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Autore: fumoemiele    14/02/2019    11 recensioni
L’amore è come una scritta sulla sabbia.
La prima onda lo spazzerà via e rimarrà solo un vago ricordo dentro di te, nulla che gli altri possano guardare e scrutare con sterile attenzione.
L’amore è come i lividi che hai sulla schiena, sulle braccia, sulle gambe.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Tua madre stringe fra le dita ossute il cilindro arancione che le serve per andare avanti. Se lo pianta nella pancia, mentre guardi il piatto che hai di fronte e la senti contare fino a dieci, fino a venti, fino a trenta. Ogni volta ti passa la fame perché hai paura delle siringhe e non capisci perché lei debba tenersi il piccolo ago piantato nella pelle per più del tempo necessario.
Hai chiesto diverse volte a tua madre perché diavolo non si fa l’insulina come tutte le persone normali, e anche se lei si ostina a dire che ci tiene alla sua vita e non vuole sprecarne nemmeno una goccia, tu proprio non capisci cosa possa trovarci di piacevole in un ago infilato nell’addome.

In realtà non riesci a comprendere tante, troppe cose.
Non capisci perché le pareti del soggiorno sono state dipinte di giallo. Tu odi i colori, ma nessuno ti ascolta mai.
Non capisci perché tua madre, che ha perso talmente tanti chili negli ultimi mesi da essersi ridotta a un ammasso di ossa, debba farsi l’insulina e controllare con costanza quanti zuccheri ha nel sangue. È sempre stata poco dolce e troppo amara, lei, non si direbbe proprio una persona che ha il diabete.
Tuo padre, invece, ha il pancione grosso della birra, del troppo cibo e dell’alimentazione scorretta, di fronte. Vede prima quello, poi forse riesce a spostare lo sguardo sui piedi. Forse. Non sai cosa riesce a vedere, da quella prospettiva. E nemmeno ti importa.

Li guardi comunque con affetto, i tuoi genitori. Sono strani, certo, e lo sei anche tu.
Ciò non toglie il fatto che gli vuoi bene. Ciò non toglie che tua madre ti ama, anche se sa che tu gli aghi non li sopporti e continua a farsi l’insulina di fronte a te e a contare ad alta voce, ogni volta che ti siedi a tavola.
E sai che tuo padre ti vuole bene anche quando parla troppo e tu vorresti solo ascoltare il silenzio, il ticchettio dell’orologio appeso su un filo, il gorgoglio del rubinetto che gocciola incessante.

E loro ti guardano come se fossi matta perché sono giorni che non smetti di piangere.
Sono giorni che non sorridi, che non cogli ciò che c’è di bello, nella vita.
Sono giorni che non esci di casa, sono giorni che fissi il mondo scorrere e vuoi rimanere lì, nella tua bolla ovattata e distante.
Sono giorni che hai smesso di vivere, eppure il tuo corpo cambia comunque, i secondi li sente pesare, li sente scorrere.
Sono giorni in cui perdi tempo perché pensi di essere morta, invece non lo sei. E non sei nemmeno matta.
Forse sei un po’ masochista, credo che questo sia innegabile, e penso con sincerità che fino a qua ci sia arrivata anche tu. Sbaglio?
No, non è un errore, lo sappiamo entrambi.
Altrimenti mangeresti qualcosa, invece di spostare il cibo da una parte all’altra del piatto. Riusciresti a bere qualche sorso d’acqua per riottenere la salivazione persa. Hai la bocca secca, impastata. Pensi di non avere più liquidi nel corpo, eppure piangi e non sai fermarti.

Ti manca.
Ti manca dannatamente.
Ti manca in ogni modo, sbagliato o corretto che sia.
E non importa a nessuno se è corretto sul serio o è corretto con del whisky.
Ti manca e non puoi farci nulla, se non crogiolarti nella speranza che tornerà.
Tua madre ti dice sempre di contare fino a dieci, prima di agire d’impulso. Lei sa bene quanto sei impulsiva e testarda, quando ti metti in testa una cosa.
Lei è abituata a contare fino a dieci, tu invece no.
Respiri piano, non vuoi rovinare il silenzio, i gemiti sommessi che ti abbandonano le labbra perché il tuo corpo non regge più quella lenta tortura.
Quante volte la tua stessa mente ti ha spronato, ti ha chiesto di farti forza, di alzarti e dimenticare quell’assenza perché tanto sparirà da sola, come tutto il resto?
L’amore è come una scritta sulla sabbia. La prima onda lo spazzerà via e rimarrà solo un vago ricordo dentro di te, nulla che gli altri possano guardare e scrutare con sterile attenzione.
L’amore è come i lividi che hai sulla schiena, sulle braccia, sulle gambe.
Se tua madre li vedesse…
“Hai ripreso a farti del male?”. 
Sai già quale sarebbe la sua domanda. Ti tirerebbe su le maniche, guarderebbe con macabra attenzione ogni cicatrice, ogni taglio cancellato dal tempo e rimarginato con astuzia dal corpo robotico che hai ricevuto in dono dalla vita.
Risponderesti di sì.
Per lui mentiresti. Diresti che stavi male e per sopprimere il dolore avevi bisogno di sbattere le braccia contro i mobili, di frantumarti le ossa per sentirti viva, per sentire che il tuo corpo non è un insieme di fili, non è una macchina. Diresti che ti sei tagliata per vedere se sotto la pelle c’era del sangue, piuttosto che del catrame.
Giustificheresti i lividi mostrandoti per quella che sei: una psicopatica. Almeno, questo è ciò che afferma la tua cartella clinica, no?
Eppure lo sai che non ti odi così tanto.
Sai che hai imparato a controllare il bisogno di farti male per scoprire se sei umana o fatta di carta e metallo, di schemi e controllo mentale. Sei umana. Lo hai visto attraverso le radiografie, che hai le ossa. Quindi ‘sta tranquilla, non serve inciderti la pelle e sputare sangue per capirlo.
Sai che sì, sulla tua cartella clinica qualcuno ha scritto che hai un disturbo di personalità, e che quindi hai una malattia mentale… ma quei lividi, lo sai, non te li sei procurata da sola.
E non è da sola che sei arrivata alla follia.

Il passaggio dalla sanità mentale a ciò che non ha senso è breve, veloce, dinamico.
C’è chi impazzisce da solo, chi ha bisogno di qualcuno che lo prenda per mano e lo trascini in un mondo dai colori psichedelici e gli umani che in realtà sono robot, o alieni.
La verità è che il confine non sei mai riuscita a definirlo. Non hai mai capito cos’è reale e cosa invece non lo è, e questo ti porta a domandarti, con vaga inquietudine, chi diavolo ti ha procurato quei lividi.
“Te li sei fatti da sola, non è vero?”, chiederebbe tua madre, le dita ossute strette intorno alla penna con cui si fa l’insulina prima dei pasti.
Cosa risponderesti?
Le diresti la verità?
Ha troppa stima di lui, l’ha sempre avuta, anche quando ti ha buttato giù e ti ha lasciato sprofondare nella sofferenza, ti ha rinfacciato ogni errore, ogni istante che ha passato a soffrire per colpa tua adesso è una pena che devi scontare. Devi soffrire, se vuoi che tutto ciò finisca.
O forse devi alzarti e sorridere, alzarti e dimenticare, alzarti e buttarti giù per cancellare tutto.
Lo sai che non ne hai mai avuto il coraggio.
Lo sai che non lo farai certo adesso. Non lo farai solo perché lui se n’è andato, e prima di farlo ti ha trascinata da una camera all’altra della casa per i capelli.
Non lo farai solo perché era arrabbiato con te, quella mattina, e allora ti ha presa a calci e piangevi, su quel cazzo di pavimento sporco, le lacrime ti ustionavano la gola perché non avevi chiuso occhio, quella notte.
Hai pianto tanto. Così tanto che non la dimenticherai mai perché è stata orribile.
Hai preso un treno. Hai attraversato sessanta chilometri, né uno in più, né uno in meno.
Sei arrivata fino a casa sua.
Hai pianto per tutto il viaggio, hai pianto quando hai percorso i binari fino a raggiungerlo.
Non si è degnato nemmeno di venirti ad aprire.
Lui non ti voleva, lì, e forse dovevi rispettare la sua decisione. Forse è qui che hai sbagliato.
Dovevi rimanere a casa, lasciar perdere quell’amore sgretolato e malsano. Dovevi ricominciare a vivere senza di lui.
Però non lo sopporti proprio, l’abbandono.
Quando ti ha lasciata, quando è andato a farsi cullare dalle braccia di un’altra stronza, hai capito di aver perso completamente il senno.
Non saresti più riuscita a prendere sonno, con quella certezza a pesarti sul cuore.
Hai deciso di provarci. Per questo sei arrivata fino a lì, anche se sua madre non sa proprio cucinare e ti viene da vomitare quando ti rifila un piatto davanti e ti dice che sei dimagrita, nei suoi centoventi chili.
Tua madre è secca, è uno scheletro, però forse è meglio così. Almeno non ti ripete in continuazione che devi mangiare. Se non hai fame lo capisce. Se quel piatto non ti piace non ti costringe.
In quella casa che non è tua non riesci proprio a vivere.
Non c’è l’odore accogliente che è intriso fra le mura della tua stanza.
Lì sa tutto di cucina fetida e sudore.
Sopporti comunque.
Decidi che reggerai quel problema perché sei lì per qualcosa che è più importante. Sei lì per riprenderti colui che ami. Perché tutti insistono, tutti dicono sempre che quando vuoi una cosa devi lottare con le unghie per riprendertela… e sono solo dei falsi del cazzo.
Sei arrivata lì.
Hai pianto.
Gli hai chiesto scusa.
Hai pianto ancora.
Lui ti ha ignorata per un po’. Ha continuato a premere le dita sul display del cellulare, ha continuato a scrivere alla stronza dai capelli blu con cui si stava sentendo, con cui pensava di poterti cancellare come se non fossi mai esistita. Come se non fossi mai stata importante.
Hai annullato quell’umiliazione.
E ne hai sopportate tante altre.
Hai pianto tutta la notte, gli hai chiesto di rimanere a dormire con te.
Ha acconsentito.
Poteva negarsi l’ultima scopata?
Certo che no. Non sarebbe più riuscito a fare del sesso così bello, perché dopo tre anni di relazione non puoi pretendere che sia la stessa cosa con un’estranea appena incontrata.
Lui lo sapeva, lo sapeva che non sarebbe stato lo stesso con lei, e per questo c’è stato comunque, anche se diceva di non amarti, anche se non ti baciava, anche se i suoi gesti erano rudi e violenti, devastanti e strozzati.
Però è rimasto a dormire con te. E hai appoggiato la guancia sul suo petto, l’hai tenuto stretto, ti ha tenuta stretta. Prima che sorgesse il sole e tornasse l’anormalità nelle vostre vite.

Ti sei arrabbiata prima tu, però, quella mattina.
Questo non puoi negarlo.
Ti sei arrabbiata perché alle cinque del mattino hai preso il suo cellulare, sei scivolata in bagno, ti sei chiusa a chiave lì dentro. Hai aperto la chat con quella stronza dai capelli blu che provava da settimane a prendersi ciò che era sempre stato tuo. Le hai scritto che quella notte ci avevi fatto l’amore, con il tizio che diceva di volerle bene.
Sei stata davvero una stronza, sei stata crudele, maligna e spietata.
Era lecito odiarla. Ti aveva rubato ciò che di più importante avevi.
L’hai bloccata, hai riportato il cellulare in camera, ti sei infilata sotto le coperte, ti sei circondata con il suo braccio.
Hai ricominciato a piangere.

La mattina dopo lui l’ha scoperto subito, della tua fuga notturna con il suo cellulare.
Si è arrabbiato.
Avete iniziato a urlarvi addosso, a rinfacciarvi errori, a insultarvi.
Hai urlato fino a perdere la voce contro di lui, mentre gli adulti si mettevano in mezzo, giudicandolo uno stupido litigio fra ragazzini.
Gli hai tirato uno schiaffo.
Hai cominciato tu, sai anche questo.
Ciò non giustifica i calci che sono arrivati dopo.
Eri spezzata dal dolore e i colpi si susseguivano uno dopo l’altro. La porta della sua camera chiusa a chiave, gli adulti a chiedere cosa cazzo stesse succedendo, lì dentro. 
Ti faceva male, tanto male. 
E dentro era anche peggio.
Amare qualcuno e riceverne dolore. Può esserci qualcosa di più triste?
Lasciarsi tirare i capelli. Lasciarsi segnare la pelle fino a vedere sgorgare il sangue dal labbro spaccato dai morsi, dai pugni.
L’hai lasciato fare. È questo ciò che non riuscirai mai a perdonarti.
Hai lasciato, passiva, che ti colpisse e ti lasciasse un miliardo di lividi sul corpo.

Sei tornata a casa piangendo.
Hai scritto tanto, durante il viaggio di ritorno.
Hai scritto un milione di lettere che sono ancora immobili sul tuo computer e che lui non ha mai letto e mai leggerà.

Nonostante i lividi, in quelle lettere lo supplicavi di tornare da te.
Saresti stata disposta a perdonargli tutto.
Avresti sopportato altri calci, pur di vederlo tornare, pur di ricevere un suo abbraccio, pur di allontanare quella sensazione asfissiante sullo stomaco. Quell’angoscia devastante che ti privava del sonno.
Ti saresti annullata, per lui.

Hai ancora i lividi e non hai mai smesso di pensare che se tornasse metteresti tutto da parte.
Qualche volta ti ritrovi a parlare di quell’episodio con i tuoi amici più stretti.
Ti guardano, tremano. Capiscono quanto sia stata devastante per te quella notte.
Però non capirebbero. Non capirebbero se tu gli spiegassi che nonostante tutto rifaresti ogni cosa, pur di sopprimere quell’assenza.
Così ti limiti a esprimerti per come la società vuole che tu faccia: ti limiti a dire che nessuno ti farà più del male, che da quell’esperienza hai imparato tanto, che nessun uomo deve toccarti mai più in quel modo.

Eppure, se tornasse, ti tufferesti nelle stesse braccia che ti hanno causato quei lividi.
E ti fai anche schifo, per questo.
Ti fai dannatamente schifo perché sei debole e lo sarai per sempre.

Inizia un altro giorno.
Passi il tempo a letto, mangi poco, tua madre si fa l’insulina e conta fino a dieci.
Lui non è più tornato.
Sospiri e pensi sia meglio così.
Nessuno ti colpirà più.
Sei stanca di cambiare idea ogni cinque minuti, ma finché non ti avvicini al buio andrà meglio.
Non sai nemmeno tu come pensarla, sull’argomento.
Cambi idea, cambi opinioni, cambi emozioni.
Però il dolore dei lividi rimane.
Qualche volta tua madre si fa male, con l’ago. E allora anche a lei nasce un livido. Lì non conta fino a dieci, bestemmia perché si è bucata nel punto sbagliato. 


                                                                                                                           
Se un uomo vi alza le mani non imitate il comportamento della protagonista di questa storia. Denunciate. Non aspettate che accada di nuovo. Non pensate che cambierà. 
Il personaggio di questa storia ha evidenti problemi mentali; non imitatelo.
Ah... quasi dimenticavo... buon San Valentino XD
 

 

   
 
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