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Autore: Vago    28/02/2019    2 recensioni
Vorrei riassumere qui la trama, se solo ce ne fosse una sufficientemente corposa da poter essere riassunta.
Volevo descrivere qualcosa, volevo prendere una pausa dai lavori più impegnativi che mi hanno riempito gli ultimi mesi, se non anni, ed è nato questo.
Un racconto in prima persona presumibilmente in quattro atti, vedremo se come ognuno dei miei lavori si trasformerà in una storia dai cinquanta capitoli.
Che cosa vuole essere?
Un racconto immersivo, fatto perchè voi, leggendolo, possiate percepire ciò che descrivo. In quel caso potrò dire di aver raggiunto il mio scopo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È un turbine di gocce di pioggia, quello che mi avvolge?
Sento freddo, lo sento sotto la pelle, nelle fibre muscolari, dentro alle ossa fino al midollo.
I vestiti ormai lerci d’acqua sono incollati al mio corpo, pesanti come un’ancora ostinatamente incollata al fondale.
La pioggia ancora mi scroscia addosso, sfruttando le mie forme per raggiungere quel tetto in cemento più in fretta, folate di vento, sempre più spesso, però, mi sbattono contro, mi riempiono le narici e la bocca di quelle gocce che continuano incessantemente a cadere dal cielo oscuro.
I bagliori della civiltà a stento si possono riconoscere attorno a questo balcone sul mondo su cui sono stato portato.
Dovrei voltarmi, almeno per controllare cosa ne è stato della guida che mi ha condotto fin qui, ma, ancora una volta, il mio corpo pare aver una propria coscienza che si contrappone alla mia, avendone la meglio.
Onde gelide si formano sul tessuto dei miei vestiti increspati, come vele che si gonfiano sotto la prezza e risalgono il mio corpo.
Improvvisamente la punta dei miei piedi ricade mollemente verso il basso, senza più nessun appoggio a cui assicurarsi.
Dovrei urlare, ma il vento mi riempie la gola non appena le mie labbra tentano di aprirsi.
La pozzanghera che si era creata sotto di me è sempre più lontana, talmente scura da non poter nemmeno mostrare la mia terrorizzata immagine riflessa che va rimpicciolendosi verso le nubi.
Le luci offuscate dalla nebbia di gocce d’acqua si fa sempre più importante, avvolgendo prima il quadrato cinto da bassi muri di sicurezza del balcone e mostrando vagamente dove c’è civiltà e dove questa finisce, in lontananza.
Salgo quasi in linea retta verso il cielo, la maglia che mi copre il petto si gonfia ritmicamente, risalendo fin quasi ad arricciarsi all’altezza del mento, ogni volta che una folata trova uno spiraglio attraverso il quale entrare per frapporsi tra il tessuto e la mia pelle.
Le mie gambe penzolano sul vuoto reso indistinto dal grigiume che ammanta tutto, oscillando appena nel vortice che mi ha abbracciato.
Le raffiche si fanno più intense, strisciandomi addosso sempre più sovente.
I miei arti non riescono più a stare fermi nella posizione in cui li avevo lasciati. Le mani, per quanto provi a tenerle accanto al mio torso, continuano a impattare ed allontanarsi dalla maglia zuppa. Le ginocchia che mi paiono così lontane scalciano in ogni direzione, trascinandosi dietro tutto ciò che le sta sotto.
Sono in balia di quel temporale che mi ha rapito.
I capelli si sono liberati delle gocce che li tenevano fermi sulla mia fronte, unendosi al turbine che li circonda, scontrandosi e allontanandosi in una continua danza.
Il balcone dal quale mi sono levato non è più distinguibile nella bruma illuminata da centinaia di lampioni invisibili ai miei occhi.
Non saprei dire quanto sono arrivato in alto, ma, forse, è meglio non conoscere questa informazione.
Un lampo illumina il cielo davanti a me, in lontananza.
Pochi secondi e un tuono mi scuote le viscere, facendomi torcere lo stomaco con il suo rimbombo.
Una folata più forte delle precedenti mi risale le gambe e il torace, fino a toccarmi il limite della fronte.
Posso avvertire chiaramente il mio sangue venir risucchiato verso il basso dall’improvvisa spinta che ho ricevuto, per poi fermarsi non appena questa si spegne.
Mi pare eterno il tempo in cui non sento nulla attorno o su di me.
Sono sospeso nella nebbia, senza nulla sotto i piedi e senza punti di riferimento se non il baluginio giallastro che mi promette qualcosa di molto lontano sotto le mie suole.
Il sangue mi invade quindi la testa, non appena il mio corpo, privato del sostegno del vento che fino ad allora mi aveva cullato, comincia a precipitare.
Le mie membra volteggiano incontrollate, il sotto e il sopra perdono ben presto un senso, mentre la maglia e i pantaloni continuano ad accartocciarsi e  distendersi.
La pioggia mi cade appena addosso, quasi come se, seguendo l’esempio della brezza, avesse deciso di ignorarmi.
La coltre grigia ancora mi cela ciò che le sta sotto, impedendomi di capire, anche in quegli ultimi momenti, quanto tempo ancora sentirò l’aria che impatta sul mio corpo in caduta libera.
Provo ad inspirare profondamente con il naso l’aria gelida che mi circonda, cercando di calmare il mio cuore impazzito.
È già successo.
Non so cosa stia accadendo ora, ma ho già visto tutto.
Andiamo al prossimo, non posso far altro che rassegnarmi all’impotenza a cui il mondo mi sta mettendo di fronte.
Allargo le braccia e le gambe, cercando disperatamente di stabilizzare quelli che dovrebbero essere gli ultimi metri della mia caduta vertiginosa.
L’aria mi impatta sul ventre e sul viso, non abbastanza solida per rallentarmi o fermarmi.
Finalmente tra il bagliore soffuso si ricomincia a riconoscere la forma del balcone da cui sono partito, sempre più definito, sempre più vicino.
Chiudo le palpebre, aspettando che l’universo si muovesse per me.
Non sento nulla.
Non sento il mio corpo impattare sul cemento bagnato.
Non sento le mie ossa spezzarsi.
Non sento il mio sangue mescolarsi all’acqua delle pozzanghere.
Non sento nulla.
Sento freddo, però.
Apro lentamente le palpebre, intimorito.
Un materasso morbido mi supporta la schiena madida di sudore, cinta da un pigiama che appena ricorda cosa volesse dire essere asciutto.
Mi metto a sedere nella quasi completa oscurità della mia camera.
Il cuore ancora mi batte forsennatamente nel petto.
Lascio che il palmo della mia mano mi percorra i lineamenti del volto, liberandolo dalle gocce di sudore che ancora lo imperlano.
Provo a respirare profondamente, ma ancora i miei polmoni si rifiutano di riempirsi interamente.
Rimango per un po’ seduto immobile, rigido, con il sedere ben premuto sul materasso impregnato.
I miei occhi si perdono nell’oscurità davanti a me.
Insicuri su cosa andare a cercare.
Il mio cuore comincia a rallentare.
Il mio respiro torna a regolarizzarsi.
Il braccio su cui mi sto puntellando smette di tremare.
Gli ultimi postumi del sonno evaporano dal mio cervello, facendolo tornare al suo stato normale.
Ho bisogno di una doccia, ora.









Angolo dell'autore:

Sarò breve, lo giuro.
Spero di avervi intrattenuto, almeno un po'.
So che non è un capolavoro, ma per averlo partorito in mesi concitati in cui non ero al meglio della mia forma fisica e mentale sono abbastanza soddisfatto del risultato.
In ogni caso, grazie per essere passati, grazie per avermi letto, grazie di tutto.
Ora vi lascio, sperando di potervi rivedere, da qualche parte.
Vago
   
 
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