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Autore: EnysLZ    20/02/2019    1 recensioni
Il mondo è finito da circa vent'anni.
Dopo una missione andata male, Benjamin cerca rifugio tra le arterie di una città morta. A un passo dalla fine, un unico pensiero gira a circuito chiuso nella sua testa.
Raphael.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In mezzo a quella che una volta era stata una strada, abbandonato e saccheggiato dagli umani e dalla natura, Benjamin vide lo scheletro di una vecchia automobile. Doveva essere stata una famigliare, o un SUV tipo quello che la squadra di David aveva riportato al campo dopo una caccia fortunata, ma gli ultimi passeggeri che aveva visto dovevano risalire al giorno in cui il mondo era finito. I sedili erano spariti, così come il volante e le ruote e un paio di portiere. Le portiere, se adattate, si trasformavano in scudi efficaci per braccia forti, o in ottimi frammenti di barricate. Benjamin la fissò più attentamente. Era stata rossa, probabilmente un bel rosso metallizzato fiammante, ma la carrozzeria era ormai arrugginita e sporca, tanto da confondersi con il grigio asfalto della carreggiata. Non aveva nulla di diverso rispetto alle carcasse che punteggiavano le arterie in rovina delle città, se non per la posizione esattamente al centro di un lungo rettilineo di cemento.

Poteva usarla come punto d’osservazione.

Da dietro il grosso cassonetto dei rifiuti dove aveva trovato copertura, Benjamin si guardò intorno con il fucile puntato ad altezza uomo. Si prese interi minuti per esaminare ogni direzione. Il polpaccio pulsava dolorosamente e poteva sentire il liquido vischioso del sangue impregnargli la stoffa pesante dei pantaloni e scivolargli fin dentro lo scarponcino. Doveva trovare un rifugio e medicare la ferita.

La strada era silenziosa, come solo i cadaveri delle grandi città riuscivano a essere. Dove una volta sarebbe stato impossibile trovare riparo dall’assordante baraonda del traffico e della vita mondana che, nel migliore dei casi, per i residenti si trasformava in rumore bianco, ora l’eco di un suono lontano chilometri poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Il silenzio era ciò che teneva in vita i pochi superstiti, aggrappati al desiderio di sopravvivenza come scarafaggi alla carogna di un animale.

Benjamin aveva un buon udito, che lo aveva tratto d’impaccio in più di un’occasione. Tutto ciò che riusciva a sentire, in quel pomeriggio nuvoloso appena appena striato d’azzurro, era il minaccioso cigolio di strutture decadenti e l’abbaiare ostile di un cane selvatico dall’altra parte dell’isolato.

Doveva raggiungere quella macchina per essere sicuro di essere solo. Il vicolo in cui si era nascosto era stata la sua fortuna, ma non riusciva ad avere una buona visuale della zona.

Doveva trovare un nascondiglio, medicarsi la gamba e trovare una radio funzionante, possibilmente prima del tramonto. I graffiti che indicavano la presenza di equipaggiamento nascosto lo avevano condotto in quello specifico quartiere, ma aveva smesso di vederli già da parecchi minuti. Non poteva essere lontano. Per fortuna aveva ancora il fucile.

Trattenne il respiro e tese i muscoli. Il polpaccio gli faceva davvero male.

Uscì in strada. L’asfalto sotto i suoi piedi era in pessime condizioni e doveva fare attenzione a non finire dentro una delle tante buche che si erano aperte dopo anni di incuria. Senza mai abbassare il fucile, avanzò lentamente verso l’automobile rossa in mezzo alla strada.

Non era al sicuro.

Certo, aveva fatto di tutto per seminarli e portarli lontano, ma non aveva mai davvero creduto che ce l’avrebbe fatta. Quando si era reso conto del silenzio e si era guardato alle spalle, aveva realizzato di essere da solo. Così, da un momento all’altro. Non era normale.

Raggiunse l’automobile e si arrampicò sul tettuccio con un balzo che sarebbe sembrato senz’altro più aggraziato se non avesse bestemmiato a causa della ferita alla gamba.

Raddrizzò la schiena e si guardò intorno. La strada era uno di quei grossi corsi fiancheggiati da alti edifici, quasi tutti a un passo dal crollo, ma non tutti gli anfratti erano luoghi sicuri in cui poter abbassare la guardia per qualche minuto. Doveva individuare uno dei simboli concordati e seguirne le indicazioni, era la sua unica possibilità.

Dopo qualche istante di totale immobilità, decise che poteva rischiare. Mise il fucile a tracolla ed estrasse un piccolo binocolo da una delle tante tasche del giubbotto. Aveva preso una bella botta ma, con un po’ di fortuna, le lenti sarebbero state a posto. Attraverso il binocolo osservò con attenzione i muri degli edifici in rovina, scansionandoli con lo sguardo metro per metro. Era sicuro di non aver sbagliato direzione ma, nelle zone più difficilmente raggiungibili, spesso i graffiti finivano sbriciolati insieme ai muri su cui erano stati disegnati. Oppure venivano cancellati dalle piogge e dal vento. Una volta, ne aveva visto uno nascosto da una grossa macchia di sangue rappreso.

Sfiorò con lo sguardo l’angolo di un vicolo e quasi passò oltre prima di intravedere i contorni di un simbolo familiare. Bingo.

Mise via il binocolo, felice che finalmente le cose stessero andando nella giusta direzione, quando si rese conto che il silenzio aveva lasciato spazio a un fruscio incessante e acuto, dai tratti quasi metallici, che ricordava le folate di vento attraverso i cantieri dei grattacieli in costruzione.

Solo che non era il vento.

Imprecando in silenzio, scivolò giù dall’auto e si lanciò in una corsa disperata verso il punto in cui aveva individuato i graffiti sul muro. Non si faceva alcuna illusione sul fatto che lo avrebbero condotto a un riparo difendibile ma magari, tra l’equipaggiamento a disposizione, avrebbe trovato qualcosa di utile. Come delle granate o un lanciarazzi.

O carta e penna per lasciare un ultimo messaggio.

Corse zoppicando con il fucile che gli sbatteva su un fianco. Se lo avevano trovato, una sola arma non avrebbe fatto la differenza. Se non erano lì per lui, allora correre a nascondersi era più importante che fermarsi a combattere.

Il fruscio metallico e i sussurri nell’aria non sembravano farsi più vicini, ma la situazione poteva cambiare nell’arco di sei secondi o poco più. Benjamin lo sapeva, lo aveva già visto accadere. Era così che avevano perso Hayden.

Se fosse riuscito a trovare una radio, avrebbe almeno potuto dire addio.

Il pensiero di andarsene così, lontano dalla base, senza che nessuno sapesse dove trovare il suo cadavere per l’ennesima pira, lo divorava dall’interno. C’erano persone che gli volevano bene e lo stavano aspettando, probabilmente si stavano già chiedendo dove si fossero cacciati lui e la sua squadra. Non poteva lasciare che se lo chiedessero in eterno. Non poteva lasciare che rischiassero la vita per aggrapparsi alla speranza che lui fosse ancora vivo. La speranza era ciò che faceva ammazzare la gente, che le faceva rischiare la vita per l’irrazionale pensiero che loro fossero l’eccezione, che non avrebbero perso nulla.

Scosse la testa. Non erano pensieri suoi. La speranza era l’unica cosa che teneva in vita le persone.

Doveva avvisarli. Dire loro quello che era successo, chiedere perdono per avere fallito.

Dire a lui che avevano esaurito il loro tempo.

Benjamin si schiaffeggiò con violenza per fermare il corso dei suoi pensieri. Non poteva pensare a lui o avrebbe commesso il fatale errore di sperare di poter tornare. Per come si stavano mettendo le cose, non poteva permettersi di sprecare per lui i suoi ultimi istanti di vita. Aveva delle responsabilità, persone la cui salvezza dipendeva da lui e dalla radio che, lo sperava davvero tanto, era stata nascosta dalle squadre di esplorazione.

Non poteva pensare a lui.

Un frammento rialzato d’asfalto gli fece perdere l’equilibrio e Benjamin finì a terra con un rantolo strozzato. Per fortuna non aveva deciso di correre impugnando il fucile, o sarebbe atterrato sulla propria faccia. Cercando di trattenere i lamenti, si mise a sedere e strinse la gamba tra le mani. I pantaloni erano impregnati del suo sangue e il dolore iniziava a diffondersi a raggio, abbandonando l’area del profondo taglio per raggiungere ogni terminazione nervosa. Solo l’idea di alzarsi gli faceva girare la testa.

Alzò lo sguardo. I graffiti erano a pochi metri da lui. I numeri incisi sotto il simbolo parlavano chiaro: il nascondiglio era vicino, forse appena in fondo allo stretto vicolo. Poteva farcela.

Uno stridio penetrante squarciò l’aria e Benjamin sentì la forza abbandonare le sue membra. Le sentì farsi pesanti, gli sembrò impossibile anche solo concepire il pensiero di alzarsi in piedi e riprendere a correre. Non sapeva se fosse la perdita di sangue o quello che quel suono aveva stroncato dentro di lui, ma all’improvviso sentì che non valeva la pena andare incontro alla morte. Era meglio aspettarla.

Lui non si sarebbe arreso, lo sapeva. Gli avevano raccontato di quando si era rialzato con un taglio sulla spalla così profondo che era incredibile che non gli avessero staccato di netto il braccio. Non aveva avuto neanche un accenno di paura nello sguardo. Aveva scherzato sul fatto di essere mancino e che, in ogni caso, avrebbe conservato il suo braccio dominante, e poi si era sistemato il cappello sulla testa e aveva ripreso a correre più veloce di tutti gli altri.

Ora che era davvero finita, Benjamin poteva prendersi il lusso di dedicare a lui i suoi ultimi pensieri. Sarebbe stato come averlo vicino. Perché Benjamin non aveva paura della morte, ma non gli piaceva l’idea di morire da solo. Avrebbe accettato il suo destino se solo avesse potuto spegnersi con lui al suo fianco, a dirgli che aveva fatto un buon lavoro e che si sarebbero incontrati di nuovo. Avrebbe pronunciato il suo nome in un sussurro roco e Benjamin sarebbe morto così, con la sua voce nelle orecchie.

Gli sembrava quasi di sentirla davvero.

“Benjamin!”

Benjamin aprì gli occhi. Lo stridio non si era fatto più acuto, ma non accennava nemmeno a diminuire. Erano vicini. Sarebbe stato bello se il cielo fosse stato azzurro, come gli occhi di lui, ma anche il bianco abbacinante delle nuvole aveva un fascino liberatorio.

“Ben!”

Benjamin si riprese quando qualcuno cadde in ginocchio accanto a lui. Scosse la testa, i pensieri ancora confusi, e si dimenò quando sentì delle mani posarsi con forza sul suo torace e sulle sue gambe. Il fischio gli sembrò meno intenso, riusciva a pensare in modo più razionale.

O meglio, sarebbe riuscito a farlo se quelle mani avessero smesso di toccarlo dappertutto.

“Raphael?”

Quando ritrovò il controllo sui propri muscoli, voltò il viso verso l’uomo al suo fianco e sprofondò nei suoi occhi azzurri come i calmi laghi del nord. Si ritrovò a incurvare le labbra in quello che sperò fosse un sorriso, ma che forse non era altro che una smorfia sghemba.

Raphael individuò il taglio sul polpaccio in pochi secondi. Con un coltellino a serramanico tagliò la gamba dei pantaloni e scostò delicatamente la stoffa dalla pelle. Raphael imprecò e Benjamin soffocò un urlo di dolore che lo strappò alla sua pericolosa apatia.

“Raphael!” ripeté, incredulo.

Non era frutto della sua immaginazione, né dei giochi mentali con cui il nemico attaccava. L’uomo era lì, accanto a lui, con i suoi folti capelli neri e gli occhi come abissi di colore su un volto pallido ed esangue. Più del solito, si ritrovò a pensare.

Raphael strinse un laccio appena sotto il suo ginocchio, poi lanciò un’occhiata alle sue spalle e scattò in piedi come fosse stato punto da un grosso ago. In lontananza, verso est, l’aria tremolava come sopra l’asfalto incandescente in una torrida giornata estiva. Solo che era ottobre.

“Dobbiamo andare. Riesci a camminare?”

Ben si mise a sedere e allungò un braccio verso l’amico. Raphael gli strinse la mano e lo tirò in piedi con forza. Non gliela lasciò. Benjamin saltellò sul posto prima di trovare un equilibrio, poi annuì.

“Bene,” riprese Raphael. Allungò la mano libera e gli scostò una ciocca di capelli biondi dal viso. Benjamin chiuse gli occhi per un secondo e sospirò. “Perché dobbiamo correre.”

Si lanciarono in una fuga disperata verso occidente, dove il sole si avvicinava sempre più all’orizzonte. Dopo qualche decina di metri, Benjamin rallentò in modo considerevole. Raphael, che non aveva rinunciato a imbracciare il fucile durante la corsa, se lo mise a tracolla e fece passare un braccio attorno alla vita dell’uomo, quello di lui sopra le sue spalle. Non si fermarono mai. Benjamin fece notare al compagno il vicolo con i graffiti, ma Raphael scosse la testa e tirò dritto, forse con un obiettivo preciso in mente. Benjamin non si fece domande. Si fidava ciecamente di Raphael, come tutti.

Corsero per quasi un chilometro, infilandosi nelle stradine secondarie quando erano sicuri che non sarebbero rimasti intrappolati in un vicolo cieco. Stridio, sussurri e tremolii inquietanti si fecero sempre più tenui e distanti, fino a scomparire del tutto. In ogni caso, non si fermarono.

Raggiunsero la periferia della città, con i palazzoni scoperchiati e gli edifici che non erano stati molto sicuri già prima della fine del mondo. Le strade si fecero più strette, gli animali selvatici più numerosi e, quando Benjamin si accasciò addosso a Raphael con tutto il suo peso, l’uomo decise che era arrivato il momento di trovare un riparo per la notte.

“Guarda, Raph,” mormorò Ben tra un ansimo e l’altro. “Che meraviglia.”

Il sole stava sparendo dietro il profilo di un complesso di edifici sventrati, tingendo le nuvole con tutti colori infuocati delle calde sfumature di rosso. Tramonti del genere non erano insoliti da quelle parti, ma erano sempre uno spettacolo che lasciava senza fiato: una delle poche cose belle rimaste al mondo.

Raphael distolse lo sguardo e ispezionò i dintorni. Una delle case, un basso edificio a due piani incastrato tra palazzi più alti, vagamente nascosto in un cortile interno, sembrava promettente. La gente aveva abbandonato le proprie abitazioni in fretta e furia e le più isolate, quelle più lontane dal centro e dalle vie di fuga, nascondevano ancora provviste ed equipaggiamento a volontà. A volte anche medicine.

Si incamminò in quella direzione, trascinando più che sostenendo Benjamin. Lo fece appoggiare a un muro adiacente; impiegò diversi secondi prima di allontanare le mani da lui, e lo fece solo quando fu sicuro che sarebbe riuscito a reggersi in piedi. Provò la porta d’ingresso, ma era chiusa a chiave. Le finestre erano in frantumi ma non erano state barricate, forse nessuno aveva più messo piede in quella casa. Facendo attenzione ai frammenti di vetro ancorati agli infissi, si sporse all’interno con il fucile ad altezza uomo e ascoltò. A parte lo scalpiccio frenetico di quelli che sembravano essere topi, non sentì niente.

“Via libera,” annunciò, più a se stesso che non a Benjamin.

Si arrampicò all’interno della casa attraverso il riquadro della finestra. Non sarebbe mai riuscito a far passare Benjamin da lì, non senza farlo scivolare sugli affilatissimi frammenti di vetro; il taglio che aveva sulla gamba non necessitava compagnia, per nessuna ragione. Avrebbe dovuto abbattere la porta d’ingresso.

Dopo aver lanciato un’occhiata all’esterno e aver visto Benjamin ancora in piedi, si prese qualche minuto per esaminare l’edificio. Era una casa povera, ma era evidente che chi l’aveva abitata aveva cercato in ogni modo di renderla accogliente. Le tende ammucchiate a terra e il copridivano erano più belli che funzionali, così come la moltitudine di piccoli soprammobili impolverati accumulati su mensole e scaffali. La cucina era stata incastrata in un angolo del piano terra, sacrificata in termini di grandezza per lasciare spazio a una zona giorno più ampia. Dal frigorifero proveniva un odore acre di morte e putrefazione; Raphael si fece l’appunto mentale di non provare nemmeno ad aprirlo. Salì le scale con un po’ d’apprensione quando le sentì cigolare violentemente sotto il suo peso. Al piano superiore trovò una camera da letto e un piccolo bagno. Non c’era acqua corrente, purtroppo, ma quasi scoppiò a ridere per il sollievo quando trovò bende, disinfettante e antidolorifici nel mobiletto a specchio sopra il lavello. Si infilò nelle tasche anche una confezione di ibuprofene e una scatola ancora chiusa di pastiglie per la gola. Era tutto scaduto anni prima, naturalmente, ma era meglio di niente. Avrebbe dovuto confidare nelle case farmaceutiche, chi l’avrebbe mai detto.

Prese tutto il necessario e tornò di corsa al piano di sotto. Uscì dalla finestra, si piazzò a gambe larghe davanti alla porta, prese un profondò respiro e… la porta venne giù con la prima spallata, il legno marcio quasi si sgretolò a contatto con i muscoli di Raphael, che finì lungo disteso sul pavimento. Sentì Benjamin ridere.

“Davvero elegante,” commentò il più giovane, premendo la schiena contro il muro per mantenere una posizione eretta senza gravare sulla gamba ferita.

“Taci,” replicò Raphael imbarazzato, alzandosi in piedi e pulendosi i vestiti dalle schegge di legno.

Recuperò l’uomo ferito e insieme, un passo alla volta, si introdussero nella casa. Dopo aver tolto il copridivano, che era sporco e puzzava di urina d’animale, Raphael aiutò Benjamin a sedersi.

Entrambi respirarono a fondo, concedendosi qualche secondo per rendersi conto di essere ancora vivi.

L’adrenalina stava abbandonando il corpo di Benjamin, che si ritrovò sudato e ansimante nell’arco di pochi minuti. Appoggiò la testa allo schienale del divano e chiuse gli occhi.

Non era la prima volta che scampava alla morte per un soffio, ma era sempre difficile accettare di lasciarsi andare e venire trascinati in superficie per il rotto della cuffia. Significava tornare a ricordarsi che c’erano cose più importanti della propria vita con cui confrontarsi. Missioni da portare a termine, ricerche da ultimare, una squadra da guidare…

“Hai una radio?” chiese Benjamin debolmente.

“Certo. Devi contattare la tua squadra?”

Benjamin scosse la testa. “Abbiamo perso la radio quando hanno ucciso Adam.” Come aveva potuto dimenticarlo? Gli si strinse la gola. La missione di routine si era trasformata in un tragico fallimento. “E… e Lisa. Abbiamo dovuto lasciarli indietro, e la radio con loro. Ci siamo rifugiati in un vecchio magazzino di macchine per cantieri edili, ma sono uscito per cercare una radio in uno dei depositi nascosti degli esploratori. Non ho fatto in tempo. Devo comunicare la posizione della mia squadra alla base. E magari anche la nostra?”

Raphael estrasse la radio da una profonda tasca dei pantaloni. “Negativo. Siamo troppo lontani e non sappiamo se loro siano ancora qui intorno. Dovremo cavarcela da soli.”

Benjamin afferrò la radio senza aggiungere altro. Si sentiva sempre più debole. Mentre impiegava qualche istante per cercare la giusta frequenza, sobbalzò quando sentì le mani calde di Raphael posarsi sulla sua gamba ferita all’altezza della caviglia. Lo guardò. Raphael si era inginocchiato davanti a lui e gli stava slacciando lo scarpone con pazienza, facendo attenzione a non fare movimenti bruschi.

Raphael era ben più di una gioia per gli occhi. Quando lo aveva trovato agonizzante sulla strada, per un attimo Benjamin era stato sicuro di averlo evocato con la forza del pensiero, o che fosse stato uno scherzo patetico partorito dalla sua mente. Raphael non era solo l’ultima persona che avrebbe voluto vedere prima di morire, ma anche l’unica in grado di dargli la tranquillità d’animo per affrontare l’ultimo viaggio. Forse per questo i suoi pensieri erano andati a lui in quei momenti. Forse non aveva bisogno di trovare chissà quale altra spiegazione.

“Ben, devi rispondere o penseranno di essere stati intercettati.”

Perso nei suoi pensieri, che si facevano via via più confusi e difficili da interpretare, Benjamin non si era accorto di aver trovato la giusta frequenza per le comunicazioni alla base. La voce professionale di Cora si stava facendo sempre più spazientita.

Comunicò in poche parole la posizione della sua squadra, spiegando ciò che era successo. Quando gli fu assicurato che un secondo gruppo sarebbe andato sul posto alle prime luci dell’alba, Raphael gli prese la radio di mano e chiuse la comunicazione dicendo che loro due avrebbero trovato da soli il modo di tornare perché la zona brulicava di nemici.

Esauriti i compiti da portare a termine, Benjamin si ritrovò di nuovo da solo con i suoi pensieri e il suo dolore. Scattò come una molla quando Raphael cominciò a disinfettargli la ferita.

“Scusa,” disse solo lui. “So che brucia come l’inferno.”

Benjamin si lasciò ricadere all’indietro, cercando di rilassarsi. Non era la prima volta che veniva ferito sul campo e non sarebbe stata l’ultima.

Raphael sapeva essere gentile con le mani, Benjamin avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro. La sua esperienza era impareggiabile; più di un uomo era riuscito a tornare alla base sulle proprie gambe solo perché Raphael era intervenuto e aveva prestato le prime cure.

Quando fu sicuro che la ferita fosse pulita, iniziò a fargli un bendaggio stretto. Forse era una questione psicologica, il pensiero che la sua carne non fosse più un banchetto a disposizione di tutti gli agenti patogeni del creato, ma Benjamin si sentì subito meglio. Raphael gli porse un paio di pastiglie bianche di qualche tipo e lui le deglutì senza fare domande. Aveva le membra pesanti e la testa come in una bolla, ma c’era poco che si potesse fare per la perdita di sangue. Era fortunato a esserne uscito vivo e con entrambe le gambe.

Era sempre più difficile tenere gli occhi aperti.

“Raph,” sussurrò, forse sperando di avvertirlo. L’uomo lo afferrò per un braccio e lo aiutò a stendersi sul divano, tirandogli su le gambe perché tutto il suo corpo fosse in posizione orizzontale. Benjamin posò la testa sul bracciolo e socchiuse gli occhi. Raphael si era di nuovo inginocchiato al suo fianco e lo fissava a pochi centimetri dal suo volto, con un sorriso a incurvargli le labbra. Allungò una mano per scostargli una ciocca di capelli dalla fronte sudata, e Benjamin sospirò.

“La tua squadra ha mancato gli ultimi due rendez-vous. Ero preoccupato,” mormorò Raphael in un sussurro, ma era così vicino a Benjamin che non fece alcuna fatica a sentirlo. Lottò contro l’energia invisibile che lo stava forzando a chiudere gli occhi. Voleva guardarlo. Anche solo per un istante ancora.

“E sei venuto a cercarmi?”

No, Benjamin. Cercava la tua squadra. Smettila di vedere ciò che non c’è.

“Sapevo che eri vivo,” rispose Raphael, invece di rispondere. “Nello stesso modo in cui so da sempre che mia figlia è morta.”

“È davvero uno strano superpotere.”

“In questo nuovo mondo, con le sue nuove regole?” Raphael rise. “È tutto ciò che serve.”

Benjamin si lasciò vincere dal sonno. L’ultima cosa di cui fu consapevole furono le labbra di Raphael che si posavano sulla sua tempia in una carezza che aveva il profumo della disperazione e del sollievo.

 

*

 

Quando si svegliò aveva un gran mal di testa e la bocca secca e appiccicosa. Prima ancora che potesse provare a comunicare il suo disagio, Raphael gli mise sotto il naso una borraccia piena per metà di acqua tiepida. Benjamin si tirò a sedere e bevve avidamente.

“Come va la gamba?”gli chiese l’amico.

Benjamin provò a muoverla. Faceva male e non era sicuro che avrebbe retto il suo peso molto a lungo, ma almeno aveva smesso di pulsare. Le bende erano pulite, nuove, e si chiese come avesse fatto Raphael a cambiargli il bendaggio senza svegliarlo.

“Meglio. Ti devo un favore.”

“Solo uno?”

Risero entrambi, ma in modo sommesso.

Benjamin si guardò intorno per la prima volta da quando si erano introdotti in quella casa. Raphael stava pulendo il fucile sull’unico tavolo della stanza, ma aveva quello di Benjamin appoggiato a fianco, pronto per essere usato. La casa era stata abbandonata di corsa. Nel lavello della cucina, sotto uno strato nero di polvere e sporcizia, c’erano ancora dei piatti e dei bicchieri. Su una mensola accanto al piccolo televisore vide delle foto incorniciate: una coppia felice nel giorno del matrimonio, un bambino di dieci anni in divisa da pallacanestro, la famiglia al completo con un semplice albero di Natale sullo sfondo. Persone come tante altre, che probabilmente erano morte da almeno un ventennio.

Quel pensiero non bastò a Benjamin per sentirsi meno a disagio sdraiato su un divano che non gli apparteneva, in una casa che non era la sua.

“Lo odio,” commentò sovrappensiero, guardando sconsolato i brandelli dei propri pantaloni.

“Che cosa?” Raphael non smise di rimettere insieme i pezzi del fucile. Era diventato un automatismo, non sarebbero state due chiacchiere a distrarlo da quel compito.

“Entrare nelle case private,” rispose Benjamin, indicando la stanza attorno a loro. “Questo non è terreno di guerra, questa era la casa di qualcuno. Durante i primi momenti di caos, quando nessuno sapeva se il mondo sarebbe davvero finito, l’obiettivo di tutti era quello di tornare a casa. Non mettersi in salvo, tornare a casa. È lo stesso principio per cui, una volta, si diceva che sotto le nostre lenzuola i mostri non avrebbero potuto prenderci. O, almeno, mia madre lo diceva sempre,” Benjamin rise, scuotendo la testa con aria malinconica. Erano passati quasi vent’anni, ma i ricordi erano difficili da seppellire. “La casa era l’unico rifugio che avevamo nella vita. Quando sono riuscito a tornare alla mia e ho visto quello che le avevano fatto… è stato il momento in cui ho capito che era finita. Non sarei più tornato indietro.”

Il clic finale che indicava che il fucile era nuovamente pronto a sparare interruppe il silenzio in cui era piombata la casa. Non era insolito, tra chi era stato abbastanza grande da vivere quei giorni con la consapevolezza e la maturità dell’età adulta, che si sentisse il bisogno di tornare con la mente a prima. Qualcuno lo trovava necessario per avere qualcosa per cui combattere, altri volevano solo aggrapparsi all’idea che le cose non fossero sempre state così difficili. Così in bilico tra vita e morte.

Benjamin non faceva parte di nessuna di queste categorie. Non era pragmatico come Raphael, che della sua vita precedente a malapena parlava, ma non aveva nemmeno il suo cinismo. La sua vita prima della fine del mondo era stata una bella vita e c’era bisogno di più bellezza nel mondo in cui vivevano. Se ogni tanto sentiva il bisogno di rifugiarsi nei ricordi, non vedeva debolezza nel farlo.

“Io non sono mai tornato,” disse Raphael all’improvviso. Benjamin non era stato sicuro che avrebbe mai commentato il suo sfogo, e lo guardò sorpreso. Non avevano mai parlato di ciò che erano stati prima di diventare quello che erano, se non sporadicamente. “Non avevo bisogno di vedere per sapere.”

“Sapere cosa?”

“Che avrei dovuto affrontare tutto questo da solo.”

Lasciarono cadere il discorso. Il sole era sorto e non potevano permettersi di restare troppo tempo nello stesso posto. Dalla base non avevano ricevuto comunicazioni, ma Benjamin sperò che si fossero già mossi per andare a recuperare la sua squadra. Oltre ad aver perso Adam e Lisa, Arnaud era stato ferito e aveva bisogno di cure immediate.

Benjamin aveva ancora la testa annebbiata dalla perdita di sangue e dall’attacco ai suoi sensi della sera prima. Dopo quasi vent’anni di lotta per la sopravvivenza sapeva bene come operava il nemico ma, a differenza di ciò che qualsiasi manuale di guerra avesse mai sostenuto, la conoscenza non poteva nulla contro il potere di quelle creature. Sapere che potevano giocare con la mente delle persone non era sufficiente a prevederne o sostenerne l’attacco.

Qualcosa di pesante e morbido gli cadde in grembo. Meravigliato, si ritrovò a fissare un paio di jeans impolverati ma tutto sommato puliti. Guardò Raphael con aria interrogativa.

“Mettili, quelli che hai addosso sono da buttare.”

Benjamin si lamentò sonoramente. “Ma adoravo questi pantaloni! Erano pieni di tasche!”

“Ammetto che ti facevano un culo niente male… ma non c’è speranza, rassegnati.”

Raphael gli strizzò l’occhio e Benjamin arrossì come un dodicenne alle prese con la prima cotta adolescenziale. Andava per i quaranta e ancora riusciva ad arrossire.

A sua discolpa, però, Raphael era in grado di far arrossire chiunque. C’era un’aura attorno a lui, un alone di autorità e spirito di sacrificio, che ne avevano fatto da subito un leader naturale. Nessuno sapeva cosa avesse fatto prima della fine del mondo ma, considerando che all’epoca non poteva aver avuto che vent’anni o poco più, la teoria più diffusa era che il suo fosse un talento naturale. Forse era stato una recluta delle forze dell’ordine o, sussurrava qualcuno, un vigile del fuoco, ma la verità era che non aveva importanza. In un mondo in cui era stato necessario, per i sopravvissuti, radunarsi all’ombra di personalità forti, simboli di ideali da non dimenticare, Raphael era diventato l’avatar della speranza per la sua comunità.

E aveva rischiato la vita per andare a cercarlo.

Benjamin si tolse i pantaloni rovinati, facendo attenzione a non toccare il polpaccio ferito, e rimase in boxer. Non ricordava nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che aveva fatto una doccia, e si sentì a disagio. Non che Raphael fosse più pulito di lui, ma almeno il non essere in mutande gli conferiva una certa dignità.

Benjamin si vestì in fretta, sibilando qualcosa tra i denti quando fece con la gamba un movimento un po’ troppo deciso, e si infilò gli scarponcini. Si sentiva un uomo nuovo.

Quasi.

“C’è un bagno?” chiese, speranzoso.

“Sì, ma credimi quando ti dico che non vuoi entrarci. Ti conviene andare fuori.”

Benjamin annuì e si alzò in piedi. Barcollò per qualche istante, ma fu lesto a ritrovare l’equilibrio. Vent’anni di combattimenti, non sarebbe stato allettato da un taglio a un polpaccio.

“Ti serve una mano?” chiese ancora Raphael. Benjamin aveva una risposta maliziosa sulla punta della lingua, ma la ricacciò in gola quando vide che l’espressione dell’amico era seria e preoccupata.

Scosse la testa e sorrise.

“Posso farcela da solo, grazie.”

La loro era una strana relazione, pensò mentre zoppicava oltre la porta in frantumi alla ricerca di un briciolo d’intimità. Si erano conosciuti un anno prima, quando Benjamin e i superstiti del suo gruppo avevano trovato asilo in quella che ora era la loro base di comando. A differenza di quello che decine di registi e scrittori avevano raccontato nelle loro opere apocalittiche, gli esseri umani avevano capito quasi subito che, per sopravvivere, avrebbero dovuto collaborare. Le varie comunità erano diventate delle città-stato, ma non rifiutavano di aiutarsi a vicenda e non respingevano le persone in difficoltà. Benjamin e i suoi erano gli unici sopravvissuti di una minuscola comunità nomade, ed erano stati accolti come amici attesi da tempo.

Benjamin era rimasto subito abbagliato dal capo. Raphael era giovane, di pochi anni più di lui, ma aveva lo sguardo di chi aveva visto abbastanza per tre vite. Era un uomo alto e muscoloso, con folti capelli neri, la barba incolta e gli occhi più azzurri che avesse mai visto. Era riservato e discreto, ma non risparmiava sorrisi e incoraggiamenti a nessuno e, durante l’apocalisse, Benjamin l’aveva subito considerata una grande qualità.

Avevano cominciato parlando di tattiche di guerriglia; Benjamin aveva sviluppato delle teorie su come attirare le creature lontano dai punti strategici e Raphael era stato entusiasta di metterle in pratica.

Avevano proseguito pranzando allo stesso tavolo e parlando di ciò di cui, in una comunità senza più psicologi, avevano sentito il bisogno di parlare; avevano scoperto di avere lo stesso senso dell’umorismo.

E poi erano finiti a letto insieme, più e più volte, in lunghe nottate incandescenti che avevano portato a sorrisini maliziosi da parte dei compagni e ad alcuni rari casi di silenzi imbarazzati tra loro.

Non ne avevano mai davvero parlato. Ogni tanto uno dei due si presentava alla porta dell’altro e veniva invitato dentro, senza commenti, senza complicazioni.

Da ragazzo, Benjamin non era mai stato tipo da relazioni puramente sessuali. Crescendo non era cambiato. Ma avere Raphael in qualsiasi modo era diventato un imperativo categorico e non aveva potuto fare altro che cedere.

A costo di farsi del male.

Quando rientrò in casa, Raphael era pronto a partire. Gli passò il suo fucile e Benjamin lo prese con sollievo: si sentiva nudo senza.

“Credi di riuscire a camminare? Vorrei provare a fare il giro della città senza passare dal centro. Con un po’ di fortuna si concentreranno sui palazzi più grossi.”

Benjamin annuì. Non poteva dire di essere contento davanti alla prospettiva di camminare per ore con la gamba in quelle condizioni, ma non avevano scelta. Dovevano ritrovare la strada per la base senza farsi individuare, o li avrebbero portati alle porte di casa. Avevano famiglie da proteggere, bambini nati in quel mondo. Avrebbero dato la vita piuttosto che darli in pasto a quelle creature.

“Possiamo mangiare qualcosa prima?” chiese Benjamin, lasciandosi cadere su una sedia attorno al tavolo. “Sto morendo di fame.”

Raphael gli passò una razione d’emergenza e si sedette davanti a lui. Restò a guardarlo mentre mangiava a piccoli morsi della carne secca che aveva la consistenza del cuoio… e anche un po’ il sapore. Benjamin finse che quello sguardo non gli smuovesse niente dentro.

“Sei sicuro di stare bene?” gli chiese Raphael dopo un po’. “Quando ti ho trovato ho temuto di essere arrivato tardi.”

Benjamin si rese conto dell’errore quando sentì la carne essiccata scendere come un macigno lungo una gola ora troppo stretta. Ebbe quasi la sensazione di sentirla precipitare nello stomaco con un tonfo.

“Mi sono entrati in testa per un attimo, niente di che.”

“Conosco la sensazione. Non è… spiacevole.”

Raphael lo fissava con intensità. Benjamin appoggiò le braccia sul tavolo, la colazione una necessità dimenticata. Sapeva benissimo cosa intendeva dire Raphael. Era ciò che aveva sterminato la maggior parte della razza umana.

“Erano troppo vicini, non sono riuscito a chiuderli fuori.”

“Non ti sto accusando di niente, Ben. Voglio solo sapere se adesso stai bene.”

Benjamin alzò la testa, finalmente incrociando il suo sguardo. Raphael gli sorrise. Benjamin ringraziò di essere già seduto.

Maledizione, doveva darci un taglio o si sarebbe davvero fatto del male.

“Ti è già successo, vero? Quando ti hanno…” lasciò la frase in sospeso, indicando con un gesto vago la spalla destra di Raphael, dove sapeva esserci la terribile cicatrice di pochi anni prima.

Raphael si massaggiò la spalla in un gesto involontario, come a voler rassicurare se stesso che il dolore e la paura della menomazione facessero ormai parte di un passato lontano.

“Il loro è un attacco quasi clemente,” commentò Raphael, senza nessuna particolare inflessione nella voce. “Ti convinci che sia finita, ma l’ultima cosa che vedi è ciò che più desideri. Per questo è impossibile resistere. Io ho visto mia figlia, l’ultimo giorno prima della fine.” Fece una pausa, e Benjamin capì subito che Raphael stava esitando. In rare occasioni, quando ne avevano sentito la necessità, si erano lasciati andare a confidenze importanti. Ma Raphael era sempre stato restio ad aprirsi ad altri. “Giocava nel giardino sul retro. Avevo attaccato due corde e un pezzo di legno levigato a un ramo robusto per farne un’altalena. Ci passava le ore, non voleva mai scendere,” sospirò, ma riuscì a trovare la forza per un sorriso infelice. “Era lì l’ultima volta che l’ho vista. Aveva tre anni. Non ho mai voluto sapere come sia morta.”

Benjamin non sapeva cosa rispondere. In un gesto che forse gli avrebbe causato innumerevoli prese in giro nei giorni a venire, allungò una mano fino a posarla sul braccio di Raphael. Lui lo lasciò fare, anzi, sembrò quasi che i suoi muscoli si rilassassero sotto il giubbotto. Benjamin risalì lungo il suo braccio fino a sfiorargli il collo. Aveva la pelle calda, l’aveva sempre avuta. Sotto le sue dita gli sembrò bollente.

Raphael gli prese quella stessa mano tra le sue e la strinse.

Forse non l’avrebbe preso in giro.

“E tu cosa hai visto?” gli chiese, dopo essersi schiarito la gola per sciogliere un groppo che sarebbe morto piuttosto che ammettere di avere.

Benjamin fu indeciso solo per un istante. Dire la verità lo avrebbe reso vulnerabile. Mentire avrebbe significato che la situazione non sarebbe mai cambiata.

Decise di dire la verità.

“Te,” rispose. Quando gli occhi di Raphael si allargarono di quei pochi, significativi millimetri, non abbassò lo sguardo, ma lo mantenne saldo e incrollabile. “Ho visto te.”

Le mani di Raphael si strinsero con forza attorno a quella di Benjamin.

“Ben.”

“Non deve significare niente,” si affrettò ad aggiungere Benjamin, gesticolando con la mano libera. “Mi hai fatto una domanda e ho risposto in modo sincero. Tutto qui.”

Raphael fece per ribattere, ma qualcosa nell’aria attorno a loro cambiò.

Non era fisicamente percettibile, non lo era mai. Ma l’esperienza e i brutti incontri del passato avevano abituato i corpi dei sopravvissuti a percepire ogni più piccolo cambiamento nell’aria, ogni variazione di temperatura, ogni odore insolito.

La testa di Benjamin si fece leggera; sapeva riconoscere i sintomi. Raphael scattò in piedi quando percepì i peli delle braccia rizzarsi come se l’aria nella stanza fosse stata caricata elettrostaticamente.

Benjamin si alzò con più cautela.

“Non possono averci trovato,” sibilò con ardore. “È impossibile.”

“Non è un attacco mirato,” ribatté Raphael, che già si stava avviando verso lo squarcio che una volta era stata la porta. “Stanno cercando.”

“Cacciatori?”

“Cacciatori. Vieni, dobbiamo allontanarci.”

Con l’adrenalina che di nuovo gli scorreva copiosa nelle vene, Benjamin mantenne il passo. Si mossero rapidamente nella direzione in cui l’aria sembrava più pulita, in cui era più facile respirare e ragionare a mente lucida.

Cercarono di tenersi lontani dagli spazi aperti, dove se avessero ceduto sarebbero stati bersagli troppo facili. Di solito non era difficile, per chi era abituato ad abbandonare regolarmente la sicurezza dei confini della base, erigere dei muri a protezione della propria mente. Era una strategia che avevano impiegato fin troppo tempo per mettere a punto. Avevano perso troppi uomini e troppe donne prima che qualcuno, a voce bassa, avesse suggerito di concentrare l’addestramento sulla meditazione.

Ognuno aveva il proprio segreto. David aveva insegnato alla sua squadra a tenersi costantemente distratti, a saltare da un pensiero all’altro senza alcuna logica apparente; tutto, pur di non perdersi in un singolo pensiero, con il pericolo che fosse stato impiantato. Altri preferivano svuotare del tutto la mente, ma erano in pochi a riuscirci davvero.

Benjamin preferiva visualizzare obiettivi futuri. Se quegli attacchi avevano così tanto successo, era perché le creature spegnevano nel cuore degli esseri umani ogni tipo di speranza per il futuro; tutto era perduto, gli amici erano lontani, la famiglia morta, la casa distrutta. Non c’era motivo di andare avanti, tanto valeva lasciarsi andare.

Benjamin aveva scelto di concentrarsi su ciò che avrebbe avuto se solo fosse riuscito a tornare. Questo gli dava la spinta necessaria per mettere un piede di fronte all’altro e continuare ad avanzare, nonostante la promessa di pensieri felici se solo avesse rallentato il passo, se solo si fosse fermato per un istante, perché quanto sarebbe stato bello sedersi e tornare con la mente all’ultima notte passata con Raphael, quando tutto era sembrato perfetto e non solo un’illusione della sua mente innamorata e Raphael gli aveva sussurrato sciocchezze nell’orecchio come un amante sincero e–

“Ben, parlami.”

Benjamin si riscosse. Raphael gli aveva stretto una mano attorno al braccio con forza e lo stava trascinando in avanti. Non se n’era neppure accorto. Per la seconda volta in due giorni erano riusciti a entrargli dentro e lui non se n’era neppure accorto. Se non ci fosse stato Raphael, entrambe le volte, sarebbe stato affettato come carne da macello.

“Ben, ho detto parlami.”

“Mi dispiace, non so cosa–”

“Non importa, so che è difficile resistere. Parlami, trova una distrazione.”

Girarono un angolo stretto tra due palazzi che una volta dovevano essere stati altissimi, ma di cui sopravvivevano solo i quattro piani più bassi. Videro un gatto spelacchiato gonfiare il pelo e soffiare, prima di lanciarsi dietro un bidone della spazzatura appena gli furono vicini. Le nuvole si erano fatte più rade rispetto al giorno prima, il cielo era di un blu indescrivibile. Ora che non esisteva più inquinamento atmosferico, la natura si mostrava in tutta la sua magnificenza. Era l’azzurro degli occhi di Ben quando si velavano di passione, a un secondo dall’orgasmo.

“Ben!”

“Scusa, mi stavo distraendo, lo giuro. Fammi una domanda.”

“Una domanda?”

“Sì, qualsiasi cosa. Non riesco a cambiare il corso dei pensieri.”

Raphael rimase in silenzio per qualche secondo. Sapeva quello che stavano mostrando a Benjamin per spingerlo a fermarsi, era stato lui stesso a confidarglielo. Non gli piaceva l’idea di essere la causa delle sue scarse difese mentali.

“D’accordo. Cosa facevi prima?”

Benjamin inciampò su un pezzo di metallo che non aveva visto, ma la presa di Raphael sul suo braccio si fece più forte e gli impedì di ruzzolare a terra. Maledizione, le gambe non rispondevano ai suoi comandi con la velocità a cui il suo corpo era abituato.

“Oh, ero troppo giovane,” rispose, con il fiato corto. “Avevo da poco iniziato il college.”

“Lontano da casa?”

Benjamin annuì. Gli sembrava di essere di nuovo padrone dei suoi pensieri, forse le ultime svolte attraverso gli edifici della periferia industriale li avevano allontanati a sufficienza. Raphael probabilmente arrivò alla stessa conclusione, perché rallentò.

“Sì, è il motivo per cui ci ho messo così tanto tempo per tornare e… bè, scoprire cosa era successo. Studiavo cinema, sai?”

“Cinema?”

Raphael rise, più per dargli corda che per sincero divertimento. Era strano parlare di cose che non esistevano più. L’ultimo film era stato trasmesso un anno dopo la fine, nel tentativo di mantenere i sopravvissuti in una parvenza di normalità, poi più niente. Chi aveva avuto la fortuna di trovare pannelli solari ancora intatti non li usava per alimentare televisori e lettori DVD.

“Volevo diventare regista,” proseguì Benjamin. Non lo turbava più pensare a ciò che era stato, ma provava ancora un po’ di vergogna per l’ingenuità dei suoi sogni di ragazzo. Era stato tutto così facile, allora. “Mi piacevano i film apocalittici. Li trovavo catartici.” La risata che gli esplose in gola era amara e deprimente. “Immagino di essere dentro il film definitivo, no? E sono una cazzo di comparsa.”

Con la mente ora lucida, proseguirono la marcia forzata immersi in un silenzio amichevole. Man mano che si allontanavano dalla città, le carcasse degli edifici si facevano sempre più sporadiche. La natura stava cominciando a riprendersi il proprio terreno e robuste piante rampicanti spaccavano il cemento in più punti, creando ibridi organico-metallici che avevano un fascino decadente. In alcune zone, gli esseri umani erano precipitati dalla cima della piramide alimentare e avevano iniziato a vedersela con animali che, in assenza di polvere da sparo, erano decisamente meglio equipaggiati per sopravvivere a uno scontro.

Ma di tanto in tanto, come in quel momento, con il sole che brillava tiepido sulle loro teste, Benjamin trovava il nuovo mondo un luogo davvero seducente. La costante paura della morte spingeva gli uomini a vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo, a non avere rimpianti.

Bè, forse non tutti gli uomini.

Raphael era una grande incognita. Poteva passare da risposte fredde a momenti di grande dolcezza. Non perdeva mai la calma, era sempre ottimista, prendeva sempre le decisioni giuste. Insomma, era perfetto. Così perfetto da essere praticamente irraggiungibile sulla cima di un piedistallo su cui non era salito di sua volontà.

Benjamin voleva trascinarlo giù, fargli perdere il controllo. Un paio di volte, un paio di notti, ci era quasi riuscito. Aveva visto il suo sguardo offuscarsi, aveva sentito l’impeto di una passione senza più freni, ma erano occasioni più uniche che rare e duravano solo il tempo di strappargli un gemito più roco degli altri. Poi i suoi muscoli tornavano rigidi, i suoi movimenti controllati, e tutto rientrava nell’assoluta, eccessiva perfezione.

Quando raggiunsero un magazzino agricolo miracolosamente ancora in piedi, decisero di fermarsi per riposare. Benjamin crollò a terra appena concesse al suo corpo il lusso di abbassare i livelli di adrenalina, appoggiando il fucile a portata di mano. Sollevò la gamba dei pantaloni e vide che le bende erano appena appena macchiate di sangue; tutto sommato, un ottimo risultato.

Raphael fece un giro del perimetro ma, davvero, era più che altro una questione di eccesso di prudenza: l’aria era ferma, i pensieri erano i loro e gli unici suoni distinguibili erano il cinguettio degli uccelli e il vento che giocava tra le travi del magazzino. Erano abbastanza lontani.

Quando tornò da Benjamin, aveva in mano la radio.

“Abbiamo un punto d’estrazione, è a due chilometri da qui. Credi di farcela?”

Benjamin annuì, più ottimista di quando si era svegliato quella mattina. Il dolore era diventato una costante, qualcosa su cui poteva lavorare. Alla base lo avrebbero rimesso a nuovo e poi sarebbe stata solo questione di aspettare che la pelle cicatrizzasse.

Per fortuna quei bastardi lasciavano tagli puliti.

“Non sarebbe più sicuro tornare a piedi alla base? Ci serve supporto?”

“Negativo, ci siamo allontanati troppo. Senza un mezzo di trasporto ci metteremmo giorni e non sono sicuro che l’adrenalina ti terrebbe in piedi tanto a lungo.”

Come sempre, sono un peso per lui.

“Notizie della mia squadra?”

“Sono tornati un’ora fa, stanno bene, anche Arnaud. Hanno chiesto di te.”

“Immagino,” Benjamin sorrise tra sé e sé al pensiero della ramanzina che i suoi uomini gli avrebbero fatto al ritorno. “Sono brave persone.”

Mangiarono altre razioni d’emergenza; avrebbero dovuto ringraziare chi si occupava dell’equipaggiamento e insisteva sempre per nascondere in ogni tasca qualche scorta in più. Aumentava il peso da trasportare, ma cavolo se era bella la sensazione di non dover sopravvivere in mezzo al nulla a stomaco vuoto.

“A proposito di quello che hai detto prima…”

Benjamin si irrigidì. Raphael era tante, troppe cose, ma di sicuro non era un uomo che amava tornare sui discorsi che lo mettevano a disagio. Era quello che aveva spinto Benjamin a essere sincero, oltre a una sana dose di terrore all’idea che non ce l’avrebbero fatta.

E ora il terrore era tornato, solo che si era trasformato in paura che le cose tra loro sarebbero cambiate.

“Non ha importanza, Raph. Te l’ho detto, ho solo voluto dire la verità, non deve significare niente.”

“Sono vent’anni che non ho una relazione seria.”

La rivelazione lasciò Benjamin senza fiato, tanto che si ritrovò a fissare il compagno con la bocca aperta in una smorfia infantile. Vent’anni.

Vent’anni.

Erano una vita intera.

“Perché, se posso chiedere?”

Raphael si passò una mano tra i capelli, sfregandosi poi la nuca in una dimostrazione di insolita incertezza. Benjamin non voleva farsi i fatti suoi ma, se Raphael voleva parlare, sarebbe volentieri rimasto ad ascoltare.

Dio, quanto voleva sapere.

“Vent’anni fa ho perso la mia famiglia. Mia moglie e mia figlia. Ci ho messo quasi cinque anni per riprendermi,” anche nel raccontare il periodo più difficile della sua vita, Raphael mantenne un tono di voce saldo. “Non voglio più soffrire un dolore del genere.”

“Quindi sei rimasto solo… per paura?”

Raphael gli lanciò un’occhiataccia. “Mi stai dando del codardo?”

Benjamin sventolò le mani in un gesto difensivo. “Mai neanche pensato. Ma è quello che hai detto.”

Raphael si alzò in piedi e prese a camminare avanti e indietro con le braccia incrociate al petto. Era uno spettacolo incredibile. Benjamin lo aveva visto prendere decisioni di vita o di morte con un’espressione in viso molto meno angosciata di quella che lo affliggeva in quel momento.

Raphael si fermò di colpo e si voltò verso di lui. Spalancò le braccia. Benjamin dovette piegare la testa all’indietro per poterlo guardare negli occhi.

“Sei la dimostrazione vivente che le relazioni sono pericolose!” sbottò Raphael.

Benjamin trasalì. “Come, scusa?”

“Oggi sei quasi morto. Due volte. Pensare a me ti ha quasi ucciso due volte!”

“Ehi, non esagerare.”

“Non sto scherzando, Ben. Cosa succederebbe se accettassi di nuovo di avere qualcuno al mio fianco e poi lo perdessi? Cosa succederebbe se sapessi di essere stato la causa della sua morte? Non ho più la forza che avevo vent’anni fa.”

“Non cercare scuse.”

Benjamin si alzò in piedi usando il muro come punto d’appoggio. Per un attimo ebbe paura che avrebbe fatto crollare tutto l’edificio, ma non era sicuro che la cosa gli interessasse. Raphael sembrò doversi trattenere dall’aiutarlo. Bene.

“Non sono scuse, Ben. Questo mondo non è fatto per l’amore.”

Benjamin avanzò di un paio di passi. Tenere la gamba ferma gli aveva addormentato i muscoli. Zoppicò in modo patetico.

“Se non mi ami, va bene, lo accetto,” sibilò con astio. “Non ho nessuna intenzione di forzare un sentimento su cui non hai alcun tipo di controllo. Ma non dare la colpa alla fine del mondo.”

Restarono a guardarsi per qualche istante, prima che gli occhi di Raphael si accendessero di una luce divertita e alle sue labbra sfuggisse una risatina fuori contesto.

“Ammetterai che però la fine del mondo è una scusa accettabile.”

Anche Benjamin si unì alla risata leggera. “Forse. Non abbastanza.”

Era sempre stato così tra di loro, anche quando parlavano di strategia o progetti per il futuro delle comunità agricole. Anche quando avevano pareri contrastanti, non riuscivano ad arrabbiarsi l’uno con l’altro. Discutevano, si lanciavano epiteti, ma poi dimenticavano con la rapidità di un colpo di pistola.

Si rispettavano troppo per non voler sempre, sempre cercare un compromesso.

Raphael allungò le braccia in modo quasi impercettibile e Benjamin eliminò la poca distanza che li separava, aggrappandosi a lui con sollievo. Le braccia di Raphael lo strinsero con forza e Ben posò la fronte sulla sua spalla. Sapeva di sudore e fatica, ma anche di casa.

Sentì una delle mani di Raphael scivolare tra le ciocche bionde dei suoi capelli e chiuse gli occhi, godendosi ogni istante.

“Potremmo morire domani,” mormorò Benjamin, sentendo i muscoli dell’uomo irrigidirsi contro di lui. “Merda, potremmo morire tra un’ora. Ma a distanza di un anno dal nostro incontro, Raph, non puoi davvero credere che questo non sia nulla.”

“Ben–”

“Sei venuto a cercarmi. Centinaia di persone dipendono da te e sei venuto a cercarmi. Deve pur significare qualcosa.”

Lasciando una mano tra i suoi capelli, Raphael lo spinse a scostarsi da lui il necessario per guardarlo in viso. Aveva degli occhi incredibili, Raphael. Blu come il cielo del nuovo mondo.

“Non so se–”

“Preferirei morire oggi pensando a te,” lo interruppe Benjamin, posando un dito sulle sue labbra. Non voleva lasciarlo parlare. Doveva ascoltare, ascoltare e basta. Doveva capire. “Piuttosto che vivere fino a cent’anni sapendo che non mi appartieni.”

Raphael lo baciò.

Fu un bacio insolito e sorprendente. Per un attimo, come nei vecchi film che guardava da ragazzo, gli sembrò quasi che le braccia di Raphael volessero sollevarlo da terra. O forse non volevano sollevarlo. Forse volevano stringerlo tanto da farli diventare un’unica entità. Lasciò che la lingua di Raphael esplorasse la sua bocca, gli lasciò il controllo totale. Se Raphael aveva bisogno di affermare qualcosa a se stesso, lo facesse pure. Benjamin voleva solo far parte della sua vita.

Voleva solo qualcuno da cui tornare.

Ripresero a spostarsi dopo un’ora.

Non c’era bisogno di parlarsi ancora, pensò Benjamin mentre, insieme, si dirigevano verso il punto d’estrazione. Sarebbe stato quello che sarebbe stato. Da Raphael non voleva promesse né dichiarazioni d’amore eterno, sarebbero state troppo in contrasto con l’uomo di cui si era innamorato.

Ma una cosa era certa.

Mentre guardava verso le campagne abbandonate, lasciandosi alle spalle l’orrore pietoso dei nuovi dominatori del mondo, con una profonda ferita alla gamba e il cuore pesante per gli amici caduti, Benjamin si sentì riempire da un incrollabile, indescrivibile senso di speranza.

E quando l’avrebbero attaccato di nuovo con le immagini di Raphael, si sarebbe rialzato in piedi all’idea di stringerlo di nuovo tra le braccia. Non si sarebbe lasciato andare alla dolcezza di un pensiero indotto, Raphael era molto di più.

Era la speranza. Era la sua forza.

Era la casa che non sarebbe mai crollata.

   
 
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