Érebos
– 1
Alekos
stava saltellando allegramente per il prato, mentre alcune farfalle
danzavano
attorno a lui, gli uccellini cinguettavano lieti e le fontane
zampillavano,
gorgogliando.
Atena
osservava l’intera scena con aria persa, godendosi il fresco
perenne dei Campi
Elisi e l’aria di assoluta serenità di quei luoghi.
Sapeva
che non era come il mondo terreno, dove brillava il sole, un vento
reale ti
schiaffeggiava il viso e la neve poteva ammantare ogni luogo, rendendo
tutto
ovattato e romantico.
Il
solo fatto di poter passare del tempo con Alekos, comunque, era di per
sé già
un dono, e Atena era abbastanza onesta da essere contenta di poter
avere almeno
questo.
Nessun
essere umano poteva contare su simili grazie.
Dei
passi leggeri alle sue spalle la portarono a volgere lo sguardo e, non
senza
sorpresa, vide comparire la figura leggiadra e di nero vestita di Nyx.
La
dea della Notte, divinità Ctonia figlia di Caos, era stata
la più reticente tra
tutte, a presentarsi al suo cospetto, da quando aveva avuto la
possibilità di
vedere Alekos nell’Oltretomba.
Forse,
o almeno Atena così pensava, perché ad aver
reciso il filo della vita di Miguel
e Alekos era stata una delle sue figlie. Atropo.
Quando
finalmente Nyx si era decisa a presentarsi al suo cospetto, lo aveva
fatto con
il capo velato, penitente e con lo sguardo basso.
Atena,
però, aveva passato da tempo il periodo in cui aveva
ingiuriato le Moire e il
loro destino beffardo e crudele e, quando l’aveva vista, si
era limitata a
liberarle il volto dal velo scuro per baciarle le guance.
Ne
aveva accettato le scuse – persino Thanatos aveva tentato di
farle capire il
perché non avesse potuto evitare di fare ciò che
aveva fatto – e Atena l’aveva
infine spinta a tornare a trovare Alekos.
Desiderava
che il figlio conoscesse tutta la sua immensa famiglia immortale,
perché non
fosse mai solo e si sentisse amato e protetto da tutti coloro che lo
circondavano.
L’unico,
a ben vedere, a non farsi mai vivo al suo cospetto, era stato
Érebos, il
compagno di Nyx e, a sua volta, padre di Atropo. Del vecchio amico, non
aveva
notizie da anni.
“Buongiorno,
Nyx. Qual buon vento ti porta qui?” esordì Atena,
invitandola a sedersi accanto
a lei sul prato.
Nyx
le sorrise timida e annuì, accogliendo l’invito e,
dopo aver sistemato la lunga
veste scura – su cui Atena poteva scorgere il cielo stellato
che vedevano gli
umani ogni notte – disse: “Per la
verità, volevo sapere se potevi farmi un
favore.”
Sorpresa,
Atena domandò: “Dimmi pure. Cosa potrei fare per
te?”
“In
realtà, non è niente di così terribile
o complicato. Solo, non so se vorrai
farlo” tentennò Nyx, giocherellando nervosamente
con le mani.
Sempre
più confusa, la dea della guerra e delle arti
inclinò il capo fulvo – quel
giorno, le morbide chiome erano rilasciate sulle spalle in onde dorate
e che le
giungevano fino alla vita – e domandò ancora:
“Cosa stai cercando di non dirmi,
Nyx?”
Sospirando,
la dea della Notte allora mormorò: “Si tratta di
Érebos. Credo sia molto depresso.
O meglio, è oltre la depressione già da tempo, e
credo che mediterebbe anche al
suicidio, se non fosse che è una divinità
Ctonia.”
Atena
fece tanto d’occhi, a quella notizia, ed esalò:
“Sono anni che non lo vedo,
Nyx. Come pensi che, il mio contributo, possa servire a strapparlo
all’inedia e
al dolore?”
“Beh,
ecco… si duole per ciò che è successo
ad Alekos e Miguel. Non ha mai superato
il fatto che Atropo abbia fatto ciò che ha fatto,
e… insomma…”
Atena
sorrise tristemente e replicò: “Per questo
è l’unico dio che non è mai venuto
qui? Persino Thanatos mi ha avvicinato per scusarsi, pur sapendo bene
che sono
cose che avvengono indipendentemente da tutto. Se riceve
l’impulso, lui deve
farlo, come qualsiasi altro dio.”
“Érebos
non si dà pace per le azioni di nostra figlia e, anche se io
gli ho detto che
tu hai perdonato Atropo, non riesce a farsene una ragione” le
spiegò lei,
sospirando e scuotendo il capo per la sofferenza.
Atena,
allora, le sfiorò una spalla con la mano, sorrise e disse:
“Proverò a parlarci
io, a costo di tirarlo fuori dal buco in cui si è infilato
per farlo rinsavire
a suon di pugni. Sono pur sempre la dea della guerra, no? Uno
stratagemma saprò
pur idearlo.”
Nyx
la abbracciò con calore e mormorò: “Ti
ringrazio, Atena. So di chiederti molto,
ma non saprei a chi altro chiedere, se non a te. Lui ti vuole tanto
bene!”
“E
io a lui, per questo ti aiuterò” la
rincuorò Atena, sollevandosi e chiamando a
sé Alekos.
Il
bambino, di ormai sette anni, trottò da lei agilmente, i bei
capelli scuri che
ricadevano in riccioli morbidi sulle sue spalle.
Con
un certo divertimento da parte di Atena, il corto spadino che Ares gli
aveva
regalato era ben legato in vita grazie a una cinta di pelle dono di
Artemide, e
Alekos non lo abbandonava mai.
Tra
tutti gli dèi, Ares era quello che maggiormente lo aveva
preso sotto la sua
ala, addestrandolo e istruendolo nelle arti della guerra, ma senza
sconfinare
nel macabro.
Atena
si era sorpresa di questo lato tenero nel fratello, ma Afrodite gli
aveva
confidato quanto, la morte di Alekos, lo avesse a suo modo sconvolto.
Pur
se avevano sempre litigato come cane e gatto, contrapponendosi in ogni
guerra
che veniva combattuta in loro nome, Ares le aveva sempre voluto bene, e
quella
disgrazia lo aveva toccato nel profondo.
Proprio
per questo, si era preso l’impegno di essere come un padre,
per Alekos, e il
bambino gli si era davvero affezionato molto.
“Mamma
si deve assentare per un po’, ma Nyx rimarrà qui a
farti compagnia, va bene?”
Alekos
assentì obbediente e, scrutando la bella dea della Notte, le
domandò: “Puoi
insegnarmi le costellazioni? Zio Ares dice che è importante
conoscerle, perché
ci indicano la via, durante la notte, senza avere bisogno dello
smartphone.”
Atena
rise a quell’accenno – purtroppo,
nell’Oltretomba non c’era campo, ma Ares gli
aveva comunque mostrato il suo cellulare – e Nyx, annuendo
divertita, asserì:
“Sarò onorata di spiegarti i flussi delle stelle e
le costellazioni nel cielo,
Alekos. Se prendi carta e penna, possiamo fare delle riproduzioni,
così sarà
più semplice.”
Il
bambino assentì felice e corse verso il gazebo dove teneva
le sue cose
scolastiche – per essere un ragazzino di sette anni,
conosceva più cose di
qualsiasi umano adulto – e Atena, con un sorriso, si
allontanò.
***
L’accesso
al centro della Terra, dove si trovava lo studio di Érebos,
era raggiungibile
tramite una lunga scala a chiocciola circondata perennemente dalle
nebbie.
Atena
la imboccò senza alcun problema, essendovi stata diverse
volte, in gioventù.
Non
la infastidiva la sensazione di umidore sulla pelle, visto che la
nebbia era
tiepida e piacevolmente profumata.
Si
discostava di molto dalle esalazioni metifiche e dal fetore sulfureo
del
Tartaro. Quello sì che era un luogo da cui stare ben lontani!
Continuando
a discendere in quel luogo senza dimensioni – le nebbie erano
abbastanza fitte
da non far percepire il baratro in cui ci si stava inoltrando
– Atena cominciò
a contare i gradini uno a uno.
Sapeva
bene o male di doverne conteggiare tremila, gradino più,
gradino meno. Così facendo
non si sarebbe persa, evitando di finire al centro della Terra invece
che nello
studio dove lavorava Érebos.
Questo
le diede il tempo di ripensare alle parole di Nyx e al suo disperato
tentativo
di salvare il fratello dall’autodistruzione –
impossibile, per un dio, ma
comunque assai dolorosa da sopportare, se protratta in eterno.
Come
spiegare a Érebos che non aveva animosità nei
suoi confronti, e che aveva
parlato anche con Atropo, venendo a patti con ciò che aveva
fatto?
Ciò
che la dea dell’ineluttabilità le aveva confessato
non avrebbe potuto portargli
alcun conforto – anche perché aveva trovato oscure
le sue parole. Inoltre, la
segretezza era un vincolo, in quel caso.
Nessuno
poteva conoscere il Fato di un altro, e ciò che le aveva
detto Atropo avrebbe
anche potuto costarle la divinità, o peggio. Destabilizzare
gli equilibri del
Cosmo.
Ben
sapendo quanto fosse un pericolo reale, Atena si era attenuta al
più stretto
riserbo e, già da due anni, teneva dentro di sé
quel segreto oscuro e
incomprensibile.
La via
è lunga e
perigliosa, affrontata solo una volta e una volta fallita.
Che
mai avrebbero potuto voler dire, quelle parole?
A
distanza di tempo, non le aveva ancora comprese, ma era inutile
rimuginarci
sopra, poiché ciò che non sapeva non poteva
essere di aiuto a Érebos per uscire
da quell’antro senza fondo.
Quando
infine raggiunse i tremila gradini, Atena allungò una mano
nella diafana
consistenza nebbiosa e, subito, un cancello dorato apparve dinanzi a
lei,
rischiarando l’ambiente.
Tutt’attorno
a lei divenne visibile un piccolo tempio dagli alti colonnati e il
simbolo di
Érebos sulla parte centrale del frontone; una falce di luna
in un cielo nero.
Atena
varcò il cancello senza ulteriori indugi e, dietro di lei,
la nebbia inghiottì
le scale, che divennero subito invisibili al suo sguardo.
Ora,
ai suoi occhi chiari era permesso di vedere unicamente il tempio e il
cortile
antistante.
Atena,
però, non si fece distrarre da quell’insolito
straniamento spazio-temporale e,
avanzando a grandi passi, penetrò nel pronao e si diresse
verso la biblioteca
del dio.
I
suoi passi rimbombarono nel tempio spoglio, rischiarato solo da rade
torce.
La
struttura in marmo bianco ricalcava in massima parte
l’architettura
greco-dorica, anche se alle pareti Atena poté notare delle
stampe moderne e
degli arazzi medievali.
Evidentemente,
Érebos doveva essere salito in superficie diverse volte, nel
corso dei
millenni, per visitare librerie e antiche biblioteche, la sua vera
passione.
Quel
luogo trasudava cultura e amore per le arti in ogni suo più
piccolo scorcio, e
denotava altresì la cura e la passione con cui il padrone di
casa se ne
prendeva cura.
Quando
Atena raggiunse infine lo studio del dio Ctonio, non fu
perciò sorpresa di
trovarlo sommerso di libri.
Quello
che, piuttosto, la sorprese, fu la quantità di tomi presenti
tutt’attorno alla
divinità, un tantino più esagerata rispetto a
quella che si sarebbe aspettata.
Anche da uno studioso suo pari.
Le
sembrava di scorgere Gandalf immerso nella biblioteca di Minas Tirith,
nel
famoso La Compagnia dell’Anello,
uscito diversi anni prima al cinema, e che lei aveva visto con piacere.
Le
colonne di libri, pergamene e appunti sparsi per l’ampio
studio era assai
ragguardevole, e l’odore delle candele ammorbava
l’aria con i suoi aromi di
cera d’api e olivo.
Dando
due colpetti alla porta aperta, giusto per annunciarsi, Atena
esordì dicendo:
“Érebos, posso entrare?”
La
sua voce parve raggiungerlo come al rallentatore. Il suo corpo ricurvo
si mosse
con lentezza anomala, come se fosse stato immerso interamente nella
melassa e
non fosse in grado di compiere movimenti coerenti o fluidi.
Atena
sollevò un sopracciglio con evidente curiosità,
di fronte a questa evidente
anomalia e, quando vide finalmente il volto di Érebos nella
sua interezza,
comprese perché Nyx si fosse preoccupata.
Aveva
sempre ritenuto il dio della notte uno degli uomini più
belli che si fossero
mai visti sul pianeta – così come nei vari
pantheon –, perciò la dea della
guerra trovò assolutamente sconvolgente quel volto smagrito,
pallido e coperto
da barba folta e ispida.
Sembrava
come svuotato di ogni luce di vita. La sua pelle naturalmente eburnea
appariva
smunta e quasi grigia e gli occhi, che erano sempre stati blu come il
cielo
prima del sopraggiungere della notte, erano spenti e opachi.
“Érebos…
ma cosa ti sei fatto?” esalò lei, raggiungendolo
in poche falcate mentre lui
tentata a fatica di sollevarsi dalla sedia su cui, presumibilmente, era
rimasto
seduto per mesi interi.
“Atena…”
mormorò lui, la voce roca e irruvidita dalla disabitudine a
parlare. “…ce l’ho
fatta.”
“A
fare cosa?” replicò la dea, sorreggendone tutto il
peso. Le dava l’impressione
che un solo alito di vento avrebbe potuto spazzarlo via.
Lui
si limitò a un mezzo sorriso e, senza dare nessun avviso ad
Atena, svenne.
***
Érebos
riaprì gli occhi molto tempo dopo e, nel fissare il soffitto
a botte della sua
stanza, si chiese confuso come vi fosse giunto.
Non
ricordava molto di ciò che era avvenuto
nell’ultimo periodo. Sapeva soltanto di
aver passato mesi nel suo studio, senza mai muoversi per…
per…
“Alekos”
mormorò il dio, balzando a sedere.
Solo
in quel momento si accorse di essere steso sul suo enorme letto, con un
pigiama
pulito addosso e – tastandosi il viso – senza la
barba sempre più lunga che
aveva invaso il suo volto in quel lungo periodo di isolamento forzato.
Atena
entrò in quel momento in camera, un vassoio tra le mani e,
vedendolo desto,
sorrise e disse: “Bene… chi non muore si
rivede.”
Lui
la fissò stranito per alcuni attimi prima di rammentare il
suo arrivo nello
studio e il suo tentativo, a quanto pareva fallito, di parlarle della
sua
scoperta.
“Atena…
sei stata tu a…”
Lei
accentuò il suo sorriso e, nei suoi occhi chiari, comparve
lo scintillio di un
pensiero malizioso, cui Érebos rispose con una risatina.
“Immagino
di sì, visto che Nyx non è qui a prendermi per i
capelli, o a insultarmi in
tutte le lingue del mondo.”
“Tua
sorella è preoccupata per te. E, da quel che ho visto, aveva
ragione. Ti sei
ridotto uno straccio. Sono otto giorni che deliri”
sottolineò Atena,
sgomentandolo.
“Otto…
giorni?” gracchiò lui, incredulo.
“Sono otto giorni che ti prendi cura di me? Non avresti
dovuto!”
“E
perché mai? Sei mio amico, Érebos, e non
è stato affatto un problema prendermi
cura di te” replicò la dea, fissandolo con
tranquillità.
“Il
tuo unico pensiero deve essere Alekos” sottolineò
lui, accigliandosi.
Atena
sorrise divertita per diretta conseguenza e, poggiato che ebbe il
vassoio sul
comodino di legno scuro, la dea si accomodò sul bordo del
letto e mormorò:
“Alekos ha capito la situazione, e mi ha pregato di prendermi
cura di te.”
Quelle
parole ebbero l’effetto di spezzare il fragile autocontrollo
di Érebos che,
senza poter impedire a se stesse di farlo, scoppiò in un
pianto silenzioso che
sorprese la dea.
Atena
lo guardò senza comprendere quel cedimento improvviso, ma
furono le parole del
dio a sciogliere ogni dubbio.
“Non
merito la sua bontà. La mia famiglia ti ha tolto
così tanto, e ha tolto così
tanto a lui… eppure è sempre così
dolce con me. Nyx mi porta ogni volta le
ghirlande che lui fa per me, oltre ai suoi inviti a giocare nel prato
dei Campi
Elisi… ma io non ne ho mai avuto il coraggio”
singhiozzò dolente il dio,
tergendosi il viso con gesti nervosi.
Atena
comprese così il perché di alcune ghirlande
rinsecchite presenti nello studio –
ora nuovamente accessibile e più ordinato – e,
sorridendogli comprensiva, gli
carezzò il capo e disse: “Ho parlato con Atropo,
Érebos. Va tutto bene. Né io
né Alekos siamo adirati con lei, o con te. Sappiamo che
certe cose vanno come
vanno per un motivo, anche se al momento può risultarci
oscuro.”
“Lei…
vi siete parlate?” esalò il dio, sospirando pieno
di sorpresa.
La
dea assentì, ovviamente mantenendo il segreto sulle sue
parole, e disse soltanto:
“Lascia perdere questo esilio volontario. Non ne giova
nessuno.”
“Aveva
uno scopo, anche se non ho potuto dirtelo subito, e hai dovuto
occuparti di un
relitto quale mi ero ridotto” replicò lui,
afferrandole una mano per portarsela
al petto con affetto.
Lei
accennò un sorriso e lasciò la mano
dov’era. Érebos e lei avevano un rapporto
profondo e lungo millenni, e non le spiaceva che venisse rinsaldato.
Inoltre,
da quello che Nyx non le aveva detto,
era una cosa che anche a lei avrebbe fatto piacere, oltre che a
Érebos stesso.
Da
quando era morto Miguel, non aveva più pensato a nessun uomo
– o dio – come a
un potenziale partner di vita. La sua mancanza, semplicemente, le aveva
riempito il cuore di ghiaccio.
Rivedere
Poseidone e scoprire la sua triste realtà, oltre alla
presenza nell’Oltretomba
del suo Alekos, le aveva permesso di superare lo scoglio della morte di
Miguel.
Da
quel giorno, era tornata a sorridere e, poco per volta, era tornata la
se
stessa di un tempo.
Aveva
ripreso i contatti con la famiglia di Miguel, e si era recata
più volte a
Sacramento, presso la loro abitazione, per festeggiare il Cinco de Majo piuttosto che il Dia
de Muertos.
Anche
questo l’aveva aiutata a ritrovare un equilibrio e, grazie a
queste novità
nella sua vita, era riuscita a fare visita alla tomba di Miguel con il
cuore
più sereno.
A
volte, passava ore intere a raccontargli del loro Alekos, e di come
fosse amato
e benvoluto da tutti.
Sapeva
bene che la sua voce si perdeva semplicemente nel vento senza mai
raggiungere
il suo Miguel, ma era confortante poterlo fare.
Quando,
perciò, aveva parlato con Atropo e Nyx, era riuscita a
essere coerente con se
stessa e obiettiva riguardo a ciò che era avvenuto. Non
v’era stata alcuna
colpa, nessun desiderio di ferire, ma solo il dipanarsi del Fato nudo e
crudo.
Sapere
di Érebos l’aveva quindi intristita e, quando
l’aveva trovato così provato e
infiacchito dall’esilio, non aveva potuto che prendersi cura
di lui.
Avere
a che fare con un uomo dopo tanti anni era stato strano, per lei, ma
l’affetto
aveva ben presto preso il sopravvento sull’imbarazzo e la
disabitudine.
In
qualche modo, tra i frequenti stati di delirio, era anche riuscita a
far
mangiare Érebos e, dopo otto giorni di riposo, egli aveva
ripreso il vigore di
un tempo e la sua bellezza quasi imbarazzante.
I
fluenti capelli neri, non più ingrigiti dalla debilitazione,
erano nuovamente
morbidi e arricciati sulle punte e i suoi occhi blu riflettevano le
stelle del
cielo anche in quell’antro profondo e buio.
“So
cosa fare. Per Alekos” disse infine Érebos,
sorprendendola e strappandola a
quei pensieri errabondi.
“Come?”
esalò la dea, irrigidendosi leggermente.
Lui
assentì e, scivolando fuori dal letto dalla parte opposta
rispetto ad Atena,
rise e chiosò: “Ah… hai trovato i miei
pigiami di Valentino?”
“In
effetti, mi hai stupito. Non sapevo fossi così
modaiolo” ironizzò lei,
levandosi in piedi a sua volta.
“Sono
morbidi sulla pelle” si limitò a dire lui,
oltrepassando l’enorme letto per
raggiungerla e afferrarle una mano. “Vieni con me. Ti
mostrerò ciò che ho
scoperto.”
Lei
lo seguì senza protestare e, quando raggiunsero lo studio,
Érebos ebbe nuovamente
di che stupirsi e di che essere grato ad Atena.
Sorridendole
pieno di gratitudine, mormorò: “Credo che non sia
mai stato così in ordine, o
pulito. Non dovevi. Davvero.”
“Ero
qui. Comunque, ho solo messo le cose in ordine e le ho spolverate, ma
non le ho
spostate da come le avevi impilate, così sarebbe stato
più semplice riprendere
i tuoi studi” si limitò a dire lei, grata a
Érebos della stretta alla sua mano.
Era
piacevole sentire il suo calore.
Il
dio allora entrò con lei nello studio e, indicandole una
pergamena arrotolata
sulla scrivania nuovamente linda, disse: “So come salvare
Alekos da questo
mondo.”
“Cosa?”
ansimò lei, impallidendo leggermente. “Ma non
può…”
Lui
scosse il capo, le afferrò le spalle pieno di speranza e
ripeté: “Possiamo
riportare Alekos nel mondo dei vivi.”
Lacrime
copiose riempirono gli occhi chiari di Atena che, con la voce spezzata
dall’emozione, esalò: “Ma
è… è morto. Non può
più uscire da qui.”
“Euridice,
pensa a Euridice” le rammentò il dio, facendole
sgranare gli occhi.
“Ma
lui non è mai vissuto, Érebos. E’ nato
morto, perciò non ha vissuto una vita
come Euridice” replicò lei, non volendo
aggrapparsi a nessun tipo di speranza.
Sarebbe stato troppo doloroso crederci, per poi scoprire che non era
vero.
“Sì,
lo so, … ma pensaci bene. Tuo figlio è vissuto
per otto mesi nel tuo grembo,
amato e coccolato. Respirava e viveva attraverso te perciò,
in linea teorica,
può essere considerato una creatura vivente a tutti gli
effetti, anche se non
ha mai camminato su questa Terra. Essendo figlio di una dea, inoltre,
ha maggiori
possibilità di riuscita rispetto a Euridice.”
Atena
serrò gli occhi, scosse il capo e non riuscì a
impedirsi di piangere così
Érebos, stringendola in un abbraccio consolatorio,
mormorò contro la sua chioma
ramata: “Scusa se ho impiegato tanti anni a scoprire cosa
cercare, e come
cercare.”
“Sei
sicuro che funzionerà?” singhiozzò la
donna, scostandosi per scrutarlo con
impazienza e dubbio insieme.
“Solo
tu potrai scoprirlo, perché la parte più
difficile spetterà a te” sospirò
Érebos. “Dovrai percorrere il Sentiero di
Orfeo.”
Atena
sgranò gli occhi, atterrita, e ripensò alle
tragiche vicende dei due amanti.
Euridice
era morta per il morso di un serpente e Orfeo, pazzo di dolore per lei,
era
riuscito a commuovere i signori dell’Oltretomba e le stesse
Erinni, con le sue
melodie strazianti.
Gli
era stato perciò concesso di raggiungere
l’Oltretomba e di percorrere a ritroso
il sentiero, conducendo con sé l’anima di
Euridice. Gli era stato però ingiunto
di non guardarla mai, e a ciò si era attenuto…
fin quasi alla fine.
La
foga di rivedere l’amata lo aveva tradito, però, e
l’anima di Euridice era
stata risucchiata nuovamente nell’Oltretomba, portando
così all’inedia e infine
alla morte il dolente Orfeo.
La via
è lunga e
perigliosa, affrontata solo una volta e una volta fallita.
Le
parole di Atropo tornarono prepotenti nella sua mente e Atena, turbata,
si
domandò se ciò che le aveva prospettato la dea
Ctonia fosse per l’appunto
questo.
Ma
come affrontare un simile sentiero?
Avrebbe
dovuto attraversare lo Stige, il fiume dell’odio. A seguito
il Cocito, o fiume
dei pianti, e l’Acheronte, il fiume dei dolori.
Già
questo, l’avrebbe messa a dura prova, e così il
piccolo Alekos. Ma ancora non
sarebbe bastato perché sarebbero rimasti loro da affrontare
il Flegetonte, o
fiume del fuoco e infine il più infido di tutti, il Lete.
Il
fiume dell’oblio e della dimenticanza.
Il
suo amore e quello di Alekos sarebbero sopravvissuti a
quell’ultima, terribile
prova? Davvero non lo sapeva.
N.d.A.:
ripartiamo da un dio meno conosciuto, ma che mi incuriosisce per la sua
natura “antica”,
tra gli dèi. Érebos è latore di una
notizia di per sé sconvolgente e, forse,
dell’unica risorsa utile per poter salvare Alekos dalle
braccia dell’Oltretomba,
in cui è rinchiuso da più di sette anni.
Riusciranno
però i due a superare il sentiero di Orfeo (l’ho
inventato io) o anche Atena
commetterà lo stesso errore dell’antico musico?
p.s.:
Naturalmente, alcune parti del mito sono state storpiate a uso e
consumo delle
mie storie. Non a caso, tutti gli dèi possono andare e
venire dall’Oltretomba
quando invece, secondo i miti, ciò non era possibile. Non me
ne vogliate…
serviva solo a rendere più interessanti le storie.