Anime & Manga > Slam Dunk
Segui la storia  |       
Autore: Cioppys    10/02/2019    3 recensioni
[MitKo]
Era una strana costante la pioggia di quei giorni, tanto quanto il ritrovarsi bloccato sotto la stessa pensilina del pomeriggio precedente. La grossa differenza stava nella sua forma fisica: ieri quella di un normale essere umano, oggi quella di uno stupido gatto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kiminobu Kogure
Note: nessuna | Avvertimenti: Furry
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

La Maledizione del Gatto
di Cioppys

 

Capitolo 3

«Mitchi!».
Dall’urgenza con cui aprì la finestra della cucina e lo prese in braccio, incurante della sporcizia che lo ricopriva dalla testa alla coda, Mitsui realizzò quando Kogure si fosse preoccupato per la sua improvvisa scomparsa. Si sentì un immenso stronzo per essersi allontanato così, d’impulso, senza considerare le conseguenze delle proprie azioni.
«Kiminobu, non crederai di poter tenere in casa quella palla di fango…?».
Kogure non diede il tempo alla madre di finire la frase che Mitsui si ritrovò immerso in una soffice nuvola di schiuma. A differenza della volta precedente, si lasciò lavare senza sollevare proteste, né per l’acqua troppo calda, né per l’energia necessaria con cui l’amico dovette strofinare il suo manto nero, per togliere lo sporco di due giorni e riportarlo alla lucentezza originaria.
«Ho avuto paura… tanta paura che ti fosse successo qualcosa…» gli confidò mentre lo asciugava, poche parole che gravarono sul cuore di Mitsui come enormi macigni.
Fu però quando la bocca di Kogure si posò sulla sua testolina, tra un orecchio e l’altro, che Mitsui maledì il proprio corpo con tutto sé stesso. Sollevò il muso e miagolò con insistenza finché non ottenne la vicinanza necessaria a strofinare il proprio muso umido contro le sue labbra, nel goffo tentativo di ricambiare il bacio di poco prima con qualcosa di più intimo. La risata genuina di Kogure per il gesto di un semplice gatto, ai suoi occhi buffo e innocuo, non riuscì ad alleggerire il senso di soffocamento che gli opprimeva i polmoni.
Avrebbe voluto gridargli che era Mitsui, la persona di cui era innamorato e da cui era totalmente ricambiato. Avrebbe voluto rivelargli i propri sentimenti e non riusciva ad accettare di non poterlo fare se fosse rimasto in quello stato. Era, sotto ogni punto di vista, inconcepibile.
Quando, quella sera, Kogure si coricò per la notte, Mitsui si infilò nel suo futon appena spense la luce.
«Ehi!» esclamò, percependo un movimento sospetto. «Ti schiaccerò se rimani qui!».
Anche nel buio soffuso della stanza, Mitsui riconobbe il caratteristico sorriso, dolce e cordiale, che Kogure gli rivolse mentre lo rimetteva nella cesta. Tuttavia non demorse e, un secondo dopo, era di nuovo acciambellato sotto la coperta accanto a lui.
«Sei cocciuto come la persona di cui porti il nome, lo sai?».
Mitsui lo guardò e miagolò compiaciuto: si, la trovava una definizione adatta e Kogure stesso non poté che confermarlo quando, dopo il terzo tentativo di rimetterlo nella cesta, dovette rassegnarsi a dormire in compagnia di quella tenera palla di pelo.
La notte trascorse lenta, ma tutt’altro che tranquilla: se il sonno di Kogure venne guastato dal costante pensiero di poter schiacciare il gatto, mentre si rigirava nel letto, quello di Mitsui fu agitato da strane sensazioni fisiche. Non provò dolore, bensì frequenti formicolii agli arti e un forte calore che lo fece sudare copiosamente tutta notte. Quando la mattina successiva aprì gli occhi, desiderò che Kogure lo gettasse in una bacinella d’acqua, poco importava che fosse bollente. Avrebbe sopportato qualsiasi cosa pur di togliersi di dosso quella patina fastidiosa che gli appiccicava ovunque la pelle.
Ancora mezzo addormentato, appoggiò la fronte contro il petto del compagno di squadra. Nonostante gli fosse addosso, dovette inspirare a fondo per percepire il suo odore. Strano: fino al giorno prima, riusciva a distinguerlo a metri di distanza, respirando normalmente col naso.
«Mmm…» mugugnò, non dandoci peso. Era presto e lui aveva ancora sonno.
«Ma cosa-».
La voce impastata di Kogure precedette di poco la spinta improvvisa che lo allontanò in malo modo. Mitsui evitò una brutta caduta, oltre il bordo immaginario del letto, solo perché dormivano sul futon. In compenso, nel finire schiena a terra, picchiò il gomito sul bordo rigido del tatami, centrandolo in pieno con l’olecrano, la prominenza ossea posta proprio sulla punta.
«Cazzo! Ma che ti è saltato in mente?!» esclamò, in preda a un dolore lancinante, accorgendosi a malapena di come Kogure, schiacciato contro il muro opposto, lo stesse fissando con occhi spiritati.
«M-mitsui…?» balbettò lui dopo esserseli stropicciati più volte, convinto di stare ancora sognando.
A quella chiamata diretta, il numero quattordici si rese finalmente conto di essere tornato un normale ragazzo. Aveva di nuovo gambe e braccia, la pelle bianca e i capelli neri. Si passò entrambe le mani sul viso e ne delineò i lineamenti con le lunghe dita. La gioia che provò nel tastarsi naso, bocca e orecchie, pareva quella di un bambino che trova, sotto l’albero di Natale, proprio il regalo agognato un anno intero.
«Si» sorrise «sono proprio io».
Travolto dall’euforia, Mitsui gettò le braccia intorno al collo di Kogure che, turbato dall’assurda situazione, farfugliava parole sconnesse, chiedendosi come tutto ciò fosse possibile. Eppure Mitsui era proprio lì, davanti a lui, addosso a lui, in carne ed ossa. Si azzardò a sfiorargli le spalle scoperte con la punta delle dita e percepì il naturale calore emesso dalla pelle, così dannatamente reale da non poter essere un illusione. Quando però appoggiò le mani sulle scapole nude, realizzò che Mitsui non indossava un singolo indumento, nemmeno le mutande. Arrossì come un peperone e, per la seconda volta, lo allontanò da sé.
«I… i t-tuoi… i t-tuoi v-ve… v-vestiti…».
Mitsui si guardò spaesato ed emise un semplice “oh”. Per l’amico, innamorato di lui da chissà quanto tempo, doveva essere non poco imbarazzante. Chiese quindi a Kogure di prestargli qualcosa da indossare.
«Ora vuoi spiegarmi che sta succedendo?!».
La voce alterata con cui Kogure lo rimproverò, lasciò Mitsui di sasso, con la testa che sbucava per metà dal collo rotondo della maglietta blu che stava ancora indossando. Per come aveva pianto per lui negli ultimi giorni, aveva creduto che, vederlo vivo e vegeto, lo avrebbe reso immensamente felice. E invece, la serietà che sprigionavano i suoi occhi nocciola, gli fece rizzare la leggera peluria delle braccia.
Ma cosa mai avrebbe dovuto dirgli?
Se raccontargli la verità sarebbe stata la scelta più giusta – per la loro amicizia, per i loro reciproci sentimenti – la paura che Kogure potesse non credere ad una singola parola, lo feriva e spaventava. D’altro canto, che balla colossale avrebbe dovuto raccontare per essere abbastanza verosimile da giustificare la sua improvvisa comparsa in quella casa?
Il silenzio prolungato spazientì Kogure. «Hai la minima idea di quante persone erano preoccupate per te? Sei sparito per giorni! Senza dire niente a nessuno! E ora… e ora…» cercò di nascondere le lacrime con pessimi risultati, e tanto bastò affinché Mitsui crollasse.
«Ero… Mitchi, il gatto».
Com’era ovvio, Kogure non gli credette. «Non prendermi in giro!».
«Non sono mai stato più serio in vita mia» Mitsui gli incorniciò il viso con le mani e appoggiò la propria fronte a quella dell’altro. «Pensi davvero che sia capace di una simile cattiveria? Soprattutto dopo aver visto quanto hai sofferto? Quanto stai soffrendo ancora?».
Kogure lo scrutò a fondo negli occhi. Era assurdo, eppure non sembrava che Mitsui stesse mentendo. Trovò altresì strano che fosse a conoscenza del fatto che avesse un gatto in casa… persino come si chiamasse! Non gliene aveva parlato, almeno non lui direttamente, e, comunque, ricordò di averlo trovato il giorno dopo la sua scomparsa.
Mitsui fece un sorriso tirato. «E’ normale che tu non mi creda. A parti invertite, nemmeno io lo farei… però posso dimostrarti che è vero, raccontandoti fatti che, oltre al gatto, solo tu puoi sapere… come del giorno in cui mi portasti a casa e mi infilasti nell’armadio, dove mi addormentai sul tuo futon ripiegato».
Kogure spalancò gli occhi. Come faceva a saperlo? Era solo nella stanza e nessuno era ancora a conoscenza di Mitchi. Poi si ricordò di aver parlato spesso in quei giorni, di Mitsui, dei sentimenti che provava nei suoi confronti. Se, come diceva, era davvero il gatto
Mitsui si accorse subito che qualcosa stesse turbando Kogure e non impiegò molto a capire di cosa si trattasse. Sapeva di non essere molto bravo a parole e che un gesto ne valeva mille di più. Tuttavia baciarlo non fu proprio l’idea geniale che aveva creduto, visto il mal rovescio che gli girò la faccia dall’altra parte. Si tastò esterrefatto la guancia calda: quando voleva, Kogure possedeva più forza del gorilla.
«Come ti permetti?» fece Kogure furibondo. Era il suo primo bacio e nonostante fosse felice di averlo dato alla persona che amava, si sentiva profondamente umiliato. «Solo perché sai che provo dei sentimenti per te, pensi di avere il diritto di baciarmi senza chiedere? Senza nemmeno dirmi se tu…» se tu li ricambi? fu la domanda che non ebbe il coraggio di pronunciare, temendo in una risposta negativa, temendo che, quel bacio, non avesse significati più profondi della semplice consolazione.
Mitsui cercò di correre ai ripari. «Kogure-».
Due secchi rintocchi sulla porta, li interruppero.
«Kiminobu? Hai la minima idea di che ore sono? Insomma, è domenica!».
La voce alterata di Kazumi, che dormiva nella stanza accanto, lasciava intendere di essere stata svegliata dal loro continuo parlottare, via via aumentato di tono. Quando però la ragazza aprì la porta, la presenza inaspettata di uno sconosciuto l’ammutolì.
«E lui chi è?» chiese sconcertata.
Kogure si schiarì la voce. «Un mio compagno di squadra…».
«Si… ma che ci fa qui?».
«E’… complicato» rispose, non sapendo proprio come giustificare la sua presenza.
«Sono scappato di casa» intervenne Mitsui, cercando di dare un senso all’intera situazione, senza però rivelare la verità. Se già Kogure gli credeva a stento, la sua famiglia lo avrebbe dato per pazzo. «L’autorizzazione per partecipare ai campionati nazionali… beh, mio padre l’ha stracciata, e io… e io mi sono comportato da stupido, facendo preoccupare una marea di persone che non lo meritavano».
Potendo solo immaginare cosa avesse provato nel veder svanire un traguardo agognato da anni, Kogure cercò di incrociare gli occhi di Mitsui. Voleva sapere di più di quella storia, capire cosa fosse successo e come fosse diventato momentaneamente il gatto di quella casa. Ancora faticava a realizzare che Mitchi era Mitsui, eppure non dubitava più della sua parola, anche se, l’irritazione per il bacio di poco prima permaneva.
«Uomini» sbuffò Kazumi. «Peggio: uomini fissati col basket! A quando un amico normale, fratellino?».
Il riferimento ad Akagi lo colse anche Mitsui, che provò parecchio fastidio nell’essere considerato un amico al pari del capitano. Lui voleva essere di più. Lui era di più. Ora, però, aveva un’altra questione da risolvere, una questione urgente tanto quanto chiarire il rapporto tra lui e Kogure, ma i suoi genitori aveva sofferto abbastanza e meritavano di ricevere sue notizie quanto prima.
«Io… io devo tornare a casa…».
La decisione di accompagnarlo in macchina fu di Kazumi, che non volle sentire ragioni a riguardo. Mitsui venne quindi caricato, quasi di peso, sul sedile posteriore della loro utilitaria, da dove rispose in modo alquanto vago alle domande della madre di Kogure che, messa al corrente della situazione, si era aggregata al piccolo gruppo, composto da lui, Kogure e la sorella. Irrequieto e pieno di dubbi, su cosa raccontare ai propri genitori, su come affrontarli, Mitsui ebbe un attimo di esitazione quando la macchina si fermò davanti a casa. A dargli la forza di scendere fu Kogure, che lo spronò ad andare con il suo consueto sorriso.
Sguardo fisso sulla porta d’ingresso, Mitsui si avvicinò al cancello sentendo appena, ai margini della propria coscienza, l’abbaiare di un cane. Capì che fosse Yuki, di ritorno dalla sua passeggiata mattutina, quando ormai l’animale, desideroso di ricevere gli arretrati di una settimana di coccole, gli fu addosso. A pochi passi di distanza, Hitonari lo fissava attonito, la mano da cui gli era sfuggito il guinzaglio ancora tesa, in avanti, verso di lui.
«Hisa…?».
Il rumore secco della porta di casa, che si spalancò all’improvviso, colse tutti di sorpresa. Spaventato, Yuki si allontanò guaendo da Mitsui, lasciando così campo libero alla madre che non perse tempo ad abbracciare il figlio. Nel vederla schiacciata contro il proprio petto mentre piangeva, Mitsui si chiese se fosse sempre stata così esile. Divorato dai sensi di colpa, dal pensiero che fosse l’angoscia di quei giorni ad averla consumata tanto, ricambiò l’abbraccio.
«Mi dispiace…» sussurrò trattenendo a stento le lacrime. «Mi dispiace tanto, mamma…».
L’ultimo a unirsi al quadretto famigliare, fu suo padre. L’espressione seria e indecifrabile non permise a Mitsui di capire se, ad attenderlo, ci fosse una carezza o uno schiaffo. Conscio comunque di meritarselo, lo affrontò a testa alta, quasi porgendogli la guancia.
«Papà-».
«Stupido!».
A quel rimprovero, Mitsui serrò gli occhi e si preparò a ricevere una sberla, che però non arrivò mai. Ad arrivare furono invece le braccia del padre, che lo strinsero a lui come non avevano fatto da troppo tempo.
«Non farlo mai più…» gli disse, accarezzandogli piano la testa. «Non importa quanto tu sia arrabbiato, a torto o a ragione… non sparire più in questo modo, non senza dirci dove sei, non senza dirci che stai bene…».
Mitsui non si rese conto di star piangendo, non finché non pronunciò l’ennesimo sconsolato “mi dispiace”: il suono gemente della propria voce, lo spinse a nascondere, per la vergogna, la faccia contro il petto del padre. Solo quando entrò in casa, ebbe modo di sciacquarsi il viso, disertando così le presentazioni che si svolsero in salotto, tra i componenti della sua famiglia e quella di Kogure.
Stava controllando allo specchio se il rossore intorno agli occhi si fosse attenuato, quando Yuki, che lo aveva seguito in bagno, abbaiò. Incuriosito da come guardasse fuori dalla finestra scodinzolando, Mitsui si avvicinò curioso al vetro.
Sulla sinistra, a ridosso della siepe, stava un ragazzo. Indossava un completo grigio, vecchio stile, la cui giacca era chiusa da un unico bottone, poco sotto lo sterno. Sembrava tranquillo da come teneva le mani nelle tasche anteriori dei pantaloni e gli sorrideva, con occhi e bocca. Fin troppo tranquillo, considerata la palese violazione di domicilio. Non aveva la minima idea di chi fosse, eppure aveva un che di famigliare.
Mitsui afferrò il collare di Yuki per impedire che si lanciasse contro lo sconosciuto, pronto tuttavia a lasciarlo andare in caso di bisogno. Yuki non era un cane da guardia – con ogni probabilità, gli avrebbe fatto un sacco di feste piuttosto che attaccarlo! – ma la sua sola presenza poteva incutere timore.
Aprì la portafinestra. «Ehi, tu! Questo è un giardino privato!».
«Lo so» rispose il tizio, senza mai smettere di sorridere. «E tu lo sai che hai proprio una bella casa, zampetta bianca?».
Solo una “persona” lo avrebbe chiamato in quel modo. Sembrava incredibile, eppure glielo aveva spiegato che, spezzando la maledizione principale, anche quella di cui era vittima sarebbe svanita.
«Se non chiudi la bocca, ci entrerà uno sciame di mosche!» rise di fronte alla sua espressione esterrefatta quello che, fino al giorno prima, era il soriano rosso. «Sono contento di vedere che stai bene e che sei tornato normale… ora posso andarmene soddisfatto».
«Andare dove?» chiese Mitsui.
Inconsciamente già sapeva la risposta, e il sorrisetto allusivo del ragazzo non fece che confermargliela.
«Il mio tempo è passato, al contrario del tuo che è ancora tutto da scrivere» socchiuse gli occhi, stanco, ma felice. «E mi raccomando: scrivilo bene, perché non ne avrai altro a disposizione».
Mitsui annuì. Ora che era consapevole dell’affetto – dell’amore – che lo circondava, lo avrebbe ripagato in ogni modo possibile… o quasi. Dubitava, infatti, che il rapporto con alcune persone, quali ad esempio suo fratello, sarebbe cambiato nel breve periodo. Avrebbe però cercato di andare un po’ più d’accordo con lui, evitando lo scontro quando non necessario. 
«Ehi, aspetta!» lo fermò Mitsui quando gli voltò le spalle. «La maledizione… come si è spezzata?».
«Davvero non l’hai capito?» fece stupito il ragazzo, al quale sembrava così evidente il gesto con cui aveva condiviso la sua sofferenza. «Hisashi, tu hai pianto, per me, dopo aver ascoltato la mia storia e senza che ti dicessi che, per spezzare la maledizione, sarebbe bastata una lacrima sincera…».
Sentirsi chiamare per nome fu una sorpresa. Mitsui non glielo aveva mai detto. Come faceva a saperlo?
«Non mi hai mai detto il tuo, di nome…» gli fece notare, incontrando tuttavia la reticenza dell’altro a rivelarlo.
«Non ha importanza-».
«Certo che ce l’ha!» insistette, e non per mera curiosità: a dispetto di quanto l’avesse odiato nei giorni precedenti, per esser stato la causa di tanti problemi e di lunghe ed estenuanti ricerche, ora desiderava ricordarlo associando un nome al volto che aveva di fronte.
Il ragazzo provò a rifiutarsi una seconda volta, ma fu la testardaggine di Mitsui ad avere la meglio.
«Seiji…» disse, infine, in un soffio «Mitsui Seiji».
Convinto di aver capito male, Mitsui corrugò la fronte e gli chiese di ripetere quando, alle sue spalle, udì sua madre chiamarlo.
«Hisashi?» la donna si affacciò dalla portafinestra del bagno da cui era uscito. «Che stai facendo in giardino?».
«Io-» si voltò di nuovo verso Seiji, ma il punto davanti alla siepe, dove il ragazzo stava un attimo prima, era vuoto. «N-nulla» balbettò smarrito «Yuki aveva visto un gatto e…».
«Quel cane non li può proprio vedere, eh?» commentò sua madre, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Sotto gli occhi, ancora rossi di pianto, si aprì un sorriso. «Su, vieni. Ti stanno aspettando tutti».
Mitsui si osservò intorno un’ultima volta e venne colpito da uno strano riflesso. Abbandonata nell’erba, trovò una catenina d’oro a maglie strette, con un ciondolo a goccia. Di un delicato azzurro, la pietra era incastonata in un filo di metallo pregiato che ne avvolgeva i bordi, definendoli.
«Hisashi?».
«Si, arrivo!» rispose. Senza pensarci, infilò la catenina in tasca e raggiunse la madre in casa.
Quando entrò in salotto, suo padre interruppe la conversazione che stava avendo con la signora Kogure e lo invitò a sedersi sulla poltrona a fianco.
«Oh, eccoti qui» le parole di Hitonari furono invece rivolte a Yuki, che chiamò a sé con una pacca della mano sulla coscia. «Si può sapere perché il mio cane sembra essere più affezionato a te?!» grugnì quando l’animale lo ignorò e si sedette davanti a Mitsui. Beh, non era colpa di quest’ultimo se, quando Yuki era ancora un cucciolo, aveva abdicato, in favore del fratello minore, il ruolo di suo principale compagno di giochi.
La domanda piccata strappò un sorriso alla sorella di Kogure: avendone tre di fratelli, conosceva bene le “complicate” dinamiche tra i giovani maschi di casa. Hitonari se ne accorse e abbassò imbarazzato lo sguardo. Chinare il capo era un comportamento inusuale e sospetto per un prepotente di natura come lui. Di solito, non guardava in faccia a nessuno. Solo una volta Mitsui era stato testimone della perdita della sua proverbiale verve, quando, due anni prima, frequentava una ragazza di cui era palesemente perso.
Non ditemi che gli piace Kazumi, pensò lasciandosi sfuggire un risolino.
«Che diavolo hai da ridere?!» le guance di Hitonari divennero più rosse del normale.
«Oh, nulla» come promesso, Mitsui evitò lo scontro, chiudendo lì il discorso. «Papà, io-».
L’uomo lo tolse dall’imbarazzo e gli allungò un foglio. «E’ l’autorizzazione firmata per i campionati nazionali. Se non dovessero accettarla, perché l’hai presentata in ritardo, ti porterò io stesso ad Hiroshima…».
Mitsui guardò il fondo della pagina, dove spiccava l’inchiostro rosso dell’hanko del padre. Bisbigliò un sentito “grazie”, non riuscendo ad aggiungere altro per l’emozione causatagli da quella promessa. Per un attimo, sperò che la scuola non accettasse il documento, cosicché potesse passare un po’ di tempo in compagnia del padre, loro due da soli. Da quanto non accadeva?
«L’allenatore non lo permetterà» disse Kogure, convinto che Anzai non avrebbe mai consentito che Mitsui mancasse a quell’appuntamento, non per una stupida ragione burocratica. «Sarebbe un dramma per la squadra perdere uno dei titolari, nonché il miglior realizzatore».
«Esagerato» Mitsui era lusingato da tanta ammirazione, dietro cui ora sapeva esserci molto di più. Il pensiero di quanto lo amasse, lo fece arrossire. «Rukawa fa molti più punti di me».
«Forse» Kogure sollevò le spalle «ma non così tanti quanto credi».
«Aspetta… sei un titolare dopo due anni di fermo?!» a Hitonari pareva impossibile, a meno che… «In che razza di squadra di merda sei?!».
Stavolta Mitsui non poté tapparsi le orecchie, non quando le offese erano rivolte a quei compagni che l’avevano accolto nonostante la rissa provocata in palestra. «Ehi! Ritira subito quello che hai detto!».
«E perché?».
«Perché non si sarebbero qualificati per i campionati nazionali, se fossero scarsi come dici».
A lasciare i due fratelli senza parole fu l’inaspettata presa di posizione del padre con quella frase: erano anni che l’uomo, in una discussione tra i due, non si schierava a difesa del figlio minore.
«Se ce l’abbiamo fatta è perché abbiamo cinque ottimi titolari» precisò Kogure, conscio che, nonostante l’impegno di tutti, il merito di quel traguardo fosse loro.
A non concordare con quell’affermazione era Mitsui. «Ma che stai dicendo?! Non ricordi chi ha segnato un punto decisivo contro il Ryonan? In quella partita, a fare la figura dell’inutile imbecille, sono stato io…».
Kogure alzò un sopracciglio. «Solo perché sei svenuto?».
«Svenuto?!» ripeté la madre di Mitsui, non nascondendo la propria preoccupazione. «Come? Quando?!».
Kogure si coprì la bocca lasciando a Mitsui l’onere di rassicurarla. Si, era svenuto mentre giocava per una carenza di sangue al cervello. No, non era grave e non si era fatto nulla, se non un leggero taglio sul labbro.
«Non mi chiedi niente?» disse poi quando suo padre si alzò dal divano. «Dove sono stato? Con chi?».
Lui scosse il capo. «Ci ha accennato qualcosa Kiminobu, il resto non importa. Quello che conta è che tu ora sia a casa…».
La curiosità di sapere cosa avesse raccontato ai suoi, spinse Mitsui a portare Kogure nella propria stanza alla prima occasione. Quando quindi, come preludio ad una lunga chiacchierata tra donne, sua madre si presentò a quella dell’amico con del tè verde, accompagnato da dei manjou, non ci pensò due volte ad afferrargli il polso e dileguarsi, con la scusa di voler mostrare, al compagno di squadra, alcuni articoli sportivi di cui avevano parlato qualche giorno prima. Tuttavia, quando Mitsui si chiuse la porta alle spalle, ricordò di avere un altro importante discorso da affrontare. Prima che l’altro parlasse, lo abbracciò da dietro la schiena.
«Mi piaci» sussurrò tenendo la fronte appoggiata sulla spalla dell’altro, in modo da nascondere l’imbarazzo che gli colorò le guance.
Una flebile fiammella di speranza si accese nel petto di Kogure, ma il “piacere” espresso da Mitsui era qualcosa di ancora troppo vago per soddisfare appieno i suoi sentimenti, che erano su di un altro livello.
«Io-» deglutì. Non sapeva come rispondere ma, per sua fortuna, Mitsui comprese al volo il problema.
«Merda… non farmi dire robe stucchevoli!» Mitsui sollevò la testa. Aveva la faccia completamente rossa. «Non sono il tipo, ed è la prima volta che mi dichiaro a qualcuno… quindi non fare tanto lo schizzinoso!».
Come aveva capito che la storia del gatto fosse vera, Kogure ebbe la certezza dei reali sentimenti di Mitsui solo guardando il suo sguardo fermo. Era strano riuscire a comprenderlo con una semplice occhiata, eppure sembrava così naturale… che Mitsui, senza rendersene conto, abbassasse le proprie difese quando stavano insieme?
«Sentirlo, però, mi renderebbe davvero felice, sai?».
Il timido sorriso che gli incurvò le labbra, a Mitsui parve un ghigno.
«A-adesso?!» esclamò, per nulla pronto a parlare col cuore in mano, nonostante i mille propositi fatti.
Kogure scosse il capo. «Quando te la sentirai, ma non farmi aspettare troppo…» disse, quindi prese l’iniziativa e lo baciò, succhiandogli appena le labbra.
Mitsui ricambiò il gesto con uno simile ma più vorace, che portò le loro lingue ad incontrarsi per la prima volta. Un brivido scosse il corpo di Kogure e Mitsui lo sorresse, fasciandogli i fianchi con le mani calde. Poi, con una giravolta di 180 gradi, lo spinse contro la porta chiusa della propria stanza… la stessa porta da dietro cui giunse, poco dopo, un lieve e incalzante guaito.
«Qualcuno desidera le tue attenzioni…» sospirò Kogure, sentendosi stupidamente geloso di un cane.
Mitsui grugnì indispettito dall’interruzione. «Che vada a rompere i coglioni a mio fratello, è lui il padrone!».
Fu invece il padrone a rompere i coglioni a lui, bussando con insistenza alla porta quando vi trovò Yuki accucciato davanti.
«Cosa vuoi?!» sbraitò, spalancando l’entrata. Yuki approfittò dell’occasione per avvicinarsi e annusarlo ovunque, quasi volesse sincerarsi che il suo membro preferito della famiglia non fosse scomparso di nuovo.
«Ci voleva tanto? E’ mezz’ora che si lamenta!» Hitonari stava già tornando in salotto quando notò lo sguardo trafelato di Kogure. Aggrottò le sopracciglia e si sporse verso di lui. «Ehi, tutto bene?».
Mitsui si irrigidì. «S-si, sta bene-ehi!» il cane infilò il muso nella tasca della felpa e lo spinse in avanti. «Che cazzo stai facendo?!» afferrò il collare e lo allontanò con uno strattone.
Un rumore metallico attirò la loro attenzione.
«E questo cos’è?».
Hitonari si chinò a raccogliere la catenina col pendente a goccia che era caduta dalla tasca del fratello. Questi colse l’occasione per cambiare discorso e gli confidò di averla trovata in giardino.
«In giardino?» ripeté rigirandosi perplesso l’oggetto tra le dita. Gli era stranamente famigliare, eppure non ricordava dove l’avesse già vista. Poi ebbe un’illuminazione. «Somiglia tanto a quella che indossa la nonna nel ritratto di famiglia…».
«Ritratto di famiglia?» Mitsui credette che lo stesse prendendo per il culo. Non sarebbe stata la prima volta, e nemmeno l’ultima. «Qualche ritratto di famiglia?!».
Hitonari sbuffò. Come faceva a non saperlo? «Quello nello studio di papà, dietro la scrivania… dai, l’avrai visto un milione di-ehi!».
Mitsui gli strappò la catenina di mano e si precipitò nello studio, ignorando sia il rimprovero della madre di non correre per casa, sia la richiesta di spiegazioni del padre quando entrò senza bussare.
«Hisashi…?» lo chiamò di nuovo, mentre si avvicinava con gli occhi fissi sul muro dietro di lui.
«E’ vero» bofonchiò osservando sorpreso la catenina che ornava il collo della donna a sinistra, il cui pendente era però rosso. «Colore a parte, sono identici…».
L’uomo seguì accigliato lo sguardo del figlio. «Si può sapere di che stai parlando?» ma non appena finì di pronunciare quella domanda, si accorse della catenina che teneva tra le mani. In pochi passi, gli fu di fronte. «Dove l’hai presa?».
Mitsui non si aspettava una simile reazione e la presa del padre sul polso doleva da quanto era stretta. La mezza verità secondo cui l’aveva trovata in giardino, lo irritò invece di calmarlo.
«Non mentire! Quella catenina apparteneva a mio zio, che è scomparso decenni prima che questa casa venisse costruita!».
A quelle parole, nella sua memoria riemerse la vecchia storia di un parente svanito nel nulla, da un giorno all’altro, di cui aveva sentito parlare da piccolo. Non ne sapeva molto delle vicenda, né il nome dell’uomo, né le circostanze in cui era avvenuto il fatto, e per questo motivo non l’aveva collegato a Seiji.
«Cosa…?» mormorò l’uomo quando lo udì sussurrare sovrappensiero quel nome.
«Lo zio di cui parli… si chiamava Seiji?».
Era difficile lasciare a bocca aperta Masaki Mitsui, eppure quella domanda ci riuscì.
Nel silenzio generale, al porta dello studio stridette quando Kogure l’aprì dopo aver bussato due volte. Forse seguire Mitsui non era stata l’idea migliore, e irrompere nel bel mezzo di una discussione tra padre figlio lo era ancora meno, ma lui era fatto così: non poteva non preoccuparsi per le persone a cui teneva, figurarsi per la persona che amava.
«Perdonatemi, non volevo disturbare, solo…».
«Nessun disturbo» si affrettò a dire Mitsui che, alla luce di quel nuovo scenario, stava seriamente meditando di rivelare al padre cosa gli fosse davvero successo in quei giorni. Si rendeva conto che raccontare di essere stato trasformato in un gatto da uno spirito – e non uno spirito qualsiasi, ma da quello del suo prozio – poteva aprirgli le porte di un ospedale psichiatrico, ma non avrebbe avuto modo di giustificare la presenza di quella catenina senza svelare la verità. E lui non voleva mentire, non più, non a quel padre che si era dimostrato comprensivo nei suoi confronti, che non aveva pretesto nemmeno una spiegazione per un assenza prolungata di giorni di cui, invece, avrebbe avuto tutto il diritto.
Invitò Kogure a raggiungerlo, per averlo al suo fianco, perché la sua sola presenza gli infondeva il coraggio necessario per fare quel passo. Un passo che, per il momento, Mitsui dovette rimandare, in quanto fu suo padre a prendere per primo la parola.
«Era un regalo di mia nonna per le loro future mogli» l’uomo osservò il quadro che ritraeva i propri genitori: erano giovani, poco più che ventenni, ma avevano già la fede al dito, segno che il dipinto fosse stato commissionato dopo il matrimonio. «Due ciondoli identici, ma rosso per mio padre e blu per suo fratello maggiore» da un cassetto estrasse un portagioie, al cui interno era custodito il primo pendente, ereditato dalla madre quando era morta un decennio prima. «Quello di mio zio Seiji scomparve con lui, molti anni prima che io nascessi, ma sapevo della sua esistenza perché, anche se in famiglia non se ne parlava spesso, conoscevo la sua storia».
Mitsui si avvicinò alla scrivania. «Papà-».
«Sai» lo interruppe «i tuoi bisnonni non hanno mia smesso, nemmeno per un giorno, di sperare che Seiji varcasse di nuovo la soglia di casa. Mio nonno passava ore seduto su una sedia accanto ad una finestra, da cui poteva vedere il vialetto d’ingresso. Mia nonna, invece, curava personalmente la pulizia della sua camera, nella speranza che lui potesse usarla quando sarebbe ritornato…» fece un sospiro. «Quando quella sera non sei rientrato, e non l’hai fatto nemmeno la sera dopo, mi sono chiesto se anche io avrei passato il resto della vita a chiedermi che fine avessi fatto… se fossi da qualche parte, ancora vivo-».
Mitsui allungò la propria mano e la posò su quella tremante del padre. Dopo aver ascoltato le sue parole – le sue paure – era ancora più convinto delle proprie intenzioni. Lanciò un’occhiata a Kogure che rispose con un cenno della testa, a conferma che sarebbe rimasto al suo fianco, per supportarlo.
«Papà, vorrei che ascoltassi ciò che ho da dirti» gli disse infine, con uno sguardo deciso. «So che non sarà facile da credere, ma sarà la verità…».
E la verità fu.
 
Mitsui aprì spossato la porta della propria camera, che richiuse con un calcio appena ebbe fatto accomodare Kogure. Lo abbracciò da dietro la schiena, attirato dal suo collo candido, e maledettamente scoperto, contro cui nascose il viso.
Non avrebbe mai creduto che, raccontare nel dettaglio ciò che era accaduto in quei giorni, potesse essere tanto sfiancante. Come premesso, non era stato facile convincere il padre della veridicità delle proprie parole: Kogure era intervenuto in suo soccorso in più occasioni, ma la svolta era arrivata al racconto del soriano rosso, accolto in caso dalla domestica di Seiji quando questi era appena scomparso. Un particolare insignificante, che in pochi conoscevano o ricordavano. Persino suo padre, che aveva vissuto per alcuni anni nella casa dei nonni con la propria famiglia, rammentava a malapena quel gatto curioso che gironzolava per casa, di tanto in tanto, e che svanì pochi giorni dopo la morte della donna che lo stava accudendo.
«Dio, ho voglia di baciarti…» disse Mitsui, avvertendo la necessità impellente di un contatto fisico.
Non dette particolare peso al contrarsi dei muscoli di Kogure, credendo che, il suo irrigidimento, fosse dovuto alla sorpresa di sentire le sue labbra umide accarezzargli la pelle delicata del collo. Un peccato che non fossero soli in casa, perché Mitsui si sarebbe spinto volentieri oltre i semplici baci… ma andava bene anche così: ora che stavano insieme, avrebbero avuto tutto il tempo per approfondire le carezze e…
Fu l’abbaiare di Yuki a strapparlo da pensieri man mano più impuri. Il fatto che suo fratello lo avesse mollato lì, nella sua camera, lo stava già facendo incazzare quando realizzò la verità: dal suo letto, dove era seduto, Hitonari li fissava attonito, con gli occhi totalmente spalancati, manco avesse incontrato un fantasma. Inutile pensare di giustificare l’ovvio, nascondendolo dietro scuse becere e senza senso.
«L’avete già fatto…?» chiese con un filo di voce, dopo interminabili minuti di silenzio.
L’imbarazzo in cui sprofondò la neo coppietta gli fornì la risposta negativa che cercava.
«Oh, cazzo! Meno male» si passò una mano sulla faccia con chiaro sollievo. «Forse sono ancora in tempo per riportarsi sulla retta via del paradiso femminile…».
«Non ho bisogno della tua “guida” per decidere con chi stare!» Mitsui si frappose tra lui e Kogure, il qualche intanto stava meditando di non rimettere più piede in quella casa, o sarebbe morto dalla vergogna.
«No, aspetta… sei serio?». Hitonari si alzò in piedi e lo fissò dritto negli occhi. «Oh» esclamò quando capì che lo era. La sua risata isterica riempì la stanza «Merda! Per nulla al mondo voglio perdermi la scena di quando presenterai il tuo fidanzato a papà!»
Come se potessi, pensò Mitsui, immaginando che, per i suoi, sarebbe probabilmente rimasto single a vita. Tuttavia, capì anche che le informazioni potevano giungere alle loro orecchie in svariati modi e…
«Spara» grugnì, piegando la bocca in una smorfia. L’idea di sottostare alle condizioni del fratello gli rivoltava lo stomaco… ma che cosa poteva fare?
Hitonari incrociò le braccia sul petto e lanciò un’occhiata fugace a Kogure.
«Ehi… tua sorella è libera?» chiese, grattandosi poi una guancia imbarazzato.
Colto alla sprovvista dalla domanda, Kogure sbatté gli occhi. «C-che io sappia, si… perché?».
A Mitsui il “perché” pareva ovvio. In cuor suo, sperò solo di non dover organizzare una “uscita a quattro”, ma fu proprio quello che suo fratello chiese.

FINE

 

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Slam Dunk / Vai alla pagina dell'autore: Cioppys