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Autore: _EverAfter_    14/02/2019    6 recensioni
E' la storia di un giovane militare che parte per la chiamata alle armi durante la Prima Guerra Mondiale.
Parte da solo, lasciandosi alle spalle la fidanzata e la famiglia che lo ha accudito, i bei paesaggi del paesino di pescatori dove è cresciuto e le scorribande nei campi dell'amorevole suocero.
In contrapposizione con la pace e la tranquillità che ha sempre vissuto, la guerra gli appare come la più nefasta delle avversità.
E, quando non riesce a prendere sonno per l'angoscia che gli opprime il cuore, ripensa a tutto ciò, disposto a tutto pur di non dimenticare.
Una storia che richiama per somiglianza le vicende della celebre fiaba "Il soldatino di stagno" di Hans Christian Andersen.
Terza classificata a pari merito al contest “Lavoratori allo Sbaraglio” indetto da Laodamia94 sul forum di Efp.
✦ Prima classificata al contest "Hold my Angst (Flash contest - Edite ed inedite)" indetto da GaiaBessie sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il-soldatino-di-stagno-e-la-ballerina-di-carta






C’erano una volta venticinque soldatini tutti fratelli, perché tutti fusi fuor dallo stesso vecchio cucchiaio di stagno.
Avevano il fucile in ispalla, la divisa rossa e turchina, proprio bella, e tutti guardavano diritto dinanzi a sé.
La prima cosa che udirono al mondo, quando fu tolto il coperchio della scatola, fu il grido: «Soldatini di stagno!»



Erano lì, con le braccia dritte lungo il busto e lo sguardo assente, mentre il caporale se ne stava impettito sul suo improvvisato piedistallo arrangiato con un secchio di latta, a sbraitare come un dannato nella speranza di riuscire ad incutere un po’ di timore al plotone, troppo sfiancato per poter replicare in alcun modo.
‒ Signorsì, signore!
Era quella, la formula che ogni militare doveva usare per rispetto ai propri superiori, quand’anche fossero stati dei semplici sottufficiali. In fondo, loro non erano altro che l’ultimo baluardo di quella misera guerra che si era protratta per troppo tempo, senza neppur ricordare il motivo per cui era scoppiata.
Neanche rammentava quando tutto era cominciato. Nemmeno sforzandosi riusciva a rischiararsi la mente, in quella memoria ormai consunta, incapace persino di ricordarsi i nomi dei suoi compari d’armi ch’avevano perso la vita, senza rendersene conto. Era terrorizzato anche quel giorno, ma la monotonia dell’indifferenza riusciva sempre a tranquillizzarlo, perfino in quel momento, dove il rimbombo della granata esplosa la scorsa notte gli riecheggiava nella mente. Mille immagini si susseguivano senza sosta in quel monologo silenzioso, fatto di pezzi di carne che volavano da una parte all’altra del campo, l’urlo disperato di Wilfred, o Edward, non ricordava: era un ragazzino simpatico, più giovane di lui di qualche anno.
Stringeva tra le mani il fucile, nella bocca il muto "mi dispiace" che avrebbe tanto voluto dirgli, invece di voltargli le spalle al suono della ritirata. Era morto, e senza neanche qualcuno ch’avesse provato a salvarlo.
Sentiva la puzza della polvere da sparo, Keith stava di nuovo pulendo la canna del fucile.
‒ Mi rilassa ‒ gli aveva detto un giorno, ‒ mi aiuta a non pensare.
Aveva ragione. L’urlo della paura squarciava loro i petti, circuiva l’irrisolutezza del loro coraggio trascinandoli sul fondo del baratro, dove sarebbe bastata solo un’altra esplosione per poterli far sprofondare più in basso. Lì, nel posto in cui non sarebbero più stati capaci di tornare in superficie.
Si strinse nella sciarpa di lana grezza. Pungeva, e qualche buco concedeva al freddo di pizzicargli la pelle del collo, eppure continuava ad indossarla: rivedeva i begli occhi compiaciuti, e le mani tremanti di lei mentre gli porgeva l’indumento cucito a mano. Aveva visto le dita sottili bucherellate dall’uncinetto di ferro e le labbra serrarsi in un sorrisetto imbarazzato.
‒ Non è granché, ma spero possa tenerti al caldo ‒ aveva sentito dire dalla sua vocina sottile, ‒ desidero solo che tu non prenda un raffreddore.
Non l'era importato di quello che lui avrebbe potuto pensare, perché così, ingenuamente com'era nata, parlava. Così ingenuamente lo amava. E non aveva prestato affatto attenzione al fatto che sarebbe stato più probabile morire per un proiettile o per una bomba, lì fuori, nella guerra che s’apprestava a scoppiare. Ciò a cui aveva pensato era che non prendesse freddo, persa in quella spontaneità di cui lui si era innamorato fin da subito.
Sfiorò quel volto sottile con le dita logore e consumate dal lavoro nei campi, passando lievemente il pollice sulle labbra scarne di lei, irretite dal freddo.
‒ Ti aspetterò.
Era troppa la fede di quelle parole, e lui non aveva avuto il coraggio di contraddirle. Non poteva fuggire dalle sue belle mani che gli avviluppavano il volto, né da quel bacio morbido, a contatto con la bocca fresca e umida della giovane.
Ti amo, gli aveva detto, con quel suo gesto. Ed è per questo che devi tornare da me.
Non riusciva a ricordare quanto tempo fosse passato da allora, ma era troppo, troppo perché lui potesse accettare di stare lontano da lei ancora un altro minuto, un’altra ora, un altro anno.
Il gelo di dicembre era ormai giunto, ma lui non sarebbe morto di freddo, o lei lo avrebbe sicuramente sgridato. Era per questo che, nonostante avesse pensato ormai molte volte di farla finita, era ancora seduto lì, ad osservare Keith e la sua stupida fisima di pulire il fucile.
‒ Chi è di turno per stanotte? ‒ domandò il sottotenente di reparto, giunto dinnanzi ai pochi uomini rimasti.
Si alzò in piedi, imbracciando lo schioppo. ‒ Sono io.



Ogni soldato era identico agli altri; soltanto, per quello che era stato fuso per ultimo, non era rimasto stagno abbastanza, e così gli era venuta una gamba sola; ma egli stava altrettanto saldo sull’unica gamba, quanto gli altri, che ne avevano due.



Perse la gamba durante la battaglia della Somme, e il cielo volle che non fosse troppo tardi per cauterizzargliela. Aveva gridato, aveva sentito il fuoco bruciargli la carne penzolante dell’arto mutilato e aveva implorato l’oblio di prendergli la coscienza, nel vano tentativo di fuggire da quella spietata agonia che gli divorava i tessuti.
L’aveva sognata, quella notte. L’aveva vista ridere e cingergli il collo con le braccia sottili, mentre s’issava sulla sua schiena per imitare il padre che la mattina presto se ne andava a cavallo per i campi, ad appuntarsi quale fosse il terreno da destinare al maggese. Lui l’assecondava, scarrozzandola da una parte all’altra della fattoria, sperando che non le venisse la bizzarra idea di mettergli delle briglie addosso.
Aveva una risata strana, sguaiata, tanto da far incaponire la madre. ‒ Una signorina non ride a quel modo.
Ma la sua risata gli piaceva da matti. Era spontanea, vera, di quelle che fanno ridere a loro volta.
Aveva passato la sua giovane vita stretto alle braccia di quella piccola ragazza, convinto di non poter chiedere altro se non la felicità per entrambi. Se fossero stati insieme, era sicuro che non sarebbe potuto accadere niente. Non conosceva la ragione di quella certezza, ma la riscopriva ogni volta nei begli occhi pervinca di lei, che sembravano avvolgerlo come una placida culla fatta di serenità, di sogni in attesa d’esser realizzati.
Non ricordava i nomi dei suoi commilitoni; però quanto lei volesse la casa con le persiane verde pastello, quello sì, riusciva a figurarselo perfettamente. E voleva la casa vicino al Loch Carron, lì dove avrebbe potuto svegliarsi con lo starnazzare risoluto delle anatre, mentre preparava la colazione dopo aver discusso con la gallina litigiosa riguardo a chi spettassero le uova appena covate. Ricordava perfino quando gli aveva confidato come avrebbe voluto che lui le chiedesse di sposarlo.
‒ Devi sorprendermi ‒ gli aveva detto, ‒ non voglio un mazzo di fiori e una confessione.
‒ E allora cosa vuoi?
‒ Mah non saprei, devi essere tu a decidere. Io ti ho detto solo che non voglio i fiori.
‒ Vorrà dire che ti porterò un mazzo di lattuga.
La vide sorridere. Nonostante la proposta assurda, sembrava davvero felice di quel suo responso.
Quando si svegliò, la notte non gli era mai apparsa così buia. Girò la testa a destra a manca, mentre i medici della tenda tentavano disperatamente di rimetterlo sulla brandina.
‒ Lei dov’è?! ‒ aveva urlato, ma gli anonimi volti che lo squadravano dall’alto non sembravano curarsi dei suoi vagheggiamenti.
Voleva riaddormentarsi, fosse anche solo per poterla rivedere un’altra volta, la sua felicità, quella che gli era stata tolta e che poteva spiare solo nell’eco dei suoi sogni, dispettosi e inafferrabili, acerrimi rivali del suo conscio frustrato e inerme di fronte all’ineluttabilità del suo destino.
Si adattò presto a camminare con la stampella. Il lato positivo – in tutta quella macabra vicenda – era che non poteva più prestare servizio sul fronte. Doveva rimanersene nella trincea, aiutando con i lavori di manovalanza più osceni – pulire i calderoni arrugginiti, svuotare le latrine improvvisate e riempire i secchi dell’acqua stagnante caduta dal cielo il giorno prima. Non era dignitoso, ma almeno era ancora vivo.
Attese paziente gli ordini dell’ufficiale a cui era stato assegnato, ma quel giorno, di ritorno dal fuoco nemico, una brandina era rossa, completamente inzuppata del sangue di un suo compagno. Del suo compagno.
‒ Keith ‒ aveva sussurrato, perso ad osservare quello sguardo per sempre volto al crepuscolo.
Tra le mani, stringeva ancora il suo fucile. Era davvero pulito.



La più bella di tutti, però, era una piccola signora, ritta vicino al portone aperto del castello; anch’essa di cartone, ma con un vestito di velo leggerissimo,
ed un sottile nastrino azzurro sulle spalle, posto a mo’ di sciarpa: nel mezzo del nastro era appuntata una stellina lucente, grande come tutto il suo viso.




Era arrabbiata, quel giorno. Lui le aveva detto che sarebbe dovuto partire di lì a poco, e lei non aveva fatto altro che imbronciarsi e rimanersene in disparte a braccia conserte, in attesa delle sue scuse.
‒ Non è colpa sua, tesoro ‒ aveva cercato di farla ragionare il padre, ‒ la chiamata alle armi purtroppo è obbligatoria.
‒ Ma mi lascerà sola ‒ aveva risposto, con la sua adorabile boccuccia, ‒ ed io non potrò vederlo mai più.
‒ Questo non è vero. ‒ Le si avvicinò, carezzandole una guancia. ‒ Tornerò da te ancora prima che tu possa rendertene conto.
‒ Lo puoi promettere?
‒ Certo.
L’aveva vista sorridere, le placide braccia del padre avvolsero entrambi in una dolce stretta affettuosa. ‒ Voi siete nati insieme, e insieme starete per sempre.
Gli era piaciuta, la speranza di quella parole. Così tanto da portarsele con sé sul fronte, mentre il fischio del treno accresceva ad ogni istante la distanza che sembrava volerli dividere. E chissà se lei avrebbe pensato a lui, mentre aiutava il padre ad arare i campi, o nel preparare lo stufato di verdure che tanto gli piaceva, quello con più carote, perché le patate non gli andavano molto a genio.
Erano passati due anni. Aveva scritto solamente un semplice telegramma a suo padre, ma a lei non aveva mai fatto sapere niente. Ne avrebbe avute di cose di cui scusarsi, se fosse riuscito a tornare a casa.
‒ Ehi. ‒ Una voce fuori campo lo distrasse dal suo rimuginare. ‒ A che diavolo stai pensando?
‒ Alla mia fidanzata.
La nuova recluta gli sorrise affabile; era un giovane alto e di bell’aspetto, coi capelli chiari e gli occhi squisitamente verdi. Si chiamava Noah, da quel che ricordava – in fondo lui per i nomi non ci era proprio tagliato.
‒ È carina? ‒ gli chiese, interessato, ‒ scommetto di sì.
Sorrise tra sé e sé, peccato non avere neanche una sua foto. Quel pivello sarebbe crepato d’invidia. ‒ Sì, lo è.
‒ È bionda?
‒ No, rossa.
‒ Rossa, che sballo! ‒ Noah non cercava affatto di trattenere l’entusiasmo. Buon per lui, almeno uno dei due era felice. ‒ Ti prego, dimmi che ha anche quelle belle lentiggini che hanno sempre tutte le rosse.
‒ Le ha.
‒ E gli occhi?
Al solo ripensarci, si sentiva mancare il terreno sotto ai piedi. I suoi magnifici occhi. Quello sguardo che aveva incrociato dozzine di volte, senza mai stancarsi di vederlo riflesso nelle sue pupille. Una parte di sé – quella nascosta e perversa – aveva sognato di strapparglieli per poterseli tenere per sempre, quei dannati occhi.
‒ Azzurri.
‒ È una bomba! ‒ esclamò, infischiandosene di come potesse apparire poco appropriato il suo commento, ‒ e…?
‒ E cosa vuoi sapere ancora?
‒ Ci hai fatto… qualcosa?
Era accaduto per caso. Avevano fatto l’amore nel fienile, mentre suo padre era via per la vendemmia.
Ripensò a com’era bella quel pomeriggio, tutta sudata, con il corsetto slacciato alla bell’e meglio e i capelli in disordine, arricciati da qualche spiga bionda sparsa a terra. Se l’era premuta contro il petto, lasciandole appena il tempo di riprendere fiato, prima di farla sua ancora una volta. Un’altra. Un’altra ancora.
La pelle biancastra aveva iniziato ad impallidire al riflesso della luna nascente, e i suoi occhi avevano tacitamente implorato che giungesse il sonno ad intorpidirle i sensi, prima di pronunciare il suo nome, con la bocca serrata contro la pelle della sua clavicola. L’aveva tenuta tra le braccia per tutta la notte, sussurrandole ciò che il suo cuore gli suggeriva, e addormentandosi con le sue piccole mani strette alla pelle della schiena.
Aveva sognato quel dolce amplesso così tante volte da essersene ormai dimenticato: più cercava di raggiungere l’agognato ricordo, più la sua memoria gli sfuggiva, in una sfida che lo vedeva sempre perdere, fino al giorno in cui aveva creduto che non fosse mai successo.
‒ Forse sì.



A sera inoltrata i giocattoli cominciarono a divertirsi: si scambiavano visite ballavano, giocavano alla guerra.
Quando l'indomani i bambini si alzarono, il soldatino fu messo vicino alla finestra e, non si sa se fu un troll o una folata di vento, la finestra si aprì e il soldatino cadde a testa in giù dal terzo piano. Fu un volo terribile, a gambe all'aria, poi cadde sul berretto infilando la baionetta tra le pietre.



I militari erano tutti con la testa affossata nella trincea. La nube tossica si espanse fin nel corridoio principale, laddove il sottufficiale Patel tentava disperatamente di raggiungere la radio per dare notizia della bomba a gas appena esplosa. Non appena lo vide accasciarsi a terra e sputare sangue, capì che non c’era ormai più speranza.
S’issò sulla stampella, con le orecchie ancora ovattate dall’esplosione e il corpo intorpidito; dannazione, se avesse ancora avuto la sua gamba sarebbe sicuramente stato in grado di fuggire più in fretta. Si portò un fazzoletto alla bocca, inalando quanto più aria possibile e trattenendo il fiato per il tempo sufficiente per scappare dal gas. Non credeva che ce l’avrebbe fatta, a stento riusciva a vedere dove stava andando, figurarsi riuscire a scampare alla morte per l’ennesima volta.
Se non si fossero rincitrulliti la sera precedente, avrebbero potuto salvarsi tutti. Ancora poteva sentire in mezzo al marasma l’odore del bourbon, il fastidioso puzzo dei sigari rimasti accesi sulla bocca dei soldati ubriachi e insonnoliti, che ogni tanto si risvegliavano per dare una boccata di fumo prima di riassopirsi. Poteva sentire gli schiamazzi goliardici e irrisori, alcuni – i più audaci – che si atteggiavano a donne di bordello, mimando con le braccia le forme risolute del bel sesso che si concedevano di sognare ogni notte, fosse anche solo per fuggire dall’orrore a cui ogni giorno venivano condannati.
Perché era accaduto? Perché a loro?
Certo, era normale chiederselo. Immaginava che non fossero stati i primi ad aver provato quell’orribile veleno, e di certo non sarebbero stati gli ultimi. La guerra non gli era mai parsa così brutta come in quell’istante: gli aveva portato via ciò che di più caro possedeva, vedeva persino vacillare la sua sanità mentale, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a tornare davvero a casa.
Non era solo per lei, in realtà. Voleva rivedere Plockton¹, la sua piccola vegetazione lussureggiante, e riascoltare il fruscio dei pescherecci al largo della spiaggia, mentre il sole calava all’orizzonte e l’olezzo del pesce inaspriva le narici, al ritorno dei marinai stanchi, sudati, con addosso l’odore salmastro dell’oceano.
Quante volte ci erano andati insieme, da piccoli, ad ascoltare i racconti che parlavano di mostri marini ed eroici avventurieri. Lei era sempre spaventata, ed ogni volta si stringeva al suo braccio, con il bel volto lentigginoso che s’illuminava alla luce del piccolo falò attorno al quale sedevano, durante le placide sere d’estate. Già allora era completamente assorto dallo sguardo vispo della ragazza, dal suo sorriso sdentato e dalle trecce rosse, così in sintonia con gli scoppi delle fiamme dinnanzi a loro.
Non aveva mai voluto tutto questo. Non era stato lui a scegliere d’abbandonare il suo piccolo mondo felice, e ad ogni passo che compiva lontano dalla morte, dai suoi compagni, si sentiva vittima di un insano senso di colpa. Non gl’importava di salvare nessuno, lui non era un eroe, non voleva neanche esserlo.
Voleva solo avere un’altra possibilità, quella giusta, che gli avrebbe finalmente permesso di tornare a casa e riabbracciare la sua vecchia vita, fatta di anonime giornate, così belle da passare inosservate alla gente grande, gli stessi volgari sempliciotti che se ne stavano tronfi sul proprio trono di velluto rosso, con il doppiopetto sbottonato a causa dello stomaco pieno e gli occhi puntati sul mondo, lì dove avevano scelto di cominciare una guerra che nessuno di loro stava combattendo davvero.
Che bravi soldatini ch’erano stati. Avevano obbedito ogni giorno, svolto ogni singolo compito ch’era stato loro assegnato. Ed erano morti, a ormai troppi passi di distanza perché potesse ancora vederne i volti agonizzanti, con le bocche ormai livide e tormentate, nell’attesa di un soffio d’aria che non sarebbe più giunto a salvarli. Non quella volta.
E lui, dove mai poteva andare? Era ormai un esule del campo di battaglia, e avrebbe dovuto trovare un modo per non perire sotto ai colpi del fuoco nemico. Avrebbe dovuto trovare un modo per tornare a casa, in modo da sfuggire all’accusa d’esser un disertore. Avrebbe tanto voluto essere il militare che tutti avrebbero acclamato, ma quel poco che rimaneva del suo buonsenso gl’impediva di agire come quegli ardimentosi eroi di cui gli narravano i marinai.
Dannazione. E dire che non si era mai sentito così vigliacco.



Uno dei bambini più piccoli prese il soldatino e lo gettò nella stufa, senza alcun motivo. Sicuramente era colpa del troll.
I suoi colori erano ormai sbiaditi, ma chi poteva dire se fosse per il viaggio o per la pena d’amore?
Il soldatino guardò la fanciulla e lei guardò lui, e lui si sentì sciogliere, ma ancora teneva ben stretto il fucile sulla spalla. Intanto una porta si spalancò e il vento afferrò la ballerina che volò come una silfide proprio nella stufa vicino al soldatino. Sparì con una sola fiammata, e anche il soldatino si sciolse completamente.



Venne a sapere della sua morte durante la prigionia, attraverso un telegramma striminzito.
Scarlattina. Durante la notte, ciò che gli era rimasto era scivolato via per sempre, vittima anch’esso dei residui della guerra.
Se n’era andata via in punta di piedi, senza svegliare nessuno. Tipico di lei, in fondo. Odiava dipendere dalle persone. Odiava vederle soffrire.
Era seduto sul pavimento, con le spalle premute contro le sbarre arrugginite della cella, gli occhi stanchi e incavati, le labbra incapaci di trattenere oltre quell’urlo che sembrava lacerargli ciò ch’era rimasto dell’involucro di carne che conteneva la sua anima – ammesso che ne avesse ancora una.
L’avevano arrestato mentre cercava di superare la frontiera. Dalla divisa che indossava, risultò a tutti ovvia la sua incresciosa diserzione. Fu sbattuto in galera, in attesa di un verdetto che non sapeva quando sarebbe giunto. Da quel momento in poi, non gli sarebbe comunque importato.
Sarebbe voluto tornare da lei, risentire il suo vociare risentito ed isterico, mentre lo sgridava d’averci messo molto, troppo. E allora lui l’avrebbe abbracciata, sussurrandole che non aveva fatto altro che pensare a lei, che s’era ancora vivo – un po’ a pezzi, magari, ma vivo – era per il costante ricordo del suo sorriso, dei suoi occhi spensierati e dei morbidi capelli che gli pizzicavano le guance. Lei si sarebbe rasserenata, la conosceva troppo bene.
E chissà, forse sarebbe finalmente riuscito a costruirle la casa con le persiane verdi, quella sul Loch Carron; e forse la mattina lei avrebbe potuto sentire le sue dannate anatre, mentre gli preparava la colazione, indispettendosi per la sua poca dimestichezza con la nuova cucina. Avrebbero passato la giornata nei campi, tenendo fede alla promessa che il padre aveva fatto loro, prima che lui partisse.
Voi siete nati insieme, e insieme starete per sempre.
Dov’era la sua promessa? Dov’era lei, mentre il suo cuore urlava all’inganno?
Non l’aveva aspettato, come sempre aveva fatto di testa sua.
E così, se n’era andata. E non avrebbe visto la casa, né sentito le anatre. Non si sarebbe arrabbiata con i fornelli, non l’avrebbe più sgridato. Non gli avrebbe più detto quanto lo amava.
Sentì uno strano dolore pugnalargli il torace, e gli occhi farsi sempre più gonfi a causa di quelle lacrime a cui neppure aveva fatto caso. Non avrebbe dovuto fargli questo: lui, che aveva raccomandato l’anima al Dio in cui tanto credeva, aveva fatto l’impossibile per rimanere vivo.
Tutto, solo per tornare da lei.
Tutto, solo per scoprire che non ci sarebbe stata.
Capì che il prezzo da pagare era stato troppo alto. Lui sì, respirava ancora, il suo cuore – distrutto e ormai senza più traccia d’alcuna favilla – ancora batteva. Ma a cosa sarebbe servito, quel suo corpo ormai inutile? Che gioia avrebbe mai potuto ancora provare, dopo che l’ultimo briciolo di speranza era stato fatto a pezzi da quel misero foglietto di carta raggrinzito?
Il primo singhiozzo giunse violento a riempirgli la bocca. E al diavolo il dignitoso contegno dell’uomo, mentre il bambino ch’era stato sputava via tutto il dolore che quel corpo non riusciva a contenere. Al diavolo le scampagnate in mezzo ai boschi e i racconti dei marinai. Al diavolo le promesse, i progetti e le puerili aspettative.
I dolci ricordi si dissipavano come fiele nella sua mente, la fortezza dell’intelletto soccombeva ai rigidi colpi di quel dolore lacerante, così violento da risultargli persino più insopportabile dell’agonia a cui era stato costretto durante l’operazione alla gamba. Quel dolore no, non riusciva a controllarlo. Era come una presenza aleatoria e senza consistenza. Non avrebbe mai potuto uccidere ciò che non riusciva neanche a vedere. Eppure, uno dei due avrebbe dovuto perdere quella sfida, perché non potevano essere entrambi padroni di quel corpo. Non più.
Si voltò verso l’improvvisato tavolino accanto al letto. Lì, sfatta e ormai logora, vi era la sciarpa di lana grezza. Quella che lei aveva fatto per lui. Quella brutta, con tanti buchi quanti ne aveva lei sulle mani, quel giorno che gliel’aveva data.
Si alzò, sfiorandola delicatamente con la punta delle dita annerite.
Il suo regalo. Quello che gli avrebbe concesso di tornare da lei.
Salì su un panchetto. Legò un’estremità del tessuto al cordone in ferro che pendeva dal soffitto, mentre si portava l’altra intorno al collo. Poi calciò via il sostegno sotto al piede.
S’addormentò per sempre, senza emettere alcun fiato, con le iridi vitree incatenate all’immagine eterna di lei che apriva una finestra dalle imposte verdi.
Lì, sul Loch Carron.



Quando il giorno dopo la domestica tolse la cenere, del soldatino trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina il lustrino tutto bruciacchiato e annerito.








Fine







¹: Piccolo villaggio della Scozia.








Note dell'autrice:

Sappiate che ci sto provano in tutti i modi a non scrivere nulla di triste, ma niente, proprio non mi riesce.
Per il contest indetto da Laodamia94 - che tra parentesi ringrazio, per avermi dato l'opportunità di scrivere una storia del genere - ho deciso di optare per un'altra terribile vicenda.
Sono una grandissima appassionata di storia, e non potevo scegliere altro se non la Prima Guerra Mondiale come contesto.
Che dire, la storia mi rendo conto che ha veramente del cupo, ma immagino che ipoteticamente parlando una vicenda come questa non fosse poi così distante da ciò che accadeva nella realtà di tutti i giorni.
Spero solo di non avervi annoiati, grazie a chi ha trovato il tempo anche solo per leggerla!
A presto,

_EverAfter_
  
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