Anime & Manga > Kenshiro / Hokuto no Ken
Segui la storia  |      
Autore: TigerEyes    19/02/2019    3 recensioni
Vide Sara esaminare Ryu per un istante, prima di abbassare lo sguardo sul ragazzino di fianco a lei. I capelli castani, appena ondulati, sfioravano le spalle, incorniciando un viso placido i cui occhi irradiavano una forza interiore e una luce di determinazione a lui ben note. Era a tal punto identico al padre, che Ken arrivò ad aspettarsi di sentire una delle perle di saggezza di suo fratello uscire da un momento all’altro dalla bocca sorridente del bambino.
“Lui è Tokei, mio figlio. Tokei, lui è Kenshiro. Tuo zio”.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kenshiro, Nuovo personaggio, Sara
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Prologo



C’era tanta pace.
La brezza carezzava la distesa di fiori inondata di luce e ne spargeva nell’aria il profumo intenso. Faceva quasi male agli occhi quell’esplosione di colori. I papaveri sembravano macchie di sangue in mezzo al manto di margherite che sfumava nel viola dei fiordalisi.
C’era tanta pace, tanto silenzio.
Le sembrava che il tempo avesse riavvolto il suo nastro, che nessuna guerra avesse ridotto il pianeta a una distesa arida e infetta, che l’umanità sull’orlo dell’estinzione non fosse regredita a uno stato animalesco. Se un Aldilà davvero esisteva, era certa che avrebbe avuto quell’aspetto: un paradiso di abbagliante bellezza circondato dall’inferno.
Una farfalla si posò sul dorso di una mano e Sara l’avvicinò con cautela al viso, ammirandone le ali candide con un sorriso, prima che una folata la facesse volare via. Con un sospiro portò la stessa mano a trattenere i capelli arruffati dal vento, socchiuse gli occhi e sollevò il volto al sole. L’illusione l’accecò di nuovo. L’illusione che il mondo non fosse andato in fumo, che non vivesse in uno dei pochi fazzoletti fertili di terra rimasti.
Che lui non se ne fosse mai andato.
Oppure che riaprendo gli occhi lui fosse lì, davanti a lei, che si stagliava contro i campi coltivati e le elargiva uno dei suoi sorrisi indulgenti.
Li spalancò.
Davanti a lei solo i fiori agitati dal vento, alberi da frutto e nugoli di farfalle. Eppure il cuore aveva accelerato i battiti, risalendo dal petto fino in gola.
Tanto silenzio ora pareva irreale. Forse fu per quello che si voltò con cautela per guardarsi intorno, una mano a schermare gli occhi.
Qualcosa spezzava con la sua massa scura la cascata di luce.
Qualcuno.
La prima cosa che le attraversò la mente fu che da quel momento in poi avrebbe creduto ai miracoli. Avrebbe creduto di nuovo nei kami, negli spiriti, nei demoni. Avrebbe creduto di nuovo, non importava in cosa.
La fissava come se fosse giunto dai recessi dell’Oltretomba. E forse era così. Forse era un fantasma quello che lei stava scrutando a bocca aperta.
Poi lo vide accennare un sorriso e sorrisero anche gli occhi, di nuovo luminosi.
Sara non seppe se ridere, se piangere, se gridare. Si portò una mano al petto e l’altra alle labbra, gli occhi già pieni di lacrime, prima di lanciarsi verso di lui invocando il suo nome, un attimo prima che lui spalancasse le braccia e la stringesse a sé.
Era tornato.
Toki era tornato davvero, era tornato da lei.
E non sarebbe mai più andato via.




I

REUNION



Quando all’ombra della propria mano che schermava gli occhi dal sole rovente Sara aveva scorto il giovane Yotaro correre a perdifiato su per la collina e puntare dritto verso di lei, sapeva di dover aspettare che fosse alla giusta distanza per valutare dall’espressione del suo viso se fossero tutti in pericolo o meno. Pure, l’immaginazione aveva iniziato a galoppare veloce come un purosangue scudisciato sulle natiche, benché i motivi di quella corsa forsennata fossero quasi sempre i medesimi. L’arrivo di un nuovo sciame di profughi da sfamare, curare e vestire. Una tempesta di sabbia che offuscava l’orizzonte e che tempo qualche ora avrebbe spazzato via il raccolto tanto faticosamente strappato alla terra in mesi di duro lavoro. Una nuova banda di predoni generalmente fuori taglia, che tentava un assalto su moto che perdevano i pezzi e auto blindate alla meglio con le ruote rattoppate. Sbandati senza cibo e senza regole cui non mancavano mai armi eterogenee e determinazione, ferocia e forza sovrumana. In molti casi, disperati esattamente come i fuggiaschi cenciosi cui la comunità apriva le porte. Se fossero stati meno ottusi e avessero trattenuto le briglie della bestialità, non sarebbero immancabilmente morti a due passi dalla salvezza.
Sara cercò di aguzzare la vista, ma il volto di Yotaro non era ancora abbastanza vicino. Il ragazzino sollevò una mano agitandola freneticamente sopra la testa a mo’ di saluto e lei rispose di rimando, notando la nube di polvere che la sua mantella sgualcita stava alzando nell’aria. Veniva dal deserto, dunque, chissà fin dove si era spinto a ruzzolare con altri bambini in quella pietraia infuocata. Spostò lo sguardo verso il fondovalle, riuscendo a malapena a intravedere la gola stretta fra due pareti di roccia e chiusa dal monumentale portone d’accesso. Dalla loro parte, la salvezza fatta di coltivazioni e colline verdeggianti, di frutteti e bestiame. Dall’altra un inferno che si estendeva fin dove l’occhio poteva arrivare e anche oltre, un suolo malato che per molti anni a venire sarebbe stato incurabile. Sollevò le iridi verso l’orizzonte uniforme dove il sole nasceva ogni giorno. Sarebbe stato troppo sperare che stesse per abbattersi sul villaggio un acquazzone. Pioveva ormai sì e no una volta ogni tre, anche quattro mesi e pareva sempre un miracolo che tutti temevano non si ripetesse più. Era già difficile reperire acqua non contaminata scavando pozzi sempre più profondi, preservarla e sfruttarla senza che andasse sprecata neppure una goccia, poi, era stata un’impresa che era sembrata inizialmente titanica. Ma c’erano riusciti.
“Saraaaaa!”.
Non sembrava impaurito, Yotaro, quindi poteva ragionevolmente accantonare l’ipotesi della solita accozzaglia di predoni spesso male in arnese e della tempesta di sabbia. Altri profughi, allora. Chissà quanti, bisognosi di cibo e di cure. Avrebbero dovuto nuovamente razionare le scorte e già le sembrava di sentire i borbottii di malcelato scontento del decano. Abbiamo granaglie a sufficienza per due inverni e acqua a volontà nelle vasche di decantazione, siamo una comunità florida, decano, possiamo permetterci di ospitare chi ha bisogno di aiuto. Io devo pensare anzitutto alla salvaguardia di questa comunità che tu definisci florida, Sara. Non lo sarà per molto, se continueremo ad accogliere tutti gli straccioni che bussano in massa alla nostra porta. Sono quegli stessi straccioni che portano nuove sementi e coltivano i nostri campi in cambio di un tugurio di fango in cui dormire e la protezione delle nostre mura. Non dimentichi a chi deve tanta prosperità, decano. Non piove da quasi quattro mesi, Sara, l’acqua si esaurirà rapidamente. Alcuni di quegli straccioni un tempo erano agronomi, ingegneri, architetti, decano. Fra i nuovi arrivati potrebbero esserci medici, infermieri, erboristi. Se la comunità ha migliorato il suo tenore di vita tanto rapidamente, lo deve anche a loro. E poi, più siamo a difendere il villaggio, meglio è. Potrebbero esserci dei delinquenti fra loro, Sara, lupi travestiti da agnelli, è già accaduto. Bene, allora li lasci morire d’inedia davanti alle nostre mura, decano, ma sappia che la costringerò a stare sulla cima delle torrette a guardare donne e bambini mentre crepano per colpa sua, lei e tutto il consiglio. Se non fossi ciò che sei, Sara, ti avrei già sbattuto fuori dal villaggio per la tua insolenza. Se non fossi ciò che sono, decano, lei avrebbe concimato i campi già da tempo.
“Saraaaaaaaaa!”.
Il volto abbronzato e smunto dell’undicenne sprizzava incredulità da tutti i pori della pelle sudata. La donna si passò la lingua sui denti, chiedendosi con una punta di apprensione mista a bruciante curiosità cosa potesse averlo scosso a tal punto.
“Non correre in quel modo, come devo dirtelo?! Prima o poi ti romperai l’osso del collo!”, gli gridò portando una mano a coppa a lato della bocca. Avrebbe potuto risparmiare il fiato, con Yotaro, tanto quel che entrava dalle orecchie usciva dal naso o da qualche altro orifizio, in ogni caso non sostava mai in quella testolina piena di nuvole.
Sara rientrò in casa, prese una ciotola di terracotta da un ripiano, sollevò il coperchio di un barile e immerse la ciotola nell’acqua, quindi uscì di nuovo. Un bambino dalla faccia bruciata dal sole e gli occhi neri come un pozzo avvolto dalle tenebre era curvo davanti a lei, le mani poggiate sulle ginocchia sbucciate e i cappelli arruffati dal vento.
“Sa… Sara…”.
“Bevi prima, adagio”.
Yotaro afferrò la ciotola che Sara gli porse e si versò sulla tunica impolverata quasi metà del contenuto.
“Adagio, ho detto, vuoi strozzarti?”.
Ancora una volta, la donna non mancò di constatare come gli anni trascorsi dal disastro nucleare fossero bastati per sostituire gli impeccabili vestiti alla moda con rettangoli di tela grezza, con un buco al centro per farci passare la testa e una striscia di stoffa da legare in vita. Pochi erano riusciti a preservare capi di vestiario degni di questo nome e li indossavano ormai solo in occasioni speciali. Camice e pantaloni di bassa qualità, che un tempo si compravano al mercato, oggi venivano conservati gelosamente come merce rara e preziosa. Per tacere delle scarpe.
“Ahhh, grazie!”.
Il ragazzino le restituì la scodella e si passò il dorso di una mano sulle labbra screpolate, un sorriso di beatitudine sul volto.
“Sputa, moccioso, con calma”.
“C’è un uomo all’ingresso della valle! Un uomo con un bambino su un cavallo gigantesco, tutto nero e con una benda rossa su un occhio!”, strepitò allargando le braccia ossute verso il cielo.
“L’uomo ha una benda rossa?”.
“Nooo! Non l’uomo!”, protestò il ragazzino pestando un piede per terra. Sara notò che un sandalo si era rotto, probabilmente nella corsa. “Il cavallo! È una bestia enorme, Sara, magnifica, devi vederla!”, insisté Yotaro. La pelle gli conteneva a fatica l’eccitazione, ma la donna inarcò un sopracciglio e poggiò la mano libera su un fianco sospirando platealmente.
“Sei venuto fin quassù per chiedermi di vedere un cavallo?”.
“Ah no, no, perché quell’uomo ha chiesto di te”.
Le sopracciglia di Sara si avvicinarono bruscamente.
“Come ha detto di chiamarsi?”.
“Mmmm…” Il ragazzino prese a rosicchiarsi l’unghia di un pollice. “Non mi ricordo più…”.
“Yotaro…”, sbuffò Sara chiudendo gli occhi.
“No, aspetta, mi pare… Ken?”. Lo sguardo del moccioso s’illuminò di colpo. “Sì! Kenshiro! Ha detto così! E ha detto che tu avresti garantito per lui!”.
La ciotola s’infranse sul sentiero sassoso e Yotaro compì un balzo all’indietro lasciandosi sfuggire un singulto strozzato.
“Ma che ti prende? Poteva finirmi su un piede, sta’ attenta!”.
Sara non lo ascoltava più. Scrutava nuovamente il fondovalle con le unghie piantate nei palmi.
“Dov’è Tokei?”.
“È giù con gli altri, sulle mura, a vedere il cavallo. Hanno mandato me ad avvisarti perché sono quello che corre più veloce. Ma che hai? Guardi la gola come se volessi incenerirla!”.
Sara socchiuse le ciglia e chinò il capo, poggiando ambo le mani sui fianchi e lasciando fuggire un lungo sospiro. Alla fine si portò una mano a coprire gli occhi e quando udì Yotaro chiederle se si sentisse bene, iniziò a scendere a passo svelto la collina.

– § –


Yotaro non aveva esagerato. Quello era davvero il cavallo più sproporzionato che avesse mai visto, probabilmente l’unico prodotto decente sfornato delle radiazioni. Chissà com’era riuscito a perdere un occhio, una bestia simile, forse a causa di un’infezione. Il bambino che si teneva aggrappato alla criniera sembrava una mosca posata sulla groppa e nemmeno l’uomo in piedi che carezzava il muso dell’animale possedeva una stazza in grado di reggere il confronto. A una prima occhiata, il ragazzino sembrava denutrito, oltre che lercio e malvestito, ma in condizioni tutto sommato decenti: sgambettava con energia e sorrideva in direzione dell’uomo, che al contrario sembrava uscito direttamente da uno di quei film anni ’80 dove i supereroi maledetti e muscolosi la facevano da padroni. Visto di spalle, pareva un incrocio fra Stallone in Cobra e Mel Gibson in MadMax: dannatamente grosso e ridicolamente coperto di nero dalla testa ai piedi nonostante il caldo soffocante. Sara scosse la testa: la stupidità era l’unica malattia per cui l’uomo non avrebbe mai trovato una cura, a meno di smettere di fare figli.
L’energumeno parve leggerle nel pensiero, perché fece per voltarsi nella sua direzione. La donna si ritrasse dalla balaustra in tempo per impedirgli di vederla e all’ombra della tettoia si volse verso il decano alle sue spalle. Aveva avvertito il miasma del suo fiato prima ancora di mettere piede sulla cima della torre. Incrociò le braccia al petto, accentuando uno sguardo già torvo.
“Allora, è chi dice di essere?”.
“Sì, è lui”.
“Sicura?”.
“Sì”.
“E il bambino?”.
“Mai visto”.
“Perché è qui? Cosa vuole da te?”.
“Spremiti le meningi, decano, vedrai che ci arrivi”.
Le labbra riarse dall’età parvero venir risucchiate dalla bocca, dove solo un paio di denti guasti sopravvivevano. L’intrico di rughe che era la pelle avvizzita della faccia si tese per un momento, aderendo al cranio spelacchiato.
“La mia pazienza non è infinta, Sara”.
Lei assottigliò le ciglia e fece un passo avanti, sporgendo il busto.
“Non minacciarmi, decano, rischi di accorciarti la vita e già non te ne resta tanta”, sibilò a portata del suo orecchio. Prima che il vecchio potesse ribattere, la donna si voltò di nuovo e ordinò a una delle sentinelle di dare ordine dabbasso di aprire il portone, quindi tornò a fissare l’anziano capovillaggio con un sorriso sbieco. “Se ne andrà presto, sta’ tranquillo, lungi da me trattenerlo”.


“Zio Ken, cos’è questo rumore? Ci fanno entrare?”.
Lo sfregamento che proveniva dall’altra parte del portale sembrava quello di una trave di sbarramento che veniva fatta scorrere per liberare le ante. Seguì qualche istante di silenzio, poi il cigolio di una puleggia che veniva azionata. Quasi immediatamente si sovrappose il lento scorrere sui propri cardini di quelle stesse ante che si aprivano verso l’interno.
Ken afferrò le briglie di Re Nero e s’incamminò verso quella che un tempo era stata l’ultima dimora di Toki. Aveva faticato non poco a ritrovare quel villaggio, il nome del fratello maggiore stava iniziando a sbiadire dai ricordi della gente: i pochi che erano stati in grado di fornirgli indicazioni rammentavano sì un uomo capace di curare col tocco delle mani, ma alcuni lo chiamavano Toin, altri Toichi, altri ancora Togai. Ci deve perdonare, ma sono passati diversi anni, ora è una donna che cura come faceva lui. Come si chiama? Sara, signore. Pare abbia appreso l’arte di guarire con le mani proprio dall’uomo che lei cerca. Non cerco mio fratello, ma dove vive questa donna, dov’è il suo villaggio? Verso ovest, signore, dove il sole tramonta, non può sbagliare.
E non aveva sbagliato. Ken oltrepassò l’immensa porta d’accesso, trascinandosi dietro un cavallo che lasciava nella terra brulla impronte profonde quanto un pugno e un bambino che negli ultimi giorni aveva mangiato un paio di lucertole e uno scorpione. Davanti a lui una ventina di uomini disposti a semicerchio e armati di quelle che volevano far passare per lance. Ai suoi occhi arrivavano sì e no ai suoi pettorali e impugnavano stuzzichini. Al centro dello “schieramento”, un vecchio canuto e piegato da una gobba, vestito con una tunica dalle maniche lunghe che strusciava sul suolo polveroso, si reggeva a un bastone contorto e lo fissava da sotto le sopracciglia incolte.
Ken ignorò la luce di gioia maligna che sprizzava dagli occhi acquosi e spostò lo sguardo sulla donna che venne avanti, una mano posata sulla spalla di un bambino poco più piccolo di Ryu. Il viso della ragazza, che dimostrava fra i venticinque e i trent’anni, non gli suscitava alcun ricordo. La Sara che affiorava dalle nebbie della memoria era una ragazza dai capelli scuri, nient’altro. La donna alta e magra, che lo guardava come se volesse schiacciarlo fra le ante che aveva appena varcato, aveva una lunga chioma dai toni bluastri in parte trattenuta da una coda e una ciocca che scendeva lungo un lato del volto teso e corrucciato. Mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, notò il vecchio prendere un respiro profondo, prima di aprire la bocca sdentata.
“A nome di tutta la comunità, vi do il benvenuto. Io sono Kozue, il decano”. Ken tornò a prestargli attenzione e accennò un lieve saluto con il capo. “La vostra presenza ci onora, abbiamo cominciato a temere che il Salvatore ci avesse abbandonato, non riuscivamo a credere che foste tornato finché il nostro medico non ha confermato che eravate voi in persona”, sibilò con un sorriso nell’indicare col palmo di una mano raggrinzita la donna che gli si era affiancata. “Spero che qui possiate trovare ciò che cercate…”.
Notò la contrazione delle mascelle della donna, pur continuando a fissare lo scheletro ambulante. Al contrario della ragazza, sorrideva come un cacciatore avrebbe fatto davanti a una preda in trappola.
“Vi ringrazio”.
La notizia che il fratello del defunto Toki era giunto al villaggio dilagò come l’acqua straripata da una diga e nel volgere di pochi, distratti battiti di ciglia una folla di curiosi si era assiepata alle spalle degli uomini “armati” per vedere coi propri occhi il leggendario Salvatore. Qualcuno lo guardava strabuzzando le pupille, altri con autentico orrore o storcendo il naso, altri ancora cercavano nelle facce dei vicini una conferma che ciò che stavano contemplando non fosse un’imitazione. Ai loro sguardi dubbiosi e increduli non doveva apparire dissimile dai ceffi da cui erano abituati a difendersi. Apparivano in buona salute, ben nutriti e vestiti decentemente, qualcuno indossava ancora abiti occidentali, la gran parte indumenti confezionati alla meglio. Nessuno appariva intimorito o preoccupato, nemmeno le “guardie”. I bimbi lo fissavano con le dita in bocca, gli adulti come un’autentica attrazione. Nessuno palesava ostilità, nessuno sembrava considerarlo una minaccia.
Tranne uno.
“Immagino che tu e il bambino siate stanchi e affamati, potete riposarvi e rifocillarvi a casa mia”.
Al posto degli occhi aveva sassi arroventati. Ken sentì Ryu scendere da Re Nero e posizionarsi a gambe larghe e braccia incrociate accanto a lui.
“Grazie, Sara”, rispose posando una mano sulla spalla del nipote. “Lui è Ryu, figlio di Raoh”.
La notizia saltò di bocca in bocca come una pulce sul pelo di un cane e nuovi curiosi si accalcarono alle spalle degli uomini armati. Il figlio del Grande Re?, si chiedevano sbigottite le facce curiose che li squadravano con rinnovato entusiasmo dalla testa ai piedi. Vide Sara esaminare Ryu per un istante, prima di abbassare lo sguardo sul ragazzino di fianco a lei. I capelli castani, appena ondulati, sfioravano le spalle, incorniciando un viso placido i cui occhi irradiavano una forza interiore e una luce di determinazione a lui ben note. Era a tal punto identico al padre, che Ken arrivò ad aspettarsi di sentire una delle perle di saggezza di suo fratello uscire da un momento all’altro dalla bocca sorridente del bambino.
“Lui è Tokei, mio figlio. Tokei, lui è Kenshiro. Tuo zio”.

– § –


La tinozza conteneva a mala pena il loro entusiasmo e Sara se ne rallegrò, curiosa di scoprire chi l’avrebbe spuntata. Ryu e Tokei, dodici e dieci anni, cercavano l’uno di infilare un pezzo di sapone nella bocca dell’altro, l’unico modo, a quanto pare, per stabilire quale dei loro padri fosse il più forte. Gli strilli dovevano sentirsi sino a fondovalle e buona parte dell’acqua era andata a innaffiare il terreno tutt’attorno al tino di legno scrostato. Pazienza. Quello era un giorno speciale, per loro, che si divertissero pure.
Sara accennò un sorriso quando ripensò a come gli occhi di Ryu avessero scintillato, nel momento in cui Tokei l’aveva sfidato a batterlo nella corsa. Dove Ryu avesse trovato l’energia nelle gambe, pelle e ossa com’era, non avrebbe mai saputo dirlo. Forse era stata la fame, il sapere che avrebbe finalmente consumato un pasto degno di questo nome, una volta arrivato in cima alla collina. Lei non era rimasta indietro, comunque. D’un tratto aveva sentito lo sguardo del Salvatore aggrappato alla sua schiena e aveva accelerato il passo fino a correre a perdifiato, gridando a figlio e nipote di rallentare e di non ingozzarsi come animali appena entrati in casa. Parole gettate al vento come i petali di una margherita.
Appena varcato l’uscio di casa, aveva scoperto Ryu con un pezzo di carne essiccata e strappata in mano e il resto nella bocca piena. Era stato estenuante tentare di spiegargli che rischiava di sentirsi male, strafogandosi in quel modo. Il tuo stomaco non è abituato, mastica piano e limitati a questo boccone, per ora, altrimenti vomiterai tutto. Ho fame, zia, tanta fame. Posso immaginarlo, Ryu, gli aveva risposto carezzandogli la nuca. Gli aveva lasciato finire l’enorme pezzo di carne salata e poi l’aveva convinto a disfarsi degli stracci che indossava, promettendogli una lauta cena, se si fosse lavato a fondo. Il tempo di un sorriso di gratitudine e Ryu era già fuori dai suoi vestiti, ad aiutare il cugino a riempire d’acqua il catino. Con un bastone Sara aveva sollevato da terra gli indumenti del ragazzino e li aveva buttati nel focolare.
“Se non fosse per lo sguardo, non sembrerebbe figlio di Raoh”, esordì pulendosi le mani con uno strofinaccio, mentre usciva dalla porta della cucina. Le era toccato imbandire per sei, o forse sarebbe stato il caso di dire per sette, anziché per quattro, perché Kenshiro aveva elargito al suo cavallo una quantità esorbitante di fieno.
Braccia conserte, l’uomo stava osservando i ragazzi da sotto la tettoia malandata, le assi tanto deformate da lasciar trapelare più luce di quanta avrebbero dovuto schermarne. Non si era aspettata alcun commento da parte sua e non lo ottenne. Continuava a fissare i nipoti come se in realtà stesse studiando il profilo delle montagne lontane con quel ghiaccio che aveva negli occhi.
Sara inspirò a fondo e disgustata arricciò una narice, quindi si voltò verso di lui, squadrandolo dall’alto in basso con aria critica. Il giubbotto di pelle senza una manica era talmente impolverato che non avrebbe mai più riacquistato il suo vero colore e così consunto che le cuciture erano sul punto di cedere. La canottiera sottostante, da quel che poteva intravedere, era sudicia e lacera come i pantaloni, irrimediabilmente lisi e macchiati in diversi punti, vai a sapere del sangue di chi. Le borchie del giubbotto, della cintura di pelle crepata e degli stivali logori erano ossidate, così come le cerniere della giacca. I lacci della polsiera di cuoio stavano per rompersi. E solo con un notevole sforzo di immaginazione si poteva supporre che la fasciatura al braccio destro un tempo fosse stata bianca. I vestiti di Ken stavano su solo perché erano i grossi fasci di muscoli a tenerli. Ma lo scenario non poteva dirsi apocalittico senza quel tanfo esiziale che aleggiava attorno a lui: appestava l’aria come un tempo facevano i bidoni della spazzatura rovesciati nei vicoli bui.
Sara s’impose di non arretrare, ma non poté evitare di portarsi il dorso di una mano sotto il naso. Tutti coloro che arrivavano dal deserto erano invariabilmente nelle medesime condizioni: larve di sopravvissuti con la barba incolta, i capelli lunghi e unti, i vestiti a brandelli appesi a mucchi d’ossa che a malapena si reggevano sulle gambe e che avevano vagabondato anche per anni in fuga dalla violenza, dalla fame, dalla miseria, da bande di assassini, dagli sgherri di pochi dittatori senza scrupoli. Ken, invece, non avrebbe mai dovuto temere niente e nessuno, al di fuori di uno stomaco che di tanto in tanto brontolava e di una sete capace di prosciugare la ragione. Per il resto, in quanto maestro di Hokuto, poteva vantare una resistenza sovrumana a qualsiasi intemperie, lo sapeva anche troppo bene. Tuttavia, nemmeno uno come lui poteva dirsi immune alle infezioni e alle malattie dovute alla mancanza d’igiene. Qi o non qi che scorreva nelle vene, anche lui era un essere umano, sotto quello spesso strato di sporco.
“Quand’è stata l’ultima volta che tu hai fatto un bagno?”.
Ken continuò a osservare Ryu e Tokei che si schizzavano a vicenda l’acqua insaponata della tinozza. Forse era solo un abbaglio, ma a Sara era parso di scorgere il lampo di un sorriso sulle labbra screpolate dell’uomo.
“L’ultima volta che ha piovuto”.
La donna chiuse gli occhi, invocando Amida Buddha, la dea Amaterasu e il dio dei cristiani tutti insieme. Quando li riaprì, si voltò verso il figlio e il nipote ben decisi ad affogarsi a vicenda.
“Allora anche tu dovresti far pace col sapone. Se fai tanto di alzare un braccio ammazzi i moscerini e gli insetti sono preziosi più che mai, visto che impollinano i fiori. Quindi levati immediatamente di dosso quegli stracci luridi e fila a lavarti”.
Lo vide volgere il capo verso di lei senza scomporsi, con una calma irreale. Sara non smise di fissarlo decisa, le mani ad artiglio sui fianchi, consapevole che probabilmente nessuna donna si era mai rivolta a lui con quel tono sferzante, nemmeno Yuria.
“Adesso, Kenshiro. Non è una richiesta, la mia. Appena i ragazzi hanno finito di lavarsi, riempi la tinozza di acqua pulita, non m’importa se ci starai stretto, io vado a cercare un paio di forbici per tagliarti i capelli e un rasoio, di sicuro hai la barba piena di pidocchi. E ora che ci penso, ti servirà una spugna di metallo”.
“Di metallo?”, chiese l’uomo nel suo tono incolore.
“Sì, una di quelle spugne fatte con fili metallici che un tempo si usavano per raschiare le pentole, hai presente, vero?”.
Ken continuava a fissarla senza batter ciglio.
“Cosa dovrei farci?”.
“La insaponi per bene, ecco che ci fai, e poi strofini forte, anche se non ti farà nemmeno il solletico. Vedi di non romperla, mentre cerchi di riacquistare un aspetto umano”, sentenziò la ragazza osservandogli il bicipite sinistro: numerose cicatrici, per lo più lunghe e sfrangiate, risaltavano come grassi vermi bigi sulla pelle che rasentava il colore della terra dissodata e che dubitava fosse dovuta unicamente a una prolungata quanto involontaria esposizione al sole. “Bah, tentar non nuoce”, concluse fra sé allontanandosi con una smorfia.
“Sara”.
Più che un richiamo sembrava una semplice constatazione del suo nome. La donna si chiese se il tono di Ken avrebbe mai acquisito un minimo di calore.
“Sì?”.
L’uomo volse impercettibilmente il capo.
“Non sapevo avessi avuto un figlio da Toki. Dobbiamo parlare”.







Note:
Ci sono almeno tre personaggi con lo stesso nome nell’universo di Hokuto no Ken: una Sara dai cappelli blu compare nell’oav Ken il guerriero – La leggenda di Toki, un’altra Sara (bionda, stavolta) compare nel romanzo La città maledetta, poi trasposto nella miniserie Ken il guerriero – La trilogia, una terza (mora) compare verso la fine del manga originale. La prima è un medico e aiuta Toki, la seconda cura i malati usando le stesse tecniche dell’Hokuto Shinken, la terza è la principessa del regno di Sava. La Sara della ff è la prima, in grado però di usare le tecniche di guarigione come la seconda. La storia prende quindi avvio dalla fine dell’oav dedicato a Toki.

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Kenshiro / Hokuto no Ken / Vai alla pagina dell'autore: TigerEyes