Anime & Manga > Boku no Hero Academia
Ricorda la storia  |       
Autore: Arya Tata Montrose    19/02/2019    1 recensioni
Incontrare i genitori della propria metà non è sempre un'esperienza rose e fiori, e certamente non lo è nemmeno per Ochako e Katsuki.
Dal testo:
"Riaprì gli occhi d’improvviso, disturbato da un rumore del tutto estraneo a quell’atmosfera dai colori caldi ed ovattati. Qualcuno. Fu fulminea la realizzazione.
«Merda, i suoi»"
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katsuki Bakugou, Ochako Uraraka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Meet the parents 

 

I

 

I genitori di Ochako

 

 

 

 

 

La luce inondava la stanza, senza l’ostacolo delle tende o delle persiane lasciate aperte la sera prima. Katsuki si svegliò con un rantolo, tentando di raccapezzarsi sul come potesse un sole tanto potente seguire la pioggia torrenziale che li aveva colti la sera prima. 

 

Gli occhi gli facevano male, desiderosi di nuovo buio. Sollevò il lenzuolo sul volto, notando che attraverso di esso, la luce assumeva un colore rosato, tenue e caldo, così diverso dal solito blu notte. Sentiva il suo profumo aleggiare per il piccolo spazio del letto, inebriando i suoi sensi e, alzando lievemente lo sguardo verso la sua figura, come lui immersa nelle lenzuola al riparo dalla fastidiosa luce del mattino, incontrò il suo volto, ancora rilassato nell’abbraccio del sonno. Mano a mano che i suoi occhi diventavano meno sensibili era più facile tenerli aperti ed osservare ogni dettaglio del viso di Uraraka, di solito tirato in un sorriso così gioioso che, mai avrebbe ammesso, ogni tanto aveva contagiato anche lui. Ora, invece, era lì, con gli occhi chiusi e le labbra socchiuse, così morbide alla vista quanto al tatto, il loro fantasma che sembrava premersi nuovamente su quelle di Katsuki. 

 

Non si mosse oltre, ossequioso verso la quiete in cui versava quell’idillio. Non la voleva svegliare – non ancora – preferendo rubare ancora qualche attimo di quella sensazione che avvertiva come nuova, una felicità genuina che sentiva riempirlo e riversarsi all’esterno tramite la piega delle labbra, spontaneamente curvate a formare un tenue sorriso. Voleva prendersi quel momento, assaporarlo. Di tempo ce n’era quanto volevano. Strofinò un po’ la guancia sul materasso, cercando di riaccomodarsi, beandosi di quel silenzio che rendeva tutto irreale, come un sogno da cui avrebbe voluto svegliarsi molto tardi.

 

 

 

Riaprì gli occhi d’improvviso, disturbato da un rumore del tutto estraneo a quell’atmosfera dai colori caldi ed ovattati. Quel suono aveva più i toni del grigio, come di metallo contro metallo, e di qualcosa che sembrava scattare, un lieve clangore. Ci volle ben poco perché il suo cervello, oramai allenato a riconoscere gli stimoli, collegasse quel suono sgradito allo scatto della serratura ed all’ancora più sgradevole immagine di qualcuno che faceva il proprio ingresso nella casa.

 

Qualcuno. Fu fulminea la realizzazione.

 

«Merda, i suoi» esclamò, soffocando quanto più possibile la voce, la sorpresa che riverberava in ogni fibra del suo corpo. Si sollevò, appoggiandosi su un gomito e allungando l’altra mano verso la ragazza. Le scosse la spalla, mentre al frenetico ritmo di «merda, merda, merda» passava in rassegna la stanza, alla strenua ricerca degli indumenti che indossava la sera prima.

 

«Uraraka, cazzo, svegliati e alza il culo»

 

Un rantolo gli giunse in risposta, la ragazza ora seduta a strofinarsi gli occhi. Katsuki era già in piedi, alla ricerca delle mutande.

 

«I tuoi» brontolò a mezza voce, implicando l’ovvio in quelle due semplici, terrificanti parole. Da una parte, mentre lo diceva, si dava dell’idiota per quanto quella situazione suonasse assurda e a dir poco ridicola: lui che mai nella sua vita si era preoccupato di farsi trovare nel letto di una ragazza (o con una ragazza nel letto), si sentiva spaventato come un gattino davanti alla prospettiva di essere visto così dai genitori di Ochako. Semplicemente patetico.

 

A lei servì un momento per realizzare, ancora intontita dai rimasugli del sonno e dalla brusca sveglia. Quando però la risposta del ragazzo si fece strada tra le nubi della sua coscienza, sobbalzò bruscamente, saettando fuori dal letto per infilarsi qualcosa addosso.

 

Era appena riuscita ad infilarsi i calzoncini quando udì bussare alla porta.

 

«Arrivo!» strillò la ragazza, guardando freneticamente in giro alla ricerca della maglia. La prima che prese dal pavimento la lanciò a Bakugou, l’altra, finita in qualche modo in appesa allo schienale della sedia, l’infilò in fretta e furia.

 

Aprì la porta col miglior sorriso che fu in grado di sfoggiare, controllando il respiro per non sembrare agitata. «Ehi, papà!»

 

«Ciao, tesoro.» L’uomo sorrise a sua volta, contento di vedere la figlia e la abbracciò caloroso. Oltre le sue spalle, però, qualcosa di insolito attirò la sua attenzione. 

 

«Ochako, lui chi è?»

 

La ragazza fece saettare gli occhi dal padre a quel poco della figura di Bakugou che riusciva a cogliere con la coda dell’occhio, mente sentiva il suo cervello fondere alla prospettiva di inventarsi una bugia così su due piedi, non tanto su chi fosse – i suoi sapevano benissimo chi fosse e la sua faccia era un po’ poco confondibile – quanto più sul perché fosse lì, nella sua stanza, ad un’ora imprecisata del mattino e con addosso una delle sue magliette.

 

Balbettò qualche sillaba, nel tentativo di prendere del tempo. Poi fu come se la sua mente si fosse fermata, avesse smesso di elaborare in favore di una fredda quiete. Fu come se l’illuminazione l’avesse raggiunta.

 

«Bakugou Katsuki», disse semplicemente, allargando il braccio ad indicarlo. «Era con noi ieri al festival e il temporale ci ha presi alla sprovvista. Ci siamo riparati qui e ci siamo addormentati come pesci lessi.» Rise: non aveva bisogno di mentire se poteva semplicemente omettere. Per un momento aveva visto la catastrofe davanti ai suoi occhi, scordando qualsiasi cosa non fosse lo sguardo inquisitorio di suo padre davanti a lei. Ora lui aveva rilassato i lineamenti, si era aperto in un sorriso ed aveva salutato Bakugou, che, pregò di essere stata l’unica a notarlo, era sobbalzato leggermente quando aveva sentito il suo nome pronunciato dal signor Uraraka.

 

«Andiamo a fare colazione?» propose l’uomo e i due ragazzi annuirono, seguendolo fuori dalla stanza.

 

 

 

Non c’era nessuno strano silenzio in cucina, ma Katsuki poteva ugualmente avvertire la tensione sulla pelle, come mille fili che, seguendo i movimenti degli altri occupanti della stanza, si spostavano e gli solleticavano la schiena. Sentiva gli occhi di Hiroto Uraraka posarsi su di lui di tanto in tanto, tra una battuta ed una domanda a moglie e figlia con il perenne sorriso che Ochako aveva ereditato, osservandolo di sottecchi e cercando di studiarlo il più furtivamente possibile. Cercava di captare dei dettagli della sua persona, per quale motivo si trovasse lì, in casa sua, quale fosse il rapporto con sua figlia…

 

Come il suo cervello ebbe processato l’ultima parte della frase, Bakugou quasi si strozzò con il biscotto che stava masticando nei pochi secondi di attesa per il caffè. Tossì, interrompendo la battuta del signor Uraraka.

 

Lei sapeva di biscotti…

 

Altro colpo di tosse, questa volta più forte.

 

«Tutto okay, Bakugou?» chiese Ochako, sporgendosi leggermente verso di lui.

 

«Sì, sì.» Deglutì a vuoto, ingoiando l’imprecazione che gli vibrava prepotente in gola. Perché cazzo lo sto facendo? «Mi stavo solo strozzando con un biscotto.»

 

«Un po’ d’acqua?»

 

«Grazie, signora.» Da quand’è che sono così maledettamente fine?

 

Il microonde trillò, annunciando che il latte era finalmente caldo. Poco importava che fosse estate: la pioggia torrenziale della sera prima aveva donato a quella mattinata una ventata di fresco.

 

Dopo un attimo di silenzio anche la caffettiera richiamò nuovamente l’attenzione generale e Bakugou fu grato per quell’attimo in più di respiro. Si sentiva a disagio, come stretto in una morsa da cui non poteva liberarsi a modo suo. Avrebbe preferito di gran lunga poter urlare e far esplodere qualcosa, ma teneva abbastanza a Faccia Tonda da evitare di dare fuoco a casa sua e fare una cattiva impressione sui suoi genitori. Doveva usare la pazienza che aveva costruito negli anni, essere scaltro e non farsi cacciare fuori di casa a calci. 

 

«Allora» iniziò la madre, congiungendo le dita accanto alla guancia, come se imitasse qualcuno che dorme. «Com’è andato il festival?».

 

«Molto bene. Satsuki ha persino preso un pesciolino!» dichiarò Ochako. Incredibilmente, sembrava che nessuno di quei fili che Katsuki sentiva pressanti sulla pelle la sfiorasse. Era rilassata e sorridente e, notò, somigliava incredibilmente a sua madre. Quell’affermazione, però, strappò un sorrisino al ragazzo, al pensiero di come il povero animale fosse giunto tra le mani di una scalpitante Asui in miniatura.

 

«E Asui?» chiese di nuovo la donna. «Sai se lei ha evitato il temporale?»

 

«No, non l’ho ancora sentita. Ci eravamo appena svegliati, quando siete arrivati voi».

 

Hiroto sollevò un sopracciglio, aspettando ulteriori informazioni a riguardo, ma la signora Uraraka gli impedì di aprire bocca: prese la sua tazza dalle mani del marito, lamentandosi sottovoce di quanto fosse calda. «Mi raccomando, chiamala e fatti dire come sta», disse poi, rimestando la polvere di cacao nel latte.

 

Ochako annuì, rassicurando la madre e ringraziandola mentalmente per quell’insperato salvataggio. Quindi decise di partire all’attacco, evitando di nuovo che suo padre potesse porre qualche domanda un po’ troppo scomoda, a cui sarebbe stato difficile rispondere senza menzogne, reazioni corporee rivelatrici o balbuzie smascheranti. «Voi invece siete rimasti da zio Atsushi?»

 

La madre annuì: «Sì, ci ha preparato i letti e impedito di muoverci con quel tempo.»

 

«Temeva facessimo un incidente.» Hiroto s’intromise, un po’ di scherno nella voce, come a dire che sarebbe stato perfettamente in grado di tornare a casa sano e salvo, nonostante le preoccupazioni del fratello.

 

«Come gli hanno dato ragione i giornali di stamani, voglio ricordarti» lo riprese Azumi, sgranocchiando un biscotto. 

 

Hiroto tacque, vinto dalla risposta della moglie. Una manciata di secondi dopo, il sorriso tornò a troneggiargli in viso e Katsuki pensò che, decisamente, Uraraka aveva ereditato quel suo volto luminoso e quasi contagioso da quell’uomo, che fino a quel momento aveva visto solo nelle foto e, si rese conto, persino un’ombra nel viso della ragazza.

 

Ci fu un breve intramezzo, in cui Uraraka e la sua famiglia discussero degli incidenti che la scrosciante pioggia della notte precedente aveva causato e colse giusto quel brandello di conversazione che includeva una macchina che per poco non investiva due ragazzi. 

 

«Che incoscienti» era stato il commento del padre di Uraraka e Katsuki dovette nascondere un mezzo sorriso che gli inarcava gli angoli della bocca. Chissà se sapesse che i due incoscienti erano sua figlia ed il suo… amico. Si costrinse a non rimuginare sull’ultima parola. Correva il rischio di porsi domande decisamente scomode e a cui non aveva nessuna intenzione di dare risposta, come “cosa siamo noi?”. No, assolutamente non lo poteva permettere.

 

Sentì Ochako raccontare della loro serata, di come lei e Asui avessero incontrato lui e Testa di merda– lei l’aveva chiamato Kirishima, ovviamente– e di come fosse sparito con la fidanzata. Poi del saluto di Asui e di come la pioggia li avesse presi così all’improvviso che si erano diretti alla casa più vicina – la loro. Poi ascoltò la noiosa serata dei signori Uraraka a casa del fratello della donna, tra chiacchiere ed aggiornamenti sulle vite di tutti – lo zio aveva comprato un nuovo tagliaerba ed avevano prenotato un bel viaggio ad Osaka –, noiosi giochi da tavolo e altre chiacchiere sul meteo e la gioventù odierna; oltre che, per i signori Uraraka, le lodi tessute alla figlia – meritatissime, secondo il suo modesto parere, che però non sarebbe mai giunto ad orecchio di anima viva.

 

«Ragazzo?» Hiroto lo richiamò all’interno di una scena di cui si sentiva semplice spettatore. 

 

Katsuki raddrizzò la testa di scatto e gli sembrò di dover rimettere tutto nuovamente a fuoco, rispondendo con un “sì” abbastanza stridulo e laconico.

 

L’uomo sbatté un paio di volte le palpebre, sorpreso dal tono. «Tutto bene? Sembri un po’… calmo»

 

Uraraka fece fatica a trattenere la risata che le nacque spontanea in gola e la madre di seguito a lei. Solo la ragazza però venne fulminata dallo sguardo di Katsuki, che per qualche motivo non aveva nessuna voglia di risultare antipatico agli occhi della donna – o meglio, non più di quanto la TV non lo dipingesse.

 

«Sono solo un po’ assonnato, signore.»

 

«Oh, hai dormito male? Beh, in due in quel letto…» considerò l’uomo e Katsuki rabbrividì, interrompendosi come congelato mentre portava la tazza alle labbra. Trattenne l’impulso di voltarsi a guardarla, conscio che qualunque gesto simile avrebbe potuto rivelare qualcosa. Piuttosto rilasciò il respiro e si concentrò sul suo caffè. Ne bevve un sorso abbondante, prima di rispondere.

 

«Sì, in effetti non ho dormito benissimo» confermò.

 

«Per forza, se continui a muoverti» ridacchiò la ragazza.

 

Fu solo allora che Katsuki si concesse di osservarla per un attimo, e si concesse anche un mezzo sorriso, nel breve tempo in cui ancora la tazza gli copriva la bocca. Non riuscì ad odiarsi più di tanto per aver pensato a quanto cazzo fosse carina con i baffi di cioccolato. Inarcò il sopracciglio, ed il suo sorriso divenne un ghigno, pronto a ribattere a tono.

 

Il signor Uraraka ridacchiò, interrompendolo. «Ecco spiegato il garbuglio di coperte, allora»

 

«Uh… sì, sì» annuì la figlia, colta in contropiede. Katsuki si nascose dietro la tazza.

 

«Agitato e attivo come da ragazzino, noto» si aggiunse Azumi, ricordando i tempi della scuola, quando la sua piccola Ochako le raccontava di questo e quell’altro avvenimento, metà delle volte nominando appunto Katsuki e la sua indomabile energia.

 

«Già, indomabile» chiosò, ancora ridendo, Hiroto, in un tono che insospettì pesantemente Ochako. Quando suo padre faceva così, gatta ci covava. O aveva mangiato la foglia. Perse un po’ di colore a quella prospettiva e sì sentì stringere la gola dalla fretta, nel mentre che si prodigava e si affannava a costruire una scusa decente per allontanare Bakugou – e possibilmente sé stessa – da suo padre.

 

Il vuoto.

 

Panico.

 

Dalla camera da letto si diffuse, insistente, una suoneria e sentì Katsuki brontolare. Erano salvi.

 

«È mia madre» sbuffò e si diresse a rispondere più in fretta che poteva, scaricando l’urgenza su sua madre che, a quanto pareva, avrebbe urlato il quadruplo se avesse dovuto richiamare.

 

Nei pochi secondi successivi, la famiglia Uraraka poté sentire una voce ovattata che stava evidentemente urlando ed una che rispondeva a tono, nel fallimentare tentativo di non farsi sentire dagli altri abitanti della casa. Osservavano tutti e tre la porta del corridoio dove era sparito Katsuki, scambiandosi saltuariamente occhiate alquanto divertite.

 

«Ora riconosco il ragazzo» fu il commento a mezza voce di Hiroto Uraraka.

 

La figlia ridacchiò di gusto e, trangugiato l’ultimo sorso del suo latte, si avviò anche lei verso il corridoio. «Vado ad aiutarlo»

 

 

 

Bussò alla sua porta, tanto per avvisarlo della sua presenza e lo trovò che girava per la stanza come un’anima in pena, urlando a sua madre che non era morto assiderato, che era asciutto, che si preoccupava per niente e che sapeva badare a sé stesso. Il tutto, misto ad una serie di insulti verso la genitrice che Uraraka pensò bene di censurare il più possibile chiudendo la porta della sua stanza.

 

Vi si appoggiò e lo osservò girare ancora e brontolare contro la vecchia megera di lasciarlo in pace e che sarebbe tornato presto. 

 

«Allora, finito?» gli chiese quando, finalmente e con un sonoro sbuffo, Katsuki chiuse la telefonata. Ottenne in risposta solo un grugnito che la fece ridere e ne scatenò uno nuovo.

 

«Che hai da ridere?»

 

«Nulla, nulla». Gli porse lo yukata della sera prima, piegato e pulito. «Immagino che sia ora di andare»

 

«Dio, sì.»

 

Uraraka ridacchiò e, per salvare le apparenze, uscì dalla stanza mentre Bakugou si cambiava.

 

La trovò seduta di nuovo al tavolo con la sua famiglia, quando riemerse dal corridoio con lo yukata blu zaffiro di nuovo indosso – «Gli sta così bene», pensò Uraraka – e pronto per partire. Aprì la bocca per ringraziare, utilizzando quella minima quota di buone maniere che riteneva utile aver imparato, ma fu subito interrotto dal signor Uraraka.

 

«Spero che ti sia trovato bene, ragazzo. Qualcosa mi dice che non sarà l’ultima volta che ti vedremo» disse, indicando la moglie con lo sguardo. Questa ridacchiò. 

 

«Me lo auguro! Sei un così bel ragazzo!»

 

«Mamma!» sbottò Ochako, le guance sempre più rosse, guadagnandosi un’altra risatina della madre e, questa volta anche del padre.

 

Bakugou si affrettò a salutare i due – non senza essere catturato in un affettuoso abbraccio da parte della donna – e ad uscire pregando che una buca lo inghiottisse al più presto in modo da non fargli mai più mettere piede in quella casa. Che figura di merda, pensò.

 

 

 

L’aria era fresca e solleticava la sua pelle. La pioggia della sera prima aveva mitigato l’aria ed il suo odore permeava quella splendida, imbarazzante mattina. 

 

«Mi dispiace per… beh, tutto.» Uraraka guardava in basso, sul selciato, trovando ogni mattonella così tanto interessante da non poter assolutamente levare gli occhi per guardare Bakugou.

 

Un grugnito. «È stato bello. È stata la sveglia ad essere una merda.»

 

«Hai ragione» rise e prese un respiro profondo. Puntò gli occhi verso di lui, incontrando i suoi cremisi. «È stato bello»

 

Questa volta, fu il turno di Bakugou di distogliere lo sguardo e puntarlo lontano, sulla strada, cercando il coraggio di parlare. Voleva essere gentile, proporle di vedersi ancora una volta a casa, magari per una cena, ma era come se le parole gli si fossero bloccate in gola, impossibilitate da qualcosa che non conosceva ad uscire fuori.

 

«Ti andrebbe un caffè, domani?» 

 

Si voltò a guardarla e, semplicemente annuì, la gola ancora bloccata mentre gli occhi erano fissi in quelli di lei. 

 

«Allora a domani» lo salutò e, senza dargli tempo di emettere alcun suono di risposta, si alzò sulle punte per raggiungerlo e scoccargli un veloce bacio sulla guancia. Il suo viso era rosso e Bakugou avvertì le sue gote seguire l’esempio di quelle della ragazza.

 

«Mh» rispose e s’incamminò. Per l’ora si sarebbero scritti più tardi. Ora non voleva aggiungere null’altro. Qualsiasi cosa gli venisse in mente sembrava orrendamente stonata. Tuo padre aveva ragione, cazzo. 

 

Non si voltò a guardarla, e fu solo quando sentì la porta d’ingresso chiudersi alle sue spalle che si permise un secondo di debolezza e si sfiorò la guancia con le mani bollenti.

 

Il signor Uraraka  aveva fottutamente ragione: non sarebbe stata l’ultima figura di merda che avrebbe trovato protagonista Bakugou nella sua casa.

 

 

Note finali:

Ssssalve! 
Torno con questa storiella dopo tipo secoli, piccola continuazione di "Of crumby kisses on a Rainy Night", dato che mi sono detta che sarebbe stato divertente vedere la reazione della mattina dopo! E sono un sacco self indulgent, ho bisogno di loro e così ve li beccate.

Ci sto lavorando da tipo maggio, e sono oramai due anni che la carissima NanaLuna, pur non essendo nel fandom mi fa da direttore creativo/beta/povera crista che mi incoraggia a scrivere ste cagate e si subisce le mie paranoie. A scriverla mi sono divertita un sacco e spero che vi siate divertiti anche voi a leggerla!

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Boku no Hero Academia / Vai alla pagina dell'autore: Arya Tata Montrose