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Autore: CHAOSevangeline    24/02/2019    0 recensioni
[Sally Face]
{Spoiler capitolo quattro}
Sal indossava una protesi, una maschera, ma non per se stesso: doveva indossarla per non disturbare nessuno. Doveva indossarla perché si preoccupava di più degli altri che non di se stesso, di ciò che desiderava e di cui aveva bisogno.
Era orgoglioso, coraggioso e non si piegava alla volontà di nessuno, non lo aveva mai fatto per quanto potesse essere difficile. Eppure il suo viso non era riuscito a difenderlo: quello aveva lasciato che gli altri lo costringessero a nasconderlo, che riuscissero a farlo vergognare. A odiare la sua stessa faccia e a sostituirla.
Larry era diverso.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ciao a tutti e innanzi tutto grazie per aver aperto questa storia!
Segnalo subito la presenza di spoiler riguardanti il videogioco per chi non è arrivato alla fine del capitolo quattro. Alcuni sono più rilevanti, altri meno. In ogni caso li indico per evitare di rovinare l'esperienza di gioco a chiunque non sia arrivato alla fine.
Per chi vorrà leggere, ci risentiamo dopo la storia.
Spero che la one-shot vi piaccia!




Ricordi, Sally?






Di tanto in tanto lui e Larry facevano un gioco: “Ricordi?”
Un bel modo per crogiolarsi nella nostalgia in due senza farsi troppo male perché di dolore, entrambi, ne avevano provato abbastanza.
Nostalgia: per definizione il desiderio acuto, avido o ancora il rimpianto. La si prova quando l’oggetto per cui la si nutre non c’è più.
Il loro “Ricordi?” era molto meno masochista. Facevano parte di un gruppo di ragazzi vivi che passeggiavano fingendosi un po’ troppo spensierati nella valle della morte. Rischiavano, toccavano con mano l’abisso più nero, viscido e nefasto dell’animo umano.
E spesso scherzavano, spesso ridevano anche mentre pensavano alla piccola Megan del quinto piano, a quanto fosse simpatica. Ricordavano quanto fosse morta e l’entusiasmo scemava. Ma tentavano di consolarsi, lo facevano perché in loro c’era amarezza, perché non potevano deprimersi sempre, spaventarsi per ogni dettaglio fuori posto lì, agli Addison Apartments. E quella era una concezione relativa: erano gli Addison Apartments ad avere qualcosa di fuori posto, di strano, o in quel piccolo microcosmo di cinque piani fatto di strani inquilini e fantasmi, demoni e qualsivoglia strana setta, gli elementi fuori posto corrispondevano a quella che nel mondo voleva dire normalità?
Forse Sal, Larry, Todd, tutti loro vivevano su un binario parallelo alla realtà comune e ormai si erano acclimatati a una dimensione diversa da quella umana. Non per questo strana, che spesso sembra voler denotare in modo negativo.
Solo diversa, come erano diversi loro.
Ma era comunque cupa, spesso soffocante.
Sal aveva gli incubi e talvolta gli sembrava di impazzire. Temeva di essere già impazzito, da molto tempo. Si svegliava madido di sudore nella notte e non sapeva cosa fare; malediceva le pillole perché non lo aiutavano e i sonniferi anche se non era colpa loro, perché non erano loro a non fare effetto: era la sua mente a giocargli terribili scherzi, più potenti di ogni legame chimico esistente in quelle pasticche.
Uno squillo a Larry e poi se ne stavano lì, facendosi compagnia con telegrafici messaggi o con la cornetta premuta contro l’orecchio a parlare sottovoce perché Sal non voleva disturbare Todd nella stanza accanto e perché forse avevano paura che qualcuno li sentisse.
Non parlavano dei suoi incubi, non sempre.
«Ehi Sally Face, un altro incubo?»
«Sì, scusa se ti ho svegliato.»
«Mi chiedi ancora scusa?»
Quando Sal era teso, spesso Larry glielo domandava, se ricordasse qualcosa.
Perché non c’era nostalgia, in quel gioco: ricordavano cose che avevano vissuto insieme. E lo erano ancora, insieme. Potevano ridere, aggiungere dettagli agli episodi nel loro passato.
Non necessariamente uno dei due doveva trovarsi in difficoltà perché l’altro – soprattutto Larry – rispolverasse quel piccolo passatempo esclusivo e personale, solo loro.
Nel seminterrato che ormai era solo di Larry, mentre tentavano di accertarsi che tutto ciò che poteva servire al ragazzo nella sua nuova casa fosse imballato e pronto ad essere trasferito insieme a lui, Sal era sereno. Sereno a suo modo, nel suo tipico esserlo da qualche mese a quella parte e cioè non troppo. Ma ci stava lavorando; il pungolo dell’angoscia era diventato una costante a cui si era abituato, così come si era abituato alla fastidiosa sensazione della protesi premuta sulla pelle del viso, al calore del suo fiato riflesso sulla sua bocca e alla sensazione di pelle sudaticcia sotto la maschera.
«Ricordi quando mi hai raccontato la prima volta del tuo soprannome?»
Domanda inaspettata, mentre erano chini entrambi sugli scatoloni.
«Sì. All’epoca ancora mi faceva arrabbiare.»
«Questo era prima che iniziassi a chiamarmi Larry Face.»
Glielo gracchiava attraverso i walkie talkie, Sal, dopo aver sorriso nel sentire Larry dare a quel soprannome scelto dai fantasmi del suo passato, quei bulli da quattro soldi del New Jersey, un significato tutto nuovo. Adesso ogni volta che si sentiva chiamare così, Sally Face, si sentiva invincibile perché sapeva di aver superato almeno quel mostro.
Una cosa che Sal non ricordava era per quanto non avesse riso prima di trasferirsi nell’appartamento 402, così come non ricordava giorno in cui non avesse riso almeno un po’ da quando era arrivato lì. Fantasmi e sette a parte, stava davvero bene.
Rideva dietro quella protesi capace di celare il suo vero volto, viso che le persone preferivano non vedere. Sal indossava una protesi, una maschera, ma non per se stesso: doveva indossarla per non disturbare nessuno. Doveva indossarla perché si preoccupava di più degli altri che non di sé stesso, di ciò che desiderava e di cui aveva bisogno.
Era orgoglioso, coraggioso e non si piegava alla volontà di nessuno, non lo aveva mai fatto per quanto potesse essere difficile. Eppure il suo viso non era riuscito a difenderlo: quello aveva lasciato che gli altri lo costringessero a nasconderlo, che riuscissero a farlo vergognare. A odiare la sua stessa faccia e a sostituirla.
Larry era diverso.
Larry trovava piacevole che Sal ridesse e avrebbe fatto di tutto perché continuasse ad essere così. Che continuasse a sentirsi a suo agio in ogni modo e momento.
«Ricordi la prima volta che ti ho visto senza la maschera?»
Sal quasi sudò freddo. Sentì un brivido lungo la spina dorsale, improvviso e gelido quasi la mano di uno spirito si fosse premuta a palmo aperto direttamente sulla sua pelle, tracciando un percorso che sul suo corpo aveva lasciato solo ghiaccio.
Avrebbe potuto usare il GearBoy e scoprire che non c’era nulla con loro in quella stanza se non la paura del ricordo.
«Certo.»
Ricordava ogni cosa, ma di quel momento in particolare: la preoccupazione per il naso sanguinante di Larry, il senso di colpa nonostante nulla fosse dipeso da lui.
E poi, solo poi, l’angoscia di vedere la protesi a terra.
Ricordava di essere rimasto pietrificato, non più per il sangue ma all’idea che la propria pelle sfregiata, arrossata, tirata e martoriata fosse in bella vista di fronte agli occhi di Larry. Stava mostrando il lato peggiore di sé, quello che gli altri avevano deciso fosse il suo lato peggiore riuscendo a convincerlo. Lo stava mostrando al suo migliore amico e non avrebbe potuto sopportare mai, mai, mai e poi mai che gli voltasse le spalle, disgustato da quell’epidermide lucida incapace di tornare sana.
Ti prego, non proprio lui. Non Larry – aveva pensato.
E si ritrovò nella descrizione accuratamente buffa della sua espressione sconvolta. Larry sembrava voler scherzare, all’inizio, dipingendo a parole il suo sguardo guizzante da un punto all’altro della stanza in cerca dei fazzoletti. Glieli aveva indicati Larry, perché per disperazione Sal gli aveva offerto la manica della propria maglietta. Buffo che perdesse la calma per quel sangue, solo perché era di Larry, e rimanesse stoico e granitico di fronte a spettacoli ben peggiori.
Più Larry ricordava tutto il suo terrore, perché lui lo aveva visto, più vi si avvicinava con le parole e più il suo tono di voce si fece più serio.
Non avevano più parlato dell’accaduto. Quella stessa sera, poco dopo l’incidente della protesi volante, si erano seduti nella cucina di Larry a mangiare insieme a Lisa e al padre di Sal.
Erano spaventosamente bravi a capire quando era meglio non parlare di qualcosa e abili a un livello pericoloso e patologico nel non lasciarsi toccare dall’evento più traumatico, se questo aveva luogo in quelle mura dalla dubbia vitalità e non riguardava qualcuno a cui erano legati a doppio filo.
«Meglio non parlarne.»
«Già, facciamo finta di niente.»
Alle volte erano così.
Ma quella. Oh no, quella era stata diversa.
«Ehi Sal», lo chiamò di punto in bianco Larry, nonostante avesse già la sua attenzione.
Sally aveva smesso di controllare l’elenco degli oggetti contenuti nelle scatole appiccicato sulla parete superiore di cartone, perché stava ricordando fin troppo e per la prima volta quel gioco non gli piaceva.
«Perché quando ti ho detto che andava tutto bene hai pianto?»
Lo stress, la preoccupazione – avrebbe potuto pensare chiunque. Ma Sal non era così e Larry lo sapeva.
Sal soffriva ancora il contraccolpo di quell’incidente eppure era grato al fato o a chiunque fosse in grado di determinare il corso degli eventi, di dare loro una possibilità, perché da tanto dolore – come tutte le volte che qualcosa riguardava Larry – era arrivata anche tanta felicità.
«Perché non hai distolto lo sguardo.»
Le lacrime erano scese calde lungo quelle guance che non erano state in grado di guarire proprio come la sua anima e Sal aveva tremato come la più esile, malata e stanca delle foglie di fronte a Larry. Non lo aveva mai fatto nemmeno di fronte al più oscuro dei demoni o temibile dei fantasmi.
Aveva tremato e singhiozzato senza dire una parola e nemmeno Larry aveva parlato, non una smorfia a tradire la vista di quegli sfregi disumani sul suo viso. Perché Larry nemmeno li aveva guardati; aveva tenuto gli occhi nei suoi per tutto il tempo e lo aveva fatto sentire normale.
Aveva visto oltre, come faceva sempre, ma quella volta un po’ di più.
E anche lui era rimasto sconvolto da quelle lacrime forse più di quanto fosse necessario. Sembrava ed era addolorato, ferito, triste perché mai avrebbe voluto vedere Sal in quelle condizioni. Perché non avevano parlato, non avevano detto nulla e nemmeno i singhiozzi silenziosi avevano parlato per Sal, ma Larry sapeva che era tutta colpa degli altri e, in qualche modo, voleva proteggerlo.
Provava una rabbia sconfinata verso il mondo e voleva proteggerlo.
Così aveva stretto Sal tra le braccia perché non avrebbe saputo cos’altro fare e gli aveva detto che andava tutto bene, perché era quello che avrebbe voluto venisse detto a lui e se c’era anche solo la minima possibilità che di questo Sal avesse bisogno, allora Larry voleva occuparsi di lui, farlo sentire capito.
Lo aveva sentito sciogliersi fra le sue braccia, quasi crollare a terra e lo aveva sostenuto. Lo facevano sempre, a vicenda.
Poi la tempesta si era placata e almeno da sopra quella stanza la nube di cattiva sorte e tristi avvenimenti si era allontanata per un po’.
Sua madre aveva chiesto a Sal perché avesse gli occhi – uno almeno – tanto arrossati, a cena, e Larry aveva inventato per lui una scusa stupida: il fumo passivo in casa di Todd.
Perché lui era lo scudo di Sal e Sal era il suo e a entrambi piaceva esserlo. Lo capì grazie al sorriso di gratitudine che immaginava, anzi, sapeva essere sulle labbra di Sal dopo quella scusa. Il suo sguardo aveva brillato come quando parlava con il tono di un sorriso sincero e Larry sapeva leggerlo bene.
Larry osservò quelle spalle appena ricurve nel presente, schiacciate dai ricordi. Lo sguardo che guizzava verso di lui furtivo, Sal che non lo guardava per più di un secondo. Aveva confessato una verità tenuta per sé troppo a lungo.
Larry sorrise appena. Non per soddisfazione: solo, era contento di averlo sollevato, a suo tempo.
Ma in quel momento Sal era di nuovo teso, perciò doveva fare qualcosa.
Si avvicinò a lui e gli avvolse un braccio intorno alle spalle.
I gesti contavano di più delle parole.
«Ehi, lo stereo è ancora attaccato alla corrente. Ci riascoltiamo Singular?»
Sal alzò lo sguardo. Pareva sorridere soddisfatto per la sterzata brusca del discorso.
«Certo!»
La chitarra elettrica prese possesso del silenzio.
Clack.
I ganci della protesi di Sal che scattavano.
Non era la prima e nemmeno la seconda o la terza volta che la toglieva e la poggiava sul comò accanto alla radio di Larry mostrandogli il vero sé stesso. Ma era sempre speciale, come tutte le volte che Sal decideva di farlo senza che Larry gli ricordasse di averne la libertà.
«Solo se vuoi», gli diceva. «Se te la senti.»
E valeva più di ogni grazie, quella scelta, perché Sal con lui si sentiva libero e Larry ne aveva la conferma.
Sal aveva avuto paura nel ricordare i sentimenti della prima volta, le angosce soffocanti. Ma poi aveva ricordato la gioia delle successive e si era lasciato andare. Gliele aveva raccontate la naturalezza di Larry, che lo guardò.
«Così potrai scuotere la tua chioma senza rompermi il naso!»
Normalità, questa sconosciuta.
Sal rise. Un suono pulito e limpido, non più ovattato e schermato dalla pesante protesi.
Sal non era strano. Era diverso ed era questo a renderlo sé stesso.
I ciuffi azzurri ricadevano mossi sul volto e quasi trovò piacevole il solletico che sentiva sulla pelle non abituata a quel contatto.
«Abbiamo da fare: dobbiamo finire qui prima di andare a fare un giro per salutare questo posto.»
Eppure la testa si muoveva a ritmo di musica.
Tornarono al lavoro, poi Sal si voltò verso Larry.
«Ehi, Larry. Grazie», gli disse.
Perché no, la protesi abbandonata non bastava. Quella volta le parole servivano davvero e lui voleva dirle, pronunciarle, essere certo che Larry le avesse sentite.
«Che cosa?» gridò il ragazzo, assordato dalla musica.
«Ho detto grazie!» urlò di rimando Sal.
Per qualche motivo urlare quando avrebbero potuto semplicemente abbassare il volume della radio li fece ridere.
Larry sorrise e vide quell’espressione anche sul viso di Sal: non la immaginò, non la vide nei suoi occhi. Gli angoli delle labbra di Sal erano incurvati verso l’alto in uno dei sorrisi più allegri che Larry avesse mai visto.
«Tutte le volte che vuoi, Sally.»






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Sono entrata nella sezione Videogiochi qualche giorno fa per controllare se ci fossero fanfiction su Sally Face e con mia sorpresa non ho trovato né la sezione, né eventuali fanfiction nella categoria Altro. E mi è dispiaciuto davvero un sacco!
Questo gioco mi è piaciuto davvero tanto e ho dovuto scrivere qualcosa per tributarlo e darmi una gioia dopo tutto l'angst.
Ho cercato di rimanere il più fedele possibile agli avvenimenti e a quanto è stato detto esplicitamente nel gioco. Mi riferisco ad esempio alle motivazioni per cui Sal è sfregiato: le ho pensate un po' tutte anche se la motivazione più plausibile rimane il cane che lo ha attaccato. Siccome non mi fido di nessuno, non sono scesa nei dettagli proprio come ha fatto il gioco e mi sono concentrata di più sulla percezione che Sal ha del proprio aspetto, piuttosto che sulle ragioni per cui è ridotto così.
Ah, altra nota importante: la storia è nata grazie alla citazione che ho riportato nel racconto, il dialogo fra Larry e Sal in cui parlano appunto della prima volta in cui Larry ha visto Sal senza la protesi. So che nello stesso quarto episodio Sal si rifiuta di togliersi la protesi di fronte ad Ashley e che nella wikia si afferma che si vergogna a sfilarla in pubblico, ma siccome Larry chiede a Sal se ricorda la prima volta in cui lo ha visto senza, ho presupposto che ce ne siano state delle altre. E dato il livello di amicizia che intercorre fra i due ho seguito questa mia idea. Probabilmente si tratterà di una licenza poetica, ma tant'è.
Giustificazioni dovute alla mia proverbiale insicurezza quando approdo in un nuovo fandom a parte, spero davvero che questa one-shot vi sia piaciuta e che vi vada di dirmi cosa ne pensate <3
Spero di tornare a scrivere presto su questo gioco, che già qualche altra idea mi frullan nella testa!
Alla prossima ~
   
 
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