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Autore: yonoi    12/02/2019    8 recensioni
La mattina del 19 maggio 1845, due velieri della Marina Britannica, la Her Majesty’s Terror e la Her Majesty’s Erebus, salparono in direzione del Mar Glaciale Artico: scopo della spedizione, tracciare la rotta del passaggio a nord ovest, e aprire una nuova via di comunicazione tra l’Atlantico e il Pacifico.
Inviate sotto il comando del capitano John Franklin, la Erebus e la Terror scomparvero insieme a tutti i componenti dei due equipaggi.
Numerose spedizioni di ricerca furono inviate sulla rotta di Franklin, senza riuscire a ritrovare alcun superstite e riportando in patria notizie sconvolgenti sul destino dei dispersi. Da ultimo, quando ormai Franklin e i suoi marinai erano stati dichiarati ufficialmente caduti al servizio di Sua Maestà, una donna tenace decise di giocare la sua ultima carta: acquistare una nave e inviarla sulle tracce dei marinai scomparsi in quelle terre di ghiaccio e di oscurità.
Primo classificato al contest "I doni della medicina" indetto da Dollarbaby e valutato da Shilyss sul Forum di EFP a pari merito con "La verità su Ingeborg Barrow" di Old Fashioned.
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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“Il tempo previsto per oggi
è inquietudine crescente
seguita da terrore conclamato”
(C. Palahniuk)


 
3. La morte è un ragazzino con gli occhi a mandorla
 
 
Penisola di Adelaide, territori del Canada, luglio 1848
 
Sprofondato in una vegetazione collosa, l’estuario del Great Fish River era un’immensa palude in cui il fiume, carico delle acque del disgelo, si spezzettava in stagni, laghetti e pozzanghere fino a raggiungere il mare.
L’orizzonte era una fila di pioppi solitari, macchie di arbusti che producevano bacche acquose: messa a bruciare, quella sterpaglia non produceva alcun calore, ma soltanto una coltre di fumo nero e pestilenziale.
A prima vista, il paesaggio somigliava a una prateria di radure spelacchiate, muschio e alberi storti: in realtà tutto era sospeso sopra a uno strato friabile, che da un momento all’altro cedeva sotto ai passi facendoli affondare.
Il gruppo dei superstiti guidati da Colby avanzava prudentemente in fila indiana, cercando di mantenersi ai bordi della palude: dove fossero quei bordi, in quell’immenso acquitrino a perdita d’occhio, era tutto da indovinare.
Si poteva andare solamente per tentativi, saggiando col piede la consistenza del suolo: questo era compito della prima avanguardia ossia di Colby in persona, che procedeva distaccato e solitario, con l’uniforme in ordine come se fosse appena uscito dall’Accademia e non da quattro mesi di peregrinazioni tra i ghiacci.
La sua figura snella pareva sfiorare solamente il terreno.
Era come se la palude e il tenente fossero amici da tempo: il pericolo di affondare, per lui, non esisteva, e gli uomini che attendevano il suo segnale avevano l’impressione che quel pantano Colby lo conoscesse come le proprie tasche, manco ci fosse nato.
Lo stesso, evidentemente, non valeva per loro, che avanzavano lenti sotto al peso del vento e di quel che rimaneva del carico.
Puntualmente, qualcuno finiva impantanato fino al ginocchio, mentre agli stivali lucidati di Colby non si attaccava neppure una minuzia di fango.  
Soltanto il giorno prima, avevano superato un punto in cui la palude aveva ceduto sotto alla mole di un alce, evidentemente sbandato dal branco. Lo zoccolo minuto non gli aveva fornito un sufficiente appoggio, e in breve aveva cominciato a sprofondare nella melma.
Quando gli uomini gli erano passati vicino, una coltre di muschio si stava richiudendo sopra alle grandi corna aperte a ventaglio.
I marinai s’erano entusiasmati all’idea di cavar fuori l’alce utilizzando le ultime gomene della Terror, e cuocere un arrosto che li avrebbe aiutati a sopravvivere a lungo.  
“Lasciate perdere, se non volete affogare anche voi” aveva detto il tenente, e nessuno s’era preso la briga di contraddirlo: un po’ perché di lui avevano soggezione, ma anche per quella bizzarra sensazione che la natura del luogo fosse dalla sua parte e obbedisse ai suoi ordini.
Quelle erano state le prime parole pronunciate da Colby dal giorno cosiddetto dell’ammutinamento, quando il tenente era partito insieme a Crozier per tentare il recupero del gruppo rimasto a King William Island. Dopo un paio d’ore era tornato da solo, remando imperturbabile a bordo della scialuppa.
Con i suoi occhi lucidi e neri, che parevano divorati da una strana febbre interiore, aveva scrutato uno per uno gli ufficiali, poi aveva degnato di uno sguardo sprezzante il resto della ciurma, radunata attorno a lui in un silenzio assoluto.
Sulla spiaggia si udiva solamente l’incedere pigro della risacca, il richiamo stridente di qualche uccello acquatico. Sul mare restò a lungo la traccia della scialuppa. Il cielo guardava altrove, impassibile e grigio.
Con la massima indifferenza il tenente era sceso a terra, passando in mezzo ai suoi senz’altre spiegazioni. In molti lo fissavano con negli occhi cento domande: e il capitano Crozier? E quelli che ci stanno aspettando a King William Island?
Nessuno di quegli interrogativi uscì dalla bocca dei marinai, e neppure gli altri ufficiali si fecero avanti. Colby li zittì tutti quanti in anticipo, con un solo movimento delle sue ciglia.
“Andiamo” aveva detto, e la compagnia aveva diligentemente smontato le tende e s’era messa in marcia.
Gli ordini di Colby non erano mai impartiti in maniera diretta.
Solitario per indole e inaccessibile per scelta, il tenente preferiva servirsi di portavoce scelti in maniera del tutto casuale: semplicemente, ogni tanto qualcuno percorreva le file per annunciare che il comandante aveva deciso di seguire il corso del Great Fish River finché non si fosse trovato un punto adatto al guado; che la spedizione avrebbe fatto sosta al tramonto, sicché prima che il sole fosse sull’orizzonte, occorreva darsi da fare per accamparsi; che le scorte di cibo erano ormai esaurite, ma il comandante si sarebbe incaricato personalmente di riempire le marmitte.
Di fatto, ricorrendo ai servigi del suo fucile sempre carico, a una mira infallibile e forse a vera e propria stregoneria, Colby era in grado di procurare selvaggina di ogni genere. Agli occhi divorati dalla fame dei suoi, le capacità venatorie del tenente iniziarono ben presto ad assumere i contorni della leggenda: si cominciò a dire che con una sola pallottola era in grado di uccidere sette lepri; che con un calibro assolutamente inadatto era riuscito ad abbattere un orso, laddove chiunque altro avrebbe fatto solamente un gran chiasso, con l’unico risultato di esasperare l’animale e di farsi sbranare.
In realtà, quello dell’orso era stato un semplice colpo di fortuna: perlustrando la macchia, Colby si era imbattuto in un grizzly morente, e l’unico colpo esploso era stato quello di grazia.
Nel silenzio che ammantava quel luogo desolato, la fucilata era echeggiata con la potenza di un grido di guerra, e da quel momento il tenente era entrato ufficialmente nell’olimpo della sua ciurma di morti di fame.
Di fatto, finché Colby fu al comando nessuno morì di stenti: questo contribuì ad accrescere enormemente il suo carisma, fino a farlo sfociare a livelli di pura e semplice adorazione.
Come ogni divinità che si rispetti, Colby non si mischiava ai comuni mortali: rizzava la sua tenda in luoghi appartati e pareva vivesse d’aria. Si nutriva esclusivamente di radici e di bacche, che raccoglieva durante il suo cammino solitario.
Per sé, riservava soltanto le munizioni. Del bottino di caccia esigeva soltanto il grasso, necessario a mantenere l’arma perfettamente funzionante.  
Quanto al resto, sapeva che gli inglesi erano dei selvaggi, lo sapeva da sempre: e i festini che quegli uomini abbruttiti celebravano ogni sera attorno a fuochi di sterpi, che annerivano la carne senza riuscire a cuocerla, il modo in cui si gettavano comunque su quelle carcasse e l’odore del sangue che si portavano sempre addosso, non faceva che confermare la sua idea.  
Lui non era un inglese, come era evidente a chiunque avesse il coraggio di guardarlo dritto in faccia: i suoi tratti gentili, i lunghi occhi a mandorla e gli zigomi alti, ricordavano la bellezza altera di una donna inuit.
A quattordici anni sua madre Qannik, che in lingua inuktitut significa “fiocco di neve che volteggia nell’aria”, aveva creduto alle promesse di un ufficiale inglese e l’aveva seguito abbandonando la sua tribù che viveva di caccia, pesca e poche illusioni sulle coste della Groenlandia.
L’amore di Qannik per il fascinoso qallunaaq[1] era stato intenso e totale come l’inverno artico: quello di lui, era durato il tempo di tornare in Inghilterra e trovarsi incastrato in un matrimonio già combinato prima della partenza, da cui aveva tentato più volte di disimpegnarsi per lettera.
Il destino del piccolo fiocco rubato alla terra dei ghiacci fu di entrare nella casa di William Siddal dalla porta di servizio, in funzione di sguattera e amante segreta.
Molto presto, la moglie aveva mangiato la foglia e Qannik era stata messa alla porta nel peggiore dei modi: decisa ad ottenere un equo risarcimento, nonché ad assicurarsi di non averla più in mezzo ai piedi, la legittima consorte l’aveva venduta a una fiera itinerante, che girava l’Europa esibendo al pubblico curiosità da tutto il mondo.   
Tra capannelli che affollavano le tende per vedere la donna con la barba più lunga dei cinque continenti, il mangiatore di spade e l’incantatore di serpenti, Lady Siddal aveva contrattato con l’impresario il prezzo della vendita a peso di Qannik.
In piedi su una bilancia di dimensioni spropositate, che serviva per il numero della donna cannone, il peso di Qannik risultò esattamente quello di un fiocco di neve: la macchina mosse l’ago registrando quarantacinque chili scarsi, comprese le pellicce e la minuta scintilla che Qannik, senza saperlo, portava dentro di sé da tre mesi.
“Fanno quarantacinque scellini al massimo,” annunciò l’impresario. “È un prezzo di favore. Se la pesassi nuda non arriveremmo neppure a trenta.”
“Quarantacinque sterline, vorrete dire”, precisò Lady Siddal, “si tratta di un esemplare originale della Groenlandia, tra l’altro molto giovane e che potrete usare anche per altri scopi.”
L’impresario era uno zingaro scaltro e sanguigno, con una voce da tamburo battente: dal suo palco allestito al centro della fiera, era abituato a smerciare agli allocchi prodigiosi rimedi per far ricrescere i capelli anche alle palle da biliardo, tinture in grado di procurare erezioni da cavallo, filtri in grado di suscitare passioni irrefrenabili in qualsiasi donna e al tempo stesso di smemorare le mogli, per far sì che non si accorgessero di nulla.
Un furfante del genere non era certo disposto a farsi infinocchiare da Lady Siddal:
Quaranta scellini esatti, non uno di più. Se non lo ritenete un prezzo appropriato, non dovete far altro che riportarvi a casa la vostra bella eschimese.”
Dire questo a Lady Siddal era come evocare il diavolo in persona, sicché in breve i due si accordarono per trentacinque scellini.
Qannik si trovò così a girare per il mondo nelle sue nuove vesti di fenomeno da baraccone: dietro a un paesaggio di igloo malamente abbozzati su un vecchio lenzuolo, le toccava esibirsi insieme a una vecchia foca, assuefatta da anni di addestramento e percosse a far girare una palla sulla punta del naso.
Il numero della foca non incuriosiva più neppure i bambini. In compenso, la bellezza algida di Qannik, il cui volto pareva cesellato nel ghiaccio, interessava a molti: soprattutto agli uomini che venivano una prima volta con la famiglia e poi tornavano soli, e come gatti randagi s’infilavano nella tenda in cerca di emozioni inconsuete.
Per questo, era sufficiente rivolgersi all’impresario e scucire due scellini: lo zingaro era ben felice di accontentarli e ammortizzare il prezzo del migliore affare concluso negli ultimi anni.
Fino agli ultimi giorni di gravidanza, Qannik dovette subire le peggiori indiscrezione da parte di almeno cinque uomini a notte. Il disprezzo per gli inglesi cresceva di pari passo, e il piccolo fiocco che cresceva nel suo ventre lo assorbì con il sangue, le irruzioni forzate, i pianti solitari di sua madre che evocavano i fruscii del disgelo.
L’ultima di quelle odiose contrattazioni avvenne quando Silatuyok[2] - il futuro tenente Colby - aveva cinque anni e un giovane capitano della British Army, Edward Marlowe, assistette per caso al dialogo che si stava svolgendo tra lo zingaro con la sua voce da tamburo e un tizio disposto a versare la somma stratosferica di cinquanta scellini, pur di avere a disposizione la madre e il figlio insieme.
Col tempo, Qannik era riuscita a imparare poche parole della lingua degli stranieri, ma quelle trattative le conosceva sin troppo bene e soprattutto sapeva dove sarebbero andate a parare. Accasciata sul finto iceberg che decorava il suo palchetto, si aggrappava al bambino come fosse uno scudo. Con il muso adagiato sopra al suo grembo, la foca la fissava con i suoi occhi dolci, cisposi di cateratte ma pieni di umanità.
Ben più tagliente era lo sguardo con cui Silatuyok seguiva la discussione, ben deciso a vendere cara la pelle: la sua e quella della madre.
“Il ragazzino morde”, precisò a questo proposito l’impresario. “Ma non dovete preoccuparvi, non ha la rabbia. L’abbiamo istruito noi a reagire così, per rendere tutto il gioco più divertente.”
Di fronte alla brutalità dello zingaro, l’aria sordida del cliente, la bellezza struggente della giovane inuit e quella gelida e disperata di suo figlio, Marlowe s’era commosso, indignato e infuriato, e alla fine aveva suscitato un pandemonio: con uno strepito da guerra aveva richiamato l’attenzione di una coppia di poliziotti che girava per la fiera col naso per aria, aveva acchiappato il potenziale cliente che, vista la mala parata, tentava di filarsela, e quando lo zingaro aveva provato a cavarsi d’impaccio precisando che la trattativa di compravendita riguardava la foca, aveva perso la testa.
All’esito di una rissa che aveva attirato un capannello di gente, altri poliziotti di ronda, tutti i circensi in massa accorsi a dar man forte al loro caporione, il capitano Marlowe si era ritrovato sulla groppa una denuncia per aggressione e in mano nessuna prova: tutti i presenti testimoniarono che la contrattazione riguardava la foca. Peraltro, il compratore era un membro del Parlamento, rispettabile collezionista di amenità e addirittura proprietario di uno zoo privato che annoverava pappagalli del Nuovo Mondo, canguri dall’Australia, addirittura un caimano delle Indie. Era chiaro per tutti che quell’ufficialetto aveva travisato: ci avrebbe pensato il Tribunale militare a rimetterlo al suo posto.
“Temo che anche voi abbiate travisato”- s’impuntò Marlowe, a muso duro -“anch’io sono un amatore di oggetti rari. Offro seduta stante sessanta sterline per l’indigena, il ragazzo e anche la foca. Oltre, naturalmente, alla rinuncia a far pervenire il mio rapporto al Parlamento, alla stampa e a Sua Maestà la regina Vittoria in persona.”
Tutti gli interessati convennero che si trattava di un giusto prezzo:
“Di fronte a questa offerta, è opportuno che mi ritiri di buon grado”, si arrese il sedicente collezionista. Marlowe versò altri venti scellini ai poliziotti e riuscì ad ottenere un ordine di sgombero per motivi di ordine pubblico.
La fiera fu costretta a levare le tende la sera stessa. Allo zingaro fu notificata una diffida a rimettere piede in città, e per Qannik e suo figlio cominciò una nuova vita nella brughiera dello Yorkshire.   
Immerso in un paesaggio di colline battute dal vento, tra l’aroma dei ciocchi che scoppiettavano nel camino e i belati delle pecore, il cottage del capitano era un luogo piacevole, ma Qannik continuava a dibattersi tra i ricordi del passato e l’angoscia del presente. La presenza di Marlowe le suscitava un incontenibile terrore. Preferiva trascorrere le sue giornate nella stalla dove ricoverarono anche la vecchia foca, spiaggiata sulla paglia: a tratti, come in sogno, muoveva ancora il naso per far girare una pallina immaginaria.
Qannik rimediò al dolore dedicandosi a filare la lana che portavano i fittavoli, alleviando l’angoscia con i canti della sua antica tribù.
Seduto accanto a lei, il piccolo Silatuyok ascoltava le tristi vicende della dea Sedna[3]: colei che rifiutava di prendere marito e per questo fu data in moglie a un uccello marino, che la relegò sulla vetta di un iceberg circondato dai flutti.
Il pianto della dea prigioniera gonfiò l’aria del mare di piogge incessanti: suo padre mise in mare un kajak per correre in suo aiuto prima che i ghiacci cominciassero a sciogliersi, e il mondo degli inuit perisse per sempre.
Quando l’uccello marino si accorse del rapimento, spiegò le ali e si lanciò all’inseguimento. Una cupa ombra nera occupò lo spazio del cielo, d’un tratto si fece notte e improvviso cadde l’inverno.
Il padre della dea, in preda al terrore, si liberò della giovane gettandola in mare, e poiché Sedna insisteva per aggrapparsi al kajak, col remo le tranciò di netto le dita. Da queste, narrava la ballata, nacquero gli animali che popolano i ghiacci e offrono sostentamento agli inuit: le foche, i trichechi, le gazze marine, i pesci innumerevoli.  
Sedna divenne la regina degli abissi, “colei che abita in basso” e che occorre ingraziarsi affinché sia benevola e non scateni tempeste: aiutarla a pettinare i lunghi capelli, offrendo le proprie mani in luogo delle dita perdute, è compito degli sciamani per mezzo dei loro misteriosi rituali.
Il piccolo Silatuyok non dubitava che sua madre fosse Sedna, la sventurata data in sposa a creature mostruose: secondo un’altra leggenda, il marito della dea era addirittura un cane, e da quell’unione assurda - narravano gli inuit - erano nati i qallunaat, gli uomini bianchi. Cani fin dentro l’anima, riguardo a questo Silatuyok non aveva alcun dubbio. Cresceva in preda a desideri contrastanti: da una parte desiderava vedere con i suoi occhi le terre del grande gelo, dall’altra detestava le sue origini inuit perché il suo aspetto esotico sortiva ovunque occhiate curiose e disprezzi.
Il capitano Marlowe aveva sostenuto infinite discussioni con gli altri membri della famiglia, che si opponevano al suo desiderio di adottare legalmente i due indigeni.
“Non se ne parla nemmeno”, aveva tagliato corto Marlowe padre. “Se non avrai figli, eredi della tenuta saranno i tuoi fratelli, di certo non dei selvaggi.”
Al momento di battezzare il bambino, il capitano scelse per lui un nome più accessibile di quello inuit, a cui aggiunse il cognome da ragazza di sua madre. Fu una sorta di simbolica rivincita nei confronti del parentado.
Ufficializzato inglese quanto meno di fatto, il futuro tenente Richard Colby non ebbe per questo vita più facile: il suo volto esotico lo esponeva puntualmente allo scherno di tutti i gruppi umani con cui gli capitò di avere a che fare, dai primi giorni sui banchi di legno della scuola fino alla sua ammissione al Royal Naval College, a Portsmouth.
“Faccia da cane cinese”, gli gridavano dietro i compagni di classe, finché imparò a fare a botte e a ridurre molti nasi a forme ben più schiacciate del suo.
“Venite dalle colonie?” gli domandavano gli aristocratici rampolli di Portsmouth. “Come mai non portate il cognome di vostro padre?”
“La risposta è molto semplice,” azzardò il più informato, “si tratta di un bastardo. Pare che sia eschimese, uno di quei selvaggi che mangiano pesce marcio.”
Per non lasciare impunito quell’affronto, Colby colla di pesce rispolverò l’antica consuetudine della sfida a duello: già allora deteneva il migliore punteggio nelle esercitazioni di tiro, e la sua mancanza di emozioni e distacco erano proverbiali tra i cadetti del Royal Naval College.
“Ha il ghiaccio nelle vene”, osservano sbalorditi i poliziotti che arrestarono Colby sul campo, dopo che aveva freddato, in rapida successione, già cinque malelingue sulle dieci a cui aveva dato appuntamento, come da tradizione, sulla riva del mare all’alba.
Il processo che seguì tenne banco per mesi su tutti i giornali. Tra i cavilli e le pieghe più desuete del codice militare, la pratica del duello era ancora contemplata, sicché i giudici si trovarono a dover ricercare un accomodamento. Proprio in quei giorni, Edward Marlowe era stato promosso a colonnello. Grazie al suo prestigio, Colby riuscì a cavarsela col pagamento di un indennizzo alle famiglie delle vittime.
Da tutta la vicenda, il Royal Naval College ricavò una pubblicità immensa, uscendone come custode delle storiche tradizioni della Marina. L’anno seguente, il numero dei cadetti aumentò in misura esponenziale, mentre il volto femmineo e impassibile di Colby divenne un’icona romantica e suscitò valanghe di lettere d’amore: da ogni parte dell’Inghilterra, avventurose fanciulle gli inviavano proposte e petali di rose di nascosto dai genitori.
Non da ultimo, Colby fece breccia nel cuore della sorella minore del suo benefattore: Millicent Marlowe era un fuscello di sedici anni tutto boccoli e nastri, che compensava l’ignoranza del mondo con un grande entusiasmo. Fu solo per offrire una sorta di riparazione al colonnello che Colby acconsentì a sposarla, salvo ribadire il suo fermo proposito d’imbarcarsi il prima possibile, per esplorare le terre dell’Artico.
Solo pochi mesi prima era morta Qannik. L’avevano trovata come al solito nella stalla, seduta all’arcolaio con le mani nel grembo e l’unica compagnia della foca imbalsamata: gli occhi di pietra dura che avevano sostituito le cateratte conservavano ancora un’espressione umana.
Persino dopo la morte, il suo corpo rifiutava di essere toccato dalle mani degli uomini, sicché non riuscirono a smuoverla e dovettero seppellirla seduta. Mentre i becchini la conducevano fuori, gli stallieri si accorsero che la foca era piena di parassiti: volendosi risparmiare la fatica e la nausea di bruciarla sul prato, preferirono buttarla dentro alla fossa.
A quel punto, Richard Colby sentiva di non avere più alcun legame con l’Inghilterra: “Il mio debito di gratitudine nei vostri confronti è grande” aveva detto al colonnello, “ma ho deciso di andarmene non appena potrò”.
Marlowe non si era sentito in animo di contrastare il desiderio del giovane di andare a scoprire il mondo: mai avrebbe pensato che, alla prima occasione, Colby si sarebbe imbarcato con l’intento, di seguito dichiarato per iscritto alla moglie, di non fare ritorno.  
Ora, mentre dal suo accampamento solitario sorvegliava la notte, e le voci dei bivacchi giungevano con sempre minore intensità, mano a mano che gli uomini cedevano al sonno, Colby aveva ben chiaro ciò che desiderava: avrebbe condotto i suoi a Fort Resolution, e una volta data prova delle sue capacità, avrebbe fatto domanda alla Compagnia della Baia di Hudson per ottenere una nave e proseguire la rotta. Aveva trascorso notti intere a studiare le mappe di Franklin, e il percorso da seguire era apparso ai suoi occhi con la certezza di una rivelazione: sarebbe stato lui a scoprire la via del passaggio a nord ovest, e le avrebbe dato il suo nome.
Tra mille fiocchi di neve, avrebbe danzato la sua vittoria tra i ghiacci.   
 
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King William Island, aprile 1959
 
“Cos’è quel mucchio di pietre?”
“Sarà una dannata tomba, messa là apposta per attirare altre disgrazie” brontolò uno dei veterani della Fox “da quando siamo in viaggio non abbiamo trovato altro.”
“Brindiamo alla salute degli incontri propizi”, fece eco un monumentale irlandese, cavando una bottiglia da sotto agli strati di pelli e pellicce che a stento gli consentivano di muoversi.  
“Fatela finita e cominciate a scavare.” In piedi di fronte al cairn, McClintock era come di consueto assillato dalla fretta. “Mano alle vanghe, uomini.” 
“Se torno a nascere, vado direttamente a fare il becchino.”
“C’è un messaggio, là sotto” s’intromise il redivivo Henry Torrington, che becchino lo era sul serio e per professione, e da quando s’era ripreso esibiva un volto cereo che lo faceva più che mai assomigliare ai suoi clienti: non quelli che partecipavano alle esequie, ma proprio quelli che era suo compito avvitare dentro a casse di legno rivestite di raso.
I marinai, piombati nelle pellicce acquistate per l’occasione da inuit di passaggio, si voltarono a guardarlo dritto in faccia:
“Voi siete del mestiere”, interloquì il tizio della bottiglia, approfittandone per scolarsi un lungo sorso. “Di morti ve ne intendente. Gente, qui abbiamo un esperto.”
Gli altri scoppiarono a ridere, ma Henry era serissimo. “Non c’è nessun cadavere, là sotto. Le piramidi di sassi vengono spesso usate dagli esploratori per lasciare messaggi.”
“E voi che ne sapete?”
Quella domanda era sulla punta della lingua di McClintock da un pezzo: più o meno da quando Henry aveva avvistato il cairn durante un primo sopralluogo sulla costa della King William Island, e con l’aria di chi è stato colto da una premonizione - o da un abbaglio, come dicevano tutti - s’era impuntato per far sbarcare tutto il gruppo.
“Ho letto molti romanzi di avventura” si giustificò Henry con assoluta naturalezza. 
McClintock non era certo un topo di biblioteca, ma da esperto navigatore sapeva che i cairn servivano agli inuit come punti di riferimento. In caso di necessità, i marinai li utilizzavano per comunicare in condizioni atmosferiche avverse, quando qualsiasi messaggio lasciato alle intemperie sarebbe andato perduto.
Gli era parsa comunque strana l’ostinazione con cui Henry aveva insistito per raggiungere il cairn dopo averlo semplicemente veduto da lontano: sulla cima di quella montagnola si agitava una bandiera scolorita dalle intemperie, ma neppure un falco sarebbe riuscito a distinguerla mentre la Fox perlustrava la costa, tenendosi a debita distanza dalla banchisa.
Fu solo per non passare lui stesso da allucinato che evitò di domandare al ragazzo se per caso non avesse ricevuto informazioni di prima mano dal fantasma di suo fratello John Torrington. 
La notte precedente, quello spettro senza requie e per di più perennemente raffreddato era venuto a visitarlo in cabina, a un’ora che McClintock era riuscito a indovinare solamente osservando il livello raggiunto dall’ultima bottiglia sul tavolo.
“Ho bevuto parecchio”, disse a mo’ di saluto quando se lo trovò dinanzi col solito fazzoletto, con cui si asciugava l’eterna goccia dal naso. “Come minimo, a questo punto vedo i fantasmi.”
Come era sua abitudine durante quelle visite, John Torrington non si smarrì in convenevoli: si limitò a indicare, sopra alla mappa della King William Island, un punto nell’entroterra dove apparentemente non c’era un bel niente, ma che il capitano si affrettò a contrassegnare con il massimo scrupolo.
“Che cosa ci sarebbe là, a parte la neve?” brontolò McClintock, versandosi l’ennesimo bicchiere. “Il magico tesoro degli elfi? Un po’ di quattrini, in fondo, ci farebbero comodo.”
Sotto al cairn, e neppure troppo in profondità, i marinai rinvennero in effetti un cofanetto, che non conteneva neppure un baiocco bensì, per l’appunto, un messaggio. Su una pagina tolta dal diario di bordo della Her Majesty’s Terror, il capitano Crozier aveva lasciato il proprio sintetico resoconto sulle ultime vicissitudini della spedizione Franklin.  
Come un’apparizione, McClintock vide dinanzi a sé i relitti delle due navi imprigionate tra i ghiacci, e gli uomini dell’equipaggio incamminarsi verso un destino incognito. La morte di sir Franklin portava la data certa del giorno 11 giugno 1847, e la sua tomba doveva trovarsi nelle vicinanze del cairn.
Quanto all’Erebus e alla Terror, molto probabilmente i due imponenti velieri si erano inabissati in quel tratto di mare che la Fox aveva percorso per giungere fino a lì. Le loro vestigia erano ormai custodite in quel fondale gelido e inaccessibile.
McClintock ripensò ai naufraghi della Resolute, e alla visione che continuava a perseguitarlo ogni volta che chiudeva gli occhi per prendere sonno: le scialuppe calate dalla nave che già cominciava a inclinarsi, la lunga attesa nel gelo prima di essere avvistati da una baleniera apparsa come un miraggio. Una delle scialuppe fu lasciata per mare non per dimenticanza, ma perché conteneva solamente dei cadaveri. A distanza di anni, il capitano continuava a trovarsela puntuale davanti gli occhi nella solitudine dei suoi incubi notturni: una barca di morti destinata a viaggiare senza meta fino alla fine del mondo.
Decise di mettere un freno a quei pensieri: “È ora di dire basta a tutti questi fantasmi. La mia cabina è già fin troppo affollata”. 
Come riportavano i resoconti delle precedenti ricerche, peraltro confermati da altre fonti ufficiose ossia da John Torrington, una volta dichiarato l’abbandono delle navi i reduci della Terror e dell’Erebus si erano diretti a sud.
McClintock diede ordine di dividersi in due gruppi: il primo, al suo comando, si sarebbe avventurato nell’entroterra seguendo la linea costiera. Il resto della ciurma avrebbe seguito lo stesso percorso via mare, a bordo della Fox.
“Verso sud, capitano?” domandò l’irlandese, quello che nascondeva il gin nella pelliccia.
McClintock, in quel momento, seguiva con lo sguardo un’immaginaria fila di disperati che arrancava sulla neve trascinando le scialuppe di salvataggio.
Si riscosse da quella visione, e disse semplicemente:
“Si parte.”
 
******
 
La guida inuit di cui McClintock s’era procurato i servigi unitamente all’acquisto di una muta di trenta cani da slitta, si rivelò una miniera di informazioni. Probabilmente da quelle parti esisteva una linea di comunicazione più efficiente del telegrafo: le notizie correvano tra gli indigeni, e presso ogni tribù si conservava memoria delle vicissitudini occorse ai qallunaat della spedizione Franklin.
Anche se la neve cancellava puntualmente ogni traccia del passaggio degli uomini, l’oblio non era di casa nelle terre dei ghiacci.
“Gli inuit sono abituati a raccontare storie. I nostri lunghi inverni sono pieni di ombre, immagini, ricordi”, spiegò Nanouk[4], la guida. “Alcuni di noi si sono imbattuti in un gruppo di bianchi che procedeva a piedi, tirandosi dietro delle barche. Era chiaro che stavano morendo di fame. Una tribù ha portato loro qualcosa da mangiare, ma sono stati cacciati a fucilate.”
Fu Nanouk a segnalare i resti di uno degli accampamenti di Crozier. A valle di una collina su cui un tratto di tundra si ostinava a sbucare con qualche arbusto, il gruppo di McClintock trovò i resti di due scialuppe sfasciate, come se fossero state lanciate a capofitto da una forza prodigiosa.
“Noi crediamo negli spiriti dispettosi, che abitano le nevi e tendono imboscate agli incauti”, spiegò Nanouk. “Ma in questo caso, penso che le due barche siano semplicemente precipitate dal crinale. Forse la neve ha ceduto, forse erano troppo cariche”.
La quantità di zavorra che in effetti le due scialuppe avevano trasportato si trovava ancora sul posto. Si trattava di una congerie di oggetti bizzarri: pezzi di argenteria con incisi dei monogrammi, rotoli da pianola, fazzoletti di seta, una scatola di saponette e una di sigari, poco più in là due cadaveri.
I corpi erano ridotti a mummie congelate, solidamente inchiavardate tra i ghiacci.
Poiché nessuno aveva voglia di metterci le mani, fu McClintock a frugare le uniformi di quelli che parevano, a prima vista, due ufficiali. Il capitano aveva bevuto abbastanza per non lasciarsi sopraffare dalla nausea: cavò dalle tasche dei cadaveri due tesserini, e restò sbigottito quando si ritrovò a leggere i loro nomi.
A un tratto, si rese conto che i due anziani ufficiali che in gioventù avevano seguito Lady Franklin nei suoi viaggi intorno al mondo, e che tanto avevano insistito per imbarcarsi sulla Fox, mancavano all’appello già da parecchio tempo: ad essere precisi, McClintock s’era addirittura dimenticato di loro fin dalla partenza.
“I due della polmonite” sbottò improvvisamente, rendendosi conto che neppure ricordava come si chiamavano esattamente. Erano stati i nomi scritti sui tesserini a rinfrescargli la memoria con un’improvvisa scarica di adrenalina. Si rivolse al primo che gli capitò a tiro, un mozzo lentigginoso intento ad annusare una saponetta alla lavanda.
“I due che s’erano imbarcati sulla Erebus e che a un certo punto sono tornati indietro per via della polmonite: dove diavolo sono?”
Il mozzo lo guardò con aria smarrita.
“Non saprei, capitano. Non mi risulta che abbiamo altri ammalati a bordo, da quando il signor Henry è riuscito a riprendersi.”
“Non parlo del signor Henry, ma di quei due ufficiali che avevano servito sulla Erebus. Quelli che a Disko bay sono stati congedati da Franklin, e poi hanno fatto domanda per venire con noi. Ricordi i loro nomi?”
“Due ufficiali della Erebus? Non abbiamo nessuno della Erebus a bordo.”
Di fronte all’espressione allibita del marinaio, McClintock rievocò il salotto di Lady Franklin, le tende che si aprivano su un giardino di tuberose e la scrivania adibita a ufficio di arruolamento.
Rammentò quella strana mattina, in cui s’erano presentati per imbarcarsi i soggetti più disparati; l’insistenza dei due ufficiali, la loro promessa mai mantenuta di vegliare su sir Franklin e riportarlo in Inghilterra dalla moglie, riuscisse o no a scoprire il passaggio a nord ovest.  
Rivedeva se stesso seduto alla scrivania ingombra di cento carte, nell’atto di trascrivere i nomi di quei due sul registro d’imbarco.  Capitano Victor Peglar e tenente Frank Armitage, aveva scritto McClintock dopo aver esaurito tutti i possibili argomenti per convincerli a rinunciare.
Adesso ricordava con esattezza i loro nomi. Erano esattamente quelli che aveva appena letto sopra a quei tesserini.  
 
******
 
A Simpson Sound, il gruppo avviato in perlustrazione sotto la guida di Nanouk si ricongiunse con l’equipaggio rimasto a bordo della Fox
Lungo il percorso, altri cimeli della spedizione di Franklin erano emersi con tutto il loro carico di bizzarra inutilità: ancora corpi insepolti e oggetti da toelette, pantofole adatte a serate davanti al caminetto, rulli per la pianola e servizi da tè in porcellana. L’unico oggetto che pareva adatto alle circostanze erano degli stivali a cui erano state applicate delle assicelle, per migliorare la presa sul manto nevoso.
McClintock lo sapeva già prima della partenza: tutto quello che poteva aspettarsi di trovare erano vecchi cimeli e forse qualche racconto dei nativi locali. Ma in fondo continuava a sperare d’imbattersi in qualcosa di più, o addirittura d’incontrare qualche superstite in grado di raccontare come erano andate le cose dopo che la Terror e l’Erebus erano state abbandonate al loro naufragio solitario.
 
Una volta giunti sulla spiaggia limacciosa che si affacciava sul Simpson Sound, il capitano si trovò a dover prendere una decisione.
Per quanto riguardava il destino di sir Franklin, il messaggio trovato sotto al cairn parlava chiaro. Quanto alla sorte degli altri membri dell’equipaggio, le mummie dei due ufficiali e i numerosi corpi rinvenuti lungo il percorso parevano confermare i resoconti precedenti: tutti gli uomini erano morti al servizio di Sua Maestà, come peraltro già dichiarato dall’Ammiragliato.  
Riguardo a Peglar e Armitage, McClintock era giunto a una sorta di compromesso: l’incontro con quei due nel salotto di Lady Franklin non era mai avvenuto. Si era trattato evidentemente di un sogno. Ciò che era preoccupante era piuttosto il fatto che lui non fosse in grado di riuscire più a distinguere i sogni dalla realtà. Cercava di non pensarci, perché più ci pensava più gli pareva invece di esser stato ben sveglio nel momento in cui aveva arruolato i due veterani. Ricordava i discorsi, il loro tono insistente, le parole con cui aveva tentato di dissuaderli.
“Devo smettere di bere”, ripeteva a se stesso, come inevitabile conclusione di tutti quei rovelli. “A partire da oggi, facciamo da domani, non verserò più un goccio.”
L’equipaggio trascorse un giorno intero sulla spiaggia di Simpson Sound, a esaminare i resti dell’ultimo accampamento di Crozier. La quantità di corpi rinvenuti sotto alle macerie di una tenda da accampamento, pareva indicare con la massima certezza che il destino della spedizione Franklin si era concluso in quel luogo e che non c’era stato altro seguito.
Eppure, McClintock ricordava di aver letto da qualche parte che almeno un gruppo di quei disperati era riuscito a raggiungere il Great Fish River. Lo stesso John Torrington l’aveva confermato, segnando addirittura il punto esatto sulla mappa.
Per la prima volta da quando era partito, McClintock si domandò se valesse la pena proseguire. Sicuramente al di là dello stretto di Simpson avrebbe trovato altri sigari e saponette, altri rulli per ascoltare la musica, magari addirittura quella maledetta pianola che i sopravvissuti s’erano intestarditi a portarsi appresso. Di costoro, avrebbe trovato tutt’al più altri corpi insepolti, e tracce di accampamenti di fortuna.
Incerto sul da farsi, sperò in una visita del suo spettrale amico, l’ex fuochista John Torrington:
“Sta’ a vedere che proprio ora che ho bisogno di una dritta, quell’imbecille non si fa vivo.”
Lo vide il giorno seguente, ritto sul bagnasciuga col braccio teso in direzione dello stretto.
Quella notte, McClintock aveva dormito malissimo. Una serie di sogni più vivi del reale l’avevano ridestato più volte: il salotto di Lady Franklin, la spiaggia di Beechey Island devastata dalla tormenta, i volti congelati di Peglar e Armitage si erano mescolati in una sfilata da incubo.
Da ultimo gli era parso di trovarsi in una grotta ricoperta di muschio, da cui emanava un fetore di carne marcia: brancolando nel buio, aveva urtato una fila di gavette apparecchiate attorno a un paiolo, come se in quel luogo infero si stesse preparando un pranzo. D’un tratto quel paiolo, che ribolliva senza che fosse acceso alcun fuoco, si era rovesciato gettandogli addosso una poltiglia di corpi tagliati a pezzi.
A quel punto, McClintock s’era destato di soprassalto. Mentre vomitava ai piedi della branda tutto l’alcool ingurgitato la sera precedente, gli tornò in mente il rapporto inviato da John Rae, l’esploratore che aveva scoperto l’ultimo accampamento lungo il Great Fish River.
John Rae era stato esplicito nei limiti del possibile, nel riferire fatti che avrebbero potuto gettare nel fango l’intera Marina inglese. Nel suo rapporto aveva parlato di cadaveri mutilati, lasciando intendere che gli ultimi sopravvissuti avevano fatto ricorso “alle risorse più estreme” per non morire di fame.
“Il Great Fish River”, pensò McClintock quando incontrò sulla spiaggia John Torrington e la sua muta indicazione. “Non intendo spingermi fino a lì per nessuna ragione al mondo. Al diavolo la missione e al diavolo Lady Franklin, che comunque dovrebbe ritenersi soddisfatta già solo per il fatto che suo marito è morto senza finire dentro a un paiolo.”
Cominciava a sospettare che la vera ragione per cui l’Ammiragliato aveva sospeso le ricerche fosse da ricercarsi nel rapporto di Rae: il naufragio della Resolute, la morte dei suoi marinai non c’entravano nulla. Da questa eventualità, scaturiva una sola logica conseguenza: passare al setaccio il fiume e portare in patria altre notizie a sostegno di Rae significava suscitare uno scandalo, subire il bando da parte dell’Ammiragliato e finire a pascolare le pecore in quale remoto villaggio irlandese.
McClintock detestava la vita di terra e soprattutto le pecore.
La sera stessa diede ordine d’invertire la rotta:
“Si torna a casa, uomini. Con un po’ di fortuna, saremo in vista dell’Inghilterra prima che cominci l’inverno.”
Il colonnello Marlowe, ovviamente, si opponeva: “Io intendo scoprire cos’è accaduto al tenente Colby.”
McClintock non si scompose: “Qui gli ordini li dò soltanto io, sir. Non abbiamo bisogno di raccogliere altri rulli di pianola e altre ossa per capire com’è andata a finire la spedizione.”
A quel punto fu Nanouk a insistere: “Non lontano da qui si trova il villaggio di Gjoa Haven. È probabile che gli inuit della costa siano entrati in contatto con qualcuno dei superstiti. Voglio dire, quei corpi” - e accennò agli insepolti sotto alla tenda - “non si saranno certo accatastati da soli.”
 
******
 
Da qualche parte lungo il corso del Great Fish River, fine agosto 1848
 
Continuava ad avanzare, ormai sempre più esausto, lungo l’argine di sterpaglia e alberi bassi al di là del quale il fiume scorreva in una gola: prigioniero di un canyon che lo stringeva tra alte pareti di roccia, il Great Fish River scendeva a precipizio improvvisando rapide, gorghi in cui l’acqua si arrotolava su se stessa indecisa se proseguire o fare marcia indietro.
Aveva raccolto le ultime bacche della stagione, ormai grinze e insapori perché le piante si stavano preparando ai rigori del gelo, e di zuccheri da sprecare per i frutti non ne avevano più. Le temperature si erano abbassate notevolmente, e già aveva fatto la sua comparsa qualche fiocco di neve in avanscoperta. Volteggiando qua e là, aveva esaminato brevemente il paesaggio prima di scomparire senza toccare terra: molto probabilmente, era tornato ad avvertire i compagni ch’era tempo di scendere e incominciare l’inverno.
L’oscurità incombeva togliendo spazio al giorno, il freddo sole dell’Artico penzolava tra gli alberi sempre più scialbo e distante. Le ore di luce si riducevano sempre più, un moccolo di candela destinato a piegarsi su se stesso fino a spegnersi.
Il tenente Colby proseguiva il suo cammino seguendo il corso del Great Fish River. Con sé non portava nulla, a parte l’equipaggiamento per piantare una tenda che il forte vento autunnale avrebbe prima o poi spazzato via durante la notte. Il fucile ormai scarico gli pendeva dal fianco, e gli serviva solo per appoggiare il passo.
Nessuno lo seguiva.
Negli ultimi tempi le munizioni avevano cominciato a scarseggiare, e insieme ad esse era diminuita anche la selvaggina: i piccoli abitanti della tundra, lepri e roditori, facevano raramente capolino dai loro rifugi. In vista dell’inverno, i caribù migravano in lunghe file verso zone più temperate.
Per un paio di settimane, gli uomini si erano accontentati di buttare nel paiolo acqua e un pugno di erbe, germogli fradici raccattati nella palude, una sorta di gramigna di cui non si sapeva né che diavolo fosse né se era commestibile. Probabilmente era roba che a lungo andare provocava allucinazioni, o forse a scatenare il delirio collettivo fu soltanto la fame rabbiosa di molti giorni.
Fatto sta che una notte, messo sull’avviso da strani odori, Colby aveva raggiunto gli uomini nella grotta dove avevano trovato riparo, e quello che si spiegò dinanzi ai suoi occhi fu il peggiore incubo a cui avesse mai assistito.
Un paio di marinai erano morti quel giorno, e il tenente aveva dato l’ordine di seppellirli. Per la prima volta da quando erano in marcia, i marinai si erano ribellati: erano a malapena in grado di reggersi in piedi, figuriamoci se potevano metter mano alle vanghe.
In quel frangente, Colby aveva acconsentito a che i corpi fossero lasciati insepolti. Più tardi ebbe a pentirsi di quella decisione, e una volta di più ebbe la conferma che gli inglesi erano bestie della peggior specie.
Nella grotta, sotto a un tetto di muschio e di radici simili a ragnatele, un paiolo borbottava sopra a un fuoco di rami verdi, che sprigionava un fumo acre e irrespirabile.
Regnava un’atmosfera da girone infernale, ma fu il contenuto della marmitta a sconvolgere Colby, che di fronte a quell’incubo non trovò altra via d’uscita che puntare contro agli uomini il fucile col colpo in canna:
“Ora seppellirete quell’abominio, quella bestemmia agli occhi di Dio, e voglio che lo facciate a costo di scavare con le vostre stesse mani. Non siete altro che cani.”
Colti di sorpresa, gli uomini avevano voltato verso di lui certe facce ch’erano veramente più da orchi che da uomini.
“Andate a mangiare le vostre bacche, tenente”, l’aveva minacciato il più orco di tutti, un pezzo d’uomo che teneva le zanne già dentro alla gavetta. “Andate, prima che ci venga in mente di prenderci un dessert dopo cena.”
“Voi non avete nessun diritto di opporvi” s’era intromesso un altro morto di fame, che aveva occhi febbrili e lunghe dita adunche, simili agli sterpi con cui rimestava il fuoco sotto al paiolo. “Andate a lucidare i vostri stivali. Noi non vogliamo crepare, sir. Preferiamo arrangiarci.”
Colby non era tipo da farsi intimidire, ma in quel momento la nausea lo inondava di sudore e brividi di freddo. Sentiva il bisogno di urlare o vomitare, forse di fare tutt’e due le cose assieme:
“Uscite immediatamente, con le mani sopra alla testa. Seppellirete quella roba seduta stante. Sarà meglio che vi sbrighiate, signori, o comincerò a sparare.”
Alcuni marinai s’erano alzati, cauti. Avanzavano verso di lui inferociti, mentre gli altri badavano a custodire il paiolo.
Colby aveva centrato diritto in fronte il primo che aveva parlato, l’orco con la testa ancora infilata nella gavetta. Di seguito il secondo, quella specie di ratto dagli occhi febbricitanti e le dita tali e quali a un cespuglio di rovi.
Di lì in poi era scoppiato un pandemonio.
Circa mezz’ora dopo, con il fucile ormai scarico il tenente si era incamminato verso la sua tenda, l’aveva smontata con tutta la calma del mondo, e in piena notte aveva ripreso il cammino.
Voleva andarsene il prima possibile da quel luogo maledetto, lasciarsi alle spalle i lamenti degli agonizzanti e quel lezzo rivoltante.
Lungo il corso del Great Fish River aveva continuato a procedere a caso, senza riuscire a calmare il proprio sconvolgimento interiore. Non si era nutrito per giorni, e ora cominciava anche lui a soffrire di allucinazioni. Il progetto di raggiungere Fort Resolution lo spingeva a proseguire, ma presto si rese conto di non riuscire più a leggere la mappa, né a rintracciare il punto in cui si trovava. Ricordava soltanto che l’avamposto distava più di seicento miglia dal Simpson Sound, ma forse quell’imbecille di Crozier si era sbagliato: né d’altra parte avrebbe saputo dire quante miglia aveva percorso insieme alla ciurma, e in seguito da solo.  
Colby fece appello alle estreme risorse della sua volontà: costruì inutili trappole per catturare le bianche lepri dell’Artico, appostandosi finché il gelo non diventò insopportabile e lo costrinse a muoversi, per non cedere al torpore dell’assideramento.
In alcuni momenti provava una sorta di esaltazione: lui solo era riuscito a conservare intatto l’onore senza cedere alla tentazione della bestialità, lui solo avrebbe raggiunto Fort Resolution a prezzo di sofferenze e sforzi incalcolabili, che nessuno di quegli inglesi cani sarebbe mai stato in grado di tollerare. Come premio, avrebbe ottenuto una nave ancora più splendida della Terror, più solenne dell’Erebus, e sarebbe passato alla storia come l’esploratore che aveva scoperto la via del passaggio a nord ovest.
Sull’onda lunga di quel delirio che gli infondeva energie insperate, s’ingegnò a scavare radici da quella terra eternamente ghiacciata, a raccogliere erba, a masticare zolle per acquietare i crampi. Scoprì un’altra grotta in prossimità dell’argine, un budello che si inoltrava per un paio di metri creando una sorta di camera riparata. Attorno ad un laghetto fiorito di cristalli, la parete di roccia gocciolava stalattiti in un silenzio irreale.
Affascinato dalla suggestione del luogo, Colby si entusiasmò all’idea di aver trovato il posto ideale per trascorrere l’inverno.
Ben presto, tuttavia, subentrò nel suo animo una sorta di lucidità senza illusioni. Sperare di sopravvivere ai lunghi mesi di neve senza nient’altro che un fascio di sterpi e un pugno di radici, raccolte poco prima che il terreno cominciasse a gelare, era pura follia.
D’altro canto, il tenente si rese conto di non essere più in grado di proseguire il cammino. Da semplice avamposto nella tundra glaciale, Fort Resolution finì per assumere i contorni di una terra da leggenda, un luogo immaginario che forse neppure esisteva.
Pensare di riuscire chissà come a raggiungerlo era come sognare di andare sulla luna.
Era giunto il momento di accettare che tutti i desideri di grandezza seguissero il destino che da sempre spetta ai sogni: smarrirsi nell’oblio.  
Poco prima che la lunga notte invernale scendesse a coprire il mondo Colby si trascinò fuori dalla sua grotta, costruì un cairn sulla riva del fiume e seppellì in un messaggio le sue ultime parole:
“Dedico il mio pensiero al colonnello Edward Marlowe e alla cara Millicent: non vi ho dimenticato, non avrei mai potuto. Tenente Richard Colby, Royal Navy, agosto 1848. Forse.”
Quando terminò di ammonticchiare i ciottoli, lasciando come segno distintivo il fucile piantato sulla cima, alzò gli occhi sentendosi improvvisamente osservato.
Giunto da chissà dove, un bambino inuit lo fissava attraverso l’aureola di pelo della sua pelliccetta.
“Tu chi sei, ragazzino?”
Il tenente gli parlò in lingua inuktitut, e d’un tratto quelle parole gli scaldarono il cuore col ricordo della voce di sua madre Qannik.  
Il volto dell’inatteso visitatore era dolce e irradiava una sorta di splendore: ma già da tempo Colby aveva cominciato a smarrire i contorni delle cose, e a vederle trasfigurate da una luce irreale.
Tra i ciuffi di pelo che sbucavano dal cappuccio, il piccolo inuit sorrideva. Il suo sguardo pareva antico come il mondo, e rammentò a Colby la vecchia foca che, in un tempo ormai remoto ma improvvisamente presente, aveva alleviato le sofferenze di Qannik con il suo sguardo colmo di umanità e saggezza.
“Sei venuto a prendermi?” mormorò il tenente, scoprendo che in fin dei conti non provava nessun timore e trovava la cosa persino divertente. “Quindi la morte è un ragazzino con gli occhi a mandorla?”
 Per la seconda volta, il bambino non rispose. Si limitò a tendere la mano verso quell’uomo che non era mai stato inglese pur desiderandolo con tutto se stesso, e non aveva mai smesso di appartenere al suo popolo pur rinnegandolo con tutte le forze.
Ora, evidentemente, era giunto il momento di venire a patti con se stessi.
Colby afferrò quella mano minuscola: dentro alle muffole in pelle, le dita del piccolo inuit lo stringevano con vigore, e il suo palmo era un nido di sicuro calore.  
“Io sono Silatuyok”, disse serio il bambino. “Se lo desideri, puoi venire con me.”
“Dove vuoi portarmi?”
Il piccolo alzò le spalle:
“Nelle terre dell’oblio, ogni luogo è riposo.”
“Andiamo”, rispose Colby.  
Da un cielo ricoperto di basse nuvole bianche, i primi fiocchi di neve cominciavano a cadere.


 
 

[1] Uomo bianco, in lingua inuktitut. Al plurale, qallunaat
[2] In lingua inuktitut, “carino e intelligente”
[3] Dea del mare nella mitologia inuit
[4] In lingua inuktitut, orso.
  
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