Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
Segui la storia  |       
Autore: Moonlight_Tsukiko    23/02/2019    0 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Go Ahead and Cry, Little boy 

Capitolo 3






 
Eren

15:17, camera mia. Sono raggomitolato in posizione fetale, metà della mia faccia premuta contro il cuscino. Un brivido mi attraversa il corpo, e mi avvolgo ancora di più con le coperte. Il mio piccolo bozzolo è un po’ soffocante, quindi tiro fuori la testa per respirare lentamente.

Posso sentire mia madre parlare con qualcuno al piano di sotto, nonostante non riesca bene a capire a chi appartenga la voce. Presumo sia la signora Rogers, la nostra vicina, e non ascolto più. È una delle infermiere che lavora con mio padre, e mi faceva da babysitter quando ero bambino. Mi tratta come se fossi un fragile pezzo di vetro, cercando sempre di scegliere le parole con cautela. Non parla mai di Mikasa con me, ma in fin dei conti nessuno lo fa. Non più, almeno.

Mi giro sulla schiena e stiro il corpo. Sento la pelle rigida per una qualche ragione, come se potesse spezzarsi se dovessi esagerare. Cerco di raggiungere la fine del letto con il piede sinistro, solo per vedere, ma prima che possa stiracchiarmi completamente sento un rapido suono appena fuori dalla porta. Qualcuno sta bussando.

Mi metto seduto. Nessuno bussa alla mia porta a meno che non sia un visitatore regolare.

Porto le gambe in una parte del letto e cammino verso la porta. Ho ancora indosso i vestiti che avevo oggi a scuola: jeans, felpa e i capelli sono un selvaggio disordine.

Giro la maniglia e sbatto le palpebre dalla sorpresa. Marco Bott sembra estremamente fuori luogo in casa mia. Le persone scherzano sul fatto che lui sia la reincarnazione di Gesù per via della sua purezza immacolata. Dovrebbe essere illegale essere una così tanto brava persona, ma Marco non sembra essere a conoscenza di quanto buono sia.

“Whoa.” Sogghigno e mi appoggio allo stipite della porta. “Sei venuto qui per farmi confessare i miei peccati?”

Marco non sembra trovare divertente lo scherzo, e ora che ci penso, neanche io. Il ghigno sparisce dal mio viso e mi alzo dritto.

“Scusa,” dico. “Forza dell’abitudine. Sai, colpa della tua reputazione di Gesù con le lentiggini.”

“Giusto...” Marco scuote la testa. “Eren, mi dispiace molto per ciò che ha fatto Levi prima.”

Il retro della mia testa pulsa. Affondo le dita nel palmo e sbuffo.

“Non sapevo tu fossi il suo cagnolino,” dissi sgarbatamente. Mi dirigo verso la mia scrivania, organizzando distrattamente qualsiasi cosa ci sia sopra. “Che cos’è lui, un codardo?”

Marco si schiarisce la gola.

“Non è così,” dice. “Non mi sto scusando per lui. Mi sto scusando per me stesso.”

“Per te?” Mi fermo, e sbatto il libro che stavo tenendo in mano un pochino troppo forte contro la scrivania. Marco salta al suono. “Tu non hai fatto nulla.”

“Esatto.” Mi giro per guardarlo. Arriccia le dita nervosamente, come se avesse paura che io lo picchi in faccia.

Non lo farei, per la cronaca. Dare un pugno alla reincarnazione di Gesù mi darebbe una via sicura verso l’Inferno. Se esiste davvero, intendo.

“Non ti sto seguendo,” dico sinceramente.

“Avrei dovuto fermarlo,” spiega Marco. “La cosa ci è scappata di mano.”

“Già,” mi appoggio contro la scrivania. “Ora suppongo sia arrivato il momento dove dici che voi ragazzi stavate solo scherzando e che non è poi una gran cosa. E scommetto che stai per chiedere di dire così al preside quando verrò chiamato nel suo ufficio, presupponendo che avete detto al professor Zacharias esattamente cosa sia successo. Ma lo trovo difficile da credere. Siete tutti dei codardi, nel profondo della vostra anima.”

Una parte di me si sente in colpa per il fatto di stare sfogando tutta la frustrazione sul povero, dolce Marco, ma un ragazzo che non ha le palle di affrontare le cose mi irrita altamente. Il fatto che si stia scusando dovrebbe rendermi entusiasta, ma tutto ciò che provo è rabbia.

Marco ha un’espressione illeggibile in volto. Le labbra sono arricciate e non dice nulla.

“Quindi è così,” aggiungo, perché non posso resistere nell’avere l’ultima parola. “Io dovrei essere dispiaciuto per voi. Mi dispiace che nessuno di voi abbia una mente tutta sua, mi dispiace che voi ragazzi pensiate che io sia un bersaglio facile, e più di tutto mi dispiace per pensare che abbiate una certa abilità nel non essere dei completi e totali stronzi.”

Le parole mi sono uscite così velocemente da non essere nemmeno riuscito a comprenderle del tutto. È un’altra di quelle cose dove la mia bocca si muove più velocemente di quanto il mio cervello può assimilare, ma per una volta non voglio zittirmi mettendomi il piede in gola. Mi ci vuole qualche secondo per realizzare di non star esattamente parlando della squadra di football.

Sto parlando di Levi e Marco lo sa. Quell’espressione illeggibile che ha avuto fino a ora si scioglie e improvvisamente sembra mi guardi con compassione. Il petto sembra ristringersi, come se il mio cuore stesse per esplodere, e premo le unghie contro la carne morbida dei palmi. Il dolore mi aiuta a capire, a punirmi, e lo faccio sempre di più fino a quando non riesco nemmeno più a sentire il cuore battere.

“Eren...” comincia, ma non voglio che finisca.

“Faresti meglio ad andare,” dico, combattendo per mantenere stabile il tono della voce. Mi sento vulnerabile, orribilmente nudo davanti allo sguardo indagatore di Marco. Le sue mani si contraggono per un attimo ai fianchi, come avesse intenzione di provare a trattenermi, e un sapore spregevole mi riempie la bocca.

“D’accordo.” Marco annuisce fermamente. “Ma davvero... Eren, sono serio. Mi dispiace.”

Percepisco le sue parole come se mi stessi grattando la pelle con della carta vetrata. Quasi sussulto, ma annuisco cercando di sembrare composto. Posso percepire le stringhe che mi trattengono dallo sbottare rompersi. Non voglio altro se non cercare di far rimanere attaccati i pezzi rotti di me. Ma non posso farlo con lui qui.

“Per favore,” dico, e Marco si muove verso la porta.

Le mie mani sanguinano. Posso sentire le unghie pizzicare la carne, e il dolore mi colpisce come una tonnellata di mattoni. Mi forzo di aprire le mani e guardarle. Il sangue scorre formando sottili gocce color cremisi e profonde mezzelune causate dalle unghie sono impresse nei miei palmi.

“Cazzo,” mormoro. La vista del sangue mi ha sempre fatto un po’ impressione, il che è esilarante considerando quanto spesso sanguino. Sono sempre stato piuttosto sconsiderato. Ho passato la maggior parte della mia infanzia a farmi male con cose anche solo potenzialmente considerabili pericolose.

Cammino lentamente verso il bagno e apro il rubinetto, sciacquandomi le mani. L’acqua si colora subito di carminio, diffondendosi sul lavandino. Mi sento un po’ meno stordito quando l’acqua torna a scorrere cristallina. Prendo della garza e della pomata dall’armadietto e copro le ferite. Della garza potrebbe sembrare troppa per dei piccoli tagli, ma so che se dovessi arrabbiarmi tornerei a far sprofondare le unghie sul palmo. L’ultima cosa che voglio è far sembrare le mie mani ancora peggiori.

Sbatto la portiera dell’armadietto più forte di quanto volessi e osservo il mio riflesso nello specchio poco distante. Riesco difficilmente a riconoscermi, e mi sforzo di ricordare l’ultima volta che sono riuscito a farlo.

“Chi sei tu, Jaeger?” Chiedo, e fisso la mia bocca formulare le parole.

Non ho una risposta e non ce l’ha nemmeno il ragazzo nello specchio. Mi guarda con dei grandi occhi verdi vuoti. Sobbalza quando lo faccio anch’io e guardarlo mi fa contorcere lo stomaco. Faccio cadere il mento sul petto e prendo un lento, profondo respiro.

Devo uscire di qui.

Mi dirigo verso la mia stanza e afferro il cellulare. Tiro giù le maniche della felpa per coprire le mani e corro al piano di sotto. Posso sentire mia madre trafficare in cucina. Le possibilità che mi abbia sentito scendere le scale sono poche. Anche se mi avesse sentito, dubito che le importi qualcosa di dove vado, ormai.

Esco di casa senza guardarmi indietro. Mentre cammino, digito il numero familiare e alzo il cellulare all’orecchio.

“Sei libero?” chiedo una volta che l’altra linea è stata presa, e sento un sottile suono affermativo sull’altra linea.

 
***
 
Armin guarda gli arredi del fast food dove siamo seduti, e le sue sopracciglia si aggrottano leggermente. Sembriamo due perfetti opposti. Io ho ancora i miei jeans e la felpa sbiadita, mentre lui indossa un completo a tre pezzi che lo fanno sembrare dieci anni più vecchio di quanto sia in realtà.

È snervante. Bevo alcuni sorsi della mia cola e cerco di intercettare il suo sguardo, ma lui è troppo occupato ad accigliarsi per la macchia di mostarda sul tavolo accanto al nostro.

“Allora,” comincia, i suoi occhi finalmente incontrano i miei. “Perché mi hai chiamato?”

“Ho occupato troppo il tempo di Jean,” dico, picchiettando le dita sul tavolo. “Inoltre, è troppo difficile parlare con lui. Ultimamente si comporta come un fottuto padre. Mi fa sempre la predica.”

“Capisco.” Armin allaccia le dita assieme e le appoggia al tavolo. “Forse ne hai bisogno, però.”

“Ho già dei genitori,” dico lentamente. “Non ho bisogno di un secondo padre o qualsiasi altra cosa sta cercando di essere.”

“È  preoccupato per te,” afferma Armin, la fronte si aggrotta ancora. Cerco di ricordare se l’ho mai visto corrucciare la fronte così tanto. “Mi ha chiamato l’altro giorno.”

Le mie sopracciglia slittano in alto dalla sorpresa.

“Vi sentite ancora?” Chiedo. “Pensavo non ti importasse più di tanto di lui.”

“Quello eri tu.” Armin quasi ride ma poi si riprende. Deglutisco a fatica e blocco la cannuccia tra i denti. “Certo, avevo i miei dubbi su di lui all’inizio. Ma poi ci ho parlato e ho visto che non era così male come pensavo.”

“Sembra avere questo effetto sulle persone,” dico. Non lo ammetterò mai, ma anche Jean è cresciuto con me.

Armin annuisce. “Quindi, come stavo dicendo, mi ha chiamato. Mi ha raccontato della tua trovata dell’altro giorno.”

“Quale?” chiedo distrattamente, guardando il mio mezzo panino. Ci hanno messo il ketchup. Odio il ketchup. “Ne ho combinate parecchie.”

“Eren,” mi chiama sommessamente Armin. “Io non penso Mikasa-”

“D’accordo,” dico a voce fin troppo alta, interrompendolo. “Lo so, okay?”

“Allora perché lo stai facendo?”

“Mi aiuta a resistere, a reagire,” spiego. “Non sto facendo del male a nessuno. Non faccio neanche più risse ultimamente.”

Penso all’incidente dello spogliatoio e resisto all’urgenza di trasalire.

“Ci sono modi migliori,” afferma Armin. “Puoi prenderti un hobby oppure-“

“Pensavo tu fossi un avvocato, non un dottore.” Sono uno stronzo. Dovrei essere molto più carino con Armin, ma è dura quando sta dicendo tutte le cose che ho bisogno di sentire, ma di cui non voglio parlare.

“Qual è il vero motivo per cui mi hai chiamato?” Chiede gentilmente. “Non era perché eri affamato.”

“Non lo so,” rispondo onestamente. “Ecco... Volevo solo avere qualcuno vicino, okay?”

Gli occhi di Armin si addolciscono. Guardo il tavolo e mi rifiuto di incontrare il suo sguardo.

“Mi dispiace,” dice.

“Me l’hanno ripetuto in tanti, ultimamente,” mormoro. Armin preme le labbra in una linea sottile e annuisce.

“Dovrei tornare a casa,” sussurra. “Annie probabilmente ha bisogno di aiuto per la cena.”

“Ah, giusto.” Tamburello le dita contro il tavolo. “Quanto è?”

“Sei mesi,” risponde raggiante, “Riesco a malapena a crederci.”

“Già,” dico. “Sei emozionato? Voglio dire, è tipo la terza volta, giusto?”

“Emozionatissimo. Potrebbe essere la ventesima volta e ne amerei comunque ogni secondo.” Sorride per la prima volta da quando ci siamo seduti e si allunga sul tavolo per scompigliarmi i capelli. “Chiamami se hai bisogno di qualcosa, o fermati se vuoi avere spazio o qualcos’altro. La nostra porta è sempre aperta.”

Ci penso per un secondo. Non posso farlo. Sta andando verso i trent’anni, sposato con due figli e il terzo in arrivo. È un avvocato e Annie insegna boxe in palestra. Hanno un lavoro, dei figli e le bollette da pagare. Non hanno tempo per me e tutti i miei piccoli problemi adolescenziali. Sono degli adulti con dei problemi da adulti... veri problemi.

Non mi sento parte dell’equazione, non importa quanto Armin cerchi di far sembrare che sia così. Non può aiutarmi perché non è mio amico. Era un amico di Mikasa, e tutto ciò che sta cercando di fare è aiutare il povero fratellino che è stato lasciato indietro.

Ho la nausea. Spingo il vassoio di cibo e ignoro lo sguardo preoccupato di Armin.

“Certo,” rispondo sordamente, e il mio sorriso pratico si fa strada tra le mie labbra con facilità. Ed eccomi qui, fingendo di non star cadendo a pezzi. “Lo terrò a mente.”

 
***
 
13:58, sotto le tribune. Sento il viso intorpidito per essere stato premuto contro le ginocchia, ma non faccio caso alla sensazione e mi chiudo ancora di più in me stesso. Sento la partita di calcio a cui dovrei partecipare anch’io andare avanti, ma la ignoro. Chiudo gli occhi e ascolto i miei compagni di classe continuare a calciare la palla, non notando nemmeno che sono sotto di un giocatore.

Ma siamo onesti, a chi interessa che solitamente io non ci sia? Non so nemmeno giocare a calcio. Staranno probabilmente celebrando la mancanza di un peso morto nella loro squadra.

Mi fermo e medito sulla frase per un secondo. Peso morto? Già, sono io. Mi acciglio e premo ancora di più il viso contro la fessura della braccia. È uno di quei giorni. Li odio più di qualsiasi altra cosa. Ma sono come scure e profonde cicatrici che non se ne andranno mai. Ho avuto dei giorni bui. Diavolo, tutti li hanno. Ma i miei sono giorni bui moltiplicati per mille.

Non piangerò, perché non piango da molto tempo, ma a volte sono brutti abbastanza da farmi venir voglia di farlo. Giorni come oggi sono giorni in cui mi domando perché sto ancora respirando. Penso a tutti i modi in cui potrei morire, e realizzo che a nessuno fregherebbe qualcosa. Apparentemente, stando ai volantini degli uffici di assistenza, sono depresso. E con istinti suicidi, ma non andiamo troppo nel dettaglio.

Odio le etichette. Da sempre e per sempre. Qual è il loro scopo, in ogni caso? È un metodo per smistare più facilmente le persone? Dovrebbero essere crudeli? Dovrebbero aiutare?

Chi cazzo lo sa.

I miei pensieri vengono brutalmente interrotti quando sento dei passi avvicinarsi a me. Potrebbe essere il signor Zacharias. Non dirà nulla, come al solito, ma il suo sguardo cupo sarà abbastanza da farmi alzare.

Stavo già per mettermi in piedi, ma poi i miei occhi ne incontrarono un paio color tempesta.

Il signor Zacharias non ha gli occhi grigi. Conosco una sola persona che li ha, e non riesco a immaginare cosa lui voglia da me adesso.

“Cosa cazzo vuoi?” sono in modalità difensiva, con ogni diritto di esserlo, e oltremodo irritato al modo innocente con cui solleva le braccia in segno di resa.

“Rilassati, Eren.” Levi abbassa lo sguardo per guardarmi. “Cos’hai infilato su per il culo? Voglio solo parlare.”

“Oh, cielo,” dico. “Scusa, stavo solo aspettando che tu mi colpissi di nuovo. Sembri essere affezionato ad attacchi non provocati su innocenti e ignari compagni di classe.”

“Basta con questa merda.” Gli occhi di Levi si assottigliano così tanto da darmi la sensazione di potermi tagliare. “Non sei innocente.”

“Non ti ho fatto nulla,” dico, ma poi mi fermo a pensarci. Quasi voglio ridere. “Oh santo cielo. Hai le mutande attorcigliate per quello che ho detto ieri a inglese?”

Levi ruota gli occhi e distoglie lo sguardo.

Bingo.

“Ascolta, Eren.” Lo sguardo tagliente di Levi torna su di me. “Ero irritato e tu eri lì. Ho agito senza pensare. Scusa.”

Mi appoggio all’indietro facendomi sorreggere dalle braccia.

“Marco ti ha parlato. ”

“E allora, cosa cazzo c’entra?” Sputa. Si avvicina ancora minacciosamente, ma lo guardo freddamente. “Non sono un fottuto codardo.”

“Giusto.”

“Non lo sono,” sottolinea. I miei occhi si spalancano un po’.

“D’accordo, porca puttana.” Ruoto gli occhi. “Non sei un codardo, sei solo patetico. Contento?”

È su di me in un secondo, afferrandomi brutalmente il davanti della maglietta tra i pugni. Ignoro quanto sono vicine le nostre facce e sogghigno.

“Ho fatto centro?” Cchiedo allegramente.

“Stai zitto,” ringhia. “Ero davvero venuto per scusarmi, ma se hai intenzione di fare lo stronzo allora vaffanculo al buono proposito.”

“Levati,” dico lentamente.

Levi mi guarda dritto negli occhi senza battere ciglio prima di lasciarmi andare. Mi rifiuto di fargli sapere che il mio cuore rimbomba all’impazzata nelle mie orecchie. Mi appoggio alle tribune e lo guardo.

“Come sapevi dove mi trovavo?” Chiedo.

“Ti ho visto venire qui,” risponde, sembrando meno arrabbiato.

“Ooh. Mi stavi stalkerando?”

“Sarebbe stalking se ti seguissi fino a casa. Ma non vale la pena perdere così tanto tempo.” Sputa velenoso.

Wow, è difficile credere che sia lo stesso ragazzo che aveva cercato di convincermi di non essere un perdente.

“Beh, scusa allora,” dico, perché non so cos’altro potrei dire. “Ora siamo pari. Ora, per favore, sparisci.”

“Vaffanculo.” Guarda il terreno per alcuni secondi prima di sedersi con cautela. “Perché cazzo finisci sempre qui, comunque?”

“Ha importanza?” Strascico le parole. “Non comportarti come se te ne fregasse qualcosa. Non dovresti cazzeggiare insieme ai tuoi amici?”

“Possono farcela anche senza di me.” Solleva le spalle.

“Non sembra, credimi,” dico. “Sei sempre così?”

“Non so. Dimmelo tu.”

“Questo non ha fottutamente senso.”

Tu non hai senso,” mormora. Apro la bocca per controbattere ma poi decido di non farlo. Levi si acciglia verso il suolo come se gli avesse fatto qualcosa che lo aveva personalmente offeso.

Stringo le labbra assieme e guardo altrove.

“Okay, lo stai facendo per farmi arrabbiare.”

“Può darsi.”

“Beh, missione compiuta, congratulazioni.” Esalo lentamente. “Seriamente, vattene lontano da me.”

“Rilassati, Eren.” Ruota il collo e le spalle per scrocchiarle. “Voglio solo sedermi qui, okay?”

Provo a dirgli che esistono un milione di altri posti dove si può sedere, preferibilmente lontano da me, ma la bocca non si muove.

“Levi-”

“Posso essere onesto?” Chiede Levi. Sbatto le palpebre prima di annuire scettico.

“Non avevo realizzato che avremmo confessato i nostri rimpianti. Non sono abbastanza ubriaco per queste cose.”

“Oh porca- puoi chiudere quella fottuta bocca per dieci fottuti secondi?” Sembra irritato. Sollevo le sopracciglia.

“Ma tu baci tua madre con quella bocca?”

“Mia madre è morta.”

“Bella merda,” dico. “Questa cosa è diventata depressa in un batter d’occhio.”

“Colpa tua,” replica, la sua voce rasenta il malefico.

Chiudo la bocca.

“Giusto. Scusa. Va avanti.”

“Grazie,” dice scontrosamente. Fa scorrere le dita tra i capelli e si appoggia all’indietro, assumendo la mia stessa posizione. “Marco mi ha riferito cosa hai detto.”

 “L’avevo immaginato,” affermo. “Non riesco capire perché tu sia ancora qui. Abbiamo già parlato, no?”

“Lo so,” Levi sospira. “Solo... cazzo. Hai centrato il fottuto punto, okay? Sei contento?”

“Contento?” Ripeto. “Non sono uno stronzo. Una cosa del genere non mi renderebbe felice.”

“Già, certo che no,” risponde con una risata derisoria. “Già, siamo tutti codardi. So di aver detto che non lo sono ma... senti, le persone fanno cazzate, okay? E io non sono un’eccezione; penso nessuno lo sia. So che c’è tutta quella diceria di Marco sull’essere Gesù o chi altri, ma persino lui a volte non sa cosa sta facendo. Le persone non possono essere sempre eroi. Qualcuno deve anche fare il cattivo.”

Lo fisso per alcuni secondi prima di guardare da un’altra parte. Tutto ciò che vedo oltre a me è perfetto, un terreo intoccato.

“A non tutti piace,” commento. “Sì, le persone non sono perfette. Ma avere delle imperfezioni non fa di te uno stronzo. Non penso ci sia un collegamento tra le due cose.”

“Come vuoi.” Solleva le spalle. “Credi in quello che vuoi ma-“

Si interrompe da solo. Lo guardo curiosamente, ma lui si alza immediatamente.

“Cosa-”

 “Fischietto,” dice e nemmeno un secondo dopo il signor Zacharias fischia. Si tira indietro i capelli dalla fronte e ghigna. “Bella chiacchierata, Jaeger. Ci vediamo.”

Quasi lo chiamo indietro, ma mi mordo la lingua per fermarmi dal farlo. Mi siedo dietro le tribune fino a quando Levi non diventa un minuscolo pallino in mezzo alla folla. Mi sforzo di mettermi in piedi, le gambe lamentano il movimento.

Cammino verso lo spogliatoio con la mente leggermente annebbiata. Sono uno degli ultimi ragazzi a entrare e, a giudicare dalla stanza praticamente vuota, tutti gli altri sono andati a casa. Mi vesto velocemente e mi dirigo verso il corridoio. Mi muovo a zig zag tra la folla, sentendomi quasi come se non fossi nel mio corpo.

Cammino verso casa con la musica sparata nelle orecchie. Mi fanno male, ma nonostante questo alzo ancora il volume fino a bloccare il dolore. Forse se lo faccio abbastanza a lungo, non sentirò più nulla.

Forse... forse diventerò insensibile.

È una possibilità allettante. Non essere in grado di sentire i suoni come in un sogno. Sono così concentrato sul non provare o non sentire che non realizzo nemmeno di essere giunto a casa fino a quando non mi fermo davanti al vialetto. Come al solito, i miei genitori non sono a casa. Ma c’è una macchina nera e le mie sopracciglia si uniscono fermamente.

Cammino molto lentamente verso casa e provo a bussare. La porta è aperta, quindi entro e mi tolgo le scarpe.

La testa di Jean spunta dalla cucina.

“Ehi,” saluta.

“Ehi,” strascico le parole. Non ho voglia di parlare. “Perché sei qui?”

Si gratta il retro del collo, un’espressione stanca in volto.

“Il mio capo ha detto di riposare per un po',” risponde.

“Ti ha licenziato?” Chiedo e Jean sussulta.

“No,” insiste aspramente. “È per un po’ di tempo, okay? Sto cercando di sistemare un paio di cose.”

Mi butto con ben poca nonchalant sul divano. “Mi sembra una cazzata, ma come preferisci.”

“Attento,” mi avverte minacciosamente Jean, ma è difficile prenderlo seriamente quando sta brandendo una spatola come fosse una spada. “Tua madre ha chiamato e le ho raccontato tutto. Mi ha detto di stare qui fino a quando non mi rimetto in piedi.”

Non so perché, ma improvvisamente sono arrabbiato. Non ho nulla contro Jean. È un po’ troppo impiccione per il suo stesso bene e qualche volta mi fa davvero arrabbiare, ma siamo in, per la maggior parte, buoni rapporti. Ma lui è l’unico promemoria di mia sorella dopo che i miei genitori hanno spogliato la casa della sua esistenza e di tutto quello che aveva a che fare con lei. Questa cosa mi ha sempre fatto arrabbiare, ma non l’ho mai detto a nessuno. Non sono così tanto uno stronzo.

“Dove dormirai?” Chiedo, anche se non so il motivo di questa domanda. Sappiamo entrambi dove dormirà; delle nuvole scure e minacciose sembrano magicamente apparire sopra le nostre testa. “Non importa. Dimentica ciò che ho detto.”

Sento un sibilo arrivare dalla cucina, come se dell’olio si fosse spanto sul piano cottura e Jean impreca sotto i denti. Si sente l’eco delle pentole e poi l’acqua che scorre. È tranquillo per u po', poi emerge dalla cucina con aria agitata.

“Stai bene, Eren?”

“Certo,” rispondo. Non è vero. Non lo sono mai, e lui lo sa. “Tu?”

“Sì,” deglutisce con fatica.

Non sono l’unico bugiardo, allora.

 
***
 
18:39, a cena. I miei genitori stanno parlando con Jean di politica, o sul tempo, o su qualcosa. Ho smesso di ascoltare quando i fagioli verdi hanno finito di cuocere. È una conversazione adulta, il tipo con cui i bambini devono sintonizzarsi e ignorare. O forse non lo è, ma nessuno vuole che partecipi nel predire se avremo una tempesta di neve o qualcosa del genere.

Non mi importa in ogni caso. Gioco con i fagioli verdi, osservando come l’olio si espande per tutto il piatto. Mio padre ha provato a cucinare dopo il tentativo fallito di Jean. Tende ad avere la mano pesante per quanto riguarda condimenti, oli e cose del genere, da qui il casino bruciato e unto presente nel piatto.

Guardo Jean mangiare, deglutire e bere casualmente tre sorsi d’acqua per nascondere il cipiglio sul volto. Mi mordo il labbro per nascondere il ghigno e torno a dividere i fagiolini sulla forchetta, sollevandoli lentamente verso la bocca. Li fisso per alcuni secondi prima di decidere di abbandonare il presupposto e mettere giù la forchetta.

Mia madre alza lo sguardo e mi fissa, tagliando delicatamente la sua tilapia[1] al forno.

“Eren?” Chiede, attenta alle sue prossime parole.

Mi alzo dal tavolo.

“Vado a letto prima,” dico. Lei, mio padre e Jean mi riservano degli sguardi scettici e realizzo che si stanno domandando se sto programmando di sgattaiolare via di casa anche questa notte. “Seriamente. È stata una giornata di merda.”

Mio padre sospira all’imprecazione e mi mordo l’interno della guancia.

“Va.” Agita la mano in modo sprezzante senza guardarmi.

Annuisco, ripetendo la parola sprezzante più di quanto vorrei nella mia testa.

Va.

È una parola semplice. Due innocenti piccole lettere messe insieme per formare un comando, o un suggerimento, o solo un’altra parola che le persone dicono senza pensarci. Darei tutto per poter semplicemente andare. Mikasa e io dovevamo semplicemente andare, quando i miei genitori erano a dieci secondi dal firmare le carte per il divorzio, ma le cose sono cambiate.

Penso a cosa succede quando le persone se ne vanno. Le cose cambiano e tutti coloro che sono rimasti indietro devono prendere in mano i pezzi rimasti e rimetterli insieme. O le persone lasciano indietro dei pezzi dove sono e fingere che tutto vada bene.

Ma non è così, per la cronaca, ma non so cosa fare. Non so mai cosa fare, specialmente ora che l’unica persona che aveva capito come andare avanti se n’era andata a causa di qualche bastardo che ha deciso che era il momento per lei di andare.

...

Cazzo.

 

[1] Tilapia: tipo di pesce.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti / Vai alla pagina dell'autore: Moonlight_Tsukiko