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Autore: Elef    26/02/2019    1 recensioni
Nord America, 1784
***
"Si risvegliò di soprassalto, il respiro affannoso, la gola secca e la vista appannata.
«Madre...» biascicò nel suo stordimento.
Percepì un panno bagnato appoggiato sulla sua fronte e poi una forma non definita – ma indubbiamente umana – entrò nel suo campo visivo.
«Madre, sono qui…!» ripeté, allungando un braccio verso di essa. La figura prese l’arto e lo poggiò delicatamente sulla superficie su cui era coricato.
«Tranquillo, va tutto bene.» gli rispose una voce morbida. «Dormi.»
Connor lasciò che quelle parole lo guidassero in un sonno stavolta privo di incubi."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Kenway, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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CAPITOLO 3

FRAMMENTI DI VITA

 


 

Il mattino seguente, Connor si svegliò dopo una buona dormita, di gran lunga migliore rispetto ai giorni precedenti. Il sole era sorto da poco e, anche se il calore del falò era ancora ben accetto, l’aria era più mite. Dopo quell’inverno lungo e rigido, stava finalmente arrivando la primavera.

Stando attento a non piegarsi troppo su sé stesso per non riaprire le ferite, il giovane si infilò i suoi lunghi stivali di pelle morbida e indossò la sua casacca di cotone. Sopra di essa, mise quel bel gilè di pelle scamosciata che gli era stato messo a disposizione di fianco al giaciglio, poi si legò i capelli nel suo solito mezzo codino ed uscì dalla casa lunga, respirando a fondo. L’erba e le foglie delle piante di mais erano ricoperte da un sottile strato di fresca rugiada. Anche quel giorno si preannunciava splendido, con un bel cielo azzurro punteggiato solamente da un paio di cumuli.

Con passo tranquillo e lievemente zoppicante, si diresse verso il centro del villaggio, dove vi era la capanna in cui la sera prima aveva cenato. Pensava che vi avrebbe trovato Arahkwenhá:wi o Atená:ti, invece non vide nessuno dei due. In realtà non aveva visto tanti uomini in giro, probabilmente perché la maggior parte di loro erano già fuori dal villaggio a cacciare oppure a perlustrare la zona e tenere lontani eventuali pericoli.

Mentre consumava la sua colazione, udì un vociare sommesso provenire dal fondo della stanza; guardando di sottecchi, notò che le interlocutrici erano la Madre del Clan e Otsísto. Dalla concitazione dei loro toni pareva che stessero discutendo animatamente, ma lui rispettò la loro riservatezza e si fece gli affari suoi. Fu solo quando Oiá:ner si avvicinò per uscire dall’edificio che si alzò in piedi e chinò il capo.

«Shé:kon, Ratonhnhaké:ton.» lo salutò lei, i suoi piccoli occhi scuri che quasi sparivano tra le pieghe del suo sorriso. «Ti senti meglio di ieri?»

«Hen (*), molto meglio.» confermò Connor.

La donna annuì. «Spero che io e mia figlia non ti abbiamo arrecato troppo disturbo parlando tra noi. Quando lei si intestardisce su qualcosa è difficile dialogare civilmente, spesso va a finire che...»

«Sicuramente il nostro ospite non è qui per sentire dei nostri noiosi discorsi personali, madre. Forse è meglio non tediarlo, non credi?» la interruppe Otsísto da dietro, chiaramente infastidita.

La donna fece un cenno brusco con la mano alla sua direzione ma quando parlò si rivolse a Connor con tono più cordiale: «Ó:nen ki' wáhi (*), mio caro. Se avessi bisogno di qualunque cosa, non esitare a farti accompagnare da me.»

«Niawenhkó:wa, Oiá:ner. Buona giornata.» rispose lui con un breve movimento del capo e, dopo avergli dato una lieve pacca sul braccio, la Madre del Clan uscì, lasciando lui e Otsísto soli.

«Confesso che ho un po’ paura di sapere cosa pensi di me dopo lo sfogo di mia madre e il fatto che le abbia risposto in quel modo.» disse lei, scuotendo leggermente la testa.

«Beh, senza alcun dubbio non hai problemi ad esprimere ciò che pensi. Ma questo non è necessariamente un difetto.» rispose lui, incurvando le labbra.

Dopo che lei gli ebbe sorriso di rimando, gli domandò: «Avresti voglia di accompagnarmi nella foresta? Uno degli oggetti più frequenti delle discussioni con mia madre è che a lei non fa tanto piacere sapermi da sola fuori dal villaggio. Almeno oggi non può obiettare se sa che sono con qualcuno.»

«Certamente. Dovrei scrivere una lettera, ma niente che non possa rimandare a quando rientriamo. Fammi strada.» le disse, indicando con un cenno della mano l’uscita della capanna.

«Niá:wen. Prima, però, è meglio controllare le tue ferite.» concluse lei, guidandolo fuori.


 

***


 

Quando i due uscirono dal centro abitato, il cielo aveva cominciato ad annuvolarsi, a dispetto del tempo splendido che sembrava dovesse esserci. Comunque, su alcuni bassi rami, i merli sembravano ignorare l’improvviso cambiamento del clima e cinguettavano le loro piacevoli melodie, rendendo l’atmosfera più allegra.

«Sono curiosa, Ratonhnhaké:ton...» cominciò Otsísto mentre si chinava per raccogliere le prime erbe medicinali che aveva adocchiato. «I tuoi abiti per certi versi ricordano quelli dei coloni ma il tuo aspetto e parte dei tuoi effetti personali appartengono alla nostra gente. Da dove provieni esattamente?»

Nonostante la sua indole riservata, Connor si accorse con sua stessa meraviglia di essere voglioso di conoscere e farsi conoscere, quindi lasciò che fosse l’istinto a guidare le parole fuori dalle sue labbra.

«In realtà da entrambe le parti, anche se sono cresciuto in un villaggio non troppo lontano di qui, Kanatahséton.»

«Conosco quel nome.» annuì lei. «Clan del Lupo, vero?»

«Esatto. Sono nato lì, quasi ventotto anni or sono. Mia madre era Kanien'kehá:ka, mio padre inglese.»

«Davvero?» Otsísto inarcò le sopracciglia, stupita. «Ed erano sposati?»

«Iah (*), non lo sono mai stati. Mia madre mi ha cresciuto da sola per sua scelta, ed è morta quando ero ancora un bambino. Mio padre non ha mai saputo della mia esistenza fino a pochi anni fa, ma poco importa, ora non c’è più nemmeno lui.»

Connor si appoggiò ad un tronco, mentre aspettava che la giovane finisse di raccogliere altre erbe, e guardò davanti a sé senza realmente vedere il bosco di aghifoglie, gli occhi stretti per proteggersi dal riflesso della luce diurna. Nella sua mente emerse il ricordo dei sensi di colpa che aveva provato quando aveva finito di leggere il diario di Haytham Kenway, l’uomo che aveva contribuito a dargli la vita e che lui infine aveva ucciso, inizialmente senza nemmeno pentirsene più di tanto. Probabilmente Achille aveva sempre avuto ragione, non ci sarebbe mai stato modo di fargli cambiare idea riguardo al suo obiettivo, ma una cosa era certa: suo padre non aveva mai davvero voluto ucciderlo. A suo modo, l’aveva reso piuttosto chiaro, e anche più di una volta. L’ultima nel loro scontro finale, quando avrebbe potuto affondargli una lama celata nel collo e invece ci aveva semplicemente stretto attorno le mani, in modo da farlo svenire. Insomma, tra i due aveva preferito essere lui a morire. Da quando se ne era reso conto, soprattutto leggendo le sue memorie, l’assassino non riusciva a pensare a suo padre se non con profondo rimorso.

«Sai...» intervenne timidamente Otsísto, risvegliandolo dal suo rimuginìo. «Quando eri incosciente capitava che farfugliassi; le frasi più ricorrenti riguardavano i tuoi genitori. Solitamente non do molto ascolto ai vaneggiamenti dei miei pazienti, ma avevo capito che i tuoi non erano semplici sogni, erano ricordi.»

Si alzò e, ignorando quella buona spanna di altezza in meno di lui, lo fronteggiò, con uno sguardo velato di tristezza. «Come il tuo stesso nome suggerisce, la tua deve essere stata una vita tutt’altro che facile e io… Non posso dire molto se non che mi dispiace tanto.» (*)

Lui le sorrise debolmente, per rassicurarla. «Ti ringrazio per la sensibilità, ma non ce n’è bisogno. Ognuno ha le proprie preoccupazioni e la mia situazione è molto più complicata di quello che credi.»

«Se intendi la causa a cui hai deciso di votarti non mi è nuova.» rispose lei, indicando la lama ricurva del suo fedele tomahawk. «Conosco quel simbolo. Da ciò che mi hai detto sulla tua provenienza, deduco che tu sia stato allievo di Achille Davenport.»

«È così, infatti. Lo hai conosciuto?» le chiese lui, sinceramente sorpreso.

«Iah, non l’ho mai incontrato, ma mi è stato raccontato che mio padre fu suo alleato e che imparò molto da lui – anche se ufficialmente non entrò a far parte dell’Ordine degli Assassini.»

Otsísto si chinò nuovamente. I lunghissimi capelli neri, anche quel giorno completamente sciolti se non per un’unica treccia sottile, ondeggiarono con grazia quando lei li spostò da un lato perché non fossero d’impiccio. Per un attimo, Connor fu tentato di passarvi in mezzo le dita, ma ricacciò quel pensiero con una leggera quanto imbarazzata scrollata del capo.

«Lui non ha mai potuto raccontarmelo di persona, è morto quando io avevo da poco imparato a camminare.» aggiunse la giovane.

«Mi dispiace. È stato durante la Guerra dei Sette Anni?»

Lei annuì, rialzandosi e lisciandosi gli abiti di pelle di cervo.

«Come tanti altri, il mio villaggio è stato bruciato, e pochi di noi si sono salvati. I nostri guerrieri più valorosi – tra cui mio padre – hanno aiutato quanta più gente a scappare verso nord-ovest. Ovviamente li abbiamo pianti a lungo, ma siamo loro grati perché senza il loro sacrificio non avremmo avuto modo di ricostruire la vita tranquilla che avevamo prima.»

«Capisco bene, anch’io ho vissuto quell’esperienza. Mia madre è venuta a mancare proprio in quel periodo, durante un incendio al mio villaggio.»

Il giovane si lasciò andare in un sospiro mentre riprendevano a camminare. Un vento minaccioso aveva cominciato a far breccia tra i fitti rami dei pini e degli abeti. Tuttavia, sembrava che Otsísto avesse ancora da fare, quindi per il momento decise di seguirla, senza proporre di tornare indietro. Non poteva assolutamente negare che gli stesse facendo piacere passare del tempo con lei; per la prima volta dopo tanto tempo si sentiva completamente a suo agio parlando con qualcuno – una donna, peraltro. Fu lì che sentì di cominciare a comprendere il sentimento di profonda ammirazione di Arahkwenhá:wi nei confronti dell’amica.

«Da quel giorno, ho giurato di dare la caccia alle persone che ne erano responsabili. Sostanzialmente, è per questo che quando sono cresciuto sono andato da Achille. Era l’unico che potesse aiutarmi.» concluse, dopo una breve pausa. La storia sarebbe stata più lunga e complessa, ma non se la sentiva di raccontargliela tutta per filo e per segno, perlomeno non ancora.

«Capisco. E quindi ora vivi nella sua casa?» domandò lei, interessata.

«Hen, da ormai quindici anni. Ogni tanto ritornavo a Kanatahséton, ma qualche anno fa, per una questione di sicurezza, la Madre del Clan decise che si sarebbero spostati verso ovest. Da allora non li ho più rivisti.»

Connor ripensò a quando era ritornato al suo villaggio, qualche mese dopo la travagliata impresa dell’uccisione di Charles Lee. L’unica presenza umana che vi aveva trovato, seduta su un ceppo davanti al focolare nello spiazzo centrale, era stata quella di un vecchio cacciatore bianco bardato di pellicce. Fu una sensazione strana quella che provò quando l’uomo gli confermò che la sua gente se ne era andata. In principio, si era sentito come svuotato di ogni scopo; poi era stato investito da un’ondata di amara nostalgia. Ma il tutto venne presto sostituito dalla sorpresa; infatti, in una casa lunga, scoprì che era stato lasciato una piccola scatola di legno contenente il messaggio di quel misterioso spirito femminile chiamato Giunone. Una volta alla tenuta di Davenport, aveva riflettuto molto sulle parole che gli erano state rivolte, e aveva infine deciso di trovare un altro modo per nutrire la causa che sosteneva. Le ribellioni degli schiavi gli erano sembrate un ottimo punto di inizio, anche se si era presto accorto che la persona più adatta al compito di placare gli animi rabbiosi e diffidenti degli oppressi era la sua consorella Aveline.

Cionondimeno, sapeva quanto la sua partecipazione fosse fondamentale per la Confraternita americana. Dopotutto, era stato lui ad occuparsi della sua rinascita, ed era in gran parte merito suo se il dominio templare nelle Colonie era stato soppresso. Mollare tutto all’improvviso significava vanificare gli sforzi compiuti fino a quel momento.

«Se ti fa piacere, d’ora in avanti puoi venire a trovare noi. La tua compagnia non sarebbe mai inopportuna e… Beh, a me piacerebbe molto sentire le avventure che hai da raccontare.» gli sorrise Otsísto. Nonostante l’aria disinvolta che ostentava, a Connor non sfuggì il gesto nervoso di sistemarsi i capelli dietro l’orecchio sinistro, reso ancora più maldestro dal fatto che per un attimo le sue dita affusolate si scontrarono con il grande orecchino pendente rotondo che indossava. L’idea che ricambiasse la sua voglia di conoscersi meglio lo rese ancora più contento di essere lì con lei.

«Sarei onorato, Otsísto. Non sono mai stato in un posto così accogliente come il tuo villaggio.» le sorrise in risposta. «Dimmi di te, ora. Ieri hai affermato che sai l’inglese. Te lo ha insegnato tua madre?»

«In parte sì, per il resto l’ho imparato durante dei viaggi commerciali e diplomatici affrontati con dei miei cugini.» rispose lei, assicurando i sacchetti di cuoio con dentro le erbe alla cintura.

«Ho visto di tutto, dai piccoli agglomerati di case in mezzo ai boschi fino al grande villaggio chiamato Boston; inoltre ho passato abbastanza tempo in mezzo al popolo bianco per apprendere meglio la lingua inglese e sapere come vivono. Però, se devo essere sincera, le mie esperienze non mi hanno lasciata molto entusiasta: ciò che ricordo meglio sono strade piene di miseria e scontri violenti tra abitanti, giubbe rosse e patrioti.» Storse il naso.

«Non credo che vorrei mai prendere parte ad una vita del genere. Devo dire, tuttavia, che i villaggi di case di legno e pietra in cui ci siamo imbattuti nei territori della Frontiera mi sono sembrati delle ottime vie di mezzo tra la vita che conduciamo noi e quella dei coloni. Suppongo che anche la terra di Davenport sia un bel luogo dove abitare.»

Connor confermò con un cenno del capo. «Per me lo è. Anche se si tratta di un altro stile di vita, ci si adatta piuttosto bene. E poi, là ci vivono delle persone di cui sono sicuro di potermi fidare. Sono felice quando faccio ritorno.»

«Sai, mi incuriosisci molto. Non mi dispiacerebbe visitarla.» azzardò lei, lanciandogli un’occhiata di sbieco che gli fece incurvare lievemente le labbra.

«Potrebbe capitare, chissà...» replicò vago. «Possiedo anche una nave, ne hai mai vista una?»

«Solo da lontano, purtroppo. Posso solo immaginare quanto sia bello avere una grande casa galleggiante! Non so che cosa darei per salirci sopra.» rispose lei con tono sognante.

«Se è davvero un tuo grande desiderio ti potrei mostrare la mia Aquila

Lei si voltò con gli occhi sbarrati e gli mise una mano sul braccio perché si fermasse. «Sul serio?»

Il giovane sorrise apertamente di fronte a quell’espressione bambinesca di incredulità mista ad eccitazione. Sembrava quasi che le avesse promesso di insegnarle a volare. «Ma certo, mi farebbe piacere. Sempre che Oiá:ner non abbia nulla da ridire.»

«Niawenhko:wa!» esclamò lei, trattenendo a stento la voglia di saltellare, cosa che lo fece ridacchiare. «Non ti preoccupare per mia madre, riuscirò a convincerla.» aggiunse decisa.

«Dici?»

«Hen, al contrario di quello che può sembrare, non è così difficile.»

Ripresero a camminare e mano mano che avanzavano, gli alberi attorno a loro si fecero più radi. Connor notò che si stavano dirigendo verso una radura al cui centro vi era un ceppo del diametro di almeno cinque piedi, incastrato tra due rocce. Dalla sicurezza con cui si muoveva Otsísto, capì che era un luogo da lei spesso frequentato.

«Il fatto è che ultimamente discutiamo spesso; lei e mia sorella sono coalizzate contro di me. Non fanno altro che parlarmi di capitribù e figli di capitribù... Una vera noia.» riprese lei, mentre andava verso il ceppo. Ci si sedette sopra a gambe incrociate e gli fece segno di mettersi accanto a lei. «Questa radura mi aiuta a sfuggire per qualche ora alle loro pressioni – quando posso permettermi di lasciare soli i miei pazienti, ovviamente.»

Effettivamente, era un bel posto per stare soli. Il giovane la capiva, anche lui spesso e volentieri cercava degli spazi isolati quando aveva bisogno di concentrarsi. Quelli che preferiva erano rami e sporgenze, su cui si arrampicava al fine di osservare i panorami che da lì si intravedevano. Non era raro che durante quei momenti facesse uso di quel dono che Achille aveva definito “occhio dell’aquila”. Gli tornava molto utile quando doveva scovare le sue vittime, fossero gli animali che cacciava o gli uomini che doveva assassinare.

«Non ti interessa il matrimonio?» osò chiederle dopo una pausa.

Lei chinò il capo, gesto che suggerì un leggero imbarazzo.

«Beh, non ho detto questo…» rispose un po’ titubante. «Ma sposare un perfetto sconosciuto non è esattamente la mia più grande ambizione, ecco tutto. So che fa parte della nostra tradizione, e in quanto figlia della Madre del Clan è opportuno che io trovi al più presto qualcuno con cui avere una famiglia, ma vorrei pensare anche alla mia felicità. Di sicuro non mi sentirei particolarmente a mio agio con un marito con cui condivido solamente il talamo, se capisci cosa intendo.»

«Credo di sì e... mi trovo d’accordo.» rispose lui, senza sapere bene cosa dire. Erano discorsi su cui anche lui si trovava sempre un po’ impacciato. Otsísto parve accorgersene e non perse l’occasione per rimpallare la questione.

«E tu, invece?»

«Io?» fece lui, schiarendosi la voce. Improvvisamente, si accorse di quanto fossero seduti vicini e per un momento l’istinto lo portò a voltarsi dall’altra parte.

«Sì, proprio tu, Ratonhnhaké:ton.» ridacchiò lei di fronte alla sua esitazione. «Non ce l’hai una compagna che aspetta il tuo ritorno alla terra di Davenport? O sulla tua – come si chiama – Aquila

Il giovane decise infine di non lasciarsi intimorire da quel tono furbesco e le rispose come aveva fatto altre volte, con franchezza: «Iah, sia alla tenuta che sulla nave ci sono solo amici. Avere una compagna significherebbe condividere ogni dettaglio delle nostre vite ed includerebbe la responsabilità di costruire una famiglia insieme; io fin qui ho avuto – e sto avendo – molto da fare per l’Ordine, e non so se sono pronto a dedicarmi a questo tipo di scelta.»

«Quindi non sei interessato al matrimonio…?»

Connor sollevò un angolo della bocca, aspettandosi quell’ironica ripresa della sua domanda; stavolta fu lui a non perdere l’occasione.

«Non ho detto questo.»

I loro sguardi si incrociarono e, anche se fu solo per pochi attimi, fu uno scambio intenso, indubbiamente portatore dell’intesa che si era creata tra di loro da quando avevano cominciato a parlare. Ormai era piuttosto chiaro: non avevano semplicemente conversato, si erano anche stuzzicati a vicenda. Connor non si poteva affatto definire un esperto di metodi di corteggiamento, ma si rese conto che erano arrivati a quel punto con naturalezza, semplicemente seguendo la strada tracciata dalla loro sintonia. Paradossalmente, sembrava che quella strada lo stesse conducendo proprio alla scelta che aveva appena dichiarato di non essere pronto a fare.

Fu un lieve rumore dietro di loro a rompere quell’atmosfera sospesa. L’assassino lo percepì e si voltò di scatto, facendo sobbalzare leggermente Otsísto.

«Che succede?» sussurrò lei, allarmata.

Lui strinse gli occhi e si alzò dal ceppo. «Ho sentito qualcosa.»

«Cioè?»

«Una sorta di lamento. Sembrava di un animale.»

«Okwáho. (*)» asserì lei sicura, alzandosi a sua volta. «L’altro giorno ho avvistato una femmina con i suoi cuccioli in questa zona. Deve aver trovato riparo in un antro qui dietro. Vieni con me.»

Fece il giro del ceppo e lo guidò nel fitto della foresta, in direzione di una grande roccia spaccata in due da una fenditura larga abbastanza per farci passare tre uomini in fila. Questa si allargava all’interno, diventando lo spiazzo di una piccola grotta. Sul terriccio umido, Connor rilevò subito delle orme vecchie di qualche giorno, accompagnate da scie di sangue rappreso.

«Oh, no...» mormorò Otsísto, davanti a lui.

Il giovane la raggiunse solo per assistere anch’egli al triste scenario di una lupa stesa su un fianco, agonizzante. Due dei suoi cinque cuccioli erano disperatamente aggrappati alle mammelle e stavano lottando per sopravvivere tanto quanto la madre. I tre rimanenti si erano arresi.

«È difficile che una lupa abbandoni il suo nascondiglio quando i suoi cuccioli sono ancora così piccoli.» Connor indicò le ferite sanguinanti e infettate sparse sul corpo dell’animale. «Un cacciatore – se così può essere definito – deve averla stanata e braccata, costringendola ad andarsene dalla sua tana precedente. Un bianco, a giudicare dalle ferite, quelle sono armi da fuoco.»

«Mi dispiace, piccola.» gemette la giovane chinandosi accanto alla bestia, la quale mosse debolmente la testa e ringhiò per avvertirla. Prima che Connor potesse fermarla, allungò una mano sulla pancia e la carezzò teneramente. Inaspettatamente, la lupa si calmò.

Otsísto si girò verso l’assassino, una domanda ben chiara negli occhi scuri, a cui lui rispose scuotendo la testa. Lei annuì rattristata e si fece da parte. Quindi, prese con sé gli unici due cuccioli vivi e lasciò che lui finisse con la sua lama celata il lavoro cominciato dal bracconiere.

«Iah tetsakoronhiá:ken. (*)» affermò la giovane quando tutto fu finito. Connor annuì, rialzandosi.

«Se avesse potuto parlare, ci avrebbe chiesto di salvare i suoi figli.» proseguì lei, affidandogli un cucciolo. «Dobbiamo portarli al villaggio.»

Lui esitò, guardando quella piccola palla di pelo ispido e brunastro che aveva tra le mani. Non poteva avere più di un paio di settimane. «Probabilmente sarebbe più pietoso uccidere anche loro, ora che sono senza madre.»

«Iah, non lo fare.» lo supplicò Otsísto. «Finché c’è speranza, la vita non deve essere tolta. È il più bel dono che ci è stato fatto e tutti meritiamo di usufruirne finché ne rimane anche un singolo frammento. Vieni, torniamo al villaggio.»

Mentre si incamminavano con i lupetti in braccio, Connor si ritrovò a riflettere a fondo sulle ultime parole della giovane.

Da una guaritrice si doveva aspettare la tendenza a preservare e seminare la vita, eppure era rimasto colpito dal suo rispetto per essa e per la natura, particolarmente evidente nel gesto di toccare la lupa e riuscire a calmarla. Lui non gioiva – e mai lo avrebbe fatto – nel togliere delle vite, ma si rese conto che il suo impiego negli anni lo aveva portato a pensare in modo forse troppo cinico. La tentazione di prendersi una pausa da tutto ciò che fin lì aveva visto e fatto fu molto forte, e non lo abbandonò nemmeno quando, quello stesso pomeriggio, scrisse la lettera indirizzata ad Aveline riguardo a Patience Gibbs. Con un sospiro, si ripeté per l’ennesima volta che non poteva ancora concedersene una vera e propria. Decise, comunque, che avrebbe passato ancora qualche settimana al villaggio, in modo da poter approfondire la sua relazione con Otsísto e capire se poteva davvero essere la persona giusta da cui fare ritorno una volta che fosse stato pronto.


 


 


 


 

ANGOLO DELL’AUTRICE

Un capitolo travagliato, frutto di parecchi ripensamenti – e comunque non ne sono ancora totalmente soddisfatta, ma spero che sia solamente un effetto collaterale derivato dall’averlo letto e riletto fino alla nausea. Confesso che non sono una persona particolarmente sentimentale, quindi ho cercato di evitare pensieri troppo melensi, però una cosa è certa, alle emozioni non sfugge nessuno, nemmeno il nostro imperturbabile Connor (che comunque, alla faccia dell’imperturbabilità, quando si arrabbia è meglio essere dall’altra parte del pianeta…!).

Spero di non deludervi annunciandovi che mancano solo un paio di capitoli per concludere la mia idea. In tutta sincerità, non me la sento di scendere troppo nei dettagli, perché descrivere per bene una cultura molto lontana e diversa dalla nostra non è per niente facile, anzi, a volte è parecchio stancante per chi, come me, è un inguaribile perfezionista. Allo stesso tempo, comunque, sono molto contenta di avere la possibilità di immergermi in un altro mondo tramite ricerche su Internet e per questo dovrei baciare i piedi a chi lo ha inventato.

Ora mi butto sul quarto capitolo, alla prossima!


 

(*) Note

- L’avevo già scritto nelle note del capitolo precedente ma repetita iuvant: il nome Ratonhnhaké:ton significa “egli ha una vita piena di graffi”, ecco perché Otsísto lo associa al fatto che non abbia avuto una vita facile


 

(*) Parole in Mohawk

Hen (pr. Han) = sì

Ó:nen ki' wáhi (pr. Ó-nan, ghí, wá-hi) = arrivederci

Iah (pr. come si legge) = no

Okwáho (pr. Og-wá-ho) = lupo

Iah tetsakoronhiá:ken (pr. Iah, te-za-ko-run-hiá-kan) = letteralmente: “(lei) non sta più soffrendo”. Più correttamente: “(lei) ha smesso di soffrire”.

  
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