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Autore: SansSoucis    22/02/2019    2 recensioni
Sono passati solo sessant’anni da quando Gilbert ha tenuto una creatura piccola, rossa e piangente tra le braccia, e adesso, alla vigilia dell’ennesima guerra, ha di fronte a sé un adone ariano, una macchina da guerra.
«Herr Hitler dovrebbe gioire di me, che gli faccio dono della resistenza. Non gli serve un’altra marionetta, ne ha già in abbondanza. Ti basta guardare in basso». A volte Gilbert si chiede fin quanto si possa spingere. Quante volte ancora potrà fare commenti del genere prima che Ludwig perda la testa, diventi più folle di adesso. Quanti insulti occorrono perché Ludwig gli avvolga le mani intorno al collo e lo uccida.

{ Ludwig & Gilbert | One shot | 3182 parole | 1933-1939 | Traduzione di Hiraeth }
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Germania/Ludwig, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note della traduttrice (Hiraeth): era da un po’ che avevo intenzione di tradurre questa fanfiction perché mi aveva davvero colpito. Il link alla storia in inglese è questo, che vi raccomando di leggere se non ve la cavate male con le lingue perché l’originale è sempre la versione migliore. Ad ogni modo, buona lettura!










Vielen Dank, Bruder.
di SansSoucis




Gilbert chiude le palpebre, il rumore di passi che riecheggia nell’edificio altrimenti vuoto. I chiassosi schiamazzi prodotti dalla gente per le strade gli fanno male alle orecchie. Si toglie dal capo il cappello nero da ufficiale con un gesto affrettato, passando stressato la mano tra i capelli. Cazzo, ha davvero bisogno di una fumata. Frugando nelle tasche della giacca dell’uniforme, trova un pacchetto schiacciato, già una sigaretta tra le labbra mentre apre la porta del suo ufficio. Rischia di far cadere il cappello e l’accendino quando si accorge della sagoma dalle spalle larghe che si staglia di fronte alla finestra.

 «Pensavo fossi giù con lui».

 Ludwig, con addosso una divisa nera delle SS identica alla sua, siede immobile sul davanzale della finestra osservando la parata sotto di sé, rapito dal fragore provocato dai mille e mille piedi in marcia. Dietro a lui, Gilbert scorge le bandiere rosse appese ai palazzi dall’altro lato della strada, che venano il calcestruzzo come rigoli di sangue.

 «Preferisco ammirare dall’alto. Il panorama è magnifico» replica Ludwig senza mai distogliere lo sguardo dai soldati che avanzano, le fasce di un rosso acceso in altero contrasto con il grigio e il verde spenti dell’uniforme. La sua postura rilassata si è notevolmente irrigidita da quando si è reso conto della presenza di Gilbert. «Tu, immagino, sei qui per ragioni diverse?» Non è una domanda, è un’accusa. A Gilbert non serve guardare in faccia suo fratello per capirlo, il freddo tono di voce gli è sufficiente.

 «Fumare in pace, ma me ne vado se qui è occupato» ringhia, agitando la sigaretta in direzione di Ludwig sebbene il diretto interessato non lo possa vedere, leggermente infastidito dal clima di paranoia che vige nel grande Terzo Reich. «Non vorrei interrompere la tua fiera della vanità».

 Ludwig volta la testa, lentamente, come se rimpiangesse l’idea di staccare gli occhi dalla parata, le labbra assottigliate in un sorriso che riesce ad apparire compiaciuto lo stesso. «Sai, Preußen. Non ti ho mai reputato uno che si nasconde, considerata la tua personalità… sgargiante. È curioso».

 È facile irritare Gilbert stuzzicandogli l’orgoglio, il suo amore per l’esibizionismo. Ludwig ne è fin troppo consapevole, in passato riteneva che quel genere di cose non fosse alla sua altezza. Oggi, però, quando a Gilbert accade di ricevere a ogni evento a cui partecipa dei posacenere con sopra impressa la svastica, non è più sicuro di cosa sia al livello di Ludwig.

Ludwig delira deve continuare a ripetersi per impedire a se stesso di spingere quell’individuo che lui chiama suo fratello fuori da una finestra qualsiasi, sotto un’auto, giù da un ponte. È un ragazzino. È una fase. Gli passerà. Tuttavia Gilbert non permetterebbe nemmeno a un idiota di definirlo un codardo.

 «Credi che abbia paura, Ludwig? Credi che sia essa che mi trattiene qui quando potrei stare là a baciare gli stivali del nostro caro Führer?» sibila, il sangue che affluisce sulle guance pallide.

 Gli angoli della bocca di Ludwig si sollevano lievemente, un avvertimento. L’espressione è luminosa e gelida sotto le ombre che gli sovrastano il viso. «Non so, Gilbert. Me lo auguro vivamente. Spero che tu abbia deciso di non venire perché temi che le tue labbra non siano degne delle sue scarpe. Nonostante sia vile, una motivazione che non sia connessa al terrore che incute e all’adorazione che suscita il nostro Führer…» Dà una rapida carezza alla fascia rossa che gli circonda il bicipite. «...sarebbe quantomeno… discutibile».

 «Non osare a paragonarmi a un mortale austriaco…» ringhia Gilbert con impeto, pronto a gettarsi in prima linea nell’ennesimo litigio, l’unica cosa che, ormai pare, li accomuna.

 Ludwig è lesto a interromperlo, però. «Non possiamo consentirlo, Preußen. Il futuro della nostra nazione è incerto ed essa necessita che la volontà del popolo sia forte e unita, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è il dubbio. O la resistenza, per quel che vale». La sua voce trasuda di minacce mal celate e a Gilbert fa venire la nausea.

 «Herr Hitler dovrebbe gioire di me, che gli faccio dono della resistenza. Non gli serve un’altra marionetta, ne ha già in abbondanza. Ti basta guardare in basso». A volte Gilbert si chiede fin quanto si possa spingere. Quante volte ancora potrà fare commenti del genere prima che Ludwig perda la testa, diventi più folle di adesso. Quanti insulti occorrono perché Ludwig gli avvolga le mani intorno al collo e lo uccida.

 Lui è una nazione tornata dalla morte, naturale, ma sessant’anni fa Ludwig era piccolo, rosso e piangente tra le sue braccia e adesso ha davanti un adone ariano, una macchina da guerra, che rappresenta tutta la Germania, comprese le sue terre, e a essere onesti il buon senso gli dice che non dovrebbe compiere troppi passi falsi.

 Ludwig ignora deliberatamente almeno la metà di quanto ha appena sentito, e sceglie invece di girarsi verso la folla sottostante. Il sorriso che gli delinea le labbra questa volta è genuino, puro, immacolato, fanciullesco, la felicità in orrendo contrasto con il cappello nero e la giacca con la svastica al braccio.

 «Lo so, non è meraviglioso? Tutti loro. Tutti i tedeschi. Uniti da un solo uomo». È come se stesse facendo le fusa quando pronuncia quelle parole con amore.

 «Non quelli che rotolano nella loro stessa merda a Dachau» ribatte Gilbert aggressivamente deridendo suo fratello, uno stupido adolescente innamorato. Anche Ludwig ride, sebbene per ragioni diverse.

 «Coloro che contano. Ammirali, Gilbert. Ammirali avanzare. È stupendo. Riesco a percepire la loro gioia, la loro forza, l’amore rivolto a me. Ed è tutto grazie a lui». Malgrado la larga visiera del cappello delle SS, il sole ricade sul viso di Ludwig, che si immerge nella luce, sporgendosi dalla finestra, la celebrazione nel suo bagno dorato di gloria.

 «Un gregge di pecore che marcia ciecamente ovunque sia loro ordinato, persino se la destinazione è il mattatoio» mormora Gilbert accendendo finalmente la sigaretta abbandonata, avvicinandosi alla finestra per sedersi accanto a suo fratello. Ludwig occhieggia il fumo volteggiante con un’aria di disapprovazione, una madre che rimprovera il figlio, ma non commenta a proposito.

 «E lui è buon pastore. Le proteggerà, le condurrà alla beatitudine e al trionfo. Il mio trionfo».

 Talvolta, durante le notti di solitaria ubriachezza, Gilbert pensa che Ludwig non risponde a ogni considerazione contro il Reich che fa perché è il suo modo psicopatico di volergli bene. Che gli importa abbastanza di suo fratello da non rinchiuderlo immediatamente in Dachau per via della “propaganda Untermensch” che declama. Si augura che le cose stiano così, ma è più probabile che Ludwig sia troppo preso dall’euforia per rendersi conto delle osservazioni maligne di Gilbert.

 «Adolf Hitler concederà a me, a noi, la grandezza che merito». Ludwig gli prende dalle mani il cappello, le lunghe dita che accarezzano gli argentati capelli in disordine di Gilbert prima di posarglielo sul capo come una corona. «Marceremo. Verso la Polonia. La Danimarca. La Francia. L’Inghilterra. Conquisteremo tutti senza pietà, faremo loro assaggiare il gusto amaro della sacrosanta sconfitta, e lasceremo che essa li soffochi». Gilbert avverte il sorriso ispido nella voce di Ludwig, il suo desiderio di combattere, la sua sete di vendetta; le sue parole ne sono pregne.

 Gli ricorda la sua nazione sanguinaria, l’amore per le battaglie e le guerre che si caricava sulle spalle prima di ritrovarsi in una Niemandsland in Belgio, con il rumore delle pallottole che gli fischiava nelle orecchie, circondato dai cadaveri dei suoi uomini a terra.

 Annuisce bruscamente prima di fare un altro tiro di sigaretta. Ludwig poggia una mano inguantata sul polso del fratello, un rapido gesto di affetto che sorprende Gilbert.

 «O… forse dovrei strozzare Francia con qualcosa di più difficile da inghiottire».

 Nonostante sia una battuta puerile, un tentativo da parte di Ludwig di riconnettere con suo fratello, la stretta linea compiaciuta della sua bocca e i suoi occhi induriti dal puro odio a Gilbert fanno compatire il paese dall’altro lato dell’Alsazia-Lorena.

 «Fossi in te, mi risparmierei le fantasie perverse e attenderei che il tuo caro Adolf si provi capace di conquistare il bastardo». Gilbert scrolla le spalle, dà un colpetto alla sigaretta scrutando le ceneri che cadono dalla finestra, che piovono su migliaia e migliaia di teste, migliaia di cuori che battono per la Germania, il loro Vaterland.

 Lo sguardo di Ludwig si incupisce mentre gli strappa di mano la sigaretta e la schiaccia sotto lo stivale lucidato in una dimostrazione di potere.

 «Preußen, faresti meglio a fidarti del nostro Führer. O di me, se è per questo. Non mi ritieni… all’altezza?» domanda con un tono sostenuto, educato, ma le mani strette a pugno lo tradiscono.

 «Non ho detto niente del genere, fratello mio. Sei forte e il tuo animo potrebbe tagliare la pietra. Ma sei anche giovane, molto giovane. E l’ultima guerra…» replica lentamente Gilbert sulla difensiva, non in grado di nascondere del tutto le sue preoccupazioni.

 «Be’, sono sopravvissuto, no?» sbraita Ludwig, e Gilbert sussulta involontariamente. «Sono ancora qui, integro, come lo spirito del mio popolo! Questa volta, sotto il comando eccellente e la guida del nostro Führer, il popolo tedesco si rialzerà e torreggerà su tutti!»

Dovresti considerarti fortunato se sei in vita. E ora getterai di nuovo tutto al vento riflette Gilbert con mestizia.

 «Sono della convinzione che l’Europa farà tutto quello che è in suo potere per prevenire che un infante fanatico scalpiti nuovamente nelle sue terre». La risposta di Gilbert è più ostile di quanto avrebbe voluto.

 Inizialmente gli occhi di Ludwig si allargano dalla sorpresa, poi sorride. È un sorriso derisorio, beffardo, incredulo. A volte Gilbert si chiede se Ludwig sappia che, di norma, il sentimento che si cela dietro a un sorriso è la gioia. D’altro canto, Ludwig ha mai conosciuto niente di simile? Qualcosa come la gioia?

 «Allora è dovuto a questo il tuo curioso comportamento!» esclama, stranamente lieto, avvicinandosi e sovrastando il fratello. «Sei geloso di me, geloso che io, un infante, come mi hai deliziosamente definito tu, sia salito al potere mentre stai scomparendo!»

 Pur trattandosi di una nazione che venera un austriaco qualsiasi, Ludwig riesce tuttora a ferirlo. Alla vista dell’espressione infuriata sul suo viso, il sorriso di Ludwig si allarga.

 «Be’, mi dispiace, Preußen, ma adesso sei parte di me, di una Germania che si è risollevata e ha raggiunto la gloria dopo gli orrori a lei inflitti con il Trattato di Versailles». Ludwig ride, a malapena contiene la contentezza all’idea che Gilbert, il suo fratellone, sia geloso di lui.

 «Non alzare la cresta solo perché sei diventato il giocattolo preferito di Ado… ah!» Il ringhio di Gilbert si trasforma in un gemito nell’istante in cui Ludwig gli dà uno schiaffo.

 «Non comprendi, vero, Gilbert?» Ludwig protende il busto in avanti, elimina la distanza tra loro due. Il suo sguardo scintilla dall’ira, dall’orgoglio e da qualcos’altro che può soltanto essere descritto come pazzia. «Sono nato tra le pareti auree di Versailles, passato tra le mani inguantate dei nobili, le cui uniformi erano dei materiali più pregiati, i fili d’oro intrecciati sui loro petti, il neonato del Kaiserreich. Quarant’anni dopo mi ritrovo in un fossato di fango, gli aeroplani che rombano nel cielo, sparando colpi di pallottola finché le mie dita sanguinano e i miei piedi marciscono negli stivali fradici».

 I restanti traumi non affrontati risalenti alla Grande Guerra compaiono di colpo sul volto di Ludwig e per un momento a Gilbert dispiace, prova pietà per il bambino a cui è stato dato un fucile, costretto poi ad assistere alla sofferenza del suo popolo appena unito.

 Ludwig ridacchia, l’ilarità di un folle, il respiro che sinistramente sa di morte, e le viscere di Gilbert tornano a contorcersi dall’odio.

 «I tempi sono cambiati, Preußen. Non avrai più occasioni per saltellare baldanzoso per il campo di battaglia con la tua uniforme e il tuo cappello piumato. Fisserai piuttosto il sangue e gli intestini dei nemici che colano e si cospargono per terra mentre una mitragliatrice ti sobbalza tra le braccia». Lo dice con la gentilezza di un innamorato, pienamente consapevole che questo è il punto debole di Gilbert.

 «Hai l’aria di rallegrarti al pensiero dei nuovi metodi per fare la guerra, dell’inutile carneficina. Non è uno spreco di pregiato sangue ariano?» ribatte, obbligandosi a guardare l’altro negli occhi che assomigliano all’inferno congelato, alla ricerca di qualcosa di umano, di Ludwig.

 «Lo farebbero per me, Gilbert». Ludwig sembra stupefatto all’idea. «Morirebbero». Di nuovo la stessa gioia infantile, inappropriata sul viso di un ragazzo. «Morirebbero per il loro paese, lascerebbero che il suolo dell’intera Europa si impregni del loro sangue, perché mi amano».

 «Deutschland!» urla Gilbert orripilato, ma Ludwig lo ignora, scrutando con affetto la folla sottostante.

 «Non capisci?» sussurra dolcemente, una mano sulla spalla di Gilbert, un noncurante promemoria per ricordargli che a lui basta spingerlo perché Gilbert sia calpestato dai suoi amanti, dai suoi seguaci, dai suoi adoratori. «Non sarà come prima, con i trattati e le trombe e i polsini di pizzo. Rimarremo soltanto io e la mia gente, il popolo tedesco». Avvolge le dita intorno al mento di Gilbert, costringendolo a fronteggiare suo fratello minore faccia a faccia. «E sai una cosa? Mi dovresti ringraziare» canticchia crudelmente, l’espressione infiammata dal veleno. «Dovresti ringraziarmi in ginocchio. Non sei altro che un’ombra del passato. Dei tempi in cui i tedeschi si combattevano l’un l’altro in onore dei loro re e dei loro principi meschini, che occupavano le giornate oziando al riparo dei castelli in cui alloggiavano, dipingendo quadri e riscuotendo soldi dai contadini».

 Ludwig si concede il permesso di sussultare quando Gilbert respinge bruscamente la sua mano, ringhiando. «Chiudi quella cazzo di bocca, moccioso. Non sai niente di me, Preußen, e della mia gloriosa storia».

 Ludwig si riprende velocemente. «La storia di come hai oppresso il tuo stesso popolo, già».

 Il pugno di Gilbert è rapido come un fulmine. Ludwig emette un gemito animalesco e si piega in due, stringendosi il naso.

 «Oh?! Perché oggigiorno il popolo tedesco è felice! E intanto muore di fame. È povero. È in rovina perché hai spietatamente deciso di gettarci tutti in una delle guerre più vane mai accadute in questo continente!» grida Gilbert finché la gola non gli fa male, e si alza per allontanare da sé il fratello.

 Ludwig indietreggia, le mani che gli coprono il viso, e tace. Non sbraita, non piange, non lo strangola. Nell’aria aleggia solo un orribile, orribile silenzio. Per un attimo, suo fratello minore appare a pezzi, sconfitto.

 «Ludwig?» mormora Gilbert, tradendo appena la sua apprensione. «Bist du in Ordnung?»

 Suo fratello solleva il capo. Il sangue gli cola sul naso e sulle labbra, eppure il suo sguardo è infervorato da un fuoco di rancore che Gilbert finora ha visto solo sul campo di battaglia.

 «In rovina per colpa del Trattato di Versailles, vorrai dire» ruggisce Ludwig, camminando lentamente in direzione di Gilbert, i passi pesanti e intimidatori sul pavimento in legno. «Inflittomi ingiustamente dal mio stesso governo e dalla feccia dell’Intesa, disposti a tutto pur di danneggiare me e soltanto me, perché non potevano sopportare che un moccioso potesse diventare tanto potente!» Il suo volto è contorto dalla collera; è come se Ludwig si stesse aggrappando agli ultimi brandelli di sanità mentale che gli sono rimasti.

 «Non potevamo fare altro che firmarlo, o altrimenti ne saremmo usciti distrutti, e chissà che ne sarebbe stato di te» risponde Gilbert con delicatezza, con una sorta di premura, e allunga le mani verso Ludwig in un gesto conciliatorio.

 Se solo loro due fossero degli esseri umani. Si sarebbero abbracciati e avrebbero detto all’altro: “Mi dispiace. Ti perdono”, e poi avrebbero superato i dissapori. Ma Gilbert percepisce il graduale crollo del suo paese, ogni giorno nota di star sbiadendo man mano. Sa anche che, mentre Ludwig da una parte rinfranca il proprio spirito con i biondi tedeschi patriottici che alzano entusiasti il loro braccio destro in onore del Führer, il dolore degli altri tedeschi che lui cerca tanto di ignorare lo induce a evitare costantemente di guardarsi allo specchio.

 «Avresti perso la guerra in ogni caso, Ludwig, oramai accettalo. Sei troppo grande per le fiabe, anche se a raccontarle è Herr Hitler, un oratore piuttosto convincente».

 Ludwig è furioso, serra la mascella, ha gli occhi affilati. Quando una mano scatta in direzione del fratello, Gilbert si prepara a essere colpito da un pugno. Non può fare a meno di sobbalzare per la sorpresa mentre le dita di Ludwig si chiudono invece in una stretta attorno al suo collo, spingendolo contro la cornice.

 Il chiasso della parata si fa sempre più udibile adesso che il suo busto ciondola fuori dal davanzale. La ceramica della finestra si conficca dolorosamente dietro alle sue ginocchia. Il cappello gli cade e scompare nella fiumana di persone.

 «Sei tu quello che crede nelle fiabe, fratello mio» sibila Ludwig, ignorando i respiri affannosi dell’altro, le unghie di Gilbert che gli graffiano i pugni. «Le storie dei Kaisers e dei castelli in cui la magnifica Prussia governa su tutte le terre germaniche. Fatti dire una cosa, però: per te è finita. Persino il tuo cancelliere desiderava la mia esistenza, è stato lui la ragione della mia nascita. E quale pensi sia l’opinione del tuo popolo su di te, Preußen, uhm?»

 La stretta si restringe. Una brezza fresca sfiora il viso di Gilbert, si sente la testa sempre più leggera. La faccia di Ludwig scompare e riappare, sfumata, adombrata. Una visione quasi demoniaca.

 «Finalmente il tuo volto corrisponde al tuo animo, Bruder» esala Gilbert con un filo di voce. La folla sottostante canta e ruggisce come per concordare con le sue parole. Per tutta risposta, Ludwig ride.

 Mentre torna ad aprire bocca, i suoi ansiti lambiscono l’orecchio e il collo di Gilbert.

 «La situazione è cambiata. Continuerò a esistere anche quando il Führer non ci sarà più. Io, il Terzo Reich, camminerò sulle orme del Sacro Romano Impero, e tu rimarrai per sempre in me».

 Gilbert viene bruscamente tratto dentro e abbandonato senza tante cerimonie sul pavimento di legno, e tossisce, le calde lacrime che gli bruciano gli occhi. Gli stivali lucidi di Ludwig entrano nel suo campo visivo. Gilbert solleva lo sguardo in direzione del Terzo Reich, la Germania, Ludwig, il suo fratellino, il labbro superiore sporco di macchie color rame e il cipiglio che potrebbe incendiare interi villaggi.

 Ludwig gli rivolge un sorriso, poi con gentilezza, con crudeltà, gli pianta uno stivale in faccia, guardandolo trionfante mentre lo spinge a terra. Gilbert glielo permette. Ludwig preme il piede contro le sue labbra.

 «Ringraziami, Gilbert, per averti concesso l’onore di indossare la mia bandiera, per aver condiviso la ricchezza e la gloria del Reich, nonostante tu debba marcire in una fossa insieme ai cadaveri dei tuoi principi, dei tuoi re, dei tuoi Kaisers e del tuo onore, mio caro Untermensch Bruder».

 Gilbert solleva lentamente una mano tremante, accarezzando la caviglia rivestita in pelle nera, e la bacia con tutta la delicatezza che possiede in corpo per il suo fratellino, per il suo Ludwig, le urla di esaltazione da parte degli ultimi soldati di passaggio che muoiono per le strade.










Note:
 ♔ Niemandsland – Terra di nessuno, anche nota con il nome inglese no man’s land.
 ♔ “Bist du in Ordnung?” – “Stai bene?”
 ♔ Dachau (1933) fu il primo campo di concentramento nazista; in origine, vi erano mandati solo gli oppositori dell’ideologia di Hitler e del regime.
 ♔ Il Trattato di Versailles (1919) fu un trattato firmato dopo la prima guerra mondiale che stabilì che la Germania era obbligata a pagare miliardi di marchi ai paesi dell’Intesa, oltre che a subire delle restrizioni economiche e militari. Molti tedeschi videro la cosa come una colossale umiliazione.

   
 
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