto della visita a chiacchierare di scuola, pettegolezzi e altri argomenti superficiali. Prima di lasciare il cimitero, però, seduti a gambe incrociate su una lapide abbastanza grossa da accogliere entrambi, Roman si schiarì la gola e lanciò un’occhiata insicura a Regan.

“Posso chiederti una cosa, senza che ti arrabbi?”

“Okay.”

“Qual è il motivo dietro alla farsa che hai imbastito con i popolari?”

Regan lo trafisse con uno sguardo raggelante: “Non so di cosa stai parlando.”

“Regan, ci conosciamo da, quanto? Circa tre settimane? Sembra poco, ma non per me. Ti ho già inquadrato, so come sei. Non sto dicendo che le persone non possono cambiare, solo che non succede dal giorno alla notte. Sei passato da cavernicolo taciturno e introverso a tenero cucciolo bisognoso di coccole e donatore di sorrisi. Non ti sto giudicando, sono solo preoccupato. Non sai quel che ho fatto per guadagnarmi l’accesso a una cerchia che io consideravo d’élite. Ma se per entrarci devi sopprimere chi sei e modellarti secondo i loro gusti, fidati, non ne vale la pena.”

“Non è così, Roman.”

“E allora dimmi com’è.”

“Ho bisogno di più amici. Sono… il mio scudo, capisci?” vedendolo aggrottare le sopracciglia con scetticismo, scrollò il capo, “No, certo che non capisci. Non hai passato sedici anni della tua vita ignorato, invisibile o perseguitato dalle malelingue.” sbottò alzandosi, infilò le mani nelle tasche e gli diede le spalle, “Oh, sei stato arrestato per atti vandalici, sai che roba! Non sei mai stato cacciato da un ristorante perché di te mormorano che sei uno zombie e vai in giro a scuoiare la gente. Non sei mai stato vittima di bullismo sette giorni su sette dalle elementari. Non hai mai lottato per restare in piedi dopo un pestaggio quando avevi solo nove anni. Non hai mai dovuto sopportare le occhiate impaurite delle maestre o quelle dei genitori degli altri bambini, che hanno persino cercato di far firmare una petizione per espellerti da scuola a causa del tuo aspetto inquietante e delle chiacchiere che circolano su di te.” sputò con crescente amarezza.

Roman boccheggiò come un ebete, incapace di articolare un suono.

“Il Regan che hai conosciuto tu è un perdente, destinato a fallire, non importa quanto si sforza per resistere alle correnti che lo trascinano giù. Questo Regan, invece, ha fatto in pochi giorni ciò che il vecchio Regan non è mai riuscito a fare: ha stretto amicizia con i popolari. Un traguardo prima considerato irraggiungibile, ora divenuto realtà. Hai davvero bisogno che ti spieghi quali sono i vantaggi di avere amici ricchi? Ti faccio un disegnino?”

“Posso immaginarli, ma-”

“Ma cosa? La mia vita è una fottuta arena, Roman, con tanto di gladiatori e leoni feroci, che non aspettano altro che un mio passo falso per dilaniarmi o farmi a fette. Stringere amicizia con loro è semplicemente una tattica di sopravvivenza, non c’è dietro chissà quale motivo filosofico e strappalacrime. Non me ne frega un accidente di Lorie, Mike e compagnia bella. Mi interessano solo i loro contatti, la loro influenza nella comunità.”

“D’accordo, ma perché mentire? Perché fingere di essere quel che non sei? Sono sicuro che, conoscendoti meglio-”

“Se non avessi mentito, non avrei mai ottenuto la loro amicizia.” lo interruppe brusco, “Sun Tzu ha detto ‘La condotta della guerra si basa sull’inganno’.”

“Ma tu non sei in guerra…”

“Sì che lo sono. La vita è guerra. E io ho l’intenzione di uscirne vincitore, con ogni mezzo necessario.”

“Non credi di essere un filino drammatico?”

“La realtà che mi circonda è drammatica.”

“Okay, come vuoi. Ma io rimango dell’opinione che il Regan originale è molto più figo.” mugugnò imbronciato, “È simpatico, interessante… e un ottimo amico.”

“Anche questo Regan può essere un ottimo amico. Devi solo lasciargli carta bianca.”

“Ciò richiederebbe un enorme atto di fiducia.”

“Se sei davvero il mio migliore amico, dovrebbe venirti naturale.”

“Se sono i soldi e i contatti che desideri, posso darteli io. Sai che la mia famiglia è ricca.”

Regan si corrucciò e si voltò per squadrarlo con espressione basita: “Mi stai proponendo di diventare il mio sugar daddy?”

“No!” esclamò, poi si umettò le labbra, dondolò impacciato sulle piante dei piedi, si strappò con i denti una pellicina sul pollice e rivolse a Regan un sorriso esitante, “Sì…?”

Il moro abbassò le palpebre a mezz’asta, il viso una maschera granitica. Girò di nuovo i tacchi e marciò in silenzio verso l’uscita del cimitero.

“Regan, aspetta! Scherzavo! Ti prego, aspetta!” gridò Roman correndogli dietro e, quando lo raggiunse, gli bloccò il passaggio con il proprio corpo, “Per favore, parliamone.”

“Non c’è nulla di cui parlare, sei stato cristallino. Ora levati dal cazzo.”

“Io ti accetto!” dichiarò con urgenza, “Ti accetto, Regan. Per come sei davvero. Non mi interessano i tuoi piani di conquista, puoi divertirti come ti pare. L’unica cosa che voglio è che tu sia te stesso mentre sei con me. Non hai bisogno di fare il carino. Sei il mio migliore amico, giusto? Per me è fatta. Ti ho scelto e non ti lascerò andare mai più.”

Regan lo scrutò per un minuto abbondante, premurandosi di non tradire alcuna emozione. Poi roteò gli occhi e sbuffò, affiancandolo per uscire dal cimitero.

“Sei uno stronzo sentimentale.” lo udì borbottare Roman.

“Ti voglio bene.”

“Ora stai esagerando.”

“Ma come? Tu non mi vuoi bene?”

Regan grugnì.

Roman lo abbracciò di slancio, avviluppandolo in una morsa spaccaossa che gli strappò il fiato dai polmoni. Regan si ritrovò praticamente con la faccia premuta sulla carotide dell’altro. I canini scesero dalle gengive all’istante. A parte un improvviso irrigidimento, Roman non registrò altro.

“Okay, basta. Mi attaccherai le pulci.” disse Regan dopo meno di dieci secondi, districandosi dai tentacoli di Roman con una scrollata di spalle.

“Non ho le pulci. E la smetti di paragonarmi a un cane, per favore?”

“Puzzi di cane.”

Roman sbuffò e scosse debolmente il capo.

Regan lo accompagnò alla macchina. Al sentirsi invitare per l’ennesima volta a salire, insisté con toni più taglienti per tornare da solo.

“Non mi pesa riportarti a casa.” protestò Roman.

“Non ti è di strada. E poi ho voglia di camminare.”

“Abbiamo camminato tutto il pomeriggio!”

“Buonanotte, Roman. Ci vediamo domani a scuola.” lo salutò, chiudendogli la portiera in faccia con delicatezza e fermezza insieme.

Roman sbuffò arreso, la delusione riflessa nel broncio.

Non appena la macchina sparì alla vista, Regan si scrocchiò il collo sospirando e strusciò la lingua sulle zanne. Si erano allungate a velocità supersonica, rendendogli difficile parlare mentre tentava di coprirle con le labbra. Non capiva perché non riuscisse a ritrarle. Prese in considerazione la sete, dato che aveva saltato la razione serale. Ma quando, durante l’abbraccio, aveva inalato l’odore della pelle dell’amico – un miscuglio di cane bagnato, erba tagliata, bosco, terra riscaldata dal sole – non aveva avvertito alcun istinto di morderlo per nutrirsi.

Qualunque fosse stata la ragione, una camminata nell’aria frizzante di ottobre magari lo avrebbe aiutato a calmarsi.

 
*

“Sogni d’oro, amore mio.”

Timothy sorrise a sua madre quando lei si chinò per stampargli un bacio sulla fronte. La guardò spegnere la lampada a forma di navicella spaziale sul comodino e dirigersi verso la porta. Non voleva che se ne andasse, ma ormai era grande e i bambini grandi dormono da soli, non nel lettone con i genitori. Vedendola uscire nel corridoio, serrò le labbra per impedirsi di chiamarla.

Quando la porta si chiuse, Timothy si focalizzò sul tonfo che i piedi della donna producevano sulla moquette e sui rumori provenienti dal bagno, dove suo padre si stava preparando per andare a dormire. Quei suoni familiari lo cullarono e, prima che se ne accorgesse, sprofondò nel sonno.

Non seppe cosa lo svegliò nel bel mezzo della notte. Non aveva idea di che ora fosse, ma il silenzio assordante che ammantava la casa gli suggerì che era molto tardi. Dalle tende filtrava la luce tenue del lampione sotto la sua camera, una sottilissima lama giallognola che tagliava in due il pavimento.

Si alzò a sedere e studiò la mobilia in cerca di qualcosa fuori posto, ma tutto era come lo aveva lasciato.

Eccetto l’anta dell’armadio.

Era sicuro che sua madre l’avesse chiusa, perché Timothy odiava quando restava aperta. Ora era accostata, rivelando un piccolo spiraglio di buio.

“Mamma…” pigolò, troppo piano perché qualcuno lo sentisse.

Deglutì, il corpo scosso da un forte brivido.

La luce del lampione tremolò e si spense, gettando la camera nella più completa oscurità.

Timothy esalò un minuscolo gemito. Si lanciò di lato per accendere la luce sul comò, ma essa sembrava essersi fulminata. Allora si sdraiò di nuovo e si sotterrò svelto nelle coperte.

Se si fosse nascosto, il mostro non lo avrebbe visto.

Si pentì di non aver chiesto al suo papà di controllare che non ci fosse niente sotto il letto e nell’armadio, ma non voleva fare la figura del poppante. A otto anni doveva dimostrare di essere l’ometto di casa, non un frignone che aveva ancora paura del buio.

Il respiro affannoso si infranse contro il tessuto morbido del piumone. Il sudore freddo gli appiccicò il pigiama alla pelle. Le dita strinsero con forza le coperte per mantenerle in posizione.

Per un po’ non udì nulla, solo il battito impazzito del suo cuore e il fischio che gli aveva preso in ostaggio le orecchie. Poi, dopo quella che gli parve un’eternità, il silenzio venne squarciato dal cigolio dell’anta dell’armadio.

Timothy si morse un labbro per non urlare. Se avesse emesso un solo fiato, il mostro lo avrebbe individuato in un baleno e se lo sarebbe mangiato.

Quanto gli mancava Russel, il suo fedele cagnolino e intrepida guardia del corpo nelle ore notturne. Con lui come sentinella si era sempre sentito protetto, convinto che, al minimo segnale di pericolo, Russel lo avrebbe svegliato abbaiando, dandogli il tempo di correre nella camera dei genitori e svegliarli.

Adesso, però, era solo. Russel era morto investito da un’auto la settimana precedente. Nonostante le rassicurazioni di sua madre, che il suo fratellino peloso avrebbe per sempre vegliato su di lui dal paradiso, Timothy era consapevole di non aver più nessuno a difenderlo mentre era prigioniero nelle maglie del sonno.

Gli occhi gli si riempirono di lacrime, la pelle si accapponò e le viscere si contrassero in preda al terrore.

Il materasso si affossò, vicino ai suoi piedi.

Si irrigidì e trattenne il respiro. Doveva restare immobile e muto come una statua.

Qualcosa sfiorò la coperta con un debole fruscio.

Il mostro era sopra di lui, lo sentiva. Avvertiva la sua presenza. Sibilava come un serpente.

Quando finalmente si decise a gridare per chiamare la madre in suo soccorso, il piumone venne strattonato via, esponendo la sua figura al buio e ciò che vi si annidava.

Una mano scheletrica e nera gli cinse il collo e lo strangolò, soffocando le sue urla.

In un attimo, il mostro lo sollevò e lo risucchiò dentro l’armadio.

L’anta si chiuse con uno scatto e il lampione in strada si riaccese, rischiarando la camera vuota con la sua luce giallognola.

 
*

Regan stava camminando sul marciapiede a passo sostenuto, le mani nelle tasche del giubbotto e la testa bassa, incurante di ciò che lo circondava. Il suo respiro si condensava in piccole nuvolette davanti al viso. Le zanne stavano risalendo lentamente, troppo lentamente, riluttanti a tornare nel loro nascondiglio all’interno delle gengive. E passarci sopra la lingua per sfogare lo stress non stava aiutando.

Aveva fatto il giro lungo, preferendo rimanere fuori finché non avesse riacquisito il controllo, piuttosto che rincasare pieno di energia nervosa e preoccupare Deirdre. Ora, però, cominciava a sentire la stanchezza. Era tardi, probabilmente intorno a mezzanotte.

Imboccò una scorciatoia e aumentò l’andatura. Il ticchettio morbido delle suole sull’asfalto rimbalzava sui muri, l’unico rumore nel silenzio pesante che avvolgeva tutto. Le luci di una sola casa erano ancora accese, in fondo alla strada deserta.

Estrasse il cellulare per avvertire la nonna che sarebbe arrivato tra una decina di minuti, ma vide che la batteria era scarica. Imprecò a denti stretti, preparandosi psicologicamente a ricevere la ramanzina che di sicuro Deirdre aveva in serbo per lui.

All’improvviso, si bloccò. I muscoli guizzarono sotto la pelle, il battito accelerò e tutti i peli del corpo si rizzarono. Un brivido gli percorse la schiena, dai lombi alla nuca, e sparì cedendo il posto a un fastidioso formicolio.

La cosa più strana, tuttavia, fu la rabbia che lo pervase. Essa partì da qualche parte nello stomaco e risalì fino a costringergli la gola in una morsa, incoraggiando un ringhio basso e minaccioso a rotolare fuori dalla bocca.

Regan sgranò gli occhi, frastornato e all’erta. Quella sensazione gli era familiare. Era lo stesso tipo di furia accecante che lo assaliva durante gli incubi. Il suo istinto gli gridò a gran voce che il pericolo era praticamente a una spanna da lui, invisibile ma tangibile. Esaminò con sguardo febbrile i profili delle case e dei cortili.

Un sibilo gli giunse alle orecchie. Girò il capo verso destra con un movimento brusco, l’attenzione calamitata da una casa a due piani, simile alle altre che delimitavano la strada.

Il lampione sopra la sua testa tremolò per un paio di secondi, poi si spense.

Le zanne, ritratte per metà, scesero di nuovo. Siccome sibilo copriva tutti gli altri suoni, si concentrò sull’olfatto. Colse una scia dolciastra e metallica, l’odore tipico di un cadavere putrefatto. Sotto di essa, altrettanto forte, riconobbe quello acre della paura.

Sollevò lo sguardo di ghiaccio e lo puntò su una delle finestre del secondo piano. Nonostante fosse in grado di vedere perfettamente nel buio, non riuscì a scorgere nulla, quasi che la stanza da cui provenivano i due odori si fosse trasformata in un buco nero.

Avanzò nel vialetto, un passo dopo l’altro, simile a un predatore a caccia. Mise un piede sul primo gradino della scala del portico e iniziò a salire. Sostò innanzi alla porta. Trattenendo il respiro, protese una mano verso il pomello.

Una macchina con a bordo ragazzi schiamazzanti sfrecciò lungo la strada, un pezzo di musica rap sparato a tutto volume dalle casse.

Il sibilo si interruppe.

Il lampione si riaccese.

In quel momento, Regan seppe di essere arrivato troppo tardi. Qualunque cosa fosse, se n’era appena andata.

Quando ripensò al tarocco del Diavolo che Deirdre gli aveva messo in mano, rabbrividì. C’era davvero un intruso nel suo territorio. E non un intruso qualunque, ma uno appartenente alla categoria soprannaturale.

Il tarocco del Diavolo. Il diavolo… un demone?!, si chiese allibito.

Scese dal portico e tornò sul marciapiede. Si guardò intorno per appurare di non avere pubblico, poi si arrotolò la manica della felpa fino al gomito e si azzannò il polso, ingurgitando avidamente ampie sorsate del proprio sangue per calmarsi. Ciononostante, la rabbia continuò a pulsare al ritmo forsennato del suo cuore per il resto della notte.








 
  
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