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Autore: Lost In Donbass    10/02/2019    1 recensioni
Denis è arrogante, spaccone e attaccabrighe, ma in realtà cerca solo qualcuno da amare. E che lo ami a sua volta.
Valentina è depressa e devastata, ma riesce sempre a dipingersi un sorriso sulle labbra. Per ora.
Ylja ha una famiglia distrutta, un fidanzato disturbato e gli occhi più belli di tutta la Russia. Però è tremendamente stanco.
Valerya ha tanti demoni, lo sanno tutti. Nessuno però ha mai tentato di esorcizzarla.
Aleksandra sembra essere la ragazza perfetta, anche se nasconde un segreto che non la farebbe più sembrare tale.
Kuzma tira le fila e li tiene tutti uniti, è quello che li salva. Eppure sa che non farà una bella fine.
Sono arrabbiati e distrutti. Sono orgogliosi e violenti. Amano, odiano, bevono e si sballano.
Sono i ragazzi del Blocco di Ekaterimburg e questa è la loro storia.
Genere: Angst, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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CAPITOLO DICIOTTO: DEVASTATI COME NON MAI

Вызови такси, я уеду домой.
Мне нельзя за руль — я пила вино.
Ты теперь не мой, мой, мой.
Кто тому виной уже всё равно
 
(Chiama un taxi, me ne vado a casa.
Non posso guidare, ho bevuto del vino.
Ora non sei più mio, mio, mio.
Di chi è la colpa, non importa.)

[Мари Краймбрери - Вызовы такси]

 
 
Denis stava bevendo, ormai da quelle che parevano ore. Abbandonato in un bar dei più tristi, appeso disperatamente alle bottiglie di birra che andavano ad aumentare vertiginosamente di numero, pensava a quello che gli aveva rivelato Valentina. Un figlio. Avrebbe avuto un figlio dalla sua migliore amica, un figlio di cui lei non gli aveva mai parlato. Si chiese se fosse davvero così stupido e infantile per aver convinto i suoi amici a non rivelargli nulla. L’immagine scanzonata e superficiale che si era costruito aveva davvero preso così campo nella sua vita? Dio, che casino. Bevve ancora un sorso, sapendo che sarebbe finito ubriaco marcio sul pavimento, ma a quel punto non gli importava nemmeno più. Non dopo che l’avevano fatto sentire come il peggiore degli idioti, il peggiore degli amici. Già il fatto di essere andato a letto con Valya gli ricordava quanto avesse sempre maltrattato Sasha, tradendola a destra e a manca, ma poi tutto quello che ne era succeduto … e Kuzma, che si era dovuto sobbarcare quel disastro da solo, come al solito … no, Denis stava male, si sentiva a pezzi. Era un dolore al cuore così forte da farlo quasi piegare in due, qualcosa che non se ne sarebbe andato con qualche birra e qualche sigaretta, era qualcosa che sarebbe rimasto come un cancro. Pensò a quanto avrebbe avuto bisogno di Yurij, in quel momento, e contemporaneamente a quanto non lo volesse vedere. Si sentiva così stupido, così egocentrico e ignorante. Si prese il viso tra le mani, le guance bollenti e i capelli arruffati: era a pezzi e non sapeva come uscirne. Era solo, solo come mai lo era stato, solo con i suoi demoni e con la sua devastazione interiore. Valya, la piccola Valya che ascoltava musica emo e che cercava di combattere la sua depressione, Valya, con cui litigava sempre ma con la quale alla fine si faceva le risate più sane, Valya, che gli saltava sulle spalle e che suonava la chitarra come se non ci fosse un domani, Valya, che stava male ma che riusciva sempre a dipingersi un sorriso sulle labbra, Valya, che aveva dovuto affrontare un aborto a soli diciassette anni.
Denis sospirò rumorosamente, facendosi servivere l’ennesima vodka ed ebbe un singulto al pensiero del figlio che avrebbero potuto avere. Sarebbe stato un maschio o una femmina? O forse due gemelli? Come l’avrebbero chiamato? Sarebbe stato bello quanto lui, o microscopico quanto Valya? Avrebbe avuto la loro forza e la loro depressione? Sarebbe diventato il nuovo Jimi Hendrix, o il nuovo Pasternak? Oppure sarebbe stato totalmente nella norma, come i suoi genitori? Erano tutte oziose domande che divoravano lentamente l’animo del ragazzo, domande rivolte a un bambino mai nato, un bambino di cui lui non sapeva nulla, un piccolo feto ucciso ancora prima di sapere chi fosse. Si chiese anche come stesse Kuzma, che si era dovuto sobbarcare quel segreto al posto suo, Kuzma, che era sempre lì per tutti quando nessuno era mai lì per lui. Avrebbe dovuto esserci lui, in quell’ospedale, lui a tenere la mano dell’amica, lui ad abbracciarla dicendole che sarebbe andato tutto bene, e invece niente, l’avevano lasciato all’oscuro di tutto, relegandolo a quella dimensione di infantile capobanda qual’era. Stava male, Denis, male come mai in vita sua. Che razza di amico, di ragazzo era? Un coglione totale, ovviamente, uno che non era riuscito a conquistarsi la fiducia piena dei suoi amici, uno che veniva considerato abbastanza cretino per non essere messo a parte di un segreto del genere. Chissà come doveva essersi sentita Valentina: aveva tradito la sua migliore amica, aveva abortito, si era dovuta tenere quel segreto lacerante dentro. E lui? Lui niente, aveva continuato a vivere ignaro e contento, come al solito, senza rendersi conto di cosa andava avanti sotto ai suoi ciechi occhi ambrati.
Bevve un altro sorso di vodka, sbattendo il bicchiere sul bancone per richiederne ancora. Il grasso barista lo guardò dubbioso, mentre gli versava l’ennesimo sorso, che il ragazzo bevve avidamente, le lacrime pronte a sgorgare di nuovo, incendiandogli il viso già in fiamme.
-Ragazzo, stiamo per chiudere.- disse il barista, levandogli dalle mani la bottiglia di birra ormai vuota – Forza, esci.
-Ancora un po’.- ansimò Denis, rendendosi conto di essere ormai ubriaco marcio – Ancora un po’.
-No, ragazzino, hai già bevuto abbastanza per oggi. Vai via, torna a casa.
Denis avrebbe voluto rimanere ancora ancorato a quello sgabello, appeso disperatamente all’alcol come maldestra via d’uscita, ma non si oppose particolarmente all’ordine del barista, alzandosi e trascinandosi pesantemente fuori dal locale. Faceva freddo, quella notte, ma il ragazzo non sentiva niente che non fosse la morsa al cuore. Barcollò un po’, aggrappandosi a un lampione, ma poi si lasciò cadere pesantemente sul marciapiede, la testa tra le mani e gli occhi allucinati. Guardò la strada che si estendeva davanti a sé, i palazzoni sovietici impossibili da distinguere, le poche macchine che passavano a velocità folle, il vento che soffiava impietoso e batteva il selciato umido di pioggia. Eccola, Ekaterimburg, la città maledetta che li aveva partoriti, che li aveva portati alla distruzione, che giocava con le loro anime innocenti e non li lasciava andare.
Si tirò i capelli, sentendo le prime lacrime cominciare a sgorgare e a sporcargli inevitabilmente il viso. Sì, voleva piangere, e non sarebbe stato l’orgoglio a fermarlo. I primi singhiozzi lo scossero, e lui affondò il viso tra le mani, lasciando che il pianto lo risucchiasse completamente. Pianse disperato, seduto per terra, pianse lacrime alcoliche, sussurrando il nome di Valya tra le labbra. Era un idiota, un perfetto idiota, e si odiava per quello. Si odiava per aver sempre trattato male Aleksandra, per non essere ancora passato oltre la morte di sua madre, per aver messo incinta Valentina e non averla aiutata, per essere sempre un cretino, per non aver accompagnato Valerya a San Pietroburgo, per non aver accettato la relazione di Ylja, per rovesciare sempre tutto addosso a Kuzma, per essere semplicemente quello che era, uno stupido ragazzotto del Blocco che non  sarebbe mai riuscito a uscire dalla sua condizione sociale. Pianse, Denis, pianse a dirotto, sotto la pioggia che aveva cominciato a frustare la città, pianse per i suoi amici, per sé stesso, per la sua vita che faceva schifo, per la sua fuga nell’alcol. Pianse, semplicemente, lasciando che tutta la tristezza che aveva accumulato uscisse fuori e si mescolasse alla pioggia acida. Avrebbe dovuto chiamare Kuzma, in quel momento, farsi consolare, appoggiarsi a quello che non lo aveva mai abbandonato. Chiedergli scusa magari, farsi fare una tazza di tisana e dormire nel suo letto, sentirsi dire che gli volevano ancora bene, che non lo odiavano, che lo avrebbero sempre amato.
Si tascò le tasche del chiodo fino a riesumare il cellulare, e con gli occhi accecati dal pianto, compose il numero del ragazzo biondo. Aspettò qualche minuto, continuando a singhiozzare, sperando vivamente che rispondesse, che non lo ignorasse.
-Denis, si può sapere che cazzo vuoi? Sono le tre del mattino, porca troia.
Non molto fine, abbastanza furioso, ma pur sempre il suo Kuzma.
Denis tirò rumorosamente su col naso e balbettò, cercando di frenare il pianto
-Kuzja … Kuzja io … ti prego, vienimi a prendere …
Sentì dei rumori al di là della cornetta, come di lenzuola spostate e di un corpo che si alzava pesantemente da letto. E poi udì di nuovo la sua voce, questa volta più allarmata
-Come? Ma dove sei? Denis, cosa sta succedendo?
-Sono … sono dal vecchio bar, quello della Zelenaya Uliza, io … per favore, vieni …
Dall’altro capo del telefono, calò il silenzio più assoluto, tanto che fece temere al ragazzo che l’amico si fosse stufato della sua inconcludenza e che lo avrebbe lasciato lì, dall’altra parte del Blocco, da solo, a piangersi addosso fino al mattino.
-Kuzja … - tentò, con voce rotta, lasciando che dei nuovi singhiozzi lo scuotessero.
-Sto arrivando, pezzo di cretino. Tu non ti muovere.
Denis si trovò a fissare il telefono, per poi spostare lo sguardo sul cielo e scoppiare di nuovo a piangere, questa volta molto più forte, molto più tragicamente. Sarebbe arrivato Kuzma. Sarebbe andato tutto bene. O almeno, lo sperava.
 
-Tieni, bevi questo.
Kuzma era appena tornato in camera con una grossa tazza di the, che Denis bevve abbastanza avidamente. Dopo averlo pescato dalla sua postazione sullo sporco marciapiede, lo aveva portato a casa propria, messo un pigiama gigante e gli aveva sciacquato il viso sporco di lacrime, moccico, e birra. Come un automa, Denis si era raggomitolato sul letto dell’amico, fissando con occhi vuoti la stanza, la tazza tra le mani e nuove lacrime pronte a scorrere. Si sentiva dannatamente in colpa, perché invece di chiamare Yurij si era ridotto a tornare da quel santo del biondo.
-Den, perché sei andato a bere?- Kuzma sospirò rumorosamente, sedendosi accanto a lui. Aveva un profumo buonissimo, di muschio e di fumo.
-Io … mi sentivo in colpa.- piagnucolò Denis, scostandosi il vistoso ciuffo scuro dagli occhi – Dopo quello che ho scoperto oggi, su Valya.
Kuzma si passò una mano tra i capelli e gli accarezzò appena il viso col dorso della mano, con quel suo sorriso triste che lo caratterizzava da sempre.
-Senti, lo so che sei rimasto scioccato, ma ubriacarsi così non è la soluzione. Non te ne abbiamo mai parlato non perché non ci fidassimo di te ma … senti, tesoro, è una cosa grossa. Ci siamo spaventati anche noi, cosa credi.
-Lo so, Kuzja però … sarebbe potuta venire da me, invece che trascinare anche te in questo casino.- Denis si morse il labbro, sentendo un fastidioso mal di testa premergli contro le tempie.
-E tu avresti dato di matto, come al solito. Ti conosci, lo sai che non riesci a gestire le situazioni di crisi con polso e serietà. Dai, ora mettiti a letto.
Kuzma lo fece stendere, con delicatezza, e Denis obbedì tristemente, lasciandosi aggiustare le coperte addosso. Guardò a lungo l’amico, e ponderò quanto fosse bello, con quei tratti calcati ma puliti, quegli occhi celesti tanto nostalgici, quel taglio della bocca, sempre un po’ malinconico, quelle mani grandi e callose eppure così delicate. Si chiese anche perché alla fine non si fossero mai messi insieme loro due, e sorrise appena quando il pensiero di tenerlo per mano gli balenò nella mente stravolta dalla vodka e dalla birra a poco prezzo. Forse Kuzma sarebbe stato il suo compagno perfetto, quello che lo metteva a posto, che lo sgridava e che lo teneva a freno, ma contemporaneamente quello che lo appoggiava sempre, che gli faceva da eterna spalla. Sospirò, e gli accarezzò il viso, appena, indugiando sulla gobbetta appena accennata del naso.
-Sei bellissimo, Kuzma.- mormorò, l’alito puzzolente di alcol e gli occhi già semi chiusi – Ti amo.
-Piantala, stupido, sei solo ubriaco- ribatté il biondo, spostandogli delicatamente la mano.
-Non sono ubriaco. Cioè, lo sono, ma ti amo …- continuò a vaneggiare Denis, rotolandosi pesantemente nelle coperte. – Saremmo la coppia più bella del mondo, se ci pensi. Siamo fatti per stare insieme, da quando siamo bambini siamo sempre stati fianco a fianco, forse era tutto un meccanismo scritto nelle stelle per dire che io e te ci dovremmo sposare per far saltare in aria il Blocco e tutta la città.
Kuzma si chiese quanto ancora avrebbe resistito prima di scoppiare a piangere. Al diavolo, lui ci credeva. Ci credeva nell’amore per Denis, ci credeva che insieme sarebbero stati perfetti, ci credeva così disperatamente da uccidersi quotidianamente per quell’amore a senso unico che non li avrebbe portati da nessuna parte. Si passò una mano sul viso, soffocando un singhiozzo strozzato. Eccolo lì, il suo Denis, con un po’ di bavetta alla bocca, gli occhioni spalancati e i capelli arruffati, ecco il suo migliore amico, il ragazzo che amava disperatamente da una vita intera. Ecco che di nuovo lo accoltellava al petto tirando fuori cose che lui non avrebbe mai voluto che uscissero.
-Per favore, Denisoch’ka, dormi.- riuscì a dire, fissando quelle belle labbra piene così vicine alle sue, mentre, chinato su di lui, gli sistemava le coperte.
-Non dormo se non vieni con me.- ribatté cocciuto il ragazzo, spostandosi pesantemente da un lato. – Dai, come quando eravamo piccoli.
Kuzma alzò un sopracciglio e sospirò, guardandolo con quei suoi sguardi carichi di dolore, che solo un ragazzo depresso che finge che vada tutto bene può avere.
-Va bene, ma Pushkin non te lo leggo. È tardi.- mormorò, sdraiandosi vicino all’amico di una vita.
Denis lo abbracciò e Kuzma avrebbe voluto soffocare, perché solo dio sapeva quanto amasse quelle braccia magre ma forti avvolte attorno al suo petto. Prese un profondo sospiro e strinse Denis a sé, per non farlo cadere dal letto. Sì, come quando erano piccoli e ancora non pensavano che sarebbero finiti così, uno scapestrato bulletto di periferia e un poeta depresso e solo come un cane.
Sentiva i loro cuori battere allo stesso ritmo, lenti e misurati, e si chiese  se gli angeli lo avessero giudicato, se avesse osato baciare le labbra dell’amico. Aveva qualcosa da perdere, Kuzma Lukjanen’ko? La faccia, l’onore, l’orgoglio incrollabile. Ma erano cose alle quali avrebbe potuto rinunciare? Non lo sapeva, lui, che aveva sempre messo la propria figura rispetto ai sentimenti. Forse, se fosse mai stato più sciolto e non rigido come un bastone, magari non sarebbe sempre stato sul punto di suicidarsi per non dover reggere la pressione mostruosa alla quale si era sottoposto da solo.
-Kuzja, ti voglio così tanto bene …- ansimò Denis, stringendogli con forza la maglia del pigiama.
-Anche io ti voglio bene, Den. Non sai nemmeno tu quanto.- si ritrovò a dire, con una dolcezza sconosciuta.
Gli accarezzò i capelli spettinati e inalò il suo odore, di sudore, vodka scadente, fumo, menta, niente di così buono ma abbastanza da farlo andare fuori di testa.
Fu in un momento come quello, alle quattro di mattina, in un letto stretto, in una delle camerette del Blocco, perfettamente tirata a lucido, che Denis lo baciò. Senza lussuria, senza secondi fini, stampò le proprie labbra su quelle di Kuzma, con gli occhi chiusi e una delicatezza impalbabile. Kuzma rimase per un secondo interdetto, e lo rimase ancora di più quando si rese conto di aver afferrato il viso di Denis tra le mani e di starlo baciando con più decisione, con più trasporto. No, idiota, no! continuavano a urlare le voci nella testa, ma lui chiuse le imposte del cervello e si concentrò solamente sul baciare il suo migliore amico, lasciare che gli si arrampicasse sopra, mettergli le mani nei capelli, sentire finalmente quelle tanto agognate labbra, sentire la loro consistenza, il loro sapore alcolico. Si baciarono a lungo, quella notte, per quelle che a Kuzma parvero ore, ma forse erano stati solo secondi, lunghi, bellissimi secondi, senza scambiarsi una sola parola, ma solo baci, e baci, e carezze innocenti sui visi arrossati. Smisero solamente quando Denis, sopraffatto dalla stanchezza e dall’ubriachezza, si rotolò sulla pancia e si mise a russare appena, ancora ancorato al corpo dell’amico, la bava di nuovo pronta a scendere e il viso che sembrava quello di un quindicenne innocente.
Kuzma rimase a lungo ancora sveglio, stretto accanto all’amico, sulle labbra il suo delizioso sapore, sul viso ancora la sensazione di quelle lunghe mani callose. Non riusciva a capacitarsi di quello che fosse successo, non riusciva a … sentì gelide lacrime cominciare a scorrere, bagnandogli la faccia e il collo, sporcando fino i capelli di Denis. Pianse in silenzio, fermo immobile, pianse perché sapeva che quello non avrebbe portato altro che un’ulteriore desolazione, una devastazione interiore che lo avrebbe mangiato vivo. Non avrebbe dovuto cedere, lo sapeva, perché adesso stava succedendo esattamente quello che aveva temuto: l’odio per sé stesso, la consapevolezza che non avrebbero mai avuto nulla di più che un’amicizia che a lui, oltretutto, non riusciva più a bastare. Guardò Denis, che russava beato al suo fianco, e si chiese se si fosse mai chiesto cosa nascondesse dietro agli occhi. Se si fosse mai reso conto che lui era sempre sull’orlo del suicidio, se sapesse della sua depressione, del suo amore a senso unico. Si chiese semplicemente se il suo migliore amico lo conoscesse davvero.
Si mise  a singhiozzare selvaggiamente quando capì che no, il suo migliore amico non lo conosceva affatto.
  
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