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Autore: Kat Logan    15/02/2019    4 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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ATTENZIONE: Il seguente capitolo tratta (da metà in poi) una tematica delicata. Poiché il resto della storia non è da "bollino rosso", il raiting rimane perciò arancione. Leggete quindi SOLO fin dove ve la sentite. 
Mi auguro che nessuno rimanga turbato perché non è nel mio intento. Per chi non volesse arrivare a fine capitolo provvederò a un mini riassunto privo di particolari da inserire in testa al prossimo così che tutti possano continuare la storia senza problemi.

 


Le bombe esplodono. Alcune in modo silente, altre fanno un gran baccano. Ma la cosa che hanno sempre in comune è una: la distruzione.
Quelli innescati sulle costa Californiana, tra Malibù e Los Angeles, erano tutti ordigni della stessa natura. Erano gli esplosivi più pericolosi per l’uomo. E non erano dotati di micce, non scatenavano fiammate, fumo o radiazioni. Erano bombe emotive. Di quelle che lacerano prima l’animo e poi distruggono certezze e spesso i rapporti umani.
 
La prima esplosione avvenne la sera precedente alla fine dell’incontro organizzato da Haruka per Usagi e Mamoru.
L’aria della sera era insolitamente calda, come quella che si avverte prima dell’arrivo di un terremoto.
Le onde dei capelli blu di Michiru sembravano danzare al ritmo del soffio del vento. Lei rideva con un paio di ragazzi. Uno di quei suoni che una donna emette come un richiamo per far cadere in trappola il suo vero obbiettivo. Era una tacita scommessa tra lei ed Haruka quella. Chi sapeva divertirsi di più? Chi sarebbe uscita con più accompagnatori dallo speed date solo per dimostrarsi più abile nell’arte della conquista? Michiru non lo aveva fatto con l’intento di trovare un compagno, né tanto meno l’uomo di una notte. Aveva dispensato sorrisi e fatto la carina, ma sempre senza malizia. Aveva trasformato i due ragazzi alti e di bell’aspetto che l’accompagnarono fuori dal locale nei suoi più fidati complici e quando si era girata per l’insistenza dello sguardo di Haruka sulla propria schiena, le aveva fatto un cenno del capo. Uno di quelli soddisfatti che volevano dire “hai visto di cosa sono capace? So ancora come prendere all’amo qualcuno e mi diverto come una matta a farlo”.
E la bionda era caduta in trappola o semplicemente aveva deciso lei stessa di affondare i piedi in quella tela tessuta con tanta perizia per l’intera serata dall’altra.
«Hai vinto» le disse avvicinandosi con quel suo fare un po’ di superiorità e poco disposto ad ammettere una sconfitta. Ma in quel caso sembrava voler depositare sul serio le armi.
«Puoi ripetere, scusa? Non ti ho sentita bene» la pungolò Michiru, forse troppo piena d’orgoglio per quell’insulsa battaglia appena vinta.
«Non sono una che si ripete. Ma ho capito. Sai come far cadere la gente ai tuoi piedi. Sai spassartela».
Fulminò con lo sguardo i due bell’imbusti tutti tirati a lucido, intimandoli a portare i loro spiriti bollenti altrove. Lontano da quella sirena blu che incantava uomini e donne. Probabilmente sarebbe riuscita ad affondare un’intera flotta di marinai senza nemmeno impegnarsi troppo, ne convenne silenziosamente Haruka.
«Hai usato i trucchi da strizzacervelli o…».
«Ti pare che riveli i miei segreti a chiunque?».
Erano vicine. E le loro anime, forse per la prima volta dal loro incontro erano in sintonia. Se uno sconosciuto si fosse fermato a guardarle avrebbe sicuramente scorto quella scintilla che brilla in due persone innegabilmente attratte l’una dall’altra.
«Come credi sia andata la serata per Usagi?» virò la conversazione Michiru. Faceva sempre un passo indietro non appena sentiva il controllo scivolarle via dalle mani. Non poteva certo rischiare una volta in più dopo quel bacio che le aveva mollato prepotentemente sulle labbra senza che lei stessa lo avesse calcolato. Forse era quello uno dei suoi problemi più grandi. La sua mania del controllo. Il suo pianificare ogni dettaglio. Era stato così con il suo matrimonio, con la scelta della casa, con il giardino coltivato alla perfezione, con la ricerca dell’abito perfetto per ogni suo cliente. L’unica cosa inaspettata nella sua vita era stata Hotaru, ed era meravigliosa. Ma Michiru non riusciva a concepire ugualmente di uscire dai suoi schemi e che forse osando, lasciando andare il freno a mano, avrebbe trovato dietro l’angolo un’inaspettata felicità.
«Ha sicuramente lasciato il numero per dottor strange». Le rispose con le mani in tasca Haruka. Avrebbe voluto invitarla da qualche parte, o ancor meglio a casa sua. Ma sapeva che Michiru non le avrebbe dato soddisfazione, non quella sera per lo meno.
Avrebbe mai ceduto? L’unica certezza in possesso di Haruka era quella di trovarsi davanti, senza ombra di dubbio, una donna diversa dalle altre. Michiru non si sarebbe mai fatta comprare da un paio di calici di champagne o da uno dei suoi sorrisi conquistatori. Haruka con lei avrebbe dovuto davvero impegnarsi,  doveva usare l’artiglieria pesante; era una sfida e voleva vincerla a tutti i costi. Nonostante il tempo che ci sarebbe voluto.
 
«Michiru».
Stagliato nell’ombra di un lampione, come un incubo per Haruka, comparve Seya.
Da quanto era lì? E cosa diavolo voleva?
Persino Michiru sembrò in difficoltà nel vederlo muovere una serie di falcate in loro direzione.
«Che cosa stai combinando?» il tono da rimprovero e lo sguardo tra il deluso e l’indignato.
«Ti metti a partecipare a questo genere di cose?».
«Ho accompagnato Usagi. Mi sono assicurata che non si cacciasse in qualche guaio per colpa di un appuntamento al buio» sostenne lei senza dover calibrare le sue parole. Stava dicendo la verità in fine dei conti, aveva accompagnato l’amica e poi si era concessa un’innocua serata libera.
Haruka fissava il ragazzo come si guarda un insetto che ti sta dando il tormento e non hai idea di come farlo fuori prima che lui ti sfidi ronzandoti ancora una volta attorno.
«E Usagi aveva bisogno anche del tuo amico?» la incalzò lui ancora una volta.
Michiru non era solita alterarsi. Aveva imparato a mantenere un certo self control nel suo mestiere, ma Seya la stava pungolando con troppa insistenza.
Nemmeno lui era solito alzare la voce, ma aveva il fare deluso che per una vita suo padre le aveva riservato e questo la metteva in seria difficoltà.
«Perché non ti rilassi?» fu Haruka ad intervenire e venne prontamente fulminata dagli occhi celesti della sirena dai capelli blu.
«Sto parlando con te per caso?».
«Credo tu stia parlando di me, però». Lei sorrise beffandosi di lui e Michiru scorse l’irritazione nascere sul viso del marito.
«Seya, facciamola finita. Andiamo a casa» tentò di sedare gli animi la mediatrice prevedendo un finale dai toni troppo accesi.
«Ma Usagi non è ancora uscita». Puntualizzò il moro. Sembrò farle il verso e fu quel suo atteggiamento a mettere la moglie sulla difensiva. Michiru lo conosceva da una vita, ma quel suo lato non lo aveva mai visto prima. Era sempre stato rispettoso, un uomo di cui non ci si poteva lamentare se non fosse stato per il suo essere distante.
«Con chi hai lasciato Hotaru?» la preoccupazione nacque nel suo petto di madre ignorando la mancanza di fiducia nei suoi confronti.
«Ora te ne preoccupi? È tutta sera che chiede di te».
«Seya, dov’è Hotaru?» insistette Michiru con voce che nemmeno lei riconobbe. Pareva quasi un ringhio basso e soffocato.
«In macchina. Dorme».
«Allora andiamo» ripeté lei, questa volta con più decisione.
«Puoi accompagnare Usagi?» domandò ad Haruka prima di andarsene.
Michiru ebbe l’impressione che la bionda avesse chiuso le orecchie, troppo impegnata a fissare Seya in cagnesco.
«Haruka?».
«Ma certo Michiru» un sorriso luciferino sul suo volto e gli occhi sempre sul suo avversario. «Su di me puoi sempre contare».
Haruka aveva appena innescato il conto alla rovescia all’esplosione. Seya colpito nell’orgoglio di uomo non aveva intenzione di affondare senza combattere ed eccolo lì: l’istinto più basso.
Michiru poté giurare di aver avvertito una sorta di “crack” derivante dal controllo del marito quando lui contrattaccò senza usare le parole e afferrando il bavero della camicia immacolata della bionda.
«Che stai facendo Seya, smettila. Finiscila subito» lo intimò Michiru cedendo al panico. Non sapeva più per chi voleva sedare quella rissa. Se la preoccupazione era per il fatto che Haruka sapeva sicuramente come combattere e avrebbe messo al tappeto il moro, o perché l’artificiere era una donna ed era inaccettabile che lui pensasse anche solo di torcerla un capello.
Michiru lo strattonò dalla vita serrando le palpebre.
Haruka e la sua faccia da schiaffi non fecero che aumentare il crepitio di rabbia e gelosia che stava offuscando Seya. E lei lo colpì, un pugno ben assestato all’altezza della mascella.
Lui mollò la presa per il dolore. Barcollò all’indietro rischiando di far cadere Michiru che lo stava tirando con tutte le forze per trattenerlo.
Usagi uscì dal locale e si portò una mano alla bocca schiusa in una “o” di incredulità misto a panico alla scena che le si parò sotto agli occhi.
«Dai coglione, credi di riuscire a menarmi?». L’adrenalina faceva straparlare Haruka o forse era il suo essere attacca brighe che usciva allo scoperto. Gliele avrebbe date di santa ragione, non si sarebbe certo risparmiata. Piuttosto si sarebbe beccata una denuncia, ma lo avrebbe fatto scappare a gambe levate e metà dei problemi si sarebbero risolti con la dipartita dello psicologo da strapazzo.
Seya ripartì all’attacco. Non era un combattente, era un uomo accecato dalla gelosia che non trovando più appiglio nella ragione, se provocato, diveniva furente come un toro a cui si sventola sotto agli occhi bandiera rossa.
«FINITELA!» a niente servivano le grida di Michiru.
«Michi-sama» Usagi intimorita arrivò alle spalle dell’amica. «Seya è un uomo che…» non fece in tempo a finire la frase che nel suo campo visivo entrò Mamoru. Di corsa prontamente sedò la scazzottata mettendosi in mezzo ai due rivali. Rischiò di rompersi il setto nasale sotto il colpo di Seya indirizzato ad Haruka e agli occhi di Usagi risultò il cavalier senza macchia e senza paura accorso per salvare la donzella di turno.
«Vorrei essere io la principessa in pericolo» bofonchiò accecata dalla sua visione da commedia romantica della vita prima di tornare alla realtà dei fatti.
«Amico sparisci. Che ti salta in mente di mettere le mani addosso a una donna?». Seya strizzò gli occhi incredulo. Quel demonio biondo era una donna?
«Cristo, Bruce. Così mi screditi. Una femmina non può difendersi?». Haruka si scrollò di dosso il moro con un ultimo spintone e piccata fissò il collega.
«Non travisare le mie parole» rispose secco Mamoru mettendo almeno un metro tra i due e deciso a porre fine ad ogni polemica.
«Cazzo, Michiru. Sul serio?». Per la prima volta, Seya, aveva lo sguardo allucinato quanto quello di un pazzo, reduce da una mazzata dietro l’altra. Michiru stava sgretolando il suo orgoglio senza remore. Si sarebbe mai fermata? Lui sarebbe riuscito a racimolarne qualche pezzo o sarebbe andato tutto perduto per sempre?
«Con una donna?!».
«Oh cacchio è vero» commentò a bassa voce Usagi grattandosi la nuca.
Il cuore di Michiru prese a battere l’impazzata. Solo in quel momento ne aveva preso coscienza. Non che non lo avesse capito sin dal principio, perché non aveva mai dubitato che l’altra fosse una donna. Non si era mai soffermata su quell’aspetto perché l’aveva sempre e solo vista come una persona a prescindere dal genere.
Il proprietario del locale uscì domandando alla bionda se dovesse chiamare la polizia. Ma con un gesto Haruka lo rassicurò invitandolo a rientrare nel proprio bar.
«Brucia eh…» lo disse sottovoce, dando una spallata a Seya. Non riuscì a risparmiarselo.
«Ci vediamo al lavoro Hollywood».
 
Michiru, incapace di proferire parola, rimase immobile tra le macerie di quell’esplosione di cui solo loro erano i superstiti.
 
 
§§§
 
 
 
Il sole era sorto da poche ore e Haruka sollevava con le scarpe da corsa la polvere del Trancas Canyon. Si preannunciava una giornata torrida e le poche ore di sonno accumulate quella notte si facevano sentire.
Le onde del mare danzavano placide sotto di lei, accarezzando la costa rocciosa. Gli auricolari alle orecchie le trasmettevano le canzoni mandate in radio quella mattina a un volume troppo poco alto per coprire i rumori che la circondavano.
Haruka gettò un’occhiata distratta al numero dei battiti presenti sul display del proprio orologio.
Un scalpiccio alle sue spalle si faceva sempre più nitido sino a che non la raggiunse per poi affiancarla. Il fiato di un’altra persona al suo fianco. Con la coda dell’occhio riconobbe il profilo della punta di un piccolo naso all’insù.
Rei aveva le gote rosse e lo sguardo puntato in avanti.
Haruka non disse nulla continuando a correre. Non si erano più sentite dalla litigata tra loro e lei non si era premurata di cambiare l’itinerario per il proprio allenamento.
«Si preannuncia una di quelle tipiche giornate in cui prende fuoco ogni cosa. Fa troppo caldo…» commentò la mora in preda al fiatone, come se fosse una normale conversazione da affrontare, come se fosse tutto in ordine e niente fosse cambiato tra loro.
La bionda aumentò il passo, staccando l’altra di poco. Ma Rei era una combattiva e con uno spirito di competizione sempre acceso.
Non si lasciò sopraffare dalle gambe ormai provate da una lunga salita e riprese la sua posizione accanto all’altra.
«Ho fatto progressi. Ora riesco a raggiungerti» disse con una punta d’orgoglio. «Prima faticavo a starti dietro» constatò col fiato via via sempre più grosso.
Haruka sapeva di poterla seminare. Se avesse spinto un po’ di più avrebbe guadagnato terreno sufficiente per arrivare prima di lei di almeno cinque minuti con passo costante, ma ne sarebbe uscita distrutta. E quello più di un allenamento sarebbe risultato un’inutile tortura. Una volta poi arrivata alla meta, in cima alla scogliera, a ridosso del dirupo dove la strada finiva sarebbe anche dovuta tornare indietro. A meno che non si fosse buttata di sotto, ma quella non era certo un’opzione plausibile. Perciò rimase. Sempre in silenzio, ma questa volta spegnendo totalmente la musica di sottofondo.
«Non indovinerai mai chi ho sognato questa notte». Rei sapeva di star facendo un monologo e che la cosa forse non si sarebbe mai trasformata in una conversazione vera e propria, ma era l’unico modo di tentare per ricucire quel rapporto logorato da una stupida discussione. Conosceva Haruka e non avrebbe mai e poi mai fatto il primo passo. Per contro, la bionda conosceva a fondo Rei e sapeva che non era solita mollare. La tenacia era una cosa che segretamente le aveva sempre invidiato, ma alle volte, come in quel caso, poteva essere un’arma a doppio taglio. Sarebbe stata capace di non arrendersi e parlarle a vuoto per un mese se si fosse messa in testa quello come obiettivo.
«Frank» rivelò Rei. «Il camionista che ci ha fatte incontrare in Louisiana».
«So chi è». Haruka spezzò il silenzio in modo secco, ma diede modo a Rei di capire che la stava ascoltando.
Haruka era testarda, aveva uno spirito che s’incendiava con nulla, peccava di presunzione, ma per quanti potessero essere i suoi difetti aveva un pregio che li sotterrava tutti: era buona. E lei aveva compreso benissimo che l’amica stava compiendo uno sforzo enorme per chiederle scusa.
«Non ti domandi mai che fine abbia fatto? Se guida ancora il camion? Se passa ancora alla stessa tavola calda e magari pensa a te con quelle bretelle troppo lunghe e i pantaloni logori di tuo fratello?».
La bionda arricciò il naso. Una folata di vento sollevò un fastidioso polverone rossastro che rischiò di farla starnutire.
Prima che Rei lo nominasse, ad Haruka non era mai tornato alla mente Frank. Lo conservava in un cassetto della memoria e a sentirne il nome certamente la mente correva solo a lui. A quella montagna gentile che le aveva dato un passaggio portandola sulla strada per la vita che ora conduceva.
Lui le aveva dato le chiavi della libertà, eppure non gli aveva mai riservato un pensiero profondo. Non si era mai domandata dove fosse e cosa stesse facendo, semplicemente perché Haruka al passato guardava con cautela. Il Kansas, gli amish e la sua fuga erano come un vaso di Pandora. Occorrevano delle mani di velluto per aprirlo e guardarci dentro sino in fondo.
Chissà però se per lui era come diceva Rei. Se ogni tanto gli spuntava un sorriso pensando al loro incontro. Se mangiava ancora in quel posto triste e desolato.
Arrivarono al loro traguardo. Alla strada chiusa che terminava con il dirupo roccioso.
Il vento a quell’altezza soffiava forte e caldo come una tempesta nel deserto.
Haruka poggiò le mani sulle ginocchia recuperando fiato e Rei la imitò. Fu solo quando l’altra rialzò la zazzera bionda che l’amica la notò in viso per poi scorgere qualcosa d’insolito.
«Ma che hai fatto?» domandò con sguardo allarmato.
«Che?».
«Il labbro…».
Haruka fece spallucce. Il suo classico modus operandi per rispondere a domande scomode.
«Hai fatto a cazzotti o era un criminale con in mano una bomba che assolutamente dovevi evitare innescasse?».
«La prima che hai detto».
«Non ci credo…» Rei scosse la chioma nera raccolta nella lunga coda di cavallo. «Guarda che non ho i soldi per la cauzione se ti sbattono dentro».
«Perché…se li avessi verresti a tirarmi fuori?».
Rei portò le mani ai fianchi, inspirando ed espirando profondamente per riprendere fiato e prepararsi alla discesa.
«Che domande. Ma certo».
«Persino se io fossi dalla parte del torto?».
«Haruka». La mora le sorrise. «Tu lo sei praticamente sempre».
«Sarà per le cose amish che faccio» citò Dan sbuffando, per poi azzerare il cronometro.
«Questa volta però lo ero io».
Haruka fece fatica a comprendere le parole dell’altra.
«Sono io che ho sbagliato. Scusami…». Rei abbassò lo sguardo colpevole.
«Abbiamo passato di peggio, per strada» concluse l’altra.
Era un modo per dire che accettava le sue scuse, erano amiche come prima?
«Adesso muoviti. E parla meno. O te lo puoi scordare di starmi dietro e arrivare con i polmoni interi giù».
Haruka stirò le braccia per poi avviarsi verso la discesa. E Rei ne ebbe la certezza. Era di nuovo tutto al suo posto.
 
 
§§§
 
 
 
Dopo il boato emotivo di quella notte solo la desolazione. Ecco cos’aveva provato Michiru nel rientrare a casa. Aveva varcato la soglia con il peso di Hotaru addormentata addosso e le aveva rimboccato le coperte.
Datole il bacio della buona notte sulla fronte aveva aspettato qualche sospiro della piccola prima di allontanarsi, e spenta la luce della stanzetta, rimasta nella penombra della finestra con le imposte aperte, si erano affacciati i fantasmi.
Michiru aveva sentito il gelo addosso e si era stretta le braccia al petto frizionandole con i polpastrelli.
Solo vuoto attorno a lei. Quello che aveva percepito ad ogni rientro dalle spiagge Hawaiane con una madre sottomessa e un padre che manifestava la propria presenza solo col disappunto e una ferrea disciplina.
Una volta però c’era il pensiero di Seya a salvarla. A volte guardava oltre il vetro della camera il cielo trapuntato di stelle e dalla fitta vegetazione appariva lui; con la pelle abbronzata, i bermuda perennemente indosso e il sacchettino di conchiglie rare appeso in vita.
Le bastava averlo lì, vederlo sorridere e accomodarsi sul prato tagliato all’inglese come fosse un soffice piumone per sentirsi di nuovo serena ed essere grata per averlo nella propria vita. Lui rimaneva sino a che il sonno non la coglieva e non appena Morfeo le aveva sussurrato all’orecchio, lui tornava a casa nel cuore della notte, rientrando dalla finestra che Yaten teneva aperta. Ma in quell’oscurità, essere sotto allo stesso tetto dopo averlo visto infuocato dallo stesso sdegno del padre, per Michiru era tutt’altro che un sollievo.
Doveva cambiare la serratura? Rifilargli una seconda volta le carte del divorzio e accantonare ogni passo fatto verso una possibile riconciliazione?
Lei non aveva mai immaginato di fallire in quel matrimonio così tanto desiderato, ma allo stesso tempo non voleva essere un uccello in gabbia come sua madre. Non voleva un uomo che le tarpasse le ali, non voleva esser ridotta ad un’ombra sul muro o ad uno spettro vagante in una bella villa di Beverly Hills.
Suo padre avrebbe schioccato la lingua, scosso il capo per l’ennesima volta e le avrebbe fatto pesare il fatto di essere una donna tanto debole da farsi piegare da un mollusco, perché aveva sempre definito così Seya. Un uomo che si nascondeva dietro successi raggiunti grazie all’intelletto e probabilmente al denaro di una famiglia benestante, anziché prestare servizio per il proprio paese sotto alle armi.
Michiru rimase nella stanzetta della figlia dove gli astri fosforescenti brillavano sul soffitto, chiudendo fuori dalla porta il mostro per non affrontarlo; come un bambino che tira le coperte sin sopra al capo per nascondersi dall’uomo nero o dalla cosa cattiva che si nasconde sotto al letto.
 
 
§§§
 
 
«Mi ha fatto recapitare un biglietto con un coniglietto e a fianco un venticinque. Fammi capire, dunque. Mi hai organizzato un appuntamento con una ragazzina?!». Mamoru si sentì venir meno. Erano cinque anni di differenza che però in un rapporto potevano pesare come macigni. E nella sua mente era scattata un’ignobile scenetta di Bunny che lo chiamava Mamo-sempai in divisa da marinaretta e domandava con tono languido aiuto per i compiti a casa.
Il moro, che aveva una certa integrità da mantenere, scosse il capo per scacciare quel pensiero perverso dalla testa e ritrovare la lucidità che richiedeva il suo lavoro.
«Guarda che vuol dire è maggiorenne, non ti arresta nessuno, tranquillo» commentò distrattamente Haruka intenta a controllare che la propria ricetrasmittente funzionasse per poi sistemarsi al meglio l’auricolare nell’orecchio destro.
«Haruka, io non so se…».
Lei lo fermò prima ancora potesse continuare la frase, aveva tolleranza zero per i drammi inutili e inesistenti come quelli. «Senti, sei stato bene? Ti piace? Ci faresti una gita per sessolandia? Che te ne importa. Ci sono problemi più grossi nella vita».
«Sì, come io che metto a rischio il mio setto nasale perché tu fai a botte con gli uomini sposati».
«È una predica per caso? Perché non ti ho chiesto io d’intervenire». Lei lo fulminò con lo sguardo azzurro e il labbro ammaccato dalla zuffa della sera precedente.
«Ten’ō da quando fai la sfascia famiglie?». Setsuna, visibilmente accigliata per quanto aveva udito, s’intromise in quella conversazione. Senza invito anche lei, esattamente come aveva fatto Seya prima del sorgere del sole.
Haruka sospirò pesantemente, cercando di mantenere un basso profilo trattandosi sempre del suo superiore. «Capo, da quando s’intromette nelle vite altrui?!».
«Da quando metti in mezzo i miei agenti nelle tue scorribande» commentò diretta la donna.
«Le piace proprio Bruce» borbottò con tono canzonatorio la bionda sotto lo sguardo confuso di Mamoru. Lui navigava nelle acque dell’ignoranza come ogni uomo, forse con dei sottotitoli alla propria vita avrebbe avuto una vaga idea della situazione in cui era immerso, ma probabilmente persino con quelli avrebbe avuto difficoltà a comprendere che il capo delle operazioni aveva visibilmente un debole per lui. E dopo quella costatazione Haruka si sistemò in posizione. Dietro all’auto della polizia pronta ad intervenire in caso di necessità.
Contò i secondi al suo arrivo. Sentiva solo l’inesorabile attesa scorrere e ogni altro trambusto derivante da quella situazione divenne un flebile ed ovattato suono di sottofondo.
Eccola, l’apparizione. Dovette contare soltanto fino a venticinque e Michiru si fece largo tra la marmaglia di agenti che contornavano la macchina di Setsuna.
Le sue dita affusolate s’incastrarono tra la chioma cerulea imprigionando le lunghe ciocche in uno chignon improvvisato. Una maglietta bianca extralarge indosso e un paio di jeans macchiati di tempera. Doveva essere scappata di casa non appena aveva ricevuto la telefonata di rito per intervenire sul posto. Ed era ancor più bella così di quando si agghindava di tutto punto per un appuntamento. Non che ne avessero avuto uno vero e proprio loro due, ma Haruka ne aveva la certezza. Si rese conto di essere imbambolata nel momento in cui di Michiru vide solo il labiale senza udirne le parole e si risvegliò bruscamente da quello stato di trans, come quando ci s’immagina di cadere, vedendo spuntare il viso tirato di Seya.
«Cristo» soffocò sul nascere quello che le stava scappando di bocca grazie alla mano sulla spalla di Mamoru che la intimò a tacere, o quanto meno a starsene buona senza fare ulteriori danni.
 
«Ok, Sets. Resoconto della situazione». Michiru era telegrafica ed estremamente seria. Haruka la notò irrigidita quasi le stessero puntando tra le scapole la canna di un fucile. Era tesa come non l’aveva mai vista e la sua bellezza d’improvviso pareva di granito.
«Un insegnante ha chiamato il 911 che ci hanno girato le informazioni del caso. Qualcuno, uno studente pare, è entrato armato a scuola. La donna ha sentito degli spari ed è riuscita a barricarsi in biblioteca con la sua classe. Degli altri non sappiamo nulla» riassunse Setsuna tutto d’un fiato.
«Quante le vittime?».
«Una accertata».
«Possibile non si sappia altro?». Michiru parve sul punto di cedere. Haruka non l’aveva mai vista fragile come in quel momento, da granito era divenuta di cristallo all’improvviso.
«Michiru ho bisogno di te» sussurrò Setsuna con un filo di voce. «Te la senti?».
«Si» rispose lei socchiudendo gli occhi per un momento e mettendosi la cuffietta. «Si, scusami. Ce la faccio. Ok». Inspirò ed espirò. Alla ricerca di ogni singolo briciolo di calma racimolabile per la situazione. «Abbiamo il cellulare dello studente?».
Setsuna rispose col capo in segno di diniego.
«Chiamiamo il telefono della scuola. E speriamo sia lui a rispondere».
La donna fece partire la chiamata. Il trillo di un telefono rimbombò per i corridoi apparentemente vuoti dell’istituto.
«Perché devono succedere queste cose…» sussurrò Michiru tra sé e sé e Seya la udì. «Se non ce la fai devi solo dirlo» disse sottovoce come fosse un segreto tra loro quello appena soffiato al suo orecchio. Lei lo guardò torva, decisa a non mollare.
Un altro trillo, ma solo fantasmi all’altro capo.
«Meiō». Seya la fissò eloquentemente. Sapeva che la moglie era reduce da un’esperienza non ancora superata del tutto. Quella pressione avrebbe potuto spezzarla irrimediabilmente. Lui vedeva ogni giorno le menti altrui incrinarsi sotto il peso gravoso degli eventi terribili ai quali assistevano.
Haruka non riuscì più a trattenersi. Fece scattare a vuoto il grilletto come un’eloquente risposta alle parole del giovane e lui, per tutta risposta, la fissò come la peggior infezione al mondo da debellare.
«Andiamo…» sibilò Michiru ignorando gli sguardi di fuoco dei due pretendenti.
Un altro squillo.
Un alito di vento caldo.
«Ha una spalla, puoi star sereno» commentò la bionda.
Se solo si fossero trovati su una strada polverosa vestiti in pieno stile cowboy sarebbero risultati i perfetti interpreti di un film western.
Michiru perse la concentrazione nel sentire la voce della bionda che tirava a segno le proprie frecciate e nel frattempo un passo cauto e silenzioso, si avvicinò alla cornetta sulla scrivania del preside.
«Non permetterti di parlare quando non sai cosa è meglio o no per lei».
«Parlo finché mi pare» controbatté Haruka imbracciando il fucile di precisione, quasi volesse minacciarlo con quello.
«Pronto?!» Michiru interruppe il battibecco dei due con un gesto della mano. «Zitti, state zitti tutti e due».
Dall’altra parte della cornetta un respiro pesante.
«Pronto, ci sei? Mi chiamo Michiru Kaiō».
L’intera unità si zittì. Setsuna indagò con lo sguardo in quello di Michiru. Chi aveva risposto al telefono? Lo studente armato o qualcun altro?
«È qui…» disse piano la voce. «È qui vicino».
«Dove? Quanto è vicino?».
«I bagni. Credo. Credo sia nei bagni di fronte. Non chiamare più o mi sentirà».
«C’è una finestra?» chiese Michiru frettolosamente, col terrore che la ragazza potesse attaccare prima di trovare una via di fuga.
«Si, certo che c’è».
«Ok, sposta la cosa più pesante che trovi nella stanza contro la porta e poi esci dalla finestra».
«Ma è il terzo piano e poi…».
«Fidati di me. Ti faccio venire a prendere».
«Okay» la linea cadde.
Michiru strinse i denti passandosi il dorso della mano sulla fronte.
«Era una studentessa. Chiama un cecchino, un agente, chiunque. Fallo andare dalla finestra ne facciamo uscire una». Sembrava una mitragliatrice. D’un tratto Michiru aveva perso il suo essere posata e il tono pacato con cui parlava normalmente. Sapeva di avere i minuti contati. Era conscia che ogni secondo decretava la vita o la morte di qualcuno in quelle situazioni e Setsuna ne seguiva ogni istruzione, ogni singola richiesta.
«La mappa. Serve la mappa dell’edificio, Sets».
La donna non se lo fece ripetere due volte e srotolò la pianta dell’istituto scolastico.
«Terzo piano. Davanti all’aula del preside dovrebbero esserci dei bagni. È lì che si trova ora».
«Avviso i cecchini». Setsuna gracchiò qualcosa alla radiolina ricevendo la risposta del tiratore appostato sul tetto di fronte.
Due spari. Uno dietro l’altro arrivarono alle loro orecchie dall’interno dell’ edificio. Nessun altro rumore. Né urla, né lamenti.
Poteva voler solo gettare il panico, poteva voler annunciare di essere vicino alla prossima vittima, poteva esserci stata una colluttazione o peggio. C’erano troppe possibilità e poco tempo a disposizione per evitare una carneficina.
«Che altro Michiru?» la incalzò la più grande vedendola puntare lo sguardo sull’ingresso.
Lei si liberò del superfluo. Caricò la propria pistola sotto alla maglia, nascosta nel retro dei pantaloni. «Entro».
«Non se ne parla» disse risoluto Seya prendendola per un braccio.
«Non abbiamo contatti all’interno. Entro» ribadì Michiru sostenendone lo sguardo e liberandosi dalla sua presa.
«Non credo sia una buona idea…» cercò di dissuaderla Setsuna. «Deve esserci un’altra soluzione».
«Non c’è Setsuna. Possiamo chiamare fino a che vogliamo, non risponderà nessuno e arriveremo troppo tardi. Il cecchino potrebbe metterci troppo a centrare l’obbiettivo e forse nemmeno riuscirci. Quindi…Entro. Parlerà con me. Te lo porto fuori».
«È troppo rischioso» commentò Seya giocandosi il carico da dieci. Voleva far leva sul fatto che aveva una famiglia e che se qualcosa fosse andato storto Hotaru avrebbe perso la madre.
 
Il sole picchiava sulla carrozzeria dell’auto rendendola quasi incandescente, ma in quel momento che bruciava non c’erano solo le lamiere. Erano gli animi a starsi infuocando.
«Lo è ogni volta» rispose Michiru troncando la conversazione. Non era stupida, conosceva bene i rischi del mestiere e li aveva accettati di buon grado poiché lei era dalla parte dei buoni, del bene. E per salvare le persone occorreva sacrificio e qualcuno disposto ad immolarsi per la causa.
«Entro con lei» era Haruka ad avere parlato questa volta. Sapeva che Seya doveva rammendare le menti di chi capitava in mezzo a quei disastri e non aveva le competenze per fermare un pazzo armato. Lei invece sì e come gli aveva ribadito più di una volta era la spalla di cui parlava.
«Visto? Entra con me. Siamo a posto?» con quelle parole Michiru cercò approvazione nel viso di Setsuna che si ritrovò a sospirare.
Le fisso entrambe con aria severa. «Permesso accordato. Ah, Ten’ō…».
«Che c’è?».
«Niente colpi di testa questa volta».
 
 
 
§§§
 
 
 
Rei e la squadra di pompieri erano arrivati sul posto montando perentoriamente il cuscino da salto penumatico per agevolare la fuga della studentessa dal terzo piano.
La presenza di una mole sostanziosa di forze dell’ordine concentrata in un solo punto e le transenne avevano come da manuale attirato frotte di giornalisti e curiosi sul posto che sgomitavano per essere i primi a sapere qualcosa in più di ciò che stava accadendo.
 
Da quando Michiru e Haruka avevano salito i gradini di pietra e avevano varcato la soglia della scuola tra i presenti aleggiava una tensione pesante.
Seya se l’era presa con Setsuna, dichiarandola incapace di disciplinare le decisioni prese dai suoi sottoposti e accusandola di farsi mettere i piedi in testa da un artificiere allo sbando. Lei, che aveva combattuto per i suoi diritti e la propria posizione nel suo paese natio, lo aveva zittito senza lasciarsi intimorire dalla voce grossa, per poi intimarlo ad andare a compiere il proprio dovere altrove.
Nessun uomo l’avrebbe schiacciata, non un superiore, non suo padre e tantomeno un marito isterico.
 
«Alla fine sei riuscita a indispettirlo anche questa volta» disse Michiru con la bionda a coprirle le spalle una volta entrate nell’edificio all’apparenza deserto.
Il corridoio era vuoto. Privo di presenza umana. Una marea di volantini erano a far compagnia ad alcuni libri di testo sul pavimento.
«Non ho idea di cosa tu stia dicendo…» commentò Haruka puntando lo sguardo nel mirino del fucile.
«Parlo di Seya e lo sai bene». Michiru compì qualche passo con le mani alzate come se si trovasse d’innanzi ad un plotone.
«Io sto facendo solo il mio dovere, è lui che è di troppo».
Michiru si girò a guardarla con uno sguardo più eloquente delle parole.
«Oltre all’artificiere sono una tiratrice scelta. Sono come quella russa, la Galina Slequalcosa».
«Slesareva» la corresse lei.
«Non so come tu abbia superato i test».
«Non mi ritieni abbastanza colta per ricoprire un ruolo del genere?».
«No, parlo del tuo autocontrollo inesistente» scoccò quella verità fuori dalle labbra senza troppi complimenti. Esattamente come avrebbe fatto Haruka al suo posto.
«Non mi pare che lo strizzacervelli là fuori ne abbia più di me. E forse tra i due sarebbe più opportuno ne avesse lui piuttosto che la sottoscritta».
«Touché» commentò Michiru tirando un piccolo sorriso. Avanzò lentamente, quasi camminasse su un campo minato.
«Ero bravissima nel camuffamento…ho imparato alla fattoria». Haruka ricordò come staccava grandi quantità di spighe nel Kansas e se le sistemava addosso per mimetizzarsi meglio nel campo, tentando di catturare qualche animaletto selvatico o di quanto fosse abile a nascondersi per sfuggire alle lezioni della piccola scuola della comunità.
«E cosa mi dici del tiro. Sai mirare, almeno?». Indagò Michiru con un filo di voce.
«Così mi offendi».
«Credo tu debba posarlo».
«Credo che la tua sia una delle idee più stupide sul pianeta terra, Hollywood. Siamo dentro ad una scuola con un esaltato che spara a destra e a manca e tu vuoi offrirgli un fucile da tiro pieno zeppo di colpi? Ottimo, Sherlock».
«Se ce lo troviamo davanti. Cosa che mi auguro perché voglio parlarci e portarlo fuori di qui, di sicuro riesce a piantarmi una pallottola da qualche parte perché tu lo spaventerai. Mentre dobbiamo tenerlo tranquillo, è quello l’obbiettivo. Altrimenti avrei la pistola in bella vista anziché a grattarmi la schiena non credi?».
Haruka roteò gli occhi al cielo. Le dinamiche del mediatore lei proprio non le concepiva.
Ricordò il corso di addestramento. Lo strisciare per quattro ore con addosso gli otto chili di fucile, il camuffarsi per riuscire ad avvicinarsi meglio all’obbiettivo, il non farsi scoprire dagli osservatori e i tanti test che volevano prepararli al fatto che per ogni target colpito vedi anche un uomo cadere per mano tua.
Haruka fino a quel momento non aveva mai dovuto farlo. Non era mai stata un carnefice dietro ad un mirino con licenza di uccidere, ma piuttosto era l’eroina che disinnescava bombe ed impediva le tragedie. Se lo avesse avuto a tiro, avrebbe premuto il grilletto? Sarebbe riuscita a farlo? Avrebbe ancora dormito? Perché Michiru aveva perso il sonno e per un certo periodo anche il senno per non essere riuscita a salvare qualcuno, ma ad Haruka, se avesse ucciso consapevolmente, cosa sarebbe accaduto?
«Un rumore. C’è qualcuno in quella classe» disse quasi impercettibilmente Michiru facendole un cenno con la testa.
La bionda deglutì, Michiru abbassò la maniglia della porta e la lasciò entrare per prima con il fucile spianato. Ci furono una serie di sussulti e qualche gridolino soffocato.
Nella stanza una serie di studenti e un paio di insegnanti si erano nascosti sotto ai banchi e dietro le ante di alcuni armadietti.
«Tutto okay, tranquilli» disse Haruka abbassando l’arma, segretamente contenta di non essersi trovata dinnanzi all’aggressore.
«Devi portarli fuori» la intimò Michiru. «Dobbiamo farne uscire il più possibile».
«No. Chiediamo a Setsuna rinforzi. Li scorterà fuori qualche agente».
«No, ci sarà troppo trambusto. Se ne accorgerà e andrà fuori di testa».
«È già fuori di testa quello!» ribatté la bionda decisa a non darle retta.
Michiru diede un’occhiata al corridoio e poi guardò il gruppo di ragazzini terrorizzati sul pavimento.
«Mi dispiace, devo giocarmi la carta del mediatore. In questo caso sono superiore di grado a te. Dico che devi portarli fuori tutti o avrai un bel po’ di problemi. Non si discute».
Haruka scosse il capo incredula. I giochi di potere li detestava e sapeva che poteva aggirarli una volta, forse due e farla franca, ma la corda a furia di tirarla si sarebbe spezzata e non ne sarebbe uscita bene.
«D’accordo» schioccò la lingua, raggruppando i superstiti per poterli portare in salvo.
Michiru informò a Setsuna di non fare fuoco perché sarebbero usciti i civili accompagnati da Haruka.
«Questa me la paghi» sottolineò la bionda ritornando nel corridoio.
«Mai avuto debiti con nessuno».
«Allora a dopo e…Hollywood».
«Che c’è?».
C’era un passo tra di loro. E entrambe dovevano prendere direzioni opposte.
«Stai attenta».
Michiru asserì col capo, decise di non guardarla ulteriormente o sarebbe uscita con lei dalla porta alle sue spalle. Sorrise, prima di voltarsi e Haruka ebbe paura di vedere per l’ultima volta quell’incurvatura sul viso dell’angelo più bello visto sulle spiagge di Malibù.
 
 
§§§
 
 
Nell’ambulatorio di riabilitazione Dan era intento a rincorrere la piena forma fisica. Un fisioterapista lo incitava a muovere un passo dopo l’altro come si fa con i bambini non appena decidono che il momento di gattonare è terminato. E lui si sentiva stupido, tremendamente stupido, con le mani appoggiate alle due sbarre di ferro e a sudare per camminare.
L’unica sua consolazione era l’assenza dell’amica nella stanza o avrebbe dovuto reggere anche alle sue prese in giro.
«Te lo faccio vedere io testa bionda…» digrignò i denti, a testa bassa, con un’andatura incurvata e non del tutto naturale. Vedeva le scarpe dell’idiota che sembrava far la cheerleader per lui. Era vicino, bastavano tre passi che sarebbero sembrati tre chilometri. Ma le vedeva.
«Dai Dan. Forza. Manca poco. Ci sei quasi».
«Vorrei ci fosse una bella donna al tuo posto, ma farò lo sforzo» disse sentendo la fatica attanagliarlo.
Il fisioterapista rise di gusto alla battuta e Dan pensò che doveva darsi una mossa perché presto ci sarebbe stata qualche bomba da disinnescare e lui sapeva farlo bene.
«Nessuno si prenderà il mio posto».
Ancora un passo e la televisione col sottofondo quasi azzerato sarebbe stata esattamente sopra alla sua testa.
Lo schermo trasmetteva una serie di immagini registrate da un elicottero. Un campo delle forze dell’ordine tirato in piedi da alcuni militari di fronte ad una scuola.
«Mi mettono sempre i brividi queste cose…» commentò il ragazzo perdendo per un momento di vista il proprio paziente.
«Chi? Quelli che devono ricominciare a camminare?» chiese ingenuamente Dan, decidendo di pensare a un premio per tutta quella fatica. Magari una scatola di Donuts direttamente recapitati da Haruka.
«No, le sparatorie nelle scuole…» lo ragguagliò l’altro per poi farsi battere il cinque da Dan una volta raggiunto il traguardo.
«Ok, ora siediti. Ottimo lavoro».
Dan mugugnò qualcosa e sfinito si mise sulla panca puntando gli occhi sullo schermo. Una giornalista stava descrivendo l’accaduto e alle sue spalle comparve la testa bionda più famigliare a lui sul pianeta terra.
«Il telecomando. Alza!» ordinò con foga.
«Ecco, come potete vedere un’agente della SWAT ha appena portato in salvo un gruppo di docenti e studenti che potranno riabbracciare le proprie famiglie. All’interno della scuola si trova però ancora l’aggressore di cui non si conosce ancora l’identità e il mediatore che…».
«Oh no. No». Dan come in preda a un lampo di consapevolezza scosse il capo alzandosi in posizione eretta senza badare alla fatica che fino ad un istante prima lo aveva quasi messo k.o.
«No, Kansas. Stupida idiota, stai buona…».
Sullo schermo Haruka, poggiato il fucile sulle scale, aveva contato le persone che l’avevano seguita all’esterno e poi era sparita dall’obbiettivo della telecamera rientrando dal portone.
 
Dan la conosceva come le sue tasche e se avesse potuto far arrabbiare qualcuno non si sarebbe di certo risparmiata.
 
 
 
§§§
 
 
 
Michiru ebbe un sussulto quando la campanella suonò rimbombando nel bel mezzo dei corridoi. Si catapultò spalle al muro e dovette respirare a fondo per calmarsi.
Sentiva un caldo micidiale, ma non era per la temperatura quanto per la tensione del momento.
Svoltò l’angolo, era al secondo piano e informò della sua posizione la pattuglia esterna.
 
Setsuna cercava di contenere la folla di giornalisti impazzita e fece interrogare le persone portate in salvo da Haruka per avere un identikit del loro bersaglio.
«Dove diavolo è andata a finire Ten’ō?!» urlò innervosita la donna alla ricerca della zazzera bionda tra i vari agenti.
Ray scrollò le spalle e i due ragazzetti continuarono imperterriti a controllare l’attrezzatura di tutto il corpo della SWAT.
«Perché ci sono gli artificieri? Lo studente potrebbe essere in possesso di esplosivi? Ci sono stati altri spari? A quanto ammonta il numero delle vittime?». Tutte quelle domande incessanti e i flash delle macchine fotografiche stavano letteralmente aggredendo il capo delle operazioni.
«Signori, credo dobbiate lasciar stare l’agente Meiō è qui per fare il suo lavoro e non per rilasciare interviste». Mamoru liquidò la stampa con quelle poche parole poggiando una mano sulla schiena della donna per portarla più lontano dalla calca smaniosa di notizie.
«Penso sarò io a saltare in aria» disse sospirando pesantemente come se dovesse ricominciare a respirare dopo una lunga pausa. «Ho bisogno di sapere ogni agente dove diavolo si trova e ovviamente all’appello manca quel cavallo pazzo di Ten’ō».
Il ragazzo ascoltò quello sfogo, la invitò a prendere un altro profondo respiro e sondò con lo sguardo chiaro i dintorni.
«Io non l’ho vista. E di sicuro non è al tendone con Kou che sta facendo il suo lavoro».
«Kou» Setsuna pronunciò il nome con fare scocciato. «Mi mancava solo lui col fiato sul collo oggi. Si può sapere che diavolo succede? Sembrano tutti impazziti».
«Vuoi la storia breve?» Mamoru si lasciò scappare una risata. «Ten’ō ha più che un debole per la nostra mediatrice e fa saltare i nervi al marito ogni volta che ne ha l’occasione».
«Oddio, è con lui che ha fatto a botte quindi. Dannazione…».
«Non preoccuparti di questo ora. Se la sbrigheranno loro. Stai facendo un ottimo lavoro, capo».
Setsuna fu rincuorata da quelle parole. Da dove saltava fuori un uomo del genere? Sicuramente doveva essere già sposato o impegnato, una perla rara così bisognava accaparrarsela immediatamente.
Dovette mordersi la lingua per non sbiascicare un “sei perfetto” che sarebbe certamente risultato poco professionale. Di gente che faceva cose fuori luogo c’è n’era già a sufficiente nei dintorni.
«È arrivato l’identikit» mormorò Mamoru passandole un foglio con un ritratto fatto a matita, seguito da una dettagliata descrizione sul retro.
«Dobbiamo informare Michiru».
 
 
«Tutto ok, Michi. Tutto bene…è solo la campanella». Dovette contare fino a tre e poi respirare. Sbatté le palpebre e riprese la sua camminata per il corridoio.
Passò l’aula di musica, una manciata di spartiti era a terra e altri erano sparpagliati sulla cattedra.
Un flauto e un violino erano stati abbandonati a loro stessi e in ogni stanza sembrava che il tempo si fosse fermato d’improvviso come quando si scappa dalle guerre.
Un’altra serie di passi e poi lo vide. Una figura stesa a terra supina in una pozza di sangue.
Michiru abbandonò la calma per correre verso il corpo del giovane studente.
«Ehi, ehi, puoi sentirmi?!». Lo scosse per le spalle e gli portò le dita sul collo per sentirne il battito.
«Oh no. No…». Si portò le mani al viso. Situazioni come quella non erano assolutamente nuove, troppe volte il notiziario mandava in onda servizi del genere, ma Michiru non poteva concepire in ogni caso che cose come quelle potessero accadere.
Si rialzò da terra, con i jeans macchiati di rosso oltre che di tempera e cercò di recuperare se stessa prima di cadere vittima dei suoi tormenti non ancora debellati.
«Michiru». La voce di Setsuna nell’auricolare. «Michiru ci sei?»
«Setsuna». Voglio uscire. «Sets sono qui. Ci sono». Fatemi uscire di qui.
«Ascolta Michiru…».
«C’è un ragazzo Sets. Uno studente. Avrà quattordici anni…» Michiru prese a parlare e guardò la posizione del corpo del ragazzo. Era stato preso di spalle. Sicuramente stava scappando e il suo omicida era dalla parte opposta al corridoio, dietro di lui, diretto al terzo piano.
«È morto».
Silenzio dall’altra parte, ma Michiru sapeva che l’altra la stava ascoltando.
«Come si fa a morire a quattordici anni?».
«Michiru è terribile. Stai bene?».
Michiru soffocò un singhiozzo. C’erano due anime che combattevano in lei. Una provata, allo stremo e che voleva fuggire. L’altra devota alla giustizia, al dovere, convinta, che voleva a tutti costi prendere il colpevole.
«Sappiamo chi è. Una delle insegnanti che hai salvato con Haruka lo ha riconosciuto».
Sentiva il cuore esploderle nel petto. Dovette ritirarsi dal corridoio per un momento ed entrare nell’aula di chimica per riprendere fiato o non avrebbe fatto un passo in più.
Si asciugò le lacrime che senza permesso le avevano rigato il volto e qualcosa attirò la sua attenzione. Nella vetrina di fronte a lei dove erano sistemati alcuni fornelletti e vetrini da laboratorio, si specchiavano due figure. Erano due ragazze con le mani si tappavano la bocca per non emettere un solo fiato.
«Ce ne sono altre due. Ne ho trovate due. Vive!» fu in quell’ultima parola che Michiru trovò la forza di non abbandonare la sua missione.
Si fiondò dalle due studentesse, diede una carezza loro sul capo e mostrò loro il distintivo.
«Dovete far venire qualcuno a prenderle, secondo piano. Aula di chimica, dopo quella di musica».
«Ok».
«Ragazze, vi chiudo qui dentro. Ci sono io fuori dalla porta. Non entrerà nessuno. Vi vengono a prendere tra qualche minuto. È tutto finito, va bene?».
Le due annuirono e Michiru richiuse la porta alle sue spalle. Corse nella stanza di fronte con la porta spalancata, frugò negli astucci e negli zainetti fino a trovare un tubetto di tempere. Segnò la porta con una “X” per la squadra di soccorso e senza guardarsi indietro procedette.
«Dimmi di lui» disse sottovoce.
«Adam Popov».
«Qualcosa mi dice che è russo».
«Non sbagli».
Michiru salì le scale di soppiatto arrivando al terzo piano. Si guardò attorno, valutando che l’edificio sembrava un vero e proprio labirinto.
«Abbiamo contattato la madre. Ma dice di non aver notato nulla di strano…».
«Mi serve qualcosa in più».
«Indossa un’uniforme mimetica. Da militare».
Una serie di spari rimbombò come una marcia funebre. Dei passi concitati seguirono al suono del piombo e delle urla.
Michiru cominciò a correre in direzione della scarica. Era all’inferno e ci era scesa da sola di spontanea volontà. La razionalità venne meno, voleva solo fermare tutto. E allora urlò quel nome con quanto fiato aveva in corpo.
Non sapeva a chi stava correndo incontro, fino a che qualcosa fermò la sua corsa, facendola rovinare a terra. Michiru era appena inciampata nella gamba di qualcuno. Si mise a sedere sul pavimento, con l’adrenalina nelle vene che pompava e le ordinava “in piedi” esattamente come facevano al suo addestramento in mezzo al fango.
Udì un flebile “aiuto” dall’ostacolo umano in cui era appena inciampata.
Strisciò, gli occhi puntati ancora verso la meta che si era prefissata di raggiungere e si avvicinò al viso della studentessa.
«Come ti chiami?».
«Kate».
«Ok, Kate. Fammi dare un’occhiata…». Michiru voleva piangere, ma si trattenne. E se una cosa del genere fosse successa alla scuola della figlia? Perché quella con cui stava parlando era la figlia di qualcun altro e lei aveva il dovere di tenerla al sicuro e di non abbandonarla.
«Mi chiamo Michiru…dove senti male?».
«Lì…» indicò un punto imprecisato della schiena.
«Scusami, ti ho fatto male?».
«Perché? Correvi come un demonio ma non ho sentito niente io. Ho troppo male lì…».
Le gambe, non sente più le gambe.
Sorrise. Il sorriso di chi mente ma è giustificato a non dire nulla di quanto è vero.
«Hai ragione. Non ho rispettato il limite di velocità» si sforzò di fare una battuta.
«Ora chiamo qualcuno e finirà tutto, va bene?».
Kate annuì. Sembrava tranquilla di aver finalmente qualcuno con lei.
Michiru si alzò da terra e cercò nella classe una cassetta del pronto soccorso. Sapeva solo di dover fermare l’emorragia.
Trovato ciò che le serviva alzò la maglia alla ragazza e premette con delle garze.
«Se arriva usiamo il trucco più vecchio del mondo e ti fingi morta, ok?». La voce le tremò nel dire quelle parole e la ragazza annuì.
Michiru sentì dei passi avvicinarsi, scattò in piedi come dovesse mettersi sull’attenti e alzò le braccia in alto.
Un ragazzo alto, dai corti capelli platino in tuta mimetica imbracciava un’ Ak47 verso di lei.
«Tu devi essere Adam…».
Michiru ne studiò l’espressione, non aveva le pupille dilatate di chi è esaltato ma piuttosto pareva quasi catatonico.
Lui rimase in silenzio e la fissò a sua volta. La stava studiando e forse, pensò Michiru, stava meditando se spararle a brucia pelo o ucciderla in modo differente.
«Come hai avuto quello?» gli domandò senza abbassare le braccia e attenta a non fare movimenti bruschi.
«Non stai piangendo» rispose lui indispettito.
«No, Adam».
«E non stai nemmeno gridando. O implorando…».
Michiru avrebbe voluto farlo. Avrebbe voluto urlare. Aveva paura, non tanto per se stessa quanto per come sarebbe finita quella storia, ma mai e poi mai glielo avrebbe fatto capire.
«Ti piace quando lo fanno?» domandò lei inclinando appena la testa di lato. «È per questo che lo stai facendo? Vuoi sentire di avere il potere? È la tua vendetta contro qualcuno? O insegui un ideale?». Troppe domande. Ma Michiru come poteva entrare nella testa di una persona del genere? Non era qualcuno da salvare, si trattava della persona da cui salvare se stessi.
Adam non sembrò preso da quella conversazione, tutt’altro, era quasi annoiato. Strizzò un occhio, puntando la canna del kalashnikov verso di lei e l’altra pupilla dritta nel mirino.
 
«Lo abbiamo, obbiettivo individuato. Mediatore sulla traiettoria, passo».
Setsuna rimase col pollice sul pulsante della ricetrasmittente.
«Sta puntando l’arma. Ripeto, mediatore sulla traiettoria. Obbiettivo individuato. Procedo? Passo».
Haruka saltò gli ultimi due gradini della rampa che conduceva al terzo piano. Percorse a perdifiato il corridoio e lo vide nello stesso momento in cui il ragazzo vide lei.
 
Un unico sparo riecheggiò fin dentro alla sua cassa toracica.







Note dell'autrice: Eccomi qua, col capitolo del mese. Lo so, lo so, questo è tutt'altro che romantico e di Usagi, Makoto e Minako non c'è nemmeno l'ombra. Per questo motivo non ho voluto pubblicare ieri, a S. Valentino. Vi rassicuro subito dicendovi che il nuovo capitolo è già in fase di scrittura e che non sarà assolutamente di questo tipo. Niente lavoro per Haruka e Michiru. Solo problemi di cuore per tutti quanti. Chi mi segue da tempo e ha letto la saga di Stockholm Syndrome sa bene che oltre ai sentimenti ho sempre la propensione a scrivere storie dal contenuto un pò (non so bene se è corretto) thriller/spionaggio/suspance e penso che questo capitolo ne sia stato il vero esempio. Non era stato studiato a tavolino, è uscito da solo e ve l'ho presentato così com'è, un pò crudo. So che è una storia d'amore, ma il contesto, i lavori dei nostri protagonisti convergono per la maggior parte in questo tipo di situazioni perciò era inevitabile che non saltasse fuori un capitolo del genere. Mi auguro che nessuno ne sia uscito turbato e per il prossimo preparate l'assetto da commedia romantica! 
   
 
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