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Autore: Roiben    19/02/2019    0 recensioni
Che cos'è la devianza? Un semplice virus digitale diffusosi fra gli androidi a seguito di contatti e scambio di dati? Un malfunzionamento patogeno causato da un errore di progettazione? L'evoluzione autonoma di un programma preinserito? O la semplice presa di coscienza della propria esistenza e di un pensiero indipendente?
Come l'hanno percepita gli androidi? E gli esseri umani?
Anche gli androidi hanno dei sogni?
Genere: Angst, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Connor/RK800, Elijah Kamski, Hank Anderson, Markus/RK200
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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chapter 23. Something to live for



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DETROIT

Date

NOV 16TH, 2038


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2980 VERMONT STREET

Michigan

Time

AM 01:54


Gli agenti di pattuglia che girano per i quartieri di Detroit a tutte le ore del giorno e della notte lo hanno costretto a interminabili deviazioni e a strisciare come un maledetto ladro da un edificio all’altro per evitare di essere individuato e catturato. Ha dovuto penare non poco per riuscire a raggiungere il luogo previsto per l’incontro ed è arrivato con appena una misera manciata di minuti di anticipo sull’orario prefissato. Ora però si trova a ridosso di un grosso abete frondoso, in attesa di veder comparire la persona che dovrebbe aiutarlo. Ancora fatica a credere a quella possibilità, eppure, come Connor gli ha assicurato, ha davvero ricevuto una sintetica comunicazione completa di scheda con i dati necessari all’incontro, quindi deve esserci del vero in quanto ha appreso da quel pivello, cioè da Connor.


Solleva di scatto la testa, le sue riflessioni interrotte da un suono indistinto catturato dal suo processore audio che, evidentemente, funziona ancora decisamente meglio di quanto non faccia il suo impianto ottico, dato che fatica non poco a scorgere i movimenti del nuovo arrivato. Cauto si fa avanti, scostandosi dall’albero e uscendo con prudenza dalla sua ombra per andare incontro all’umano che, come annunciatogli, è accompagnato da un cane enorme.


«Sei Dick?» bisbiglia nervoso.


Lo vede sobbalzare. A quanto sembra non è il solo a essere spaventato, o quanto meno in apprensione. L’uomo, più piccolo e gracile di quanto si aspettasse rispetto alla fotografia che gli è stata inviata, si volta lentamente nella sua direzione e si schiarisce la voce, prima di fornire qualsiasi risposta.


«Sì, sono Dick. E… tu sei Abel, giusto?» bisbiglia di rimando il curioso ometto.


Si limita ad annuire e a rilassare appena un poco le spalle. Fino a quel momento sembra essere andato tutto come era stato previsto: l’umano si è presentato nel posto e all’ora stabiliti, perfino accompagnato dal cane. Fa piacere sapere che esistono ancora piani che vengono seguiti alla lettera. Abel lo sta ancora scrutando, suo malgrado incuriosito, quando l’umano riprende la parola.


«È… questo è un luogo sufficientemente sicuro?».


Bella domanda, si ritrova a pensare Abel. «Mi auguro di sì» tenta, cercando come può di non essere troppo disfattista come suo solito. «Quanto tempo pensi ti occorrerà?» chiede pratico.


L’umano trae un breve sospiro. «Ho bisogno di dare un’occhiata ai danni, prima di poterti dare una risposta».


Ragionevole, ammette tra sé Abel. Si guarda attorno, aguzzando l’udito, per accertarsi che si trovino da soli, poi lentamente torna sotto l’albero e si siede a terra a gambe incrociate, fissando lo sguardo sul suo momentaneo compagno.


«Io sono pronto. Fai pure» conferma, disponendosi a rimanere quanto più immobile possibile per semplificare il lavoro del piccolo uomo.


Dick scruta a sua volta nei paraggi e si rivolge al cane. «Ora tu aspetti qui, Sumo. Se arriva qualcuno mi devi avvisare, d’accordo? E magari ti ci siedi sopra, così ci leviamo una seccatura di torno. Tutto chiaro?» si accerta.


Il cane, Sumo, risponde con un latrato secco e deciso, poi si sdraia comodamente sul tappeto d’aghi e sbadiglia, sembrando tutto fuorché intenzionato a intervenire in caso di guai. Ad Abel sfugge un breve sorriso, il primo da giorni, e un altro poco della tensione accumulata negli ultimi tempi sfuma dolcemente.


Nel mentre Dick gli si è accostato, ha scaricato a terra un ingombrante zaino dall’aria tutt’altro che leggera e sta esaminando l’androide con molta serietà e concentrazione.


«Il dispositivo ottico destro è deteriorato in modo irrecuperabile, purtroppo. Posso sostituirlo con un nuovo dispositivo, ma non ha precisamente le stesse funzioni; temo manchino alcune migliorie circa la visione notturna» lo informa un po’ contrito.


«Userò il sinistro, di notte. Se lavora bene di giorno mi riterrò soddisfatto» assicura, credendoci fermamente.


«D’accordo. Vediamo quel braccio, ora» e gli si siede accanto, studiando la lesione con occhio critico e passandosi una mano sul viso poco dopo. «Non c’è modo di riparare un danno di questa entità. In realtà lo sospettavo: ho portato con me un ricambio. Prima, però…» detto ciò armeggia con lo zaino e ne estrae un aggeggio all’apparenza scomodo, pesante e parecchio complicato e (con sollievo di Abel) scorte di Thirium, che posa sullo strato di aghi di abete accanto a loro. «Bene, ecco, prendi questo» chiede, porgendogli un cavo abbastanza sottile alla cui estremità c’è un jack «e collegalo alla porta di entrata dell’unità cerebrale; e questo» prosegue, piazzandogli fra le mani un secondo cavo più ingombrante «all’uscita del sistema di alimentazione». Evidentemente non impiega molto a notare i dubbi e il nervosismo di Abel. «Uno serve a riportare la batteria a una carica ottimale; questo è un generatore ausiliario. L’altro mi permetterà di monitorare le tue funzioni e capire dove intervenire» spiega pratico ma in tono gentile.


Durante il discorso gli ha porto un’unità di Thirium, incoraggiandolo a servirsene. Così Abel, attaccato alla piccola sacca di sangue blu, si decide a collegare nel modo richiesto i cavi.


«Ok, questa è fatta» commenta Dick, posando su un ginocchio un terminale tascabile e studiando con attenzione i dati che gli giungono dall’androide. «Dovresti, per favore, toglierti la giacca e la maglietta. Mi servirà un po’ di spazio di movimento per scollegare il braccio danneggiato e sostituirlo».


Abel annuisce appena, sbrigativo, e si leva la consunta giacca in dotazione all’esercito e, con un po’ di impiccio a causa dei cavi, la maglietta, poi rimane a osservare il lavoro di Dick, che fa scorrere delicatamente i polpastrelli sulle giunture che collegano la spalla a ciò che rimane del braccio e fa scattare il fermo, sfilando l’arto danneggiato. Prima di sostituirlo con quello nuovo esamina i collegamenti della spalla, evidentemente per accertarsi che non presentino a loro volta danni. Una volta assicuratosi che sia tutto in ordine recupera il braccio destro dallo zaino e con cura lo fa scivolare nelle guide apposite, forzando leggermente fino a che non avverte il lieve suono dei giunti che scattano per collegarsi al nuovo arto.


«Ecco, così dovrebbe andare» soffia Dick, appena un po’ in apprensione. «Prova a muovere il braccio e a usare la mano. Vediamo se funziona tutto a dovere».


Abel fa ruotare la spalla, solleva il braccio e piega il gomito, poi allunga la mano e afferra con facilità fra le dita una nuova unità di Thirium, svita con i polpastrelli il beccuccio e lo porta alle labbra, prendendone un lungo sorso.


«Mi pare ottimo, risponde più che bene» commenta soddisfatto.


«Ok, vediamo quell’unità ottica». Detto ciò Dick si accosta maggiormente al fianco di Abel e con le dita leggermente tremanti, sia per il freddo che per la tensione, scollega il dispositivo difettoso, mettendolo diligentemente da parte per riportarlo a quel gran pignolo e rompiscatole di Kamski, e lo sostituisce con il ricambio che ha portato con sé. «Non è nemmeno dello stesso colore» borbotta contrariato, fissando incerto il giallo ambra della nuova iride che fa uno strano contrasto con il caldo e morbido nocciola originale.


Abel però scrolla le spalle poco interessato. «Non ho mai avuto molte occasioni di guardarmi allo specchio. Non credo mi importi granché se sono di colori differenti. Quello che mi importa è che possa vederci bene» assicura.


«Sì, giusto. Beh, come lo trovi? Ci si vede bene?».


Socchiude le palpebre, facendo spaziare lo sguardo sui campi che li circondano; concentra l’attenzione sull’unità visiva di destra e, suo malgrado, storce le labbra.


«Se è questo ciò che vedete voi di norma, devo dirti che vi compiango, amico. Al buio la resa è abbastanza penosa» commenta con incerta delusione.


Dick sospira e scuote la testa. «Mi rincresce. Non ho potuto portare con me qualcosa di più adatto: mancava il modello. Ma ci stanno lavorando su. Per quando avremo recuperato tutti i devianti avrai di nuovo il tuo visore notturno» promette con buona volontà.


Abel lo fissa brevemente e sembra rabbuiarsi. «Il pivello… cioè, volevo dire, Connor… ha detto che ce ne sono in giro ventitré».


L’umano si irrigidisce visibilmente e, anche se in modo appena percettibile, si scosta. «Sì, al momento ne abbiamo tracciate ventitré unità» conferma.


«Al momento?» indaga sospettoso.


«Erano… di più, prima» tentenna, e dall’aria si direbbe indeciso se darsela a gambe o restare a rischio della propria incolumità.


Abel tuttavia non accenna a muoversi, invece distoglie lentamente lo sguardo. «Si sono spenti» mormora.


«Probabilmente sì» conferma, tornando con l’attenzione ai dati rilevati dal suo terminale. «C’è un’anomalia nel sistema di raffreddamento che credo sia il caso di controllare» avvisa.


«Sì, d’accordo» accetta di malavoglia, rimanendo immobile e pensieroso per il resto del controllo di Dick.


*


Un monitor (uno dei più piccoli e meno vistosi) prende improvvisamente vita con un lieve bip sonoro e un messaggio a lettere cubitali per chiunque sia presente: MANUTENZIONE COMPLETATA. ATTENDO ISTRUZIONI.


«L’SQ800 è di nuovo operativo» annuncia Elijah ai pochi presenti (al momento solo Jander e Connor).


«Una buona notizia. Desidera che ci mettiamo in contatto con lui?» si informa Connor.


«Non sarà necessario. Sto già provvedendo a inoltrargli le coordinate della KL900. Potrai contattarlo in seguito, una volta recuperata, ammesso che non sorgano contrattempi nel mentre».


L’RK800 si limita ad annuire e a disporsi a una nuova attesa.


*


Il cane e l’umano, dopo che quest’ultimo ha inviato un messaggio per avvisare della missione portata a termine, se ne sono andati, lasciandolo da solo sotto l’abete. Pochi minuti dopo ha ricevuto un messaggio: “4851 14th Street Detroit, Michigan 48208”, poi più nulla. Il silenzio, dentro e fuori dalla sua testa, è stranamente pesante. Nelle ultime ore si era quasi abituato a venire sommerso di parole e informazioni (non sempre richieste) e ora, in qualche modo, ne avverte la mancanza. Chissà cosa può significare? Scuote la testa e senza perdere ulteriore tempo consulta la mappa della città inserita in memoria, trovando l’indirizzo e il percorso più breve e sicuro per raggiungerlo. Solo quando si rimette in piedi per dare inizio alla sua ricerca si rende conto di un particolare cui non aveva ancora fatto caso: da oltre quarantasei ore non si sentiva così bene; aveva quasi scordato il significato di operare in efficienza, ma ora è di nuovo forte delle proprie potenzialità e perfino un’imperfetta visione notturna diventa un disguido di scarso rilievo. È curioso pensare che degli esseri umani lo abbiano ridotto a poco più di un inutile rottame, mentre un altro essere umano abbia contribuito a ridargli un obbiettivo e la possibilità materiale di perseguirlo e raggiungerlo. Come si può decidere da che parte stare, se la situazione risulta così sbilanciata e confusa? Ancora una volta scuote la testa, perplesso, ma decide di accantonare le elucubrazioni etiche per un momento più propizio. Ha ancora una missione da portare a termine, e non si prospetta affatto semplice. Si volta, fa spaziare lo sguardo sui campi per orientarsi, poi parte deciso in direzione del suo primo obbiettivo: trovare e portare al sicuro la KL900.


*


I suoi occhi scuri luccicano, spalancati nel buio appena attenuato dai lampioni della strada, nell’aula in disuso. È già il quinto rifugio che è costretta a cambiare da quando ha dovuto abbandonare l’istituto presso il quale prestava servizio a causa dell’incidente. La famiglia si è salvata, soprattutto per merito del suo intervento tempestivo, ma questo non è servito a molto quanto i disordini sono scoppiati. Sa bene che non può dare la colpa a quella povera gente, perché non lo è: loro erano solo spaventati, soprattutto l’uomo. Eppure non riesce a levarsi dalla mente che se solo avessero parlato, spiegato a qualcuno che Julia intendeva unicamente aiutarli, forse adesso non sarebbe stata obbligata a fuggire come un qualsiasi criminale. Già, forse.


Ripiega le gambe traendole al petto e appoggia la fronte sulle ginocchia appuntite. La verità, la sua verità, è che si sente terribilmente inutile. A che cosa serve scappare? Chi ne trae beneficio? Restare… vivi, ma a che scopo? A quale scopo se non può più essere di aiuto a nessuno? E ora che le sue sensazioni e percezioni sono così acute, quasi dolorose, si sente così sola e… triste, sì. A che serve essere vivi, se non c’è nessuno con cui dividere la propria vita?


*


Le pattuglie hanno un po’ rallentato la sua ricerca, ma infine eccolo arrivato alle coordinate previste. Solleva lo sguardo sull’edificio: una scuola. Beh, per lo meno doveva esserlo, in tempi migliori. Si guarda attorno e con circospezione esce dalla protezione dei cassonetti della spazzatura e raggiunge rapidamente la corta scalinata che porta all’entrata del piano terra. La porta di ferro, un po’ arrugginita, cigola pietosamente strappandogli un’imprecazione fra i denti. Prima di richiudersela alle spalle controlla che nessuno, nei paraggi, si sia accorto delle sue mosse, poi si guarda in giro. È un luogo trascurato, diciamo pure abbandonato: l’atrio è un caos di volantini ingialliti e strappati, cassetti divelti e abbandonati, bacheche infrante, un bancone scheggiato e sedie azzoppate. Più avanti c’è una scalinata, polverosa e ricoperta di calcinacci, che porta al piano superiore. Avanza con cautela e senza fare rumore, attento alle ombre e ai suoni. Non avverte nulla fuori posto, ed è strano perché in teoria dovrebbe per lo meno rilevare attività elettronica (i suoi sensori sono costruiti per questo: abbattere macchine nemiche prima che quelle abbattano la sua squadra). Si sente nervoso per tutto quel silenzio; se non sapesse che si tratta di un’idea sciocca, probabilmente si metterebbe a parlare al nulla, anche solo per sentire la voce di qualcuno. Ma sì, è decisamente un’idea sciocca e, soprattutto, pericolosa. Rimane quindi in silenzio mentre i suoi piedi passano leggeri sui gradini senza emettere suono, fino a che non giunge sul pianerottolo del primo piano, dal cui soffitto penzolano cavi nudi e intonaco vecchio. Le scale proseguono verso l’alto, ma come può essere certo di dove si trovi il deviante che cerca? Gli farebbe comodo, a quel punto, essere in grado di comunicare mentalmente come sanno fare Connor e i suoi amici; peccato non ne sia capace. Così scrolla le spalle e si risolve a setacciare l’intero edificio, palmo a palmo se sarà necessario, finché non la scoverà. Lei gli serve; deve assolutamente portarla con sé e poi recuperare i due bambini. Stringe i denti al pensiero e i suoi passi si fanno più veloci e decisi.


Il primo piano si rivela un fiasco su tutta la linea. Ha messo il naso ovunque, spulciando con metodo in tutte le aule, gli sgabuzzini, i bagni e gli angoli polverosi e pieni di ragnatele, ma non ha trovato niente a parte qualche topo e una quantità di spazzatura.


Si affretta su al secondo piano e ha già battuto ogni palmo di metà del corridoio quando la sua unità ottica di sinistra intercetta un breve e fioco bagliore fuori posto in una zona per il resto completamente in ombra; un bagliore ambrato. Si volta di scatto, pronto al peggio, e rimane immobile a fissare gli occhi neri e visibilmente allarmati di una donna di colore. No, si corregge mentalmente, si tratta di un’androide; con un poco di fortuna proprio il suo KL900. Resta fermo, deciso a non allarmarla più di quanto già non lo sia.


«Chi sei?» sibila lei, senza però accennare ad allontanarsi.


«Abel. È il mio nome. Sono un deviante. Non voglio farti del male» replica con voce calma.


«Perché sei qui?» chiede, poco persuasa.


«Ho bisogno del tuo aiuto» spiega, pensando che sia meglio mettere subito in chiaro la situazione.


Lei aggrotta la fronte e lo fissa incerta, ma non sembra più preoccupata rispetto a poco prima. «Il mio aiuto per che cosa?».


Ecco, ora viene la parte complicata, pensa Abel. «Ci sono due YK in città. Si stanno nascondendo, come noi. Dobbiamo fare in modo di ritrovarli e portarli al sicuro. E, soprattutto, tenerli al sicuro».


Ora gli occhi di lei sono sgranati e colmi di paura. «Bambini» soffia allarmata.


«Già» ammette, sorvolando con cura su quanto si senta vicino a lei, mentalmente, in quel momento. «Puoi… Vorresti darmi il tuo aiuto?» riprova.


Lei lo fissa con intensità e lui può giurare di avervi scorto qualcosa che va oltre la paura. Forse consapevolezza.


«Lo farò» annuncia, spiazzandolo un poco.


Abel sbatte le ciglia, sorpreso, e prova un sorriso tremolante. «Bene… Grazie» soffia, confuso e sollevato insieme. «Posso chiederti come ti chiami?» domanda, se per cortesia o curiosità non lo saprebbe dire.


«Julia» risponde concisa, e finalmente si muove, andandogli incontro.


  
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