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Autore: _Frame_    17/02/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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190. Resa e Presagio

 

 

Copiosi rivoli di sangue sgorgarono dal lacero aperto attraverso la gola di Russia, inondarono le manine che il piccolo teneva aggrappate al collo, sopra il bavero della giacca pesante già completamente inzuppata, e piovvero sul tappeto di neve, trasformando i cristalli sciolti in larghi fiori scarlatti che fumarono a contatto con l’aria ghiacciata. Russia strinse le manine sovrapposte alla ferita. Le dita viscide e calde scivolarono fino al centro del lacero, il tocco affondò nella consistenza morbida e cedevole della pelle slabbrata, dandogli l’impressione di tastare il suo stesso rapido respiro pulsante.

Russia soffocò un gemito di dolore e singhiozzò a denti stretti, versando altre lacrime fra le labbra annaspanti. L’aria aperta dalla sua corsa gli schiaffeggiò il visetto già tagliuzzato dagli sputi di nevischio, da quei fiocchi che parevano tante schegge di vetro depositate sulle labbra cianotiche, fra le ciglia imbiancate, sui capelli dello stesso colore, e contro le orecchie così doloranti da sembrare sul punto di cadere. Gonfie nuvole di condensa lattea, bianca come la neve in cui stava sguazzando, riempirono lo spazio fra le labbra schiuse, si disgregarono a contatto con quell’aria che pareva fatta di vetro. Altre lacrime si sciolsero dagli occhioni gonfi di paura, attraversarono le guance sfregiate, gocciolarono dal mento, rotolarono fra le manine laccate di sangue, e aprirono altre chiazze rosse attraverso la scia scavata nella neve fresca.

Passi nemici, carichi di un’energia cattiva che premeva sulla schiena come un coltello affondato fra le scapole, lo inseguirono, sollevando lo scricchiolio ruvido della neve che si sfalda sotto pesanti suole grandi il doppio delle sue. Brusio di voci nel sottobosco, ritmico clangore metallico che rimbalzava assieme a quei passi prepotenti. Voci che parlavano una lingua sconosciuta, le stesse voci che l’avevano aggredito e che avevano riso quando lui era caduto nella neve reggendosi la gola insanguinata. Lo stesso clangore delle armi che lo avevano ferito, affondando in quel corpicino che non aveva saputo difendersi, e che ora lo braccavano come uno schioccare di fauci affamate.

Russia si girò. Mucchi di neve fresca si sgretolarono fra le sue ginocchia, lo fecero inciampare, e lui dovette spalancare una manina nel ghiaccio per non sbatterci sopra. Strizzò gli occhi e spremette altri grumi di lacrime bollenti. Singhiozzò. Il sapore del sangue rimontò la gola lacerata e s’incastrò fra i denti, aspro e ferroso come bile. Gli fece paura, e il cuoricino accelerò, salendo a battere in fondo alla lingua, dove la sensazione della lama era ancora lì, dura e spaventosa come un fantasma.

Riaprì le palpebre annaffiate di lacrime e voltò lo sguardo verso quelle voci, quei passi sempre più vicini che rimbombavano attraverso il terreno scricchiolante. Guardò attraverso il velo di pianto, attraverso il fumo della condensa. La neve si era spalancata sotto la sua fuga, formava una scia di impronte e chiazze di sangue che conduceva a lui come un cartello segnaletico, come un’enorme freccia lampeggiante.

Un altro singhiozzo di paura gli strinse il cuoricino, succhiandogli il sangue dalle guance e rendendolo pallido.

Russia si guardò attorno, catturato da un’ombra sotto la quale l’aria era ancora più fredda e stagnante, la neve grigia come cemento e il muschio nero.

Rami di conifere spiovevano contro le pareti di roccia e terra dove s’incuneavano alcune ombre più profonde e scavate, piccoli ripari fra le radici simili a una rete di tentacoli che tratteneva le frane.

Russia si riappese alla gola con entrambe le manine – quella con cui aveva parato la caduta aveva perso sensibilità, congelata dalla botta di gelo – e si trascinò sulle ginocchia sotto l’ombra degli alberi, in uno di quei cunicoli dove si raccoglieva un’umidità ghiacciata e condensata fra le pareti di roccia. Si raggomitolò. Le ginocchia al petto, le dita affondate nella ferita che vibrava a ogni singhiozzo e a ogni affanno, i vestiti sporchi di sangue incollati alla pelle bagnata e infreddolita, le lacrime a correre attraverso le guance, e gli occhi persi, annegati in quella maschera di terrore.

I passi nemici si avvicinarono, le loro ombre si dilatarono e affondarono nell’apertura del cunicolo. Le loro voci si mescolarono, borbottarono in quella lingua estranea che lo spaventava, simile all’abbaiare rabbioso di un cane affamato.

Russia trattenne il fiato. Strinse le mani sulla gola tagliata quasi a volersi soffocare pur di non emettere un sibilo, e si congelò contro la parete, dentro quell’ambiente sfocato dalle sue stesse lacrime. Il battito galoppante del suo cuoricino divenne l’unico suono nella sua testa. Tu-tum, tu-tum, tu-tum!  

Fruscii più soffici sulla neve, borbottio di voci più flebili, e un grugnito di frustrazione. Le ombre dei nemici si ritirarono, la loro camminata si allontanò portandosi dietro quella scura sensazione di pericolo e minaccia che era come un nodo allo stomaco.

Un silenzio di ghiaccio riempì l’ambiente del sottobosco. Lo ruppe solo lo schianto cristallino di un grumo di neve caduto da rami troppo spioventi, lo scricchiolio della terra contratta dal gelo, e il sibilare del vento che fischiava fra le stalattiti di ghiaccio.

Il picchiettare del sangue sul pavimento di neve indurita ridestò Russia. Lui riprese a respirare, a trarre flebili sospiri taglienti come sorsate di vetri rotti. Rallentò il battito del cuoricino, lasciò che la paura fluisse via, rilassando i muscoli e sciogliendo il groppo di nausea, ma il bruciante dolore al collo non se ne andò. Altri fiotti di sangue colloso colarono fra le dita tremanti, spalancarono altri fiori scarlatti sul bianco. Russia ne toccò uno, solo con le punte delle dita, come se si fosse trattato di carezzare un petalo, e i cristalli di neve gli pizzicarono l’indice.

Una franata di tristezza gli piovve addosso, dura e fredda come quella neve in cui aveva sguazzato durante la fuga. Sarà così per sempre? Per tutta la mia vita? Un altro velo di lacrime risalì gli occhietti gonfi.

Russia scivolò fino all’angolo della parete, si mise a sedere con la schiena contro la roccia, richiamò a sé le gambe, e tirò su col nasino, continuando a piangere e a stringere i lamenti fra i denti. Con una mano si resse la ferita alla gola, con quel gesto che dava l’impressione che si stesse strangolando da solo, e con l’altra si asciugò le lacrime, imbrattando guance e palpebre di rosso. È davvero questo il destino di una nazione come me? Soffrire così fino a che non scomparirò? Combattere ogni giorno della mia vita per difendere la mia terra, per conquistarne altre, e per mantenere quello mi sono guadagnato facendo del male a quelli come me? La sua manina inzuppata di sangue tremò, irrigidita e già priva di forze. Il respiro rallentò, la vista divenne di nuovo offuscata. E quando non avrò più la forza di lottare, allora, che cosa mi succederà? Perderò tutto? Morirò anch’io?

Strinse le palpebre e spanse altre lacrime amare. Staccò la mano dalla gola portandosi dietro collosi filamenti di sangue rappreso, grumi neri che ricaddero sul tappeto di neve attorno a lui, e avvolse le gambe piegate, affondò il visetto nelle ginocchia, stringendosi nel suo dolore e nella sua solitudine. Che senso ha tutto questo? Che senso ha una vita del genere? Perché devo impegnarmi a rimanere vivo e a combattere solo per un futuro del genere? Per un futuro dove non esisterà mai la pace? Trasse un respiro più profondo. Il buio e il silenzio lo calmarono. Per una nazione non esiste la pace. Il ghiaccio che lo circondava si condensò dentro di lui, si cristallizzò attorno al cuore, divorandogli l’anima. Non ci sarà mai nulla in grado di alleviare il dolore e il peso di essere quello che sono.

Un altro suono di passi lo raggiunse. Passi più rapidi e ruzzolanti rispetto a quelli dei nemici attraversarono la coltre di neve del sottobosco, accompagnati da respiri affannati simili a quelli di Russia stesso.

Russia tese l’orecchio, tirò su il faccino dalle ginocchia – lo colpì una fitta alla gola che lui ignorò – e rivolse lo sguardo allo spazio di luce che penetrava il suo piccolo rifugio di roccia. Si spinse più indietro e tornò a trattenere il fiato, immobile.

“Fratellone!”

Quella vocina familiare attraversò il cuore di Russia in una frecciata di calore e timore allo stesso tempo.

La piccola sagoma di Bielorussia attraversò il suo campo visivo, sguazzò anche lei nella distesa di neve che le arrivava fino ai fianchi, e soffiò spesse nubi di condensa dalla bocca socchiusa che lo aveva appena chiamato. Gli occhioni carichi di tensione, liberi dalle ciocche di capelli spettinati tenuti indietro dal fiocchetto sgualcito, si spostarono da un albero all’altro, in mezzo alle radici, fra i rami spioventi, e anche fra le rocce rivestite di muschio ghiacciato. Bielorussia raccolse le manine rosse di freddo attorno alla bocca, cacciò un altro grido. “Fratellone, rispondi!” Nubi di condensa si innalzarono assieme alla sua voce. “Dove...” Pestò le impronte insanguinate lasciate da Russia. Sollevò il piedino, scoprì la suola rossa, la distesa di chiazze simile a una scia di papaveri appena sbocciati, e rimbalzò di un passo all’indietro, gemendo. Rincorse le impronte, seguì la loro scia, e raggiunse l’apertura del rifugio. “Fratellone.” Si chinò facendo scivolare il fiocco sulla guancia, premette le manine sulle ginocchia su cui cadeva il vestito di pannolenci, e sgranò gli occhi. “Sei qui! Ti ho...” Il suo sguardo cadde sulle manine di Russia gocciolanti e sporche di rosso, sul suo visetto inondato di lacrime, e sul colore del sangue che diventava più denso attorno al suo corpicino rannicchiato. Sulla sua giacca diventata nera per tutto il sangue spurgato dal lacero alla gola. Bielorussia si portò una manina alla bocca. “Oh, no, sangue.”

Russia scivolò con le spalle in avanti, la schiena ingobbita e le braccia attorno alle gambe, e tornò a cadere con il visetto fra le ginocchia. I battiti e i respiri accelerarono, di nuovo affannati, e la vista appannata si chiazzò di nero, succhiandogli ogni energia dal corpicino sempre più debole.

Bielorussia si girò verso il punto da cui era arrivata e tornò a chiudere le manine a coppa attorno alle labbra. “L’ho trovato! È qui!” Si infilò nel piccolo rifugio, cadde sulle ginocchia, gattonò attraverso la neve sporca di sangue, e si aggrappò alle spalle tremanti di Russia, lo sorresse. “Adesso arriva anche Ucraina.” Un piccolo fremito di disperazione le scosse la voce. “Ti facciamo passare tutto, passerà tutto.” Le prime righe di lacrime sgorgarono dai suoi occhi brucianti di rabbia.

Bielorussia strinse forte suo fratello, affondò il visetto nella giacca bagnata di sangue che si stava gelando a contatto con l’aria ghiacciata, e singhiozzò. “Se ne sono andati. I cattivi se ne sono andati, non ti fanno più male, lo giuro. E se te ne fanno ancora...” Strizzò le piccole dita sulla stoffa, corrugò la fronte e soppresse un ringhio. “Li ammazzo tutti.” Altro singhiozzo. “Sì, li ammazzo tutti, da adesso in poi! Nessuno dei cattivi ti farà più male.”

Altri passi in corsa, più svelti e ampi di quelli di Bielorussia, frantumarono lo strato di neve fuori dal rifugio, si mescolarono al soffio di un altro respiro accelerato. “Bielorussia!” Ucraina si fermò sotto i rami degli alberi, con la neve che le arrivava alle ginocchia. Strinse al petto la sacca che teneva fra le braccia, e spostò lo sguardo su ogni ombra del sottobosco. Gli occhi lucidi di paura, un barlume d’ansia a traballare fra le palpebre. “Dove sei? Rispondi!”

Bielorussia si sporse e sventolò una manina sporca del sangue di suo fratello. “Siamo qui, sbrigati! Perde tanto sangue!”

Ucraina li trovò. Raccolse la gonna per evitare che s’inzuppasse di neve, si caricò in spalla la sacca che aveva stretto al petto, e lanciò dietro la schiena un lembo della sciarpa. Corse da loro, si chinò per non urtare il soffitto di roccia. “Ho fatto più in fretta che potevo.” L’eco della sua voce rimbalzò in quell’ambiente chiuso e pregno di umidità. “Sono...” Anche i suoi occhi si posarono sul sangue appena versato, sul corpicino di Russia rannicchiato alla parete e sorretto dalle manine di Bielorussia, sporca anche lei di rosso. Si sentì gelare il cuore. “Russia.”

Russia non emise neanche un lamento. Respirò a sibili, tenne le spalle arricciate per resistere al dolore alla gola, e la guardò con quegli occhioni che imploravano aiuto.

Ucraina scosse il capo, tornò lucida, e scivolò con le ginocchia davanti a lui, sporcandosi la gonna di sangue. “Tienilo con la schiena dritta, fai in modo che la testa non gli cada di lato.” Mostrò a Bielorussia come fare. “Ecco, così.” Aprì la sacca ed estrasse le bende pulite e un vasetto colmo di unguento cicatrizzante.

Ucraina raccolse da terra un’abbondante manciata di neve, la impastò fra le dita arrossate dal gelo, e la premette sulla gola ferita di Russia.

Russia vide le stelle, sentendo il dolore affondare nel collo come un pugno di aghi. Strizzò gli occhi, soppresse un vagito fra i denti, e si aggrappò alla manina di Bielorussia intrecciata alla sua.

Ucraina lo strofinò ancora usando altri pugni di neve sciolta. “Stai tranquillo, ci siamo qui noi.” Frizionò la ferita con i panni puliti, lo asciugò dal sangue annacquato, ed espose le labbra del lacero che fremevano a ogni suo respiro. “Andrà tutto bene, te lo prometto. Tutto bene.” Ammucchiò accanto a lei la pila di panni zuppi di sangue e scoperchiò il vasetto con il balsamo, sprigionando un forte e fresco profumo di erbe. Affondò le dita nell’unguento, le accostò alla ferita di Russia. “Stringi forte i denti.”

Russia ubbidì fino a sentire lo smalto stridere e il mento traballare.

Il tocco dell’unguento fu una ghiacciata carezza di scosse elettriche. Altre perle di lacrime stillarono fra le palpebre strizzate, rotolarono lungo le guance e gli toccarono le labbra cianotiche e tremanti.

Ucraina raccolse un altro ciuffo di unguento e glielo spalmò più in fretta percorrendo le labbra della ferita. “Quasi fatto, quasi fatto.” Raccolse un rotolo di benda pulita e glielo passò attorno al collo. Fece lo stesso con una seconda garza – le prime chiazze rosse si allargarono attraverso il tessuto – e fissò il bendaggio. “Ecco, finito.” Gli passò una mano fra i capelli umidi di neve, fece scendere il tocco fino alla guancia bollente di pianto, e gli strofinò una carezza rassicurante. Gli sorrise. Dovette contenere le lacrime in bilico fra le palpebre socchiuse. “Sei stato bravissimo. Un vero ometto coraggioso.”

Russia soppresse gli ultimi singhiozzi. Si strofinò le guance, asciugò le righe di pianto rotolate sul collo, e soffermò il tocco sulle bende umide di unguento che gli fasciavano la gola. Prese un respiro profondo, ma di nuovo l’aria lo trapassò come una coltellata in fondo alla bocca. Un forte bruciore pulsò attraverso la ferita e lo costrinse a trarre respiri più corti, a rilassare la tensione dei muscoli, e a smettere di piangere per evitare di inghiottire quei singhiozzi simili a cocci di vetro rotto.

Ucraina lo strinse a sé assieme a Bielorussia che non si era ancora staccata dal suo braccio, sfiorò entrambi con il tessuto della vecchia sciarpa di lana in cui era avvolta, e guardò fuori dal rifugio. I rami più spioventi li tenevano riparati. Dall’esterno giungeva solo lo scricchiolio della neve depositata sulle conifere e l’ululato del vento che soffiava fra gli alberi congelati. “Dovremmo essere al sicuro,” mormorò Ucraina. “Ormai se ne sono andati.” Si sistemò i capelli trattenuti da una corona di treccine fissata sulla nuca e sospirò, posandosi la mano sul petto. Rivolse a Russia un nuovo sorriso d’incoraggiamento. “Ora aspettiamo che la tua ferita smetta di sanguinare almeno un po’ e poi possiamo uscire, d’accordo? Ti porto in braccio, così non farai nemmeno fatica a camminare.”

Russia si strofinò via dal viso le ultime lacrime, tirò su col nasino, solleticato dall’intenso e fresco profumo di unguento spanto dalle bende, e smise di singhiozzare. Annuì. Un cenno debole e rassegnato.

Attraverso il visetto di Bielorussia, paonazzo di rabbia, continuarono invece a scorrere lacrime roventi. “Non finirà mai, vero?” Un suo singhiozzo ruppe quel silenzio stagnante che regnava nel rifugio. “Sarà sempre così finché vivremo.”

Gli occhi di Ucraina s’intristirono, riempiendosi di una malinconia grigia come il cielo annuvolato che rivestiva la foresta. Le posò la mano nella zazzera di ciocche sfoltite, su quel fiocco sgualcito che non le stava dritto. “Bielorussia...”

Lei si sottrasse. “Finché vivremo ci saranno sempre altre nazioni che vorranno le nostre terre e che vorranno separarci! Ci sarà sempre qualcuno che vorrà ucciderci! E noi saremo sempre costretti a fare la guerra per non crepare.” Bielorussia strizzò le piccole dita sulla manica di Russia, si tenne riparata per non dover incrociare lo sguardo di Ucraina. “Non è giusto.” Scosse la testolina strofinandogli la fronte sulla spalla. “Non è giusto vivere in un mondo schifoso come questo.”

“Bielorussia, ascoltami...”

“Non mi dire che andrà tutto bene, perché non è vero!” Bielorussia si rivoltò come un cagnaccio a cui hanno tirato la coda. “Non andrà mai tutto bene, quindi non ha senso che tu ci dica così, stupida!” Spremette fuori dalle palpebre quel pianto rabbioso che bruciava fino alle punte delle orecchie. “Non voglio essere una nazione. Non ho chiesto io di nascere così, non è giusto fare questa vita del cavolo che non ho mai voluto.”

Quei gridolini sofferti e carichi di risentimento rimbombarono fino all’animo di Russia, pulsando contro le tempie e annodandogli il respiro. Dentro di lui sorse solo il forte desiderio di tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi, scuotere forte la testa, e allontanarsi da quelle parole cattive. Non voglio essere una nazione, non ho chiesto io di nascere così, in una vita che non ho mai voluto.

Ucraina mostrò uno sguardo comprensivo. Quel sorriso triste ma tiepido sempre lì a incurvarle le labbra. “Hai ragione.” Sistemò nella sacca i panni sporchi di sangue, mise via anche il vasetto svuotato di balsamo. “È vero, le guerre non scompariranno, qualunque cosa noi faremo e anche se noi continueremo a volerci bene. Dovremo affrontare ancora tanti dolori e dovremo superarli tutti se vorremo sopravvivere.” Raccolse Russia fra le braccia, fece correre le dita fra i suoi capelli, e scosse il capo. “Ma non è vero che la speranza è un sentimento inutile. E nemmeno l’amore reciproco che condividiamo lo è, perché sono proprio questi i valori che ci danno la forza e il coraggio di andare avanti.” Si srotolò la sciarpa color crema dalle spalle. “Senza di essi, combattere sarebbe completamente inutile.” E la avvolse attorno al collo bendato di Russia.

Il tocco morbido della lana alleviò il bruciore della ferita, il profumo speziato e familiare lo estraniò dall’odore ferroso di neve sciolta e di sangue, trasmettendogli un tepore calmo e profondo. Fu come trovarsi ancora fra le braccia di sua sorella, cullato dalla sua voce, consolato dalle sue carezze.

“Ricordatevi questo, tutti e due,” disse ancora Ucraina, rimboccandogli i lembi sotto il mento. “La ricchezza di una nazione non deriva dai suoi possedimenti, dalla quantità di persone o di paesi sotto il suo dominio, o dall’ampiezza della sua terra. Al contrario: deriva dalla grandezza dei legami che sa instaurare con le altre nazioni. Tante nazioni unite, per quanto piccole che siano, saranno sempre più forti di una nazione sola, anche se fosse la più grande del mondo. Per questo è importante che noi ci aiutiamo a vicenda.” Rinnovò il sorriso. “E per questo è importante che tu tratti sempre bene gli altri paesi.” Soffermò il tocco nel punto dove la sciarpa nascondeva la ferita bendata. “Anche se ora loro non stanno facendo lo stesso con te. Se farai così, Russia, allora un giorno sarai una grande nazione. Più grande di qualsiasi altra.”

Russia si strofinò il pugnetto fra le palpebre. Riacquistò un filo di voce nonostante la ferita alla gola che rendeva le sue parole più rauche e sofferte. “E non dovrò più combattere e farmi male?”

“Certo che no.” Ucraina gli strinse le spalle. Il suo sguardo limpido gli trasmise una fresca ventata di coraggio che gli fece dimenticare del dolore alla gola. “Tu sarai una nazione speciale, perché saprai sempre dare valore ai legami che ti hanno cresciuto, e in questo modo vivrai per sempre. Sarai una nazione forte che sarà sempre in grado di proteggere tutti quelli a cui vorrai bene. E così, forse, non ci sarà davvero più bisogno di farci le guerre a vicenda.”

Russia ritrovò la forza nelle manine sporche di sangue, diventate ghiacciate dopo il tuffo nella neve, e si aggrappò al cappotto di Ucraina, sbavandolo di rosso. Lo colse una paura improvvisa e irrazionale che gli gelò il battito del cuoricino. “Ma voi sarete ancora con me?”

Bielorussia tornò ad appiccicarsi al suo braccio, piantò un broncio da offesa. “Sì che saremo con te, cavoli! Nessuna schifo di nazione riuscirà mai a separarci.” Gli diede un piccolo strattone. “E se proprio vorranno farlo, allora prima dovranno uccidermi!”

“Ma non voglio che ti uccidano.”

Ucraina sorrise. Raccolse il fiocco di Bielorussia e glielo sistemò fra le ciocche sfoltite. “Nessuno ucciderà nessun altro, e nessuno morirà. Ma Bielorussia ha ragione.” Avvolse le guanciotte di Russia fra i palmi. I suoi occhi tornarono a colmarsi di quella malinconia che straziava il cuore. “Noi saremo sempre al tuo fianco, qualsiasi cosa accadrà alla nostra gente o alle nostre nazioni. Perciò tu sorridi sempre, Russia. Anche quando sarai triste, anche quando ti sembrerà che non esista alcun motivo per farlo, tu sii sempre felice.” Si chinò a soffiargli un bacio sulla fronte. Il tiepido e umido tocco delle sue labbra parve sciogliere tutta la neve e il ghiaccio che li circondavano. “E allora vedrai che la vita saprà sempre ripagarti per i tuoi sorrisi.”

 

♦♦♦

 

26 settembre 1941

Kiev, Ucraina

 

Russia non riusciva a sorridere. Davanti ai suoi tetri occhi cerchiati di un colore livido come il suo umore, Kiev bruciava in silenzio. Mezzi corazzati tedeschi scorrevano attraverso l’intreccio di strade deserte, s’infilavano sotto i ponti ancora integri, e sollevavano un coro di rombi che, da quell’altezza, suonava come un basso e fastidioso ronzio. Alti pennacchi di fumo nero sorgevano dagli edifici distrutti dai bombardamenti aerei. Pochi e fiacchi raggi di sole penetravano le nuvole addensate sopra la città e cadevano fra le acque piatte del Dnepr celato dalla boscaglia sugli argini. Il fiume si era tinto del colore del tè, nemmeno una scaglia di luce riusciva a specchiarsi sulla sua superficie.

Russia si rimboccò la sciarpa attorno alla gola e rintanò le labbra sotto il tessuto che odorava di nuovo di neve sciolta, di sangue e di balsamo cicatrizzante. Quell’odore fu come un pugno al ventre, lo spaventò e lo estraniò, riportandolo a quei tempi lontani, a quanto le sue manine erano così piccole e fragili da non poter nemmeno impugnare un’arma, a quando lui stesso era così basso da sprofondare con i fianchi nella neve, e a quando si scopriva così debole da non poter nemmeno proteggere le sue sorelle.

Abbassò le palpebre, distolse lo sguardo dalla visione di Kiev, ma si tenne aggrappato a quel ricordo. Dovette strofinarsi la gola sotto la sciarpa per grattare via quel bruciore familiare dalla cicatrice sbiancata. Chissà perché mi sta tornando in mente proprio adesso? Sfilò la mano, le guardò entrambe. Mani grandi che non erano state comunque in grado di utilizzare le armi di cui disponeva. Russia era cresciuto ma si sentiva lo stesso sprofondare in una distesa di neve risucchiante, tirato da quella sensazione in cui più cammini e più finisci a fondo. Era diventato una delle nazioni più potenti al mondo, eppure stava per consegnare sua sorella – uno dei paesi che avrebbe dovuto proteggere e custodire – fra le mani del nemico.

Un grave senso di angoscia gli si rovesciò addosso come una valanga di neve. Rese il suo animo ghiacciato. Cristallizzò il suo cuore impedendogli di udirne il battito, la vita che vi scorreva attraverso, quella forza che avrebbe dovuto permettergli di pestare i passi nella neve senza affondarci.

Davanti a lui, dall’altura che rendeva Kiev una macchia grigia raccolta dall’abbraccio del Dnepr, luci rosse e traballanti come fiaccole bruciavano sulle strade percorse dalle colonne di mezzi tedeschi in avanscoperta e alle basi dei ponti sul fiume che erano stati fatti saltare troppo tardi. Erano già trascorsi cinque giorni dall’entrata del nemico nella capitale.

Gli occhi di Russia rabbuiarono come quel cielo plumbeo, soffocato dal fumo che galleggiava fra gli edifici più alti e che scivolava come un’ala attraverso la vegetazione cresciuta sulle sponde del fiume. Anche Russia si sentì soffocare, ma continuò a respirare attraverso la stoffa della sciarpa, a tenersi stretto a quel profumo da capogiro.

Forse mi stanno tornando in mente questi ricordi perché, ora che Ucraina sarà separata da me, sarà sempre più difficile riuscire ad affrontare la guerra come lei mi ha sempre insegnato. Sarà sempre più difficile trovare un motivo per andare avanti e per cercare la speranza anche quando non la vedrò da nessuna parte. Si posò la mano sul cuore da cui non sentiva giungere alcun battito. Riuscirò davvero a proseguire questa battaglia anche senza mia sorella che mi ha sempre insegnato il modo di essere forti? Sotto i suoi piedi, il terreno si fece molle e cedevole, di nuovo simile a uno strato di neve in cui rischiava di sprofondare se solo avesse piegato un ginocchio. E se non fossi più in grado di tenere unite a me le nazioni di cui mi sono fatto carico? La mia forza deriva dai legami che condivido con tutti i paesi che ho conquistato, e senza di loro... cosa diventerei? Germania riuscirebbe davvero a sconfiggermi? Sospirò. Una paura più nera e profonda gli vorticò attorno, accorciandogli il fiato e spremendo un battito di paura dal petto. E se dovesse fare del male a Ucraina, non potrei mai perdonarmi il fatto di aver accettato che si consegnasse.

Artigli di fumo color catrame risalirono lo scheletro del ponte di Darnitsya che l’Armata Rossa aveva fatto saltare assieme a quello di Navodnitsky. Una delle traverse si piegò su se stessa, contratta dal calore che continuava a bruciare sul pelo dell’acqua, e si sbriciolò, sprofondando nella superficie piatta del fiume. Il ponte era ormai una sottile ombra di se stesso, ritorto e carbonizzato come se fosse stato composto da mosci intrecci di corda. Lungo le acque del Dnepr scorreva solo qualche battello pneumatico con a bordo soldati tedeschi. Navigavano verso i punti della riva dove i genieri stavano cominciando a montare le batterie contraeree.

Il dolore della terra invasa percorse lo stomaco di Russia, si annidò nel ventre in un groviglio di brividi. Russia deglutì – la gola secca e amara – e si sentì ghiacciare, violato lui stesso da quell’invasione che pareva avergli strappato i polmoni dal petto. Quando finirà tutto questo? Quand’è che sarò in grado di costruire quel mondo che abbiamo sempre sognato, dove nessuno sarà più costretto a farsi la guerra a vicenda? Un tremolio gli percorse le labbra nascoste dalla sciarpa. Nonostante gli sforzi, la sua bocca rimase piatta, il volto grigio, gli occhi bui, nessun sorriso a rallegrarlo. Per una volta, non trovò nulla per cui valesse la pena di sorridere. Quando torneranno i giorni in cui potrò di nuovo sorridere nella maniera in cui mi ha insegnato lei?

Lieve fruscio alle sue spalle, scricchiolio di passi sull’erba secca, di due presenze in avvicinamento. Due sagome si accostarono a lui e si affacciarono al panorama, si avvolsero di quel silenzio bianco e sterile come un sudario, pesante come una croce caricata sulla schiena.

Lituania sgranò gli occhi, assorbì l’immagine del cadavere di Kiev, gli venne male al cuore davanti a quella desolazione. “È davvero finita?” Il vento soffiò e attenuò il ronzio dei mezzi tedeschi che scorrevano attraverso le strade, sommersi dai fumi neri e affiancati dalla marcia della fanteria. “Kiev è davvero caduta.”

Russia annuì. “È stata...” Trasse un sospiro attraverso la sciarpa. “La più grande battaglia di accerchiamento della storia.” Solo allora un sottile germe di sorriso riuscì a scivolargli fra lo spacco delle labbra, ma gli occhi non mutarono espressione. “Germania rimane sempre il nostro odiato nemico, ma a quanto pare ha davvero saputo ottenere quello che voleva. E ci è riuscito con precisione e ferocia.” Sollevò un sopracciglio. Lo sguardo riconquistò un barlume di luce. “Quasi con eleganza, direi. Di questo non posso fare altro che dargli credito.”

Bielorussia spremette le unghie nelle braccia conserte e fece schioccare un ringhio fra i denti. “Già. Bella presa per il culo, proprio.”

“Nessuna presa in giro, sorellina. Anzi, dovremmo ringraziare Germania per la lezione che ci ha dimostrato.” Russia annuì. “Germania ha vinto e si sta prendendo quello che gli spetta, com’è giusto che sia. È questa la regola alla base di qualsiasi guerra.”

“Non ancora,” precisò Bielorussia. “Non si è ancora preso tutto quello che gli spetta.”

Lituania impallidì e strinse i pugni sui fianchi, incassando la prepotenza di quelle parole. Sapevano tutti cosa sarebbe successo di lì a poco, sapevano cosa ci fosse ancora da conquistare prima di terminare la battaglia.

La presenza di Ucraina scivolò alle loro spalle, li raggiunse mite come una foglia autunnale che cade fra le radici dell’albero e delicata come la sua voce. “L’evacuazione è terminata.”

Tutti e tre si voltarono.

Ucraina serbava ancora il malsano pallore che le aveva sbiadito il viso e incavato le guance durante i giorni passati nel bunker, prosciugata dal dolore delle sue ferite e da quello provato dal suo popolo. Negli occhi però regnava ancora quell’ardore combattivo che aveva dimostrato davanti a Russia quando si era ribellata davanti alle sue minacce, e che l’aveva guidata nella sua decisione di consegnarsi. “Anche la Trentasettesima Armata ha lasciato la città e ha attraversato la sponda est del Dnepr per sfuggire ai tedeschi,” disse. “Stiamo facendo saltare anche gli ultimi ponti, così da impedire che i tedeschi riescano a inseguire e a bloccare i nostri soldati. Dovrebbero ritirarsi a Yogotin entro oggi stesso.” Compì gli ultimi passi per portarsi accanto a Russia, tenne gli occhi bassi e pettinò una ciocca bionda sotto le forcine. “Spero solo che siano in grado di resistere abbastanza a lungo, dato che i rifornimenti e il carburante ormai scarseggiano. E soprattutto che abbiano le forze di spezzare l’accerchiamento tedesco e scappare dalla sacca nonostante le condizioni precarie in cui si trovano.”

Russia mantenne lo sguardo sereno, il tono positivo. “Estonia e Lettonia sapranno guidarli nella maniera migliore, almeno fino a che anche noi non usciremo da Kiev e potremo seguirli verso Mosca. In quanto a noi...” Sfiorò Ucraina con il triste sguardo sorridente di chi l’aveva già persa. “È qui che ci salutiamo, suppongo.”

Ucraina tenne gli occhi fissi su Kiev e indurì le mani raccolte sul ventre. Un guscio bianco che racchiuse gli ultimi palpiti del suo cuore ancora in libertà. Lasciò che quel dolore le scivolasse sulla pelle come un panno di seta fredda, sospirò. “Abbi cura di Bielorussia. E di tutti gli altri. Raggiungete Mosca in fretta e cominciate fin da subito a organizzare le linee di difesa. Questo è il mio ultimo desiderio.” Avvolse una mano di Russia, la tenne stretta, si lasciò inghiottire. Gli parlò con un sussurro. “Fa’ che il mio sacrificio non sia stato invano.”

“Te lo prometto.” Russia strinse la presa e si tenne aggrappato a quell’intreccio di dita che avrebbe comunque unito le loro anime, nonostante la distanza. “Ti prometto che farò tutto quello che è in mio potere per metterli in salvo. E vincerò la guerra.” Rivolse a se stesso quell’ultimo giuramento. “Vincerò la guerra e ti riporterò a casa. È una promessa.”

Ucraina gli sorrise, sull’orlo delle lacrime, ma rimase forte, appesa a quella mano che la sosteneva come era solita fare lei quando erano piccoli. Il cuore le si gonfiò di orgoglio. “Non ne ho mai dubitato.”

Russia si girò. Andò in cerca di Bielorussia. “Non vieni a salutare la tua sorellona, Bielorussia? Potrebbe essere la tua ultima occasione di farlo.”

Bielorussia morsicò il labbro fra gli incisivi, e la sua bocca tremò contenendo un ribollio di rabbia e indignazione salito a infiammarle le guance. Gettò lo sguardo in disparte, nascondendosi dietro uno sventolio delle ciocche bionde. Non la degnò nemmeno di un battito di ciglia. “È una stronzata.” Diede le spalle a entrambi, si allontanò di un paio di passi. “È tutta un’enorme stronzata, e lei non dovrebbe nemmeno consegnarsi. Come fate a essere così idioti da non rendervi conto che ci stiamo scavando la fossa da soli?”

Ucraina sospirò, stanca e avvilita, ma non riuscì a sentirsi in colpa. “So che sei arrabbiata, Bielorussia. Ma io...”

“Oh, ma sta’ zitta!” Bielorussia scacciò quelle parole con un ampio gesto del braccio. “Va’ e crepa, se ci tieni tanto. Fatti ammazzare, scavati la fossa, ma non chiedermi di accettare quello che stai per fare.”

Lituania le si avvicinò, animato da un tiepido sguardo consolatorio. “Dai, non fare così.” Le posò una mano sulla spalla. “È tua sorella, devi...”

“Stai zitto.” Bielorussia si rivoltò con uno scatto, gli agguantò il polso, lo trattenne con una presa d’acciaio, e si avvicinò con il viso a una piuma dal suo, quel che bastava per sibilargli sul collo. “Tu sei quello che c’entra meno di tutti in questa situazione di merda. Perché cazzo sei rimasto qua, si può sapere?”

Lituania resistette a quello sguardo perforante. Indurì il braccio sotto la sua stretta dolorante come un morso. “Per Russia,” rispose. “Perché ha bisogno di noi, e ha bisogno di te. Ha bisogno che tu gli rimanga vicino.” Anche i suoi occhi si cerchiarono di stanchezza, tristi e offuscati come quel cielo di fumo. “Ti prego, sta già soffrendo abbastanza per Ucraina. Non privarlo di un’altra sorella. Lui ha bisogno di te.”

Bielorussia tenne il broncio ma gli mollò il polso. Si massaggiò la spalla ferita durante il combattimento nella sacca di Uman, ripensò a come Lituania era tornato indietro a soccorrerla, e di come l’aveva protetta dagli spari di Austria, prendendosi i proiettili nel braccio. Quel ricordo le inacidì la voce. “Chi cazzo ti credi di essere, si può sapere? Rimasto qua per lui,” lo scimmiottò. Schiacciò i pugni sui fianchi e tornò a fronteggiarlo, a trapassarlo con quegli occhi che erano acciaio rovente. “Credi davvero di essere tu quello in grado di salvare mio fratello da una situazione simile?”

Gli occhi di Lituania vacillarono, ma il timbro della sua voce rimase fermo. “Non ho mai detto questo.”

“Ma lo hai sempre pensato.” Bielorussia sollevò il mento, lasciando che un filo di capelli cadesse sul viso scuro d’ombra. Gli rivolse un’occhiata crudele. “Tu hai un debole per i casi persi, non è vero?”

Lituania esitò, colpito da una dura e frastornante botta di freddo. “Cosa?”

Prima di rispondergli, Bielorussia fece volare un’occhiata sopra la sua spalla, si assicurò che sia Russia che Ucraina avessero lo sguardo altrove, su Kiev, e che le loro orecchie fossero distanti. Squadrò il braccio di Lituania. Il braccio che sapeva essere bendato sotto la manica, il braccio che lui aveva sollevato per difenderla dagli spari di Austria. “Quando sei tornato a salvarmi, nonostante fosse chiaro che avremmo comunque perso la battaglia nella sacca a Uman...” Rinnovò quella fine occhiata di sprezzo e di offesa. “Perché lo hai fatto?”

Lituania rilassò i tratti del volto. “Perché sei una mia alleata,” rispose con naturalezza, senza più timore. “È normale che...”

“Perché tu hai sempre avuto questa fissazione di attaccarti a quelli che stanno più male di te e di farti risucchiare da un dolore che non ti appartiene, ecco perché,” sbottò Bielorussia. “Lo hai fatto con me quando ero in pericolo, lo fai di continuo con mio fratello, e...” Socchiuse le palpebre in un’espressione maligna che però conservava quella certa pudicizia che le congelò le parole fra le labbra, impedendole di finire la frase. Ammiccò con un sopracciglio. “Be’, sai anche tu con chi.”

Lituania allontanò il capo con uno scatto, come se lei lo avesse schiaffeggiato. Quelle parole lo trafissero al cuore, fecero scattare i nervi sulla difensiva, rizzando la pelle d’oca sulle braccia. La mano bruciò, scossa dall’istinto di tuffarsi nella tasca della giacca e di stringere la scatolina che custodiva la piuma dorata, di proteggerla da quelle accuse.

Bielorussia gli passò affianco, urtandogli la spalla, e si diede una lisciata ai capelli. “Ma questa volta non potrai salvare mio fratello da se stesso. Tu non sei nessuno per lui, ficcatelo in testa.”

Lituania tastò il bruciore di quella furia, assorbì il sapore aspro di quelle parole, lesse la gelosia nei suoi occhi così simili a quelli di Russia, e accolse quella realizzazione senza stupore. È gelosa. Non riuscì a sentirsi né offeso né arrabbiato. È solo gelosa perché ora le attenzioni di Russia sono tutte su Ucraina, è gelosa per come io mi pongo sempre al suo fianco. Ora poi si sente anche impotente davanti al suo dolore e scarica tutta la sua rabbia su di me per non sentirsi responsabile. Soffiò un sospiro compassionevole. Nemmeno lei ne ha colpa. “E tu, invece?”

Bielorussia arrestò il passo, le braccia conserte al petto e le spalle dritte. Voltò lo sguardo facendo oscillare una ciocca bionda contro la guancia. “Io cosa?”

Lituania affrontò quegli occhi lividi che tante volte aveva visto bruciare anche nel viso di Russia. “Cosa conti di fare per salvarlo da se stesso?”

La faccia di Bielorussia divenne di sasso. Il fine sorriso di sfida scemò, le guance sbiancarono, e l’aria attorno a lei divenne nera. Bielorussia si strinse nelle spalle, aggrottò la fronte, tornò a ribollire di rabbia, e trafisse Lituania con un’occhiataccia elettrica. Tornò indietro in sole tre falcate, lo acchiappò per la giacca, tirandolo a sé, e impennò un pugno a uno sfioro dal suo viso. “Tu, razza di...”

“Bielorussia.”

La voce di Russia la bloccò, la fece girare.

Russia le rivolse uno sguardo di rimprovero. “Non litigate, non mi piace sentirvi alzare la voce. Ne basta una di guerra.”

Bielorussia fece schioccare la lingua fra i denti. Mollò Lituania, si rimise a braccia conserte, fece tamburellare le dita, e rivolse alle nuvole quello sguardo ancora nero e pulsante di rabbia, per non essere costretta a fronteggiare l’immagine di Kiev che non le andava proprio giù. Le rimase in gola come un boccone andato di traverso.

Russia tornò affianco a Ucraina, portandosi comunque dietro quel peso sul cuore, lo stesso dolore provato da Bielorussia. “Sei proprio sicura di voler andare fino in fondo?” le chiese un’ultima volta. “Siamo ancora in tempo per andarcene tutti e quattro. Possiamo portarti a Mosca e lì non ti avranno mai. So che non servirebbe a salvare il tuo paese, ma per lo meno salveresti te stessa.”

Ucraina scosse la testa, mostrò un sorriso sereno, di accettazione ma non di arrendevolezza. “Che vita potrei condurre a Mosca, sapendo di aver abbandonato la mia capitale e il mio paese in questa maniera? Non potrei mai più essere in pace con me stessa. E preferisco una serena prigionia a una tormentata libertà.” Si posò la mano sul cuore, sigillò la sua promessa solenne. “Andrò fino in fondo, qualsiasi cosa dovesse attendermi una volta che cadrò in possesso di Germania.”

“Non ti sfioreranno nemmeno con un dito, te lo prometto. Non dopo che anche noi ci saremo guadagnati la nostra garanzia su di te. Nemmeno Germania potrà vivere in pace dopo quello che gli faremo.” Nonostante la crudeltà di quelle parole, un soffio di speranza attraversò il cuore di Russia, sciolse parte della barriera di ghiaccio, gli intiepidì il volto. “E noi ci rivedremo prima di quello che credi.”

Ucraina dovette di nuovo trattenere un velo di lacrime fra le ciglia e un groppo di pianto in fondo alla gola, ma non smise comunque di sorridere. Distese una mano, sfiorò il viso di Russia, gli scostò i capelli dalla fronte e gli aggiustò un lembo della sciarpa attorno alle spalle per un’ultima volta. Un gesto familiare che sembrava dire: ‘Ci sarò sempre a proteggerti, proprio come una volta, proprio come ti ho sempre promesso’.

Si strinsero in un abbraccio, Russia si aggrappò a lei come faceva da bambino per restare al caldo durante le bufere di neve, o per sentirsi al sicuro mentre erano braccati dai nemici, o quando si sentiva solo e spaventato.

Ucraina dovette alzarsi sulle punte dei piedi per tenerlo stretto, mentre una volta le bastava inginocchiarsi. Quel pensiero la fece sorridere, e un altro singhiozzo le sfuggì dalle labbra, vibrando accanto all’orecchio di Russia. Fece scorrere le braccia attorno a lui e gli circondò quelle spalle ampie capaci di sostenere una nazione così grande, il peso di tutti quei paesi sotto il suo comando. Gli strofinò la schiena in gesto d’affetto. “Abbi cura dei tuoi compagni.” Si divisero, e lei gli carezzò il profilo della guancia con le nocche, lo guardò un’ultima volta con quegli occhi gentili. “Sii sempre la guida di cui si fidano. E vedrai che andrà tutto bene.”

Russia raccolse entrambe le mani di Ucraina fra le sue. Le accostò alle labbra e le baciò le nocche, con la stessa devozione con cui si bacia una reliquia, i piedi di un crocifisso, la veste della Madonna. Si separò da lei con quel peso nel cuore, con quel bruciore agli occhi che si sforzò di sostenere.

In disparte, Lituania si tenne stretto nelle spalle, si diede una strofinata al braccio ferito, e abbassò lo sguardo, celato dalle ciocche di capelli cadute sulle guance.

Ucraina gli sorrise. Gli si accostò tenendo le braccia già spalancate. “Vieni a salutarmi anche tu, Lituania.” Lo attirò a sé e lo strinse con la stessa energia con cui aveva avvolto Russia, e questa volta fu Lituania a finire con le punte dei piedi sollevate.

Lituania affondò nel suo profumo di fiori della Steppa, di cucina speziata, di legno resinoso e pentole di rame, di distillati di erbe e di impasti dolci. Si lasciò inghiottire da quell’abbraccio soffice e caldo come il suo cuore, da quel senso di protezione e sicurezza che non ci sarebbe più stato. Le posò una mano sulla spalla, nascose il suo sguardo triste tenendo la fronte bassa e la guancia accostata alla sua. “Grazie per quello che stai facendo per noi.”

Ucraina gli diede una strofinata ai capelli, gli resse la nuca e accostò le labbra al suo orecchio. “Non farti buttar giù da Bielorussia,” gli mormorò. “Tu sei prezioso per mio fratello e sei prezioso anche per Estonia e Lettonia. Il tuo ruolo è insostituibile, Lituania.” Il suo abbraccio si fece più saldo, più incoraggiante. “Non lasciarti mai dire da nessuno che non vali niente, d’accordo?”

“S-sì. Ci...” Lituania trasse un sospiro e annuì. “Ci proverò.”

Russia riacquistò il suo solito sorriso carico di tenerezza. “Suvvia, non comportiamoci come se questo fosse un addio definitivo.” Si affacciò di nuovo a Kiev, a quelle strade violate dalla processione nemica che avanzava in mezzo ai pennacchi di fumo. “Ci riprenderemo Ucraina molto prima di quello che credete. È una promessa.”

Ucraina sciolse l’abbraccio, liberò Lituania, e strinse i pugni lungo i fianchi. Si impose di nuovo in quella postura solenne e coraggiosa di un condannato innocente davanti ai gradini del patibolo. “Io sono pronta ad andare.”

Russia annuì. Stese l’indice verso Kiev. “Dobbiamo prendere direzioni opposte, in modo che non si accorgano che io, Bielorussia e Lituania siamo ancora in città. Cerca di attirarli lontani dalle basi del Quartier Generale, in modo da darci tempo di posizionarci.”

“Va bene.” Ucraina sciolse un pugno e accostò alla fronte un saluto militare.  “Buona fortuna.”

Russia e Lituania ricambiarono il gesto. Bielorussia non mosse le mani di un millimetro, le strizzò sulle braccia conserte, e tenne il volto girato, in modo da non incrociare gli occhi di sua sorella. Fece l’offesa fino alla fine.

Ucraina se ne andò, sola ma integra davanti al destino che stava imboccando, alla strada che si era scelta.

Russia volse un ultimo sguardo alla schiena di sua sorella che si allontanava, al suo profilo che si rimpiccioliva, alla sua presenza che si lasciava scivolare nell’oscurità, fra le braccia del nemico, lontana da lui.

Contrasse le mani con cui l’aveva appena abbracciata, appigliandosi a quel senso di vuoto e di mancanza che presto avrebbe saputo colmare con qualcun altro.

 

.

 

I due soldati tedeschi di guardia all’entrata della periferia si portarono al centro della carreggiata, uno di loro resse la carabina dietro la spalla e tese il braccio per fermare la carovana di semicingolati scortata da quattro motociclette. L’altro invece si chinò per scostare i rotoli di filo spinato distribuiti fra i cavalli di Frisia. Sgomberò la carreggiata, si mise in disparte assieme all’altro, e lanciò un ordine per far ripartire i mezzi.

Le prime a sgommare furono le motociclette. La scia grigia dei loro gas di scarico spalancò la strada alla fila di semicingolati, ai camion occupati dalle truppe che avevano appena attraversato il fiume, e agli unici due panzer che chiudevano la processione a passo d’uomo.

Germania guidò il loro gruppo a piedi e inviò un cenno ai due soldati di guardia e loro tornarono a bloccare la strada, a barricarla col filo spinato e i cavalli di Frisia.

Camminarono al centro della carreggiata deserta, distanti dagli edifici sfasciati dai bombardamenti aerei, lontani dal calore che bruciava dagli incendi ancora accesi e dalle ombre degli alberi sradicati che pendevano dai marciapiedi diventati tutt’uno con l’asfalto. Le briciole a scricchiolare sotto i piedi e le gambe affondate fino alle ginocchia nei gas di scarico.

Fiancheggiarono una cattedrale ortodossa con le cupole dorate ancora in piedi ma con parte della facciata frontale franata sul viottolo d’accesso. Imboccarono una strada che sfilava sotto un cavalcavia e passarono attraverso l’arco del ponte sotto cui avevano accumulato montagne di macerie che ne toccavano la volta. Sacchi di sabbia utilizzati per costruire le trincee, ammassi di mattoni ancora interi e riutilizzabili, traverse di legno per barricare le strade, e un autocarro tedesco coperto da un telo impermeabile.

Tornarono alla luce. Li travolse una folata di vento proveniente dagli edifici bruciati. Carri tedeschi erano fermi davanti alle case in fiamme, alcuni soldati incrociavano il passo fra loro, rimontavano sulle motociclette e sugli autocarri, e proseguivano verso il centro della città, lasciandosi alle spalle le ali di fumo nero che toccavano le nubi e lo scricchiolio delle fiamme interrotto solo dal suono schioccante delle marce sull’asfalto.

Si guardarono tutti attorno e solo Germania tenne gli occhi fissi davanti a sé, le mani giunte dietro la schiena, e quello sguardo solenne e vincitore che pareva ingigantire la sua ombra attraverso le strade della città conquistata, come una larga mano piantata sul bottino.

Romano sollevò il naso verso il cielo, ne arricciò la punta, tastando quell’aria bruciata e stagnante che tante volte aveva respirato durante gli anni di guerra, e si accostò al fianco di Spagna, continuando a guardarsi attorno.

Romania tese la mano davanti alla fronte, reggendo con l’altra la cinghia del fucile. Si girò senza smettere di marciare di schiena, e scrutò attraverso i pennacchi di fumo provenienti dalle rive del Dnepr, oltre il cavalcavia che avevano appena superato. “La città è evacuata, avete detto?”

Fu Austria a rispondergli. “Sì.” Si passò il fucile da una spalla all’altra – cominciava a pesargli, e quella fitta aria umida di fiume gli penetrava le ossa, facendolo sentire più debole – e si diede una spolverata alla giacca. “Poi le nostre truppe sono dentro già da qualche giorno. L’Alto Comando dovrebbe aver già organizzato il Quartier Generale nel centro città.”

Romania compì una piroetta, tornò a camminare dritto, trotterellò per rimettersi al fianco di Bulgaria, e soffiò un sospiro amareggiato. “Sempre che sia rimasto qualche edificio in piedi per far da Quartier Generale.”

Bulgaria si diede una grattata ai punti di sutura da sopra la stoffa della giacca e rabbrividì, stropicciando il viso ricucito in un’espressione di raccapriccio. “Be’...” I ricordi della primavera passata si arrampicarono lungo la schiena e il ventre, lo addentarono come l’abbraccio di filo spinato nel quale era caduto qualche settimana prima. “È ridotta meglio di Belgrado, questo è sicuro.”

Gli stessi ricordi schiaffeggiarono anche il viso di Ungheria, riportandola a calpestare le strade morte della Jugoslavia e quel terreno sanguinante che gridava di dolore a ogni loro passo. Si mise al fianco di Italia – non lo aveva mai abbandonato, da quando si erano riuniti a Lokhvitsa – e gli raccolse la mano fredda e sottile, dandogli una stretta d’incoraggiamento che servì più a lei che a lui.

Bulgaria accelerò il passo, superò Spagna e Romano, e si portò accanto ad Austria che marciava affianco a Prussia e Germania. “Dite che Russia sia qua in città?” I suoi occhi guizzarono da un edificio all’altro, nei punti dove le strade si stringevano, riducendosi a piccoli vicoli di sterrato. Un lampo d’allarme gli attraversò le pupille. “E se ci stesse tendendo un agguato?”

Austria scosse il capo, sistemò la montatura degli occhiali. “L’Armata Rossa è evacuata. Attaccarci senza il sussidio di un esercito sarebbe alquanto controproducente da parte sua.”

Romano abbassò lo sguardo dal cielo e corrugò la fronte, si strinse la mano sul fianco. “Anche a Smolensk non aveva alcun esercito a supportarlo, eppure ci ha attaccati lo stesso.”

“A maggior ragione,” s’intromise Germania, “direi che deve aver imparato la lezione. Considerando la maniera in cui si è conclusa la battaglia.”

Italia strinse la mano di Ungheria e sussultò, risvegliato da quelle parole, dall’immagine di Ucraina che cadeva e che veniva trafitta davanti ai suoi occhi, rovesciando sangue e lacrime sulla terra martoriata. Scosse il capo e strinse gli occhi, non ci volle più pensare.

Il loro gruppo si separò dalla fila di automezzi che proseguì verso il centro della città, lungo la via imboccata anche dalle colonne di fanteria in marcia. Si ritrovarono di nuovo da soli, in quel silenzio solenne e rispettoso. Un silenzio da funerale.

Prussia accelerò il passo, superò Germania, si portò davanti a tutti, e spostò lo sguardo attorno a sé, animato da quell’ardore sotto i piedi, da quella gioia argentina che gli fremeva sempre nelle ossa ogni volta in cui calpestava il suolo sconfitto e conquistato. I suoi occhi erano sfere di sangue appena zampillato. “Con questo accerchiamento, alla fine, abbiamo disintegrato ben cinque intere armate sovietiche.” Ghignò. Si sentì camminare su un drappo scarlatto, un’aureola celestiale a circondarlo. “Se questo non ci farà finire sui libri di Storia...”

Gli occhi di Germania invece rimasero vigili, l’orecchio teso su ogni crepitio del fumo, su ogni schiocco emesso dalle sue suole, su ogni sibilo soffiato dalla terra morente. “Ma non è ancora giunta l’ora di abbassare la guardia o di prendere sottogamba questa campagna. Dovremo poi distribuire le divisioni in Crimea e nel Bacino del Donez, ora che li abbiamo conquistati. Dobbiamo impedire qualsiasi tentativo di Russia di riconquistarli, altrimenti riotterrebbe l’accesso al serbatoio carbonifero, e per noi ricomincerebbe tutto daccapo.”

Prussia congelò un passo a mezz’aria e camminò all’indietro, si rimise di fianco a suo fratello. “Credi che Russia tenterà comunque un’altra controffensiva?” Un’ombra di serietà ricadde sul suo viso. “Per lo meno dove si tratta di riappropriarsi dei giacimenti.”

“Forse.” Incrociarono una pattuglia di fanteria in marcia che proseguiva in fila per due. I soldati rivolsero loro il saluto militare, continuando a battere ritmicamente i passi sull’asfalto, e Germania rispose con un cenno d’assenso. Tornò con entrambe le mani dietro la schiena. Anche lui proseguì il suo cammino. “Ma dentro di me so che non ne avrebbe il potere. A sud i russi non sono più in grado di stabilire un fronte capace di una seria resistenza. Secondo le mie previsioni, ora staranno impiegando tutte le energie per creare un nuovo fronte più a est e rafforzare la barriera difensiva attorno a Mosca.”

Prussia annuì, soddisfatto. “Ma noi siamo qui a impedirglielo, o no?” Calciò via la scaglia di una maceria, spedendola alla base di una parete ancora integra. “Ormai Russia è completamente perso. Dopo questa botta e dopo che continueremo a dissanguarlo, succhiandogli via tutta la potenza industriale di cui dispone, non sarà più in grado di reagire. E noi avremo finito il grosso del lavoro prima dell’arrivo dell’inverno.”

Un boato spaccò il silenzio e sfrecciò sopra di loro. Una formazione di bombardieri tedeschi si ritirò nelle retrovie, attraversando i fumi che sovrastavano Kiev e scomparendo dietro i tetti degli edifici, oltre le guglie dorate delle chiese risparmiate dalle esplosioni.

Solleticate da quel rombo familiare, le orecchie di Prussia fremettero. Il suo cuore si gonfiò di aspettativa. “Che piano utilizziamo per arrivare a Mosca?”

Germania sbirciò alle sue spalle con la coda dell’occhio.

Bulgaria teneva la mano distesa davanti alla fronte e stava ancora guardando per aria, verso le scie graffiate dai bombardieri, lasciandosi guidare dal passo di Romania. Austria vigilava alle loro spalle, l’occhio fermo su Ungheria e su Italia che procedevano lenti, mano nella mano come due bambini. Romano guardò circospetto i posti di blocco che superarono passando oltre i mezzi posteggiati affianco alle macerie, standosene riparato contro Spagna e mantenendo quel mezzo broncio di diffidenza.

“Per ora,” disse Germania, “voglio davvero assicurarmi che Kiev non sia più in grado di risollevarsi dopo questa invasione. Darò ordine di continuare il rastrellamento fino ai primi di ottobre, e di continuare a scaricare bombe aeree dovunque ci siano segni di una ritirata sovietica. Dopo di che...”

“Fermi.”

L’eco di quel richiamo rimbalzò fino a loro. Era una voce dolce ma spezzata da un sussulto di dolore, che pareva provenire dalle stesse viscere di Kiev.

Si fermarono tutti, Spagna bloccò Romano, Ungheria strinse la mano a Italia e lo tenne protetto, e Germania tese il braccio, coprendo gli altri alle sue spalle. Compì un ultimo passo in avanti, verso la presenza in avvicinamento, e mise mano al fucile senza calare l’altro braccio.

Una sagoma si fece spazio in mezzo al fumo e alla nebbiolina di polvere galleggiante. Sollevò le mani sopra le spalle, avanzò a passo lento ma deciso al centro della strada, e sventolò il pugno a cui era aggrappato un panno bianco, un segno di resa. Il vento soffiò contro la sagoma sempre più alta, scoprì il viso bianco di Ucraina, il corpo smagrito fasciato dall’uniforme sovietica, lo sguardo alto e sovrano, e i suoi tristi occhi azzurri che premevano solo su Germania. Nessuno alle sue spalle. Ad accompagnarla c’era solo lo scricchiolio lento delle suole sulle macerie sbriciolate e l’eco lontano degli incendi.

Austria schiuse per primo le labbra, incapace però di trarre un solo filo di fiato. I suoi occhi s’illuminarono di incredulità. “Ma quella è...”

Anche Germania fu colto da una scossa che risalì la schiena, gli strappò un battito dal petto, e gli congelò il viso in un’espressione attonita.

“Ucraina!” esclamò Spagna dietro di lui, dando voce al suo stupore. “Quella è Ucraina.”

A Germania bastò un battito di palpebre e una tirata di fiato per riguadagnare il suo sguardo di ghiaccio e la sua granitica espressione da comandante. Tornò a distendere il braccio come quando aveva bloccato il gruppo dietro di lui, e affettò l’aria con un secco guizzo della mano. “Puntate.”

Tutti raccolsero il proprio fucile e scagliarono la mira su Ucraina. Italia reagì per ultimo, diede una scrollata al capo, si sfilò la cinghia dalla spalla, raccolse il peso dell’arma che gli stava cadendo in avanti, e raddrizzò la volata senza infilare l’indice nel grilletto. Le braccia tremolarono.

Germania non si armò. Andò incontro a Ucraina a passo incalzante ma non affrettato, circondato da quell’aria rovente e brulicante di tensione, soffiata dalle bocche di fuoco dei fucili pronti a rigurgitare una grandine di proiettili al suo minimo segnale.

Ucraina rallentò il passo. Non abbassò lo sguardo, non lo distolse da Germania. “Non sparate.” Si fermò per prima. Tenne le mani in mostra e diede una scrollata al panno bianco che reggeva in quella sinistra. “Vengo in pace. Non voglio combattere.” Mostrò due occhi annebbiati dalla sconfitta ma non sottomessi. “Hai vinto la battaglia, Germania. Kiev è tua, come il resto del mio paese.” Quel tono sconfitto trasudò dolore e dignità. “Mi arrendo.”

Italia calò il suo fucile per primo. Lo sguardo di chi non sa se sentirsi impietosito o se tenersi sulla difensiva, come gli era successo durante il suo ultimo incontro con Grecia, quando si era fatto scortare nella cella, lo aveva trovato incatenato, e si era comunque sentito lui quello sconfitto.

Bulgaria inarcò un sopracciglio e scoccò un’occhiata scettica a Romania. Romania si tenne aggrappato al suo fucile, la mira ancora alta, e fece spallucce, impotente e confuso come lui. Romano guardò in direzione di Spagna, come in cerca di una sua approvazione, di una spiegazione che lui non riusciva a trovare. Ungheria cercò lo sguardo di Austria, e Austria fece lo stesso con Prussia.

Prussia scostò il mento dal corpo del fucile e inviò un cenno a Germania, indicando Ucraina ferma davanti a loro con le mani alzate e il segno di resa impugnato fra le dita.  

Germania la ripercorse da capo a piedi, si soffermò sul petto, dove l’aveva vista sanguinare fino a perdere i sensi. Un lieve bruciore di frustrazione gli formicolò sul viso. È ancora viva? Attorno a lui Kiev bruciava, gli incendi soffiavano gli aliti marci e sofferenti di un cadavere in putrefazione, e la terra gli trasmetteva gli stessi spasmi violenti e irregolari di un corpo agonizzante che sta per spegnersi. Nonostante tutto quello che ha passato e nonostante tutto quello che la sua nazione sta subendo? Da dove può trovare la forza anche solo di stare in piedi?

Bulgaria flesse il capo di lato, sbatté le palpebre in un’espressione spaesata. “Sul serio? È...” Staccò una mano dal fucile e si strofinò la nuca. “È davvero così facile? Ti arrendi senza fare storie?”

Ucraina mantenne la testa alta. “In che maniera potrei continuare a difendermi e a combattere? La città è sotto assedio, l’Armata Rossa ha appena effettuato l’evacuazione.” Distolse lo sguardo, nascose una luce diversa, estranea a quegli occhi limpidi, abituati a far trasparire solo la verità. La bocca pesò nel pronunciare quelle frasi, le parole rotolarono come un fardello. “E anche mio fratello ha già intrapreso la strada verso Mosca. Persino lui ha capito che ormai non c’è più nulla che possa salvarmi e mi ha lasciata al mio destino.”

Germania socchiuse le palpebre. Sotto il suo naso si condensò l’acre odore del fumo, il vento soffiò sulla sua nuca sudata e gli pizzicò la pelle del collo, lasciandogli addosso quel bruciante e fastidioso presentimento che gli rese la vista più nera e il sangue più freddo. Russia non è a Kiev?

Romano abbassò il fucile. “Ti ha abbandonata qui?” sbottò con tono deluso. “Che razza di...” Si morse la lingua, si contenne. “Perché l’ha fatto?”

Ucraina non riuscì ancora a guardare in viso nessuno di loro. “Gli ho chiesto io di farlo. Volevo che accorresse a difendere la sua capitale, volevo che almeno lui e gli altri si rifugiassero al sicuro, al contrario di quello che non sono stata in grado di fare io.”

Germania compì un altro passo avanti. “E credi davvero che per Russia basterà rintanarsi a Mosca per sopravvivere all’invasione?”

“Se non altro potrà guadagnare del tempo.”

Prussia si abbandonò a una rauca risata liberatoria. “E dopo aver fatto quello, cosa credi che succederà? Che il caro fratellino riuscirà a contrastare la nostra avanzata? Che riuscirà a respingere un nemico che lo sta massacrando dall’inizio dell’estate?” Ricacciò anche lui il fucile sulla spalla. “Avreste dovuto rivalutare la vostra strategia qualche mese fa, mia cara Fräulein. Ormai mi sembra un po’ tardi per questi cambi di programma.” Le rivolse una scura occhiata d’intesa che parve guardarla dentro. “Soprattutto se speri che lui riesca a riportarti dalla sua parte dopo oggi.”

Ucraina non disse nulla, non levò nemmeno lo sguardo da terra.

Bulgaria scivolò di un passo contro Romania e si incollò al suo fianco. “L’ha davvero lasciata qui mentre lui è corso a Mosca con la coda fra le gambe?” bisbigliò. “Che bastardo.”

Romania calò la mira del fucile, ma continuò a pensarci, a lasciarsi assorbire da quel pensiero, da quel solletico alla punta del naso che gli suggeriva il contrario. Sì, proprio una bastardata. Ma cosa avremmo dovuto aspettarci da Russia? Se la sua nazione si trova in una posizione alta come la sua, non è di certo per il suo senso di altruismo e solidarietà. Eppure, c’è ancora qualcosa che... Si lasciò trascinare dai ricordi. Si ritrovò davanti agli occhi fraterni e protettivi che Russia aveva dimostrato davanti a Moldavia quando l’aveva raccolto fra le braccia, quando si era lasciato impietosire e aveva abbassato il fucile dalla nuca di Romania, permettendogli di fuggire, quando anche lui era riuscito a rivelare uno scorcio del suo lato umano. C’è ancora qualcosa che mi dice che forse nemmeno lui sarebbe capace di un gesto tanto meschino.

Ungheria si avvicinò ad Austria, tenendosi dietro la sua spalla e continuando a proteggere Italia nella sua ombra. “Credi sia vero? Russia è davvero arrivato ad abbandonare sua sorella pur di vincere?” Scosse il capo, avvilita. “Nemmeno io avrei mai creduto che sarebbe stato in grado di farlo.”

Austria corrugò uno sguardo incerto, non seppe cosa pensare, non seppe cosa risponderle.

La parola di Germania tornò a imporsi e parlò in nome di tutti. “Le decisioni di Russia non sono comunque sotto la nostra competenza. A prescindere dalle sue prossime strategie, noi saremo sempre in grado di contrastarlo, ed è solo questo che conta. Alla luce di questo...” Si rivolse a Ucraina con maggior rispetto. “Ucraina è pienamente padrona delle sue azioni. Se le sue intenzioni sono quelle di consegnarsi, allora la accontenterò.”

Prussia inviò un’occhiata d’intesa a Spagna e Austria, li chiamò a sé con un cenno della mano, e si fecero avanti tutti e tre per raggiungerla e prenderla in custodia.

Germania li bloccò. “Fermi.”

Si fermarono.

Gli occhi di Germania scivolarono sul corpo di Ucraina, sulle pieghe dell’uniforme, sui rigonfiamenti della giacca. Si fecero talmente aguzzi da dar l’impressione di poterle strappare la stoffa di dosso. “Prima perquisitela. Potrebbe avere dell’esplosivo addosso.”

Bulgaria accostò una mano alla guancia ricucita e rabbrividì, sbiancando fino alla punta del naso. “Un attacco suicida? Ecco la fregatura.”

Romania gli batté una gomitata sul braccio.

Austria gettò lo sguardo in disparte, arrossì, e arretrò di un passo. Se ne occuparono solo Prussia e Spagna.

Ucraina rimase fedele alla sua docilità e divaricò le braccia, permise alle loro mani di avvolgerle i fianchi, di percorrere la cinta attorno ai pantaloni, di infilarsi nelle tasche della giacca, di scendere lungo le cosce e di risalire fino al ventre, di tastare attorno alle spalle e attraverso la schiena.

Prussia le sbottonò la giacca con due secchi colpi di mano e spalancò i lembi, rivelando la camicetta di cotone. Arricciò un angolo della bocca, esitò, e contrasse la mano davanti al suo petto, congelando il tocco. Si lasciò cogliere da un pizzicore di disagio. “Potrebbe anche avere dell’esplosivo sotto...” Si rivolse a Germania e accennò alla camicetta.

Spagna ritirò la mano, divenne rosso come lo era diventato Austria prima, e strinse le dita a pugno.

Ungheria – gli occhi distanti come quelli degli altri e le guance ancor più rosse – raccolse un pugno davanti alle labbra e tossicchiò. “Posso occuparmene io, se per voi è un problema.”

Germania decise di fidarsi. “No. Non è necessario.” Quella breve scossa di imbarazzo gli scivolò addosso come pioggia, non lo scalfì nemmeno. “Ammanettatela.”

Spagna le strinse un braccio attorno a un gomito per evitare che scappasse o che si ribellasse, e Prussia fece correre il tocco attorno alla sua cinta, in cerca delle manette.

Austria si rimise a braccia conserte, raggiunse Germania. “Cos’hai intenzione di fare con lei?” gli chiese. Il tono abbastanza basso da non poter essere udito da Ucraina. “Non possiamo farcene carico per tutto il resto della campagna. Sarebbe troppo rischioso tenerla con noi mentre avanziamo sul territorio. Potrebbero riconquistarla in qualsiasi momento.”

Germania aggrottò la fronte, i suoi occhi si fecero scuri, la sua mente distante, di nuovo rivolta alla precedente confessione di Ucraina. Russia è scappato a Mosca. È scappato a Mosca mentre io credevo che non sarebbe stato in grado di muovere nemmeno un passo sapendo che sua sorella sarebbe stata in mano nemica. Una ferita di delusione lacerò il suo animo, spense quella fiamma con cui era entrato a Kiev. Forse il loro legame non è così forte come mi ha fatto credere? “Per ora la terrò sotto sorveglianza finché anche noi saremo qua a Kiev, e cercherò di estrapolare più informazioni che posso sui prossimi piani di Russia. Ma dubito che potremo ricavare qualcosa di realmente rilevante. Se Russia sapeva fin dall’inizio che lei si sarebbe consegnata, l’avrà tenuta all’oscuro dei suoi piani proprio per evitare che parlasse. Quando anche per noi arriverà il momento di lasciare Kiev...” Rivolse lo sguardo al cielo dello stesso colore dei suoi occhi. “Allora la farò portare a Berlino, in prigione, dove nessuno avrà i mezzi per liberarla.”

Ucraina giunse i polsi e porse i pugni chiusi di sua volontà. Prussia le passò gli anelli delle manette sotto le maniche, a contatto con la pelle, con le ossa sporgenti. Seguì il gracchio, lo schiocco metallico, e la scossa fredda che la rese prigioniera. Ucraina strinse e rammollì le dita sbiancate, tenne i polsi giunti davanti al ventre, chinò la fronte, e accettò il suo destino.

Germania si riportò in cima al gruppo, guidò la processione della prigioniera. “Per ora seguici. Non abbandoneremo Kiev prima di aver stabilito nuove direttive. E tu dovrai dirci tutto quello che avremo bisogno di sapere.” Un’ultima occhiata volò da sopra la sua spalla. “Ti consiglio di essere collaborativa.”

“Lo sarò.”

Si rimisero in marcia. Romano sgattaiolò dietro Spagna che reggeva una delle braccia di Ucraina assieme a Prussia. Ungheria raccolse la mano di Italia e lo portò con sé affianco ad Austria. “Vieni, Ita.” Incrociarono il passo con loro che stavano portando Ucraina alle spalle di Germania.

Gli occhi di Ucraina catturarono quelli di Italia, si soffermarono su di lui e lei voltò la guancia per continuare a guardarlo anche dopo averlo superato.

Italia ebbe un brivido. La sgradevole sensazione che Ucraina lo stesse cercando fin dall’inizio.

Lo sguardo di Ucraina si fece ancora più buio e addolorato rispetto a quando era venuta loro incontro con le mani alzate. I suoi occhi luccicarono, come facevano sempre prima di spandere un pianto che lei trattenne con un sospiro. Sfiorò Italia con un sussurro, “Perdonami”, e proseguì quella marcia desolante, avvolta da un’ombra di cordoglio.

Italia arrestò il passo, pietrificato da quello sguardo, da quella singola parola che lo aveva trafitto come un proiettile, risucchiando la luce dalla sua vista e il calore dalla sua pelle. Deglutì, ma quel groppo di disagio gli rimase in gola, amaro e stomachevole come una cucchiaiata di zuppa da campo. Dopo tanto tempo, dovette accostare la mano al petto e grattarsi la cicatrice sul cuore, graffiando via quel colloso e ghiacciato senso di disagio di cui sapeva avrebbe dovuto aver paura.

Sorretta da Prussia e Spagna, Ucraina guardò indietro, oltre i fumi della città, dove sapeva che qualcuno la stava ancora sorvegliando. Strinse i pugni ammanettati che già cominciavano a pesare, inspirò attraverso il petto cicatrizzato che emanò un’ultima pulsazione di dolore, e si affidò alle fredde braccia del nemico.

 

.

 

L’immagine ingrandita di Ucraina ammanettata, raccolta per il braccio da Prussia, sorvegliata sull’altro fianco da Spagna, e scortata via da Germania che apriva la fila, scivolò via dalle lenti segmentate del binocolo, lasciandovi solo la lunga lingua di strada asfalta su cui si specchiava il riflesso rossiccio degli incendi più vicini.

Bielorussia calò il binocolo dal viso. A occhio nudo, tutte e dieci le nazioni raggiunsero le dimensioni dell’unghia del suo mignolo, si spostarono fra le viscere di Kiev, e seguirono il tragitto compiuto dalla carovana di mezzi blindati, dirigendosi verso il centro della capitale. “Hanno abboccato.” Si girò verso Russia. Un fremito di impazienza a correrle fra le fossette della fronte aggrottata. “L’hanno presa. Ormai è fatta.”

Anche Lituania abbassò il suo binocolo. Spinse la punta dell’indice sulla zona della carta topografica su cui avevano segnato una delle croci, guardò verso la strada, di nuovo sulla mappa, e trovò l’edificio anche in mezzo alle vampate di fumo nero che sorgevano dai tetti delle case. “Dove si staranno dirigendo?” Fece scivolare l’indice su un’altra zona di Kiev contrassegnata dall’ennesima croce. “Le basi tedesche dovrebbero essere...”

“All’Hotel Continental.” Russia si sporse di lato e sbirciò anche lui la mappa da sopra la spalla di Lituania. Allungò il braccio, sovrappose l’indice al suo, trovò l’hotel. “Quella è una delle basi del loro Quartier Generale più frequentate. È là che si terranno tutte le riunioni dell’Alto Comando Tedesco. Ed è là che sono piazzate parte delle cariche che ho già fatto installare dagli agenti del NKVD.”

Bielorussia mollò il binocolo, lo lasciò ciondolare dal collo, e picchiò il pugno sul palmo. “Facciamo partire le cariche a distanza e schiacciamoli come gli scarafaggi che sono.”

“No,” le rispose Russia. “Non ancora, non avere fretta.” Sfilò l’indice dalla carta e si rimboccò la sciarpa, e si rialzò da terra, seguito dagli altri. “Dovremo essere presenti anche noi quando succederà, quindi dobbiamo raggiungere l’hotel prima che lo facciano loro. E dobbiamo assicurarci che siano tutti al loro interno.”

Lituania sollevò un sopracciglio, diffidente. “Non...” Le mani strette sugli orli della mappa tremolarono. “Non sarà pericoloso? Intendo, se dovessimo finire per ferirci anche noi, o se anche Ucraina dovesse venire travolta, non so se...”

“È un rischio che dobbiamo correre.” Russia posò una mano sulla spalla di Lituania, per farsi seguire, e guidò anche Bielorussia verso la strada che li avrebbe riportati in città. “Andrà tutto bene,” disse, ripetendo quella frase con cui Ucraina aveva sempre cullato le sue speranza e consolato i suoi dolori. Se ne fece carico, la invocò come una preghiera. “Fidatevi di me e vi prometto che andrà tutto bene.”

   
 
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