Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Butsu    02/03/2019    1 recensioni
Nacqui solo, da madre stanca e padre ignoto, in una foresta di acciaio inossidabile e costellazioni create da fili di rame.
Genere: Generale, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

 

Nacqui solo, da madre stanca e padre ignoto, in una foresta di acciaio inossidabile e costellazioni create da fili di rame, le mie ninna nanne superavano i sessanta decibel e la differenza fra notte e giorno la si capiva solo perché di giorno uscivano le persone legate, non da corde ma da contratti, firmati e sottoscritti davanti le mani incrociate del demonio che sorrideva, perché questa foresta era il suo regno e io ci vivevo dentro per sorte o per una colpa ereditaria che mi portavo dietro da una vita precedente. Mia madre lavorava di giorno, ma lavorava anche di notte, e se ci fosse stato qualcos'altro, probabilmente avrebbe lavorato anche di quello. Io studiavo, di giorno e di notte, perché era importante e dovevo andarmene dal nostro loculo di calcestruzzo armato per trasferirmi in una tomba più grande, più spaziosa, con le finestre pulite e l'aria condizionata che funzionava, non come la nostra che ad agosto si spegneva perché, puntualmente, si surriscaldava.

A dire la verità non ero uno studente così diligente come mia madre pensava che fossi e benché il nostro appartamento fosse al terzo piano, la mia stanza dava direttamente sulle scale antincendio, che mi permettevano di scappare la notte, con gli infradito che mi facevano sentire un ninja e il cuore che batteva forte, che mi faceva sentire un coniglio. Scappavo, ma non per davvero, facevo sempre abbastanza rumore affinché mia madre sapesse che stavo uscendo, che non si preoccupasse perché se facevo rumore ero vivo e vegeto e alla fine non combinavo niente di grave; era solo per sentire quel brivido di eccitazione, quando sai che stai facendo qualcosa di sbagliato e di proibito e ti diverte, infondo, sapere che sebbene tu stia vivendo all'inferno, ci siano ancora delle regole che puoi infrangere.


Quando uscivo di notte, ancora in pigiama, dato che alla fine erano solo dei pantaloni di tuta bucati sul ginocchio e una maglietta di una squadra di calcio dell'ex fidanzato di mia madre (uno dei tanti che ha avuto, ma uno dei pochi abbastanza gentile da averlo potuto conoscere), andavo in una piazzetta poco lontano dal complesso di condomini dove abitavamo (case popolari, ma mia madre non voleva le chiamassi così, perché ammettere di essere poveri, in una città dove la ricchezza era tutto, era come riempirsi lo stomaco di pietre e nuotare con gli squali) e mi incontravo coi ragazzi più grandi, quelli che al tempo erano di terza media, e io avevo appena finito la quinta elementare e pensavo a tutta la matematica che avrei potuto studiare, dato che coi numeri ero bravo e mi piaceva contare. Era lì che fumai la mia prima sigaretta, dieci anni appena compiuti, e la trovai orribile ma feci finta di adorarla, siccome non potevo sfigurare davanti ai ragazzi più grandi, ed è per questo che adesso fumo come una ciminiera; come per il caffè, mi abituai al gusto, e mia madre mi diede un calcio tanto forte che mi fece stare chiuso in stanza per due notti intere, nel terrore che mi volesse togliere il privilegio di trasgredire alle regole.

 

Non frequentavo brutte compagnie, però, se togliamo di mezzo il fattore impressiona i grandi, ero un bambino abbastanza morigerato, mi piaceva giocare a palla e i solidi non euclidei, odiavo il freddo e gli emissari del diavolo (gli uomini con la ventiquattrore che nemmeno ti vedevano tanto andavano di fretta), e l'unico capriccio che mai mi permisi di fare fu quando a scuola, alle medie, avevano programmato una gita fuori porta e sapevo che non potevamo pagarla, ma implorai mia madre di mandarmi e lei, in qualche modo, riuscì a trovare un compromesso con i miei professori. Durante quei tre giorni in una città lontana, dove l'aria non era fritta e le stelle, quelle lontane e fatte di idrogeno, si vedevano davvero, scoprii tante cose su me stesso: prima di tutto, non riuscivo a dormire senza il rumore dei clacson, delle persone che gridavano la notte, lontano dal tremore della metropolitana sotto di noi (e ogni volta mi sembrava che un gigante stesse cambiando la disposizione delle strade). Il silenzio della campagna, rotto solo dal frinire dei grilli e dalle occasionali civette, era troppo estraniante e mi sentivo come qualcuno la cui lingua fosse compresa da tutti, ma che non riusciva a capire cosa gli si stesse dicendo. Mi addormentai comunque, il giorno dopo facemmo una scampagnata su per una montagna glorificata, che in realtà era solo una collina un po' più alta e un po' più brulla di quelle che si trovavano appena fuori città. Quasi mi ruppi un braccio, e già stavo pensando a cosa avrebbe detto mia madre, alla strigliata che mi sarebbe capitata non appena sarei tornato a casa sapendo che avevamo pagato così tanto solo affinché io mi facessi male, ma non riuscii a finire quella corrente di pensieri che un ragazzo di un'altra classe, alto e dai capelli scurissimi, mi afferrò per il polso. Mi sbucciai un ginocchio e quasi mi misi a piangere per lo spavento, ma riflettendoci, era di sicuro meglio che sentire mia madre gridarmi contro.

La seconda cosa che scoprii, dopo aver passato la giornata a parlare con il ragazzo che mi aveva salvato, era che ero uno di quelli che i più grandi chiamavano finocchi, anche se le ragazze (morbide e gentili) mi piacevano comunque, quindi al tempo ragionai che forse ero qualche altra verdura, o più propriamente un'insalata, ma ebbi cura di non dirlo a nessuno, tanto meno a mia madre, che aveva già da prendersi cura di troppo e io, come compresi bene, meno le ronzavo attorno con i miei drammi adolescenziali, meglio era.

La terza cosa che imparai era l'odio inspiegabile che avevo per le carote, ma siccome non è importante a fini narrativi concluderò qua con questa parentesi.

La gita si concluse con un rientro in pullman, e io spesi la maggior parte del tempo a dormire; quando mi svegliai ci eravamo fermati nel piazzale dove eravamo partiti, e già mi immaginavo di dover tornare a casa con la metro (ancora zoppicante perché il ginocchio mi faceva male), o di dover saltare su un bus di linea, scendendo alla fermata prima in caso avessi visto un controllore, ma, non appena la vista mi si schiarì dai rimasugli del sonno, notai il rottame di mia madre parcheggiato, i finestrini tirati giù e lei che fumava mentre leggeva un giornale vecchio di mesi, qualche cosa come Vanity Fair o Vogue.

La quarta cosa che imparai in quella gita fu che, anche se la nostra relazione era, e sarebbe sempre stata, travagliata, in fin dei conti a mia madre volevo bene e forse, anche se in quel momento non ne avevo alcuna certezza, anche lei non mi odiava particolarmente.

 

Gli anni delle superiori furono forse quelli meno degni di nota, uscivo di più, ma paradossalmente avevo meno amici, o comunque io non riuscivo a considerarli tali. Cinque anni in cui mi concentrai sulla matematica, dove scoprii il mio grande amore per la chimica e capii che non riuscivo ad appartenere a nessun luogo. Per quanto cercassi di cambiare la mia pelle e i miei modi di fare la mimetizzazione non funzionava mai appieno, prontamente mi trovavo davanti a un bivio, del quale sceglievo sempre la via che mi conduceva a chiudere i rapporti con coloro che mi si avvicinavano troppo. Non mi sembrò un grandissimo problema (e infatti non lo era) perché avevo le mie poche amicizie, che mi portavo dietro da anni e delle quali potevo fidarmi.

 

Anche se la città (immensa, cosmopolita, brulicante di vita) era il mio habitat naturale, trovavo che la compagnia di tanta gente mi rendeva impossibile continuare a respirare normalmente e quindi, nonostante io odiassi la campagna e soprattutto gli insetti, mi rinchiudevo in camera ad ascoltare la radio sintonizzata su stazioni indiane, perché mia madre l'aveva comprata dal nostro vecchio vicino e noi non avevamo idea di come funzionasse, fantasticando di una vita ascetica da eremita, magari in collina, in cui l'unica comodità che mi sarei permesso sarebbe stata un materasso morbido, con tanto di cuscini di piume. Le sessioni dove facevo voli pindarici, immaginando il futuro, non duravano mai troppo e nel giro di poco io mi trovai fuori dal liceo, con una borsa di studio per la migliore università del paese e un cervello che ripeteva ossessivamente la sequenza di Fibonacci per addormentarsi.

 

Il giorno in cui mi diplomai, mia madre mi abbracciò per la prima volta dopo anni, io diciannovenne, alto sempre qualche centimetro di troppo per tutti, fra le braccia di una donna esile, le mani e il volto segnati dal fumo e dall'età, sempre all'oscuro dei colleghi di lavoro, che festeggiavano compleanni su compleanni, ma nemmeno sapevano di che segno fosse mia madre, e riflettendoci, neanche io ne avevo la certezza. Non piansi, ma sorrisi e mi sentii per la prima volta orgoglioso per qualcosa che avevo fatto, la sensazione simile a quando da bambino sgattaiolavo fuori dalla finestra per girovagare come un gatto randagio alla luce della luna. Quando tornammo a casa, io e mia madre festeggiammo con cibo spazzatura e un film a noleggio, la cui trama passava in secondo piano in confronto agli effetti speciali e gli attori belli e impossibili; non riuscivo a togliermi il sorriso di dosso, contagiato dal buonumore che permeava casa nostra, così estraneo che mi sembrava qualcosa di miracoloso. Mi sembrava di avere il mondo in mano e, come in tutte le tragedie che si rispettino, quello fu anche il giorno in cui tutto calò a picco, come un albero tagliato a metà da un fulmine, e io mi ritrovai come Edipo, ignaro della sua colpa (del suo sbaglio) e risposi al telefono che aveva iniziato a squillare dalla cucina.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Butsu