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Autore: blackjessamine    14/02/2019    7 recensioni
Ufficio Misteri, 31 dicembre 1998: mentre l'anno della guerra e della pace vive i suo ultimi minuti, un gruppo di Indicibili scopre che una Soglia altro non è che un passaggio, e che dove si può andare avanti, si può tornare indietro.
Un grosso cane nero – apparentemente molto debole, ma innegabilmente vivo – viene estratto dalle macerie di un arco di pietra.
E mentre l'anno della morte e della rinascita volge al termine, i rimpianti si fanno leggeri, pronti ad essere spazzati via dalla speranza di una seconda possibilità.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Harry Potter, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pas de Deux '
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Capitolo 8
Somewhere deep inside you must know I miss you




 

Alhena si era sempre vantata di avere una Materializzazione pressoché perfetta: pur non essendo mai stata esattamente una studentessa modello, al sesto anno aveva stupito tutti quando, al terzo tentativo, era stata la prima del corso a comparire al centro esatto del suo cerchio di legno. Non sapeva nemmeno lei come o perché, ma combattere la dimensione dello spazio era qualcosa che le veniva naturale. Aveva superato il suo esame con la stessa semplicità con cui poi aveva trangugiato un meritato calice di Vino Elfico, e nei dieci anni che erano seguiti alla sua abilitazione alla Materializzazione non aveva mai sbagliato destinazione per una distanza che superasse i dodici centimetri. Emerenc sosteneva che fosse perché, quando conosci il tuo corpo così bene da poter eseguire quarantadue fouettés en tournant senza crollare a terra come una goffa tartaruga pancia all'aria, costringere i propri atomi a ricomporsi a qualche chilometro di distanza è un gioco da ragazzi. Alhena preferiva pensare che fosse perché aveva una particolare attitudine alla fuga. Meno lusinghiero, forse, ma decisamente più realistico.
Quando, però, un gelido mercoledì mattina la sgradevole sensazione di essere compressa in un tubo di gomma scomparve, lasciandola libera di respirare a pieni polmoni l'aria umida e pesante della costa, Alhena credette di aver, per la prima volta nella sua vita, preso un granchio.
I piedi affondati in un abbondante strato di neve sporca e ridotta in una sgradevole poltiglia mista a fango, la donna si guardò attorno, sbuffando. Si trovava al centro di un'ampio prato innevato, che digradava dolcemente verso il basso. C'era un sentiero, poco lontano da lei, un sentiero che, se i suoi calcoli erano corretti, in trenta minuti di passeggiata svelta l'avrebbe condotta alle porte del grazioso villaggio di Abbotsbury. Alle sue spalle, il mare.
Si trovava nel posto giusto, eppure doveva aver sbagliato qualcosa. Perché, in mezzo a tutta quella neve e a quel fango, l'unico segno della presenza umana era un cumulo di pietre tonde a pochi metri da lei. Sembrava che qualcuno le avesse ammonticchiate alla meno peggio, forse preparandosi a costruire un muretto a secco – per quale motivo, questo Alhena non se lo sarebbe mai saputo spiegare – salvo poi cambiare idea e abbandonare tutto così com'era. Alhena ricacciò una ciocca ribelle dietro l'orecchio, aggiustandosi meglio il cappuccio della giacca a vento attorno al viso, e fece un lento giro su sé stessa.
Altro che dodici centimetri di errore, qui doveva aver sbagliato destinazione di mezza contea, per tutti i bigodini di Priscilla!
Quando finì di ruotare su sé stessa, si ritrovò a fissare sbigottita il cumulo di pietre: perché, saggia Morgana, quello non era affatto un cumulo di pietre ammonticchiate l'una sull'altra senza un senso preciso. A pochi metri da lei c'era infatti un basso edificio di pietre: una casupola tondeggiante, niente più che un antico resto di un insediamento romano, o forse ancora più antico: chissà perché, non riusciva a togliersi dalla testa le fotografie che la sua amica Stacey le aveva mostrato, almeno quindici anni prima, al ritorno dal suo viaggio in qualche isola sperduta nell'Europa del sud.
Confusa, la donna estrasse lentamente la bacchetta dalla tasca della giacca, la puntò davanti a sé e lanciò un Incanto Rivelatore.
Non accadde niente.
Alhena chiuse gli occhi, fece un respiro profondo, e quando tornò a osservare l'edificio che aveva di fronte, a stento trattenne un'esclamazione stupita. Il rudere abbandonato era in realtà una casetta tonda, dalle pareti composte da un fitto strato di pietre bianchissime. C'erano ampie finestre, un comignolo da cui si levava un allegro nastro di fumo, e tutto intorno un giardino che aveva l'aria di essersi inselvatichito, ma che portava chiaramente il segno della mano dell'uomo. Sul tetto a forma di imbuto, un enorme segnavento arrugginito pendeva un po' storto: aveva la forma di un pingue Snidget Dorato, ma era, nonostante le brutte condizioni, dipinto con una vivida vernice rossa, saltata in più punti.
Quello, non c'erano dubbi, era l'Uccello Vermiglio.

Davanti a quella porta di legno scuro, tutta la determinazione che aveva portato Alhena a svegliarsi all'alba, quella mattina, salvo poi passare ore seduta al tavolo della colazione senza riuscire a toccare cibo, svanì.
Sentiva il cuore martellarle nel petto, e lo sciabordio del sangue nelle sue tempie era un ritmo ipnotico, quasi assordante.
Che cosa pensava di fare? Non poteva certo presentarsi lì, dal nulla, bussare alla porta di quel cottage sperduto e pensare che le cose sarebbero andate in maniera normale. Era troppo presto, poi: non voleva certo interrompere il sonno di nessuno...
Cercando di fronteggiare un fastidioso capogiro, Alhena si preparò a voltare le spalle a quella casupola di pietra e smaterializzarsi esattamente sullo zerbino di casa, a Dublino.
In quel preciso istante, però, quasi che la casetta avesse intuito la sua decisione, la porta dell'Uccello Vermiglio si aprì di scatto: un uomo magro e dal viso pallido, avvolto in una lunga vestaglia di lana chiara, brandiva un attizzatoio con aria minacciosa.
Quando gli occhi di Sirius si posarono su Alhena, però, il viso dell'uomo parve distendersi: abbassò l'attrezzo che teneva tra le mani, e sorrise appena, invitandola a entrare.
“Ma che diamine...”
L'interno del cottage non avrebbe potuto essere più in contrasto con il suo aspetto esterno.
Innanzitutto, non c'era traccia di pareti tonde. Il grande e caldo salotto in cui erano entrati era sicuramente più ampio della casetta che si poteva scorgere da fuori, e in fondo, semicoperte da ampi tendaggi, si scorgevano due porte.
L'interno della casa sembrava uno strano miscuglio tra un museo di antropologia e un negozio di tessuti: statuette dalle più svariate provenienze coprivano ogni mensola, ogni nicchia, ogni pertugio offerto dalla claustrofobica accozzaglia di mobili di fattezze e stili del tutto casuali. Accanto alla finestra coperta da uno strano tendaggio fatto di fili intrecciati a formare disegni geometrici e ipnotici c'era un enorme papiro dipinto a colori vivaci, che riprendevano le stesse tonalità dell'ampio ventaglio raffigurante deliziose ninfee appeso sulla parete di fronte. C'erano quadri alle pareti, alabarde, un modellino di tempio indù che fluttuava a mezz'aria, e persino, accanto al caminetto, una riproduzione in formato ridotto di un volto moai dell'isola di Rapa Nui.
La vista d'insieme era vagamente eccessiva, ma c'era un che di armonioso in quella strana accozzaglia di manufatti magici e babbani.

C'erano mille cose che Alhena avrebbe voluto domandare, ma alla fine, osservando Sirius riporre l'attizzatoio in mezzo ai ferri del camino, si ritrovò soltanto a bisbigliare:
“Avevi intenzione di spaccarmi la testa?”
Sirius alzò le spalle, tolse un po' di cenere dalla vestaglia, e spiegò, asciutto:
“Zio Alphard ha fatto le cose per bene: la casa è visibile solo a chi sa della sua esistenza, ma ci sono sistemi di sicurezza che mi avvertono, quando qualcuno ci si avvicina. E io sono ancora senza bacchetta, e forse un po' paranoico...”
Sirius spostò una coperta di lana finissima dal divano ricoperto di velluto verde salvia, e fece cenno ad Alhena di accomodarsi.
“Pensavo... credevo che fossi già stato da Olivander.”
Sirius annuì, fissando il suo sguardo intenso su di lei.
“Infatti. Ma il vecchio dev'essere impazzito. Non vende più niente. Costruisce solo bacchette su misura, e solo se sente la magia sotto le dita, o stronzate del genere. Dice che entro la fine della settimana mi manderà la mia nuova bacchetta, o l'indirizzo di due gemelli di Conwy a cui forse la prossima estate venderà il negozio, e potrò comprare qualcosa da loro.”
Alhena non riusciva nemmeno a pensare cosa significasse dover passare una settimana intera senza bacchetta.
Improvvisamente, nel salottino cadde un silenzio spesso e imbarazzante.
Sembrava quasi di toccarlo, quel silenzio, un silenzio ruvido che si allargava tra di loro, facendoli sentire lontanissimi, nonostante il metro scarso che li separava.
Alhena non sapeva che cosa aspettarsi, da quell'incontro. Si era presentata alla Tana in un momento di follia, senza riflettere, ed era stata tentata di scappare non appena Molly Weasley aveva stretto un po' i piatti in tavola per fare posto anche a lei. Era rimasta, poi, senza nemmeno sapere bene perché. Era rimasta tremando di paura, anche se una parte di lei – la parte più infantile, quella immatura e stupida – aveva sperato che tutto sarebbe successo in maniera molto naturale. Aveva sperato che le sarebbe bastato rivedere Sirius perché quei due anni di immensa solitudine si sollevassero dalle sue spalle e svanissero. Aveva sperato che lui non avrebbe più avuto i lineamenti scavati e sciupati, come quando lo aveva visto incosciente al San Mungo. Aveva sperato che le avrebbe sorriso come durante le sue giornate buone, e che le si sarebbe avvicinata con tutta la sua naturalezza, e che lei si sarebbe lasciata stringere, e non avrebbero avuto bisogno di parlare e affrontare quei momenti carichi di esitazione e imbarazzo.
Le cose non erano andate così, naturalmente.
Quei due anni e mezzo di separazione, affilati come coltelli, erano sempre tra di loro. E, Alhena ormai lo aveva capito, cercare di raggiungersi significava, inevitabilmente, tagliarsi.
“Sono contento di vederti.”
Le parole di Sirius erano un ringhio sommesso, i suoi occhi tizzoni ardenti che sembravano incapaci di nascondere il turbamento che provava.
“Sono contento, ma tra dieci minuti devo andare al San Mungo... controlli di routine.”
Alhena, come se non aspettasse altro, balzò in piedi, fece lo slalom tra un vaso di porcellana color ortensia e un tavolino di cristallo che proiettava sul pavimento sotto di sé la volta celeste, e si avviò verso la porta.
“Certo, non c'è problema. Non volevo disturbarti, io... avrei dovuto scriverti... è meglio se...”
“Mi accompagni?”
Sirius l'aveva interrotta di botto, inchiodandola al posto con il suo sguardo cupo.
“Io? Non so se è il caso...”
“Per favore. Sarà una cosa velocissima...”
La voce di Sirius sembrava quella di un bambino che implorava che la luce accanto al suo letto non venisse spenta.
“Ok. Mi manca il brodo che spacciano per caffè al San Mungo”.

 
***

In realtà, fu tutt'altro che una cosa velocissima.
Dopo aver pescato una manciata di Polvere Volante direttamente da una tetsubin posata con distrazione accanto ad un monocolo dorato, Alhena e Sirius si erano ritrovati nell'atrio affollato del San Mungo. Senza scambiare troppe parole, avevano raggiunto il reparto dove Sirius aveva trascorso l'ultimo mese, dove un'Infermiera dagli occhi sottili e il grugno bellicoso aveva trascinato Sirius con sé, senza nemmeno degnare Alhena di uno sguardo.
E Alhena aveva aspettato: seduta su una scomoda sedia in un corridoio troppo caldo, aveva letto tutti gli opuscoli su intossicazioni da calderone sporco e ferite da magia accidentale almeno tre volte, ma di Sirius ancora non c'era traccia.
Alhena aveva cercato di ingannare il tempo come poteva, passeggiando su e giù per il corridoio – e beccandosi una tirata d'orecchi poco metaforica da parte di un inserviente per niente contento del fango rimasto sotto la suola dei suoi stivaletti – e cercando con tutta sé stessa di non pensare, nemmeno per un istante, che una visita così lunga potesse significare che c'era qualche problema nella salute di Sirius.
Pur di evitare la vocina nella sua testa che le sussurrava che presto lei avrebbe dovuto affrontare quell'assurdo groviglio di pensieri ed emozioni che le metteva lo stomaco sottosopra ogni volta che si azzardava a pensare a Sirius, Alhena si obbligò a interessarsi all'ultima puntata del fotoromanzo del Settimanale delle Streghe abbandonato con poca grazia sulla poltroncina accanto alla sua.
Alla fine, Sirius era ricomparso aprendo una porta da cui non era mai entrato, con la faccia cupa e totalmente intenzionato ad ignorare le raccomandazioni di un Guaritore che consigliava un cucchiaio di Pozione Corroborante ogni mattina e lunghissime passeggiate per recuperare il tono muscolare.
Sirius rispose con un brontolio cupo alla domanda ansiosa con cui Alhena gli chiese se andasse tutto bene, e la trascinò senza quasi parlare per mezzo ospedale, fino a quando non uscirono nell'aria fredda e piovosa di Londra.

Sirius camminò a passo svelto lungo il marciapiedi affollato, fino a quando si fermò, di botto, guardandosi attorno con aria smarrita.
Con un tuffo al cuore, Alhena si rese conto che quella era la prima volta che vedeva il suo viso sciupato alla luce del sole. Non doveva essere piacevole, dopo anni di silenzio e solitudine, ritrovarsi al centro del caos di Londra. Quella città sapeva far girare la testa anche a lei, Alhena non riusciva a immaginare come doveva sentirsi in quel momento Sirius.
"Stai bene? Ti riporto a casa?"
Sirius annuì, poi scosse la testa, infine alzò gli occhi al cielo, sospirando, e si morse il labbro.
"Sirius..."
"Credo di aver fame", la interruppe bruscamente lui, tornando a fissarla con quegli occhi febbricitanti.
"Ok. Vuoi cercare qualcosa qui?"
Sirius scosse la testa, guardandosi attorno come un bambino spaventato.
"Vuoi tornare a casa?"
Finalmente, i suoi occhi sembrarono tornare a mettere a fuoco il mondo attorno a lui, e con una smorfia divertita, Sirius sussurrò:
"Non sono ancora andato a fare la spesa. A parte un pacco di biscotti, mi sa che non ho niente, a casa".
Fu la volta di Alhena di sorridere: forse era arrivato il momento di ricambiare, almeno in parte, l'ospitalità che Sirius le aveva offerto due anni prima.
"Ti va di mangiare con me?" chiese, e Sirius annuì in silenzio.
Alhena si guardò attorno, trascinò con sé Sirius fino a trovare una traversa appartata, che sembrava essere stata disegnata proprio perché due maghi si smaterializzassero senza destare i sospetti dei babbani, e gli prese la mano. Cercando con tutta sé stessa di non pensare che quel contatto lieve, fatto di dita magre e strette convulse, fosse il primo contatto fisico che aveva con Sirius da più di due anni, Alhena chiuse gli occhi, volteggiò su sé stessa, e trascinò Sirius nel suo tubo di gomma della Materializzazione Congiunta.

Ripresero a respirare davanti all'abbaiare dapprima spaventato, e poi entusiasta, di Marmellata.
Il fuoco era acceso, e la casetta di St. Ignatius Road profumava dell'ottima cucina di Emerenc. In quel preciso istante la donna doveva essere già tornata a Budapest: la salute di Imre era peggiorata, e Alhena l'aveva quasi costretta a presentarsi alla Passaporta Internazionale delle 10.57, rassicurandola che lei se la sarebbe cavata. Emerenc aveva stretto le labbra e scosso la testa, e quella mattina si era svegliata all'alba, barricandosi in cucina e borbottando qualcosa sulle pessime abitudini alimentari di Alhena. Ora la ragazza aveva provviste sufficienti per sfamare tutto il tavolo di Corvonero, e non aveva idea di come consumarle per tempo.
"Dove... dove saremmo?" domandò Sirius, che si era inginocchiato a coccolare un Marmellata in estasi. Chissà perché, vedere quei due riuniti colpì Alhena come un pugno allo stomaco: Alhena aveva preso con sé Marmellata solo un mese e mezzo prima che Sirius cadesse oltre il Velo, ma in quel periodo il cagnolino aveva trascorso gran parte delle sue giornate in compagnia di Sirius, a Grimmauld Place. Sirius aveva sempre finto grande indifferenza nei suoi confronti, ma Alhena era certa che quei due si fossero fatti molta compagnia, durante le lunghe ore di solitudine trascorse assieme. Vederli insieme fu come tornare a quei giorni difficili, in cui Sirius si divertiva a permettere a Marmellata di infrangere ogni regola che lei faticosamente cercava di insegnargli solo per farle un dispetto.
Sentendo che gli occhi le si stavano improvvisamente riempiendo di lacrime, si avviò a passo svelto verso la cucina, e, schiarendosi la gola, gridò:
"Benvenuto a Dublino. Al momento, su gentile concessione di vecchi amici, io vivo qui. Il bagno è la terza porta in fondo al corridoio, quella con la piastrella con le pastorelle..."
Alhena si affrettò a preparare la tavola, prestando inconsciamente attenzione a tutte le regole che Emerenc le aveva ripetuto all'infinito - la lama del coltello deve guardare verso il piatto, o qualcuno si taglierà - e accese il fuoco sotto la pentola di pörkölt.
Quando si accorse che Sirius non stava tornando, decise di andare a cercarlo, e lo trovò con le mani in tasca a fissare una vecchia fotografia babbana appesa con cura sopra il camino. La fotografia ritraeva una trentina di ragazzine in body e calzamaglia bianche, tutte ben pettinate e sorridenti, inginocchiate a formare un preciso semicerchio. A spezzare la simmetria dell'immagine era una ragazzetta sulla sinistra, che se ne stava in piedi, dritta come un fuso, con un'espressione rissosa a stento coperta dai ciuffi disordinati dei suoi capelli chiari che sfuggivano all'acconciatura. Aveva le braccia incrociate, e fissava lo spettatore come se lo stesse sfidando a provare a lamentarsi di qualcosa.
Alhena sorrise appena: si era beccata una delle sgridate più intense della sua vita, per colpa di quella foto, ma nonostante tutto Imre aveva insistito per tenerne una copia in bella mostra sia a Dublino che a Budapest.
“È quasi pronto, se vuoi...”
Sirius annuì, poi lanciò di nuovo un'occhiata alla fotografia, e per la prima volta quel giorno, sorrise.
“Non sei cambiata di una virgola”.

 
***

“Va tutto bene?”
Sirius era ormai fermo da qualche minuto davanti alla vetrina di un negozio di giocattoli, con l'espressione di chi si trovava con i pensieri lontano anni luce dalla realtà che lo circondava.
Lui e Alhena avevano pranzato senza scambiarsi più di una manciata di parole, e nessuno dei due era riuscito a finire quello che aveva nel piatto – grazie al cielo Emerenc era tornata a Budapest, o si sarebbe offesa a morte con entrambi – ma quando era arrivato il momento di portare fuori Marmellata, Sirius aveva chiesto di poter accompagnare Alhena.
E mentre passeggiavano senza una meta per le strade più tranquille di Dublino – Alhena era stata molto attenta ad evitare le zone turistiche o troppo affollate, immaginando che potessero mettere a disagio Sirius – era successo qualcosa.
Non si erano sfiorati, né si erano mai guardati in faccia, ma la reticenza e quel gelido imbarazzo che li avevano divisi per tutto il giorno si erano in qualche modo sciolti. Alhena aveva preso ogni angolo di strada come pretesto per raccontare vecchi aneddoti della sua adolescenza, condividendo con Sirius ricordi e pensieri, e Sirius era rimasto dapprima in silenzio ad ascoltare, e poi aveva aggiunto un commento qua e là, fino ad arrivare a rispondere ai ricordi con i ricordi.
Erano stati bene attenti ad evitare qualsiasi argomento che potesse riportare in vita il grande elefante nella stanza che si incaponivano a voler ignorare, ai loro ricordi comuni, a ciò che era stato e a ciò che sarebbe potuto essere, ma Alhena , per la prima volta da quando aveva trovato Bill sul suo pianerottolo, si sentiva felice.
C'era un'ombra enorme sul loro futuro, l'angoscia di quel processo aleggiava su di loro come una nuvola scura e minacciosa, ma mentre ripercorreva le strade dove aveva imparato la serenità da ragazzina, Alhena decise che quel pomeriggio sarebbe stato solo all'insegna delle parole leggere.
Marmellata cominciava ad essere stanco, e quando Sirius si era fermato davanti a quella vetrina, il cane si era accucciato a terra con tutta l'intenzione di non volersi più muovere da lì.
“Io... forse dovrei andare a trovare Andromeda.”
Il volto di Sirius era una statua di pietra, scavato e freddo, lontano.
“Io credo di volerlo fare, ma... Teddy...”
La voce gli morì in gola, e Alhena, senza nemmeno riflettere, gli si avvicinò, cercando ostinatamente di attirare a sé quelle pozze di vuoto che erano i suoi occhi.
“Sirius...”
“Quando guardo lui, vedo solo Remus. E penso di non riuscire... lui...”
“Sirius.”
Finalmente lo sguardo di Sirius si concentrò su Alhena, ed era lo sguardo di un bambino spaventato e perso. Alhena non lo aveva mai visto così, mai, nemmeno nelle notti più difficili, quelle in cui Azkaban smetteva di essere un ricordo, ma tornava ad essere la prigione della mente di Sirius.
“Io non lo so se ce la faccio.”
Alhena sospirò, consapevole che niente di quanto avrebbe detto le sarebbe servito ad avvicinarsi di più a Sirius.
“Non devi... Non c'è niente che tu debba fare. Teddy è ancora piccino, puoi... devi prenderti il tuo tempo.”
Non sapeva esattamente che cosa avrebbe voluto dire, ma di certo non era quello.
Sirius tornò a perdersi nella vetrina per lunghi, dolorosi minuti fatti di silenzio.
Alla fine, con un imbarazzo che Alhena avrebbe trovato buffo, se solo la situazione non fosse stata così tesa, l'uomo indicò con un dito esitante un coniglietto di pezza di un violento turchese, seminascosto dietro una pista di macchinine telecomandate.
“È dello stesso colore dei suoi capelli”, mormorò l'uomo, per poi distogliere lo sguardo e allontanarsi bruscamente di qualche passo.
“Cazzo. Non riesco nemmeno a guardare quel bambino senza sentirmi morire, e poi penso di comprargli un... un coniglio. A lui nemmeno piacciono i conigli, a lui piacciono i cani. Mi sento patetico.”
Alhena sorrise appena, affiancandosi a Sirius.
“Secondo me apprezzerebbe anche i conigli”, mormorò, ignorando le proteste di Marmellata, che avrebbe decisamente preferito restare a dormicchiare sul marciapiedi, “ma puoi sempre cercare un cagnolino azzurro”.

 
***

“Alhena...”
Alhena guardò Sirius con aria interrogativa. L'uomo si era riavvolto nel suo mantello, e aveva già gettato una manciata di Polvere Volante fra le fiamme, pronto a tornare a casa sua, nel Dorset.
Una parte di Alhena avrebbe voluto trattenerlo, prenderlo per mano e costringerlo a restare assieme a lei, a parlare con lei, a cercare di ricostruire quello che, in qualche modo, avevano condiviso quel pomeriggio. Un'altra parte, però, quella stanca, quella spaventata e confusa, voleva restare sola.
Anche Sirius sembrava combattuto: voleva dire qualche cosa, ma era frenato.
“Harry ti starà aspettando. Non farlo preoccupare”, si ritrovò invece a dire Alhena.
“Senti... non sei obbligata, ma... mi farebbe piacere... domani pomeriggio mi accompagni da Andromeda?”
Alhena sorrise, davanti al tono di supplica che incrinava la voce di Sirius. Sembrava davvero un bambino smarrito, un bambino spaventato che cercava la mano di un adulto per compiere anche i gesti più semplici.
Alhena avrebbe voluto trovare qualcosa da dire, qualcosa di significativo, qualcosa di importante, ma si limitò ad annuire, ricacciandosi meccanicamente i capelli dietro le orecchie.
“Grazie... per tutto.”
Sirius sollevò appena il sacchetto di carta nel quale era avvolto il coniglietto azzurro – Alhena ancora rideva, quando ripensava alla faccia del commesso che si era ritrovato sul banco una manciata di monete dove si mescolavano sterline, galeoni e fiorini ungheresi – e fece un gesto con la mano libera, come a voler circondare tutto il salotto.
Alhena annuì di nuovo, e per un lungo attimo lei e Sirius rimasero fermi a fissarsi.
C'era il fantasma di quell'abbraccio che entrambi desideravano, ma che nessuno dei due avrebbe osato cercare, tra di loro.
C'erano tutti i silenzi che quel giorno li avevano tenuti lontani, e c'era la consapevolezza che sarebbe stato impossibile, per loro, tornare indietro senza soffrire.
Alla fine, Sirius le voltò le spalle, e scomparve fra le fiamme color smeraldo.
Per un solo istante, Alhena avvertì uno strappo dolorosissimo all'altezza del petto, e tutto il suo corpo scattò in avanti: doveva seguirlo. Non poteva restare sola, non poteva guardarlo scomparire di nuovo...
Fu solo un istante. Le fiamme tornarono ad ardere, calde e prive di ogni accenno di magia.
Marmellata si accoccolò sui suoi piedi, uggiolando piano.
Alhena chiuse gli occhi, respirando lentamente.
Il suo camino non era il Velo.
Sirius in quel momento doveva essere impegnato a giustificare il suo ritardo con Harry, e già l'indomani lo avrebbe rivisto.
Forse la loro serenità poteva durare più di mezz'ora.





 
***




 
Note:
Perché prendere in prestito le parole degli ABBA per il titolo di questo capitolo? Perché cantare gli ABBA a squarciagola, senza preoccuparsi di niente, è un ottimo antidepressivo.
Scusate per il ritardo imperdonabile nella pubblicazione, e ancora di più scusatemi perché questo capitolo è un'accozzaglia di scene senza senso e slegate tra loro. Non sono riuscita a fare di meglio.
In compenso, per fingere di giustificarmi, ho pubblicato il primo capitolo di una mini mini long che vede protagonista un'Alhena quindicenne e un certo Weasley con la passione per le bestie. È una storiella proprio stupida, ma avevo bisogno di scrivere qualcosa di leggerissimo. Che sia sciocca si capisce pure dal titolo: “Piccoli problemi di cuore”.
Infine, il coniglietto azzurro: da bimba avevo un librone sul Natale (credo di Tony Wolf) che amavo moltissimo. Era uno di quei libri alti come i bimbi, con tante figure complesse e ricchissime di dettagli (ricordo fontane di succo di frutta e regni di ghiacci, ma potrebbero benissimo essere falsi ricordi), e si parlava anche di un coniglietto di pezza che nessuno voleva perché era blu. Ecco, credo di aver chiesto a Babbo Natale un coniglietto blu per almeno sei anni di fila, e Babbo Natale non mi ha mai accontentata (dovevo essere un mostro, non una bambina). Sono sicura che Teddy vorrà bene a quel coniglietto come gliene avrei voluto io.
   
 
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