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Autore: Kim WinterNight    01/03/2019    5 recensioni
Painkiller: antidolorifico.
Di questo avrebbe bisogno Cosimo, un ragazzo di appena trent'anni costretto a sopportare un'esistenza dolorosa e difficile.
Va avanti senza alcuna pretesa, se non quella di riuscire a ignorare la sofferenza che la sua situazione famigliare gli provoca.
Non nutre alcuna speranza per il suo futuro, è convinto che la sua situazione non potrà mai cambiare e che il suo destino sia stato già scritto e deciso.
Riuscirà l'incontro con Enea a fargli cambiare idea?
Tre capitoli per raccontare una storia in apparenza semplice, che trova le sue radici e la sua ispirazione nella crudele realtà di tutti i giorni.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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I
 
 
 
 
Scesi dall'auto con l'intento di recarmi subito al mercatino. Quel giorno volevo assolutamente comprare delle piante e almeno un libro. Ero ispirato, volevo qualcosa di nuovo che mi soddisfacesse e mi aiutasse a dimenticare il litigio che era avvenuto poco prima a casa mia.
Quel mostro immondo di mio padre non aveva fatto che gridare fin dalle prime ore dell'alba, facendomi sentire una merda come soltanto lui era in grado di fare. Era stato orribile soprattutto sentirlo ribadire che ero un fallito perché non avevo ancora messo incinta una femmina fertile.
Mi ero limitato a mandarlo al diavolo e mi ero precipitato in macchina, deciso ad andarmene di lì e a dedicarmi a uno dei miei adorati mercatini.
Cominciai a gironzolare, facendo lo slalom tra persone e bancarelle che non destavano il mio interesse.
Mi venne quasi da ridere nel ripensare al mostro che mi aveva messo al mondo. Se solo avesse saputo che le femmine fertili di cui parlava non mi interessavano più di tanto, se solo avesse saputo che preferivo gli uomini maturi e rassicuranti... ah, avrebbe dato di matto, quel folle!
Ero in cerca di un bel banco di piante rare e bellissime, quando notai una bancarella stracolma di cianfrusaglie. Non mi ci sarei mai soffermato, se dietro di esso non ci fosse stato un signore che straparlava con un sacco di clienti, quasi tutte donne e completamente catturare dalle sue ceramiche, dagli orologi da parete e da un sacco di altre chincaglierie.
Rimasi impalato a osservarlo, pur mantenendo una certa discrezione, con il risultato di ricevere imprecazioni e spintoni dalle persone a cui stavo intralciando il cammino.
Era bellissimo. Doveva avere almeno sessant'anni, portava i capelli brizzolati corti e teneva gli occhi marroni e vispi a scandagliare i vari avventori che si assiepavano attorno al suo banco.
Come preso da un istinto incontrollabile, mi accostai a mia volta e presi a osservare con poco interesse la merce esposta, lanciando continue e brevi occhiate al venditore che aveva destato il mio interesse.
«Quanto costa questa ciotola? Che bella!» strillò una signora, la sua voce acuta mi penetrò nelle orecchie, scombussolandomi.
«Venticinque» rispose lui gentilmente. Il suo timbro era caldo e non troppo profondo, mi fece rabbrividire e costrinse i miei occhi a posarsi ancora una volta su quel viso particolare e attraente.
«Me lo fa lo sconto?» gracchiò ancora la vecchietta, sistemandosi meglio il fazzoletto sulla testa.
«È un pezzo unico, ne approfitti, altrimenti lo compro io» intervenne una donna poco più giovane, esaminando attentamente la ciotola color tortora che ai miei occhi non aveva proprio niente di unico.
«La voglio io, giù le mani, maleducata!» si rivoltò la più anziana, stringendo l'oggetto sotto il braccio e portando fuori una banconota da venti euro. «Prendi questi» aggiunse.
«Ho detto venticinque, signora» le fece notare il venditore.
«Arrivederci!» La donna girò i tacchi e se ne andò in fretta, zoppicando leggermente.
Io rimasi basito. «La gente non ha più pudore» mi ritrovai a commentare senza accorgermene.
L'uomo dietro il banco spostò lo sguardo su di me e mi fissò per qualche istante. «Non importa, lasciamola perdere» ammiccò, mentre sul suo volto maturo si allargava un dolce sorriso.
Strinsi tra le dita le chiavi della macchina. Era difficile non osservarlo per me, ero caduto vittima di un colpo di fulmine capace di stordirmi e mandarmi in tilt.
Qualche altro cliente fece un acquisto, qualcun altro osservò gli oggetti e chiese informazioni sui prezzi, e nel frattempo io rimasi lì a godermi la compagnia di quello sconosciuto e a sorridere ogni tanto per il modo bizzarro e singolare con cui si rivolgeva agli avventori e con cui scherzava apertamente.
Io ero decisamente più timido di lui, non sarei mai stato capace di comportarmi in quel modo. Forse era proprio questo il motivo che mi dissuadeva dal portare i prodotti che coltivavo e producevo al mercato, sicuramente sarei stato incapace di attirare la clientela e di pormi nel modo giusto. Era un mestiere che richiedeva molta pazienza, ma anche un carattere solare, allegro e socievole.
Dopo un po' mi decisi ad andarmene, non era certo utile che io rimanessi lì impalato a fissare un uomo che aveva almeno trent'anni in più di me e che era decisamente fuori dalla mia portata.
Chinai il capo e mi voltai, pronto per cercare le mie piante e il mio libro.
Per tutto il tempo non feci che pensare a lui, era come se camminassi a un metro da terra. Poche volte in vita mia avevo sperimentato sensazioni del genere, non avevo la minima idea di come gestirle.
 
 
Cominciai a seguirlo in diversi mercatini, nonostante la sua merce risultasse piuttosto inutile e scadente ai miei occhi.
Un giorno faceva freddo e io mi ero coperto per bene, mettendo addosso la mia fidata sciarpa fucsia e avevo messo ai piedi i miei scarponcini preferiti. Mi ero perfino guardato allo specchio prima di uscire, tentando di dare un senso ai miei capelli un poco scombinati.
Lo trovai che contrattava per il prezzo di un orribile orologio da parete in ferro battuto, parlando animatamente con una donna di cinquant'anni che sembrava molto perplessa riguardo al valore dell'oggetto in questione.
Avevo pensato molto a un espediente per intavolare uno straccio di conversazione con lui, e avevo deciso che avrei finto interesse per uno dei suoi centrotavola in ceramica, affermando di dover comprare un regalo per mia madre. Forse ce l'avrei fatto, forse un poco avrebbe parlato con me.
Lasciai che finisse la sua vendita, godendomi il momento in cui convinse la tizia a sganciare ben ottanta euro per un orologio che forse ne valeva dieci. Era un bravo affarista, sapeva come comportarsi con le persone e per questo lo ammiravo.
Infine presi coraggio e mi piazzai proprio di fronte al banco, fingendo di esaminare con lo sguardo la merce. «Salve» lo salutai timidamente, tenendo le mani affondate nelle tasche del cappotto.
«Ciao. Come posso aiutarti?» replicò, dedicandomi la sua completa attenzione.
Non ebbi il coraggio di guardarlo, stavo letteralmente andando a fuoco e avevo paura che lui potesse scorgere il rossore sul mio viso. «Dovrei fare un regalo a mia madre» buttai lì. «Può aiutarmi?» aggiunsi.
«Certo! Ti piace qualcosa in particolare? Altrimenti ho degli altri articoli sul furgone.» La sua voce mi confortava, nascondeva una nota di dolcezza che mi scaldava il cuore.
Erano poche le cose capaci di scaldarmi il cuore, la mia vita era permeata da ben poco amore. Mio padre era un mostro e mia madre si interessava poco a me, capitava solo ogni tanto che mi facesse qualche regalo o che fosse d'accordo con me a riguardo di suo marito. La mia famiglia non esisteva più da tempo, probabilmente non era mai esistita, e io ero cresciuto in un ambiente insopportabile, costretto a lavorare come uno schiavo e incapace di ribellarmi. Del resto, dove sarei potuto andare? Cosa avrei potuto fare?
«Fa lo stesso, mi proponga qualcosa lei» gli comunicai, sbirciando nella sua direzione con la coda dell'occhio.
La sua mano afferrò una ciotola ovale, color sabbia, che recava un decoro color oro sui bordi. Non era male, ma certamente non l'avrei acquistata per me, se avessi potuto scegliere.
«Che te ne pare di questa? Ti faccio trenta.»
«Vorrei spendere meno, è solo un piccolo pensiero» gli dissi, alzando il capo e guardandolo in faccia.
Volevo cercare di capire se stesse provando a imbrogliarmi come aveva fatto con la signora di poco prima, ma tutte le mie buone intenzioni andarono a farsi benedire quando incrociai i suoi occhi color nocciola, caldi e profondi, fissi su di me. Certamente mi stavo illudendo, ma era come se mi stesse esaminando, forse per farsi un'idea di che tipo di cliente fossi.
«Com'è che ti chiami?» domandò d'improvviso. «Ti vedo spesso ai mercati.»
Il cuore mi sprofondò nel petto e mi sentii avvampare ancora di più. Mi sottrassi al suo sguardo penetrante e tornai a fissare le ciotole sul banco senza realmente vederle. «Cosimo» mormorai.
«Io sono Enea» si presentò in tono allegro. «Allora, Cosimo, cosa vuoi regalare a tua madre? Se vuoi spendere meno, ti posso proporre questa. Venti euro e te la cavi, fai pure una bella figura per via di questa placchetta in argento» blaterò, mostrandomi un altro centrotavola. Stavolta era di vetro colorato, dalla forma irregolare e portava una piccola placca in argento a forma di fiore applicata sul bordo.
Avrei comprato qualunque cosa, pur di sentirlo ancora pronunciare il mio nome. Ero rimasto incantato dal modo in cui la parola prendeva forma e si srotolava tra le sue labbra, prendendo una cadenza particolare per via dell'accento romagnolo che contraddistingueva la parlata dell'uomo.
«Mi va bene» accettai senza pensarci troppo, del resto non mi importava più di tanto di ciò che stavo acquistato. Lo avrei consegnato a mia madre e forse lei sarebbe stata felice.
«Bene.» Enea si chinò sotto il banco per recuperare una busta di carta, poi mi fissò e parve riflettere un attimo. «Non posso farti il pacco regalo, ci pensi tu?»
Annuii e feci un cenno noncurante con la mano. «Si figuri» farfugliai, cominciando a cercare i soldi all'interno del portafoglio.
L'uomo infilò il centrotavola dentro la busta e me la porse, tenendola per i manici. La afferrai e nel farlo sfiorai per un attimo la sua mano, sentendola incredibilmente liscia e morbida.
Un brivido mi investì senza che potessi controllarlo, così mi affrettai a salutare Enea e a lasciare il suo banco. Ero totalmente preda del mio stesso imbarazzo, non riuscivo più a stare fermo lì e a farmi penetrare dai suoi occhi.
Per quel giorno avevo dato abbastanza.
 
 
Stavo dando da mangiare ai gatti quando l'orco arrivò al mio cospetto. Era in compagnia di uno dei suoi amici e stava portando fuori oscenità irripetibili.
«Guarda questa merda, guarda! Non ha nemmeno mai scopato con una femmina, che schifo! Non ti vergogni?» mi si rivolse, battendo il piede per terra con rabbia.
Il suo accompagnatore se la rideva, era immensamente stupido e insignificante. Mi facevano pena, erano totalmente senza cuore e non avevano neanche un briciolo di cervello.
«Che fallito... che fallito! E adesso, merda, vai a prendermi da bere e da mangiare. E anche per il mio amico. Due caffè e del pane farcito. Vai! Che cazzo aspetti?» sbraitava, guardandomi con odio e disprezzo.
Io chinai il capo. Non ne potevo più di sentirlo gridare, perciò era meglio andare a fare ciò che stava dicendo, altrimenti non avrei avuto tregua per il resto della giornata. Lasciai una piccola carezza sulla testa della gatta più grande, poi mi misi in piedi e, senza fiatare, mi diressi verso casa.
Ancora le grida animalesche di quei due rimbombavano nelle mie orecchie, procurandomi un acuto senso di nausea. Ero circondato da dinosauri, gente con il cervello fossilizzato fin dalla nascita, come potevo sperare che esistesse un uomo diverso? Come potevo illudermi che il venditore di ceramiche fosse diverso dal mostro che mi maltrattava e dai suoi amici stupidi?
Forse quando era al mercato a vendere si comportava bene con i clienti per preservare la sua reputazione, per mantenere la clientela; ma probabilmente anche lui era cattivo e insensibile con la sua famiglia, di sicuro aveva una moglie e dei figli che lo detestavano proprio come io odiavo la bestia che mi dava del fallito e mi denigrava di fronte alla feccia della società.
Avrei tanto voluto sputare nei loro caffè e metterci del veleno per topi, ma mi limitai a fare il mio lavoro e sperai che quella tortura finisse il prima possibile. Avevo un sacco da fare già per i fatti miei, non avevo alcuna voglia di stare appresso anche a quei due.
La mia unica speranza risiedeva nel pensiero che il giorno seguente avrei rivisto Enea; il solo posare gli occhi su di lui e sentirlo blaterare con i clienti mi bastava per essere un po' meno depresso e triste.
 
 
«A tua madre è piaciuto il regalo?»
Quella domanda giunse inaspettata e mi schiaffeggiò bruscamente, strappandomi all'anonimato in cui credevo di essermi immerso. Mi ero fermato a qualche metro dal banco di Enea e armeggiavo con il cellulare, scrivendo a delle amiche. Ero certo che lui non mi avrebbe notato, eppure fui costretto a ricredermi quando la sua voce raggiunse le mie orecchie.
Sollevai cautamente il capo e incrociai i suoi occhi caldi. «Ah... sì, sì, molto...» farfugliai, stringendo un po' di più le dita attorno allo smartphone.
«Non mi sembri molto convinto» proseguì Enea, sorridendomi apertamente.
«No, davvero. Le è piaciuto» ripetei, sperando di convincerlo e di non offenderlo. Non volevo dargli l'impressione di star mentendo, anche se in verità la reazione di mia madre non era stata particolarmente entusiasta quando le avevo consegnato il centrotavola.
«Meglio così.» Enea continuò a guardarmi. «Ragazzo, che hai?»
Sgranai gli occhi e non seppi cosa rispondere. Non avevo idea a cosa si stesse riferendo.
«Hai una faccia da funerale» spiegò l'uomo, facendomi cenno di accostarmi al suo banco.
Senza riflettere, feci qualche passo verso di lui e mi fermai solo quando fui abbastanza vicino da poterlo osservare in tutto il suo splendore. Non capivo perché stesse parlando con me e come mai gli importasse tanto del mio stato emotivo.
«Hai litigato con la morosa?» se ne uscì, inclinando il capo di lato.
Mi venne da ridere e non riuscii a trattenermi. «Macché...»
«No? E allora?»
Non sapevo cosa dirgli, anche se sapevo bene il motivo del mio stato d'animo. In quegli ultimi giorni mio padre mi aveva fatto impazzire, sfruttandomi come un servo della gleba e gridandomi contro gli insulti più brutti e cattivi che un essere umano potrebbe immaginare. Ero stremato, non ce la facevo più.
«Non si preoccupi, sono solo stanco» tagliai corto.
Una cliente si accostò al banco di Enea e lui fu costretto a dedicarle tutta la sua attenzione. Fui tentato di andarmene, ma non volevo porre fine a quella piccola illusione; in qualche modo quell'uomo sconosciuto si stava curando di me, e io non potevo permettermi di perdere quell'occasione d'oro.
La donna rimase a rompere per almeno un quarto d'ora, chiese il prezzo di ogni singolo oggetto esposto e alla fine non comprò nulla. Ero ammirato dalla pazienza che Enea possedeva.
L'uomo tornò a guardarmi. «Sei sicuro di stare bene?» domandò.
Annuii, mentre le mani mi tremavano e il mio viso diventava rosso. Avevo una grossa difficoltà a stare fermo e stavo per scappare a gambe levate. Era troppo per me, tutte quelle sensazioni ed emozioni erano troppo.
«Vuoi un po' di caffè?» propose Enea, prendendo tra le mani un thermos verde. Mi sorrideva, probabilmente gli facevo pena ed era per questo che continuava a parlarmi e sembrava poco incline a mandarmi via.
«No, mi agita troppo. Grazie» rifiutai, infilando le mani in tasca per nascondere il loro tremore.
Enea si lasciò sfuggire una risata e si versò un po' di liquido scuro nella tazza di plastica abbinata al thermos. Mi tornò in mente il momento in cui mio padre mi aveva ordinato di preparare il caffè per lui e il suo amico stupido, così mi resi conto che per Enea lo avrei fatto volentieri, visto che gli piaceva tanto. Chissà se era sua moglie a prepararglielo ogni mattina... probabilmente lui la obbligava come faceva il mostro con me.
Enea non poteva essere davvero gentile e diverso.
«Sei stanco per via del lavoro?» chiese poi, dopo aver sorseggiato rapidamente dalla tazza.
«In un certo senso» bofonchiai.
«Eh, ragazzo mio... sei giovane, sei forte, e già sei stanco?» mi punzecchiò, ma nel suo tono di voce non c'era cattiveria né malizia. Sembrava più preoccupazione.
Mi bloccai con la bocca semiaperta, riflettendo su quella consapevolezza. Certamente mi stavo sbagliando, ero totalmente fuori strada.
«Eh... purtroppo... ora devo andare, scusi» mi congedai, affrettandomi a lasciare il suo banco. Ero troppo imbarazzato, e certamente non potevo raccontargli i problemi che avevo con l'orco. Non era il caso, neanche lo conoscevo!
Feci in modo di non passare più di fronte alla sua bancarella per quel giorno, mi concentrai su altri acquisti e decisi di non pensarci per un po'.
Come se fosse stato facile...
 
 
Era mattina e io stavo cominciando a preparare il pranzo, quando il telefono squillò. Avevo le mani sporche e non potevo andare a rispondere, così lasciai perdere e continuai ad affettare il sedano per il sugo.
Poco dopo lo squillo cessò, e poco dopo riprese. Era stranamente insistente e fastidioso. Sospirai e mi lavai le mani con uno sbuffo, mandando mentalmente al diavolo chiunque mi stesse interrompendo.
Sollevai la cornetta e me la portai all'orecchio. Stavo per rispondere, quando una voce fin troppo familiare mi fece gelare il sangue nelle vene.
«Pezzo di merda, che cosa stavi aspettando? Eh? Allora... portaci un tè, un caffè...» strillò mio padre, utilizzando un tono lamentoso che pareva quasi una cantilena.
Mi venne da ridere e piangere insieme. Avrei dovuto aspettarmelo: non aveva neanche la decenza di venire a casa per chiedermi qualcosa, ormai si affidava al servizio a domicilio completamente ideato da lui. E io, ovviamente, ero il fattorino nonché cuoco della sua deplorevole azienda.
«Ma...» tentai di protestare.
«Un cazzo! Muoviti, che io e i miei amici abbiamo bisogno di energie per lavorare! Visto che tu non fai niente dalla mattina alla sera, questo è il minimo!» gridò, per poi buttare giù il telefono e lasciarmi a bocca aperta.
Questo era veramente il colmo! Volevo strapparmi i capelli e morire, non riuscivo più a sopportarlo. Mi trattava come uno schiavo in tutti i sensi, e inoltre mi umiliava di fronte a tutti, diffamandomi e spargendo in giro notizie fasulle sul mio conto. Se solo lui avesse lavorato la metà di quanto facevo io, forse si sarebbe reso conto di ciò che realmente facevo per lui, nonostante non lo meritasse affatto.
Sospirai e mi diedi da fare per preparare le ordinazioni per lui e i suoi amici dinosauri.
Mi venne in mente che la scena aveva un che di comico, così mi ripromisi di raccontarla alle mie amiche quando ci fossimo sentiti per telefono. Forse avrebbero riso e avrebbero alleggerito un poco il peso della mia frustrazione.
Certamente se Enea avesse saputo che ero un debole, un perdente, una nullità, avrebbe smesso di badare a me e avrebbe cominciato ad approfittarsi di me come facevano tutti. Mi sentivo veramente male, avrei preferito morire piuttosto che recarmi nel capannone in cui l'orco e i suoi amici starnazzavano e non facevano assolutamente niente di concreto e utile.
Appoggiai il cibo e le bevande su un bancone in legno vicino all'ingresso e mi dileguai prima che potessero vedermi e parlarmi.
Se fossi stato più coraggioso, avrei pensato di togliermi la vita. Ma ero un vigliacco anche da quel punto di vista, dovevo farmene una ragione.
  
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