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Autore: Arya Tata Montrose    28/02/2019    3 recensioni
Incontrare i genitori della propria metà non è sempre un'esperienza rose e fiori, e certamente non lo è nemmeno per Ochako e Katsuki.
Dal testo:
"Riaprì gli occhi d’improvviso, disturbato da un rumore del tutto estraneo a quell’atmosfera dai colori caldi ed ovattati. Qualcuno. Fu fulminea la realizzazione.
«Merda, i suoi»"
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katsuki Bakugou, Ochako Uraraka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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II
 
I genitori di Katsuki
 
 
 
 
 
L’odore di caffè si era fatto stradadalla cucina fino alla camera da letto in cui Ochako ancora riposava, svegliandola dolcemente e conducendola  fino alla sua fonte, dove Katsuki, ancora in pigiama, la aspettava con due tazze di caffè bollente.
 
Ochako, ancora ferma sulla porta, si prese un momento per osservare il ragazzo, poggiato sul bancone con l’imbarazzante pigiama invernale che gli aveva regalato l’anno prima – maglia di pile con ricamato un lama bianco e rosa e la scritta “Not my problama” – e in cui lei lo trovava assolutamente adorabile, oltre che bellissimo come sempre.
 
«’Giorno» fece, la voce ancora impastata dal sonno, quando lui sollevò gli occhi da terra per accoglierla.
 
«’Giorno» replicò il ragazzo. 
 
Si staccò dal bancone e recuperò una tazza fumante, mentre Ochako raggiungeva la sua e si sedeva sull’isola, incurante. Iniziò a sorseggiare il liquido scuro e amaro, lentamente, attendendo che il suo effetto miracoloso la trascinasse via dalle avide braccia di Morfeo e le permettesse di iniziare la giornata.
 
Mentre i suoi occhi si aprivano e la sua mente diventava più vigile, Ochako registrò segnali che le comunicavano un’anomalia nel comportamento di Bakugou quella mattina. Era perfettamente normale che fosse scontroso e taciturno, che la sua voce suonasse roca e oltremodo infastidita dall’esistenza del mondo al di fuori di lui, lei e quella tazza di caffè. Tuttavia, era oltremodo fuori da quella piccola sfera – di per sé fuori dallo standard – di normalità che lei e Bakugou avevano creato insieme il cipiglio più nervoso che infastidito, il leggero brontolio che udiva provenire dalla sua gola, come se vi fossero incastrate delle parole, ancora troppo congelate e che il caffè bollente non aveva ancora potuto sciogliere.
 
Prima che però Ochako potesse aprire bocca per chiedergli alcunché, Bakugou sputò quelle acuminate schegge di ghiaccio, che la buttarono giù con prepotenza dal dolce scivolo verso la veglia in cui la stava trascinando il caffè.
 
«La vecchia strega ci ha preteso a cena. Ci. Me e te.»
 
Ad Ochako per poco non andò di traverso il suo scivolo distrutto.
 
 
 
Quella sera c’era la neve, e appena al di fuori dell’aereoporto Ochako era stata investita da una folata di vento gelido. Si era scrollata, rabbrividendo al passaggio dell’aria sotto al suo piumino e all’incombente incontro che li aspettava. Katsuki aveva chiamato un taxi che avrebbe portato loro e le loro valige direttamente a casa dei suoi genitori, che avevano insistito poiché alloggiassero da loro piuttosto che in un hotel. Il ragazzo aveva provato ad obiettare – Ochako doveva dargliene atto – litigando per un’ora al telefono con la madre, ma questa era stata categorica e non c’era stato assolutamente nulla che potesse fare per scaricarle almeno parte della pressione psicologica che, Katsuki lo sapeva, quella stramaledetta cena aveva addossato ad Ochako.
 
Durante l’intero viaggio, Ochako era riuscita a calmarsi un po’, sedata da un mantra che rinnovellava in loop e che si ripeteva ogni volta prima di venire intervistata – di solito in qualità di amica stretta di Deku, era raro che, data la natura del suo lavoro, fosse quello ad attirare su di lei i riflettori – oltre che da un’intensa attività di masticazione delle labbra. Katsuki lo odiava, ma la calmava. Così come la presenza stessa del ragazzo, palesata dalla forte stretta che esercitava sulla sua mano, nel tentativo di trasmetterle una sicurezza che, stranamente, in quell’occasione mancava anche a lui. Katsuki era forse più agitato di Ochako all’idea di farle incontrare i suoi genitori, o meglio, sua madre, perché Masato era forse la persona più normale dell’intera famiglia. Temeva che, dopo aver incontrato la vecchia megera, qualcosa potesse scattare nella testa di Ochako e spingerla a lasciarlo e a non volerlo rivedere mai più. Era irrazionale, lo sapeva e lo odiava, e cercava di scacciare quella vocina con tutta la rabbia e la volontà che trovava nel suo corpo, ma quella, in un angolino persisteva con i suoi fottutissimi sì, ma.
 
 
 
L’autista si fermò davanti ad una graziosa villetta singola a due piani, circondata da un basso muro coperto della soffice neve che aveva appena ripreso a scendere, su cui capeggiava, luccicante alla luce dei lampioni, una targhetta di metallo che recava incisi i caratteri del nome “Bakugou”. I due scesero e percorsero il vialetto con un brivido in corpo, nessuno dei due sapeva se fosse per l’aria gelata che sferzava i loro visi, i fiocchi di neve che vi si depositavano o per la febbrile attesa che aumentava ad ogni passo che facevano verso la porta d’ingresso. Ochako si strinse al braccio di Bakugou.
 
«Sai, non credo di aver avuto così fifa nemmeno quando mi hanno buttata a calci nel vero mondo degli eroi» scherzò la ragazza.
 
Katsuki sollevò un sopracciglio: «Non avresti nemmeno dovuto. Il nostro primo anno è stato un grande assaggio del “mondo reale”.»
 
«Infatti! Ma almeno allora sapevo come comportarmi!»
 
«E ora non lo sai, Faccia Tonda?»
 
«Ma se non ne hai idea nemmeno tu!» ribatté lei.
 
«Fottiti»
 
Ochako gongolò vittoriosa. 
 
«Sei pronta?»
 
«No»
 
Katsuki sospirò e con tutta la flemma di cui poteva essere capace suonò il campanello della casa dei suoi genitori.
 
Immediatamente dopo, si udì un frastuono di pentole ed una voce acuta ad un volume troppo alto perché potesse appartenere a qualcuno differente dalla madre di Katsuki. Se non fosse bastato quello, Ochako fu certa di riconoscere la medesima nota che vibrava anche nella voce filtrata dal telefono cellulare, quando sentiva il suo ragazzo litigare con la donna.
 
«Non sono pronta per nulla» ripeté, facendosi forza inalando l’aria fredda della sera.
 
La porta si aprì, rivelando una donna che non sembrava affatto né una vecchia né, tantomeno, una megera. Alta e dai capelli biondo paglia, la pelle con giusto un accenno di rughe, la donna sembrava addirittura troppo giovane per essere la madre di chiunque al di sopra dei dieci anni.
 
«Katsuki!» urlò nuovamente la donna, in un tono che lasciava trasparire la gioia nel rivedere suo figlio. 
 
Ochako si rilassò un poco, con un sorriso che iniziava a nascerle sulle labbra. 
 
«Era ora, disgraziato!» riprese la donna. «Ti sembra che debba essere io a invitarvi a cena, per conoscere la povera anima che ha il coraggio di uscire con te?»
 
Come non detto, Ochako tornò a tendersi come una corda di violino mentre la donna li faceva accomodare e continuava a sbraitare verso Katsuki, che teneva un muso scontroso e lungo tanto quanto quello di un cavallo.
 
«Oh, ma che maleducata!» fece la donna, rivolgendosi ora a lei. «Non mi sono nemmeno presentata!» Le porse la mano. «Sono Mitsuki Bakugou, piacere di conoscerti. Tu devi essere…»
 
«Uraraka Ochako, signora. Piacere mio» Strinse la mano della donna con una decisione che, si disse, doveva avere tirato fuori dal cappello magico, ansiosa di dare una buona impressione di sé già con una pronta e solida stretta di mano, come suo padre le aveva sempre insegnato. Non che ci fosse da fare una gran “buona impressione”, perché a quanto pareva, chiunque avesse avuto il coraggio non solo di convivere, ma anche solo di avere una qualsivoglia relazione romantica con il figlio era già santificato in partenza. 
 
 
 
Mitsuki li condusse nella sala da pranzo, dove un uomo stava finendo di apparecchiare la tavola. Katsuki le presentò quindi suo padre, Masato Bakugou, che anche solo dall’apparenza era una persona molto più sobria, silenziosa e tranquilla della moglie e del figlio. Le diede un caldo benvenuto e, al contrario di Mitsuki, ad Ochako trasmetteva un senso di calma che quella sera nemmeno Katsuki era in grado di infonderle. Forse il fatto di avere un alleato in territorio nemico la tranquillizzava assai più che la fidata presenza del suo compagno, in una situazione dove lei era la pedina neutrale, appena approdata in un campo che non conosceva e in cui non sapeva assolutamente come muoversi. Masato, per come la vide Ochako, avrebbe rappresentato in quella cena una sorta di aiuto dall’alto in cui non avrebbe mai osato sperare.
 
«Accomodati pure, Uraraka-san» le disse Masato indicandole una sedia che aveva scostato appositamente per lei. Ochako si sedette, non senza imbarazzo – tanto che le sue guance divennero di un rosa ancora più scuro –, e Katsuki fece lo stesso accanto a lei.
 
«Dove credi di essere, signorino?» Urlò sua madre sbucando dalla cucina. «Non si usa più aiutare?»
 
«A cena come ospite, vecchia megera!» gridò il ragazzo di rimando, tuttavia alzandosi e dirigendosi verso la cucina. «Da quando si fanno lavorare gli ospiti, eh?»
 
Ochako lo osservò sparire oltre la soglia della sala, rivolgendo poi a Masato uno sguardo che doveva essere in bilico tra l’incredulo e lo sbigottito. 
 
L’uomo ridacchiò, grattandosi imbarazzato la nuca: «Fanno sempre così…»
 
«Lo immaginavo» fece lei, «ma rimane strano a vedersi»
 
Entrambi risero un poco, con l’atmosfera che sembrava distendersi almeno un poco. Masato era agitato almeno quanto lei: temeva che quella cena potesse risultare in un disastro e che, in qualche modo, potesse risultare nella ragazza che se ne scappava lontano. Era l’ultima cosa che l’uomo potesse volere: mai aveva visto suo figlio così felice e sereno come quando l’estate prima era rientrato a casa la mattina, dicendo che aveva passato la notte da un’amica del liceo; o come quando, quella sera stessa, aveva varcato la soglia in compagnia di quella stessa amica.
 
Katsuki tornò nella sala da pranzo carico di ciotole e piatti da portata pieni di cibo, seguito da sua madre leggermente meno carica. Posarono tutto in tavola e finalmente si sedettero anche loro.
 
«Buon appetito!» augurò la signora Bakugou, invitando poi Ochako a servirsi.
 
«Buon appetito!» si sentì rispondere la donna, in una cacofonia di toni differenti, che andavano dal nervoso, al borbottio, al calmo e placido.
 
Mitsuki non perse tempo e, prima che Ochako potesse prendere il primo boccone, l’aveva già colta alla sprovvista con una domanda. 
 
«Allora, Ochako,» iniziò, gesticolando nella sua direzione con la forchetta. Masato notò che era saltata direttamente al nome. «Visto che quel deficiente di mio figlio non mi ha detto poi molto, su di te o su di voi, ti va di raccontarmi come vi siete conosciuti?»
 
«Ehm… ci conosciamo dai tempi della scuola. Eravamo compagni di classe.» rispose la ragazza, infilandosi in bocca del riso. Udì stranita i sospiri di sollievo di Bakugou e di suoi padre: almeno ha lasciato che finisse di parlare.
 
«Oh, no cara. Intendevo come vi siete ritrovati. Con che forza di volontà non hai cambiato strada!» rise la donna.
 
Ochako fissò la signora Bakugou per qualche secondo, un pochino confusa. Sapeva che il soggetto fosse Katsuki e, fosse stato chiunque altro, una tale affermazione non l’avrebbe sorpresa. Ma da sua madre si aspettava… un po’ più di fiducia? Non lo sapeva nemmeno lei. 
 
Katsuki si mise una mano in fronte, mentre l’espressione di Masato assumeva una leggera nota di sconforto. Mitsuki non sarebbe mai cambiata e non sapeva se considerarlo un bene o meno. Scelse la prima, tornando a guardare Ochako con occhi gentili. 
 
«Come vi siete ritrovati, dopo tutto questo tempo?» chiese in tono pacato.
 
Ochako sembrò calmarsi e raccontò brevemente l’incontro del tutto casuale all’Hanami dell’anno prima e della pioggia torrenziale che li aveva sorpresi e costretti alla fuga verso la casa più vicina, la sua.
 
Mitsuki si voltò di scatto verso suo figlio. «E tu hai aspettato un anno e mezzo per presentarcela?» chiese indignata.
 
«Avrei aspettato anche di più, se avessi potuto, vecchia racchia! Col cazzo che l’avrei portata volontariamente qui a farla passare sotto il tuo fottuto “scanner” se non mi avessi obbligato.» sbraitò il ragazzo. Implicitamente, la stava accusando di far scappare Ochako, e lui ne aveva una paura matta. L’ultima cosa che voleva era che lei se ne andasse senza più volerlo rivedere, troppo spaventata da quella pazza di sua madre.
 
«Ma taci! Se non è scappata dopo il primo giorno sotto il tuo stesso tetto…» ribatté la donna.
 
«Dal tuo tetto ci sono scappato io!»
 
«Come osi, piccolo delinquente!»
 
Katsuki guardò l’espressione di Ochako, un misto di sorpresa e imbarazzo per essere finita in mezzo ad una lite famigliare. Non le avrebbe certo dato colpa se non avesse più voluto vederlo, perché si rendeva conto che avere a che fare con lui significava avere a che fare non solo con lui stesso, i suoi demoni e il suo carattere tutt’altro che facile, ma anche con sua madre, che sembrava volerlo sabotare in ogni modo e da cui lui stesso aveva preso l’atteggiamento. Grugnì e tornò a guardare nel suo piatto, mentre sua madre riprendeva come se niente fosse a rimproverarlo e a vessare la povera Ochako di domande. Ascoltava attentamente, pur evitando di sollevare lo sguardo. Principalmente, si trattava di domande riguardo gusti e interessi, sul lavoro, la famiglia e sui loro amici, nel tentativo di capire che tipo di persona fosse “quella poveretta che ti sopporta”. Suo padre tentava di mediare con qualche battuta, ma a poco serviva.
 
Ochako rispondeva un po’ imbarazzata, a voce più bassa del solito, ma si sforzava di sorridere e cercava in ogni modo di fare una buona impressione. Ad un tratto, da sotto il tavolo gli prese la mano, e lui dovette resistere per alzare la testa di scatto, eseguendo il movimento nella maniera più fluida e naturale possibile.
 
Aveva un sorriso un po’ tirato, ma le vedeva negli occhi la determinazione così tipica di lei nel riuscire al meglio, e sentiva la sua piccola mano stringere il suo polso. Non sapeva se per far forza a sé stessa o se per rassicurare lui. In ogni caso, sembrava avere effetto in entrambe le direzioni – e le era grato, perché quella stretta sembrava voler dire “non ho alcuna intenzione di mollarti”. Abbozzò un mezzo sorriso anche lui, e rimase in silenzio per il resto della cena.
 
 
 
Quando si alzarono, Ochako insistette a dare una mano a sparecchiare. 
 
Mitsuki dapprima la osservò con un cipiglio che pareva offeso, e Masaru si chiese quanto la ragazza ci avrebbe messo a crollare e a seguire le direttive della moglie, sedendosi sul divano senza fare nulla.
 
Ochako però resse lo sguardo della donna per dei secondi che a Katsuki e suo padre parvero infiniti. Si fermarono nel mezzo della stanza con le stoviglie sporche ancora in mano, in attesa febbrile del destino di Ochako.
 
Mitsuki scoppiò in una fragorosa risata, così improvvisa che per poco al marito non cadde di mano la pila di ciotole. Katsuki invece dovette sforzarsi per non rimanere a bocca aperta. Certo, quella era decisamente una reazione da Mitsuki, ma non si aspettavano che la risata durasse così tanto. O che mettesse una mano sulla schiena di Ochako e complimentandosi per la determinazione la conducesse in cucina.
 
«Katsuki, te lo devo chiedere. Non è che per caso il suo è un quirk d’incanto?» Masaru osservò suo figlio, con un’espressione tra il serio e quella stupida smorfia che faceva quando proponeva una delle sue battute idiote e poco divertenti.
 
«No, fa solo fluttuare cose.»
 
«Oh.» L’uomo sembrò deluso dalla risposta. «Non ho mai visto tua madre fare così. Mai.»
 
Katsuki raccolse i bicchieri. «E con questo? Quella donna è pazza.»
 
Masaru si concesse un sorriso benevolo nei confronti del figlio. Posò le ciotole che ancora – miracolosamente – aveva in mano, e gli scompigliò i capelli in una carezza piuttosto goffa. «Credo che le piaccia»
 
In quel momento, Katsuki sentì solo un grosso peso scivolare giù dal suo petto, come se il mondo avesse improvvisamente smesso di calpestarlo, e quella mano tra i suoi capelli non gli diede fastidio come al solito. Rimase così per un attimo, con i bicchieri in mano e il viso come muto, prima di scrollare la testa e allontanare il padre.
 
«Come dici tu!», borbottò, e si affrettò a portare i bicchieri in cucina.
 
 
 
«Allora, ragazzi, che ne dite di un caffè?» Masato giunse i polpastrelli assieme con un sorriso. Per lui, un bel caffè era la conclusione perfetta per quella cena. Certo, forse avrebbe raccomandato una camomilla a moglie e figlio, ma preferì evitare nuove discussioni. Era per il bene delle sue orecchie e di quelle di Uraraka. E del vicinato.
 
«Sì, grazie, volentieri.»
 
«Sì, tesoro!»
 
L’ultimo fu un borbottio, ma Masato lo interpretò come assenso. Mentre la macchinetta ronzava, sentiva Mitsuki parlare ancora, descrivendo qualche diavoleria di Katsuki quando era ancora piccolo. Ricordava bene la prima volta che erano finiti al pronto soccorso perché lui si era scottato. Solo al ritorno a casa, la mattina dopo, si erano accorti della necessità di chiamare anche un bravo muratore, perché Katsuki aveva fatto un buco nel muro.
 
«E per fortuna che non era portante!» rise Mitsuki, mentre il figlio sbraitava insulti e le diceva di smettere. 
 
Masato rimase per un attimo con il fiato sospeso, fino a quando non udì Ochako ridere. Meno male, si disse. Gli piaceva quella ragazza, Katsuki aveva davvero fatto un’ottima scelta ed era contento che ci fosse una persona come lei accanto al suo ragazzo. Turbolento e difficile, ma pur sempre il suo amatissimo figlio. Né lui né Mitsuki avrebbero mai permesso che chiunque– qualche malintenzionata dalla sorprendente resistenza psicologica, aveva spesso ventilato Mitsuki, paranoica – entrasse così profondamente nella vita di Katsuki, con il rischio di ferirlo. Perché Katsuki era forte, era un grande eroe con dei poteri ed una resistenza straordinari, ma sapevano quanto per lui fosse problematico il fronte emotivo, e avevano visto in prima persona gli effetti di relazioni disastrose sul suo di per sé pessimo carattere. L’avevano reso ancora più chiuso, se questo era possibile, facendogli tutt’altro che bene. Uraraka Ochako, d’altro canto, sembrava davvero un toccasana per Katsuki. Lo vedeva felice, e di questo le era grato.
 
Servì il caffè, mentre ancora Katsuki si lamentava e sorrise sedendosi insieme a loro e unendosi al racconto. Ora, Mitsuki stava raccontando di altre volte i cui Katsuki aveva distrutto cose, principalmente muri e mobilio.
 
«Se ci fossimo conosciuti prima, magari mio padre avrebbe potuto fare qualcosa per i muri» rise la ragazza.
 
«Sì, sarebbe stato provvidenziale!»
 
«Grazie ma anche no, vecchia. Ora, credo sia ora di andare. Nevica e ho intenzione di svegliarmi presto domattina.» Katsuki si era come sentito fulminare all’idea che i suoi genitori e quelli di Ochako potessero conoscersi. Sarebbe stata una disgrazia, soprattutto considerata la mattina dopo al famoso hanamiin cui si erano così fortuitamente ritrovati. Raggelò.
 
«Beh, mi pare una ragione in più perché restiate a dormire qui, piccolo idiota di un figlio. E sì che sei così intelligente…»
 
«Scordatelo, vecchia!» replicò il ragazzo.
 
Masaru alzò un dito, come per intervenire, ma non trovò nessuna argomentazione che potesse aiutare nessuno dei due. Comprendeva entrambi i lati, e onestamente non aveva idea di come uscire da quella situazione. Cosa più unica che rara, a dire il vero.
 
Ochako intervenne in suo aiuto. «Ma no, signora, si-»
 
«Ti ho già detto di non chiamarmi signora, avanti!»
 
«Uh, sì, ecco. Mitsuki, non si disturbi. E poi abbiamo già prenotato in un albergo, quindi sarebbe davvero superfluo.»
 
La donna continuava a sembrare ben poco convinta. 
 
«Ma sì, tesoro. Sarà per la prossima volta. Magari avvisandoli prima, così che non prenotino altrove. Immagino le vostre valigie siano già là.»
 
Ochako annuì.
 
«Esatto, vecchio. Quindi, bella cena, ma dovremmo andare. Ho già chiamato il taxi.» Bakugou fu un po’ meno gentile. Si sentiva che non vedeva l’ora di fuggire prima che sua madre macchinasse altre trappole o che raccontasse altro alla sua ragazza.
 
«Uff, e va bene. Ma copritevi! E non credere che sia l’ultima volta che la vediamo, mi hai capito, piccolo delinquente?»
 
«Come vuoi, vecchia megera!» e, già sommersi in sciarpe e piumoni, Ochako fece in tempo a salutare e ringraziare per la cena, prima di chiudersi la porta alle spalle e incamminarsi con Katsuki lungo il vialetto.
 
«Non l’hai ancora chiamato, il taxi, vero?» chiese Ochako, un sorriso che già nasceva sulle sue labbra. Alla fine, quella cena non era stata poi così spaventosa. Non del tutto, almeno.
 
«No» fu la risposta, un borbottio mascherato dalla sciarpa e rivelato dalla nuvoletta di condensa.
 
Ochako gli si strinse al braccio e rise, leggera. «Scemo!»
 
Lui si abbassò di un poco, abbassando la sciarpa che le copriva l’orecchio con il mento. Ochako sentì il suo fiato scaldarle la pelle e la sua voce sommessa scaldarle il cuore. 
 
«Ti amo» Cazzo se ti amo, stronza che fa fluttuare le cose.
 
No, decisamente quella serata non era andata poi così male.

 

Note finali:

Eccomi qui, come promesso, con il secondo capitolo! (Settimana prossima un paio di palle, ma vbb, oramai mi conoscete)
Spero che anche questo possa piacervi e di essere rimasta IC, soprattutto con Katsuki. Non immaginate la fatica per scrivere certe scene, io, che sono incapace di scrivere con più di tre personaggi! Mi sono impegnata e sono uscita un po' dalla mia zona di comfort, e onestamente il risultato mi piace.

E, come sempre, si ringrazia NanaLuna per il betaggio e il supporto :3

A presto,
Tata


 
   
 
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