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Autore: ninety nine    04/03/2019    3 recensioni
15 marzo 1945
Il fascista Arturo Ghidini viene mandato sulle montagne per catturare e uccidere i ribelli partigiani. Si considera un uomo forte e fedele al Duce. Ma tra i partigiani ritrova un vecchio amico d’infanzia, da cui si era allontanato entrando nelle camicie nere e uccidendo per codardia una persona a lui cara. I due avranno modo di riavvicinarsi, ma la guerra si nasconde anche nei momenti più inaspettati e, forse, non concede mai il lieto fine.
Guerra è la storia di un uomo codardo e pieno di paura, vittima delle persone che incontra che strada e carnefice per conto di quelle stesse persone. È la storia di un’amicizia rubata al Fascismo e da esso rovinata. È il racconto di una guerra civile che colpisce il quotidiano e rende le persone inconsapevoli, vinte, coraggiose o spietate.
Tra i boschi e le montagne del bresciano due uomini torneranno bambini, all’ombra di un uomo che li vuole lontani, all’ombra della morte, all’ombra della violenza che è sempre dietro l’angolo.
[Storia partecipante al contest " Il Contest dell'Antieroe! " indetto da MaryLondon sul Forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Guerra, capitolo I
Fascisti e partigiani



 


15 marzo 1945, mattina.                                        
Arturo Ghidini, colonnello della Guarda Nazionale Repubblicana di Brescia, varcava in quel momento il portone della caserma. Aveva la divisa in perfetto ordine e le medaglie appuntate sul petto, come se fosse stato un giorno qualunque, ma dentro di sé l’uomo sapeva che il fascismo stava ormai contando i suoi ultimi respiri.
L’aria era plumbea e minacciava pioggia, ma alcuni coraggiosi raggi di sole primaverile facevano la loro comparsa tra i cirri violacei.
Il soldato attraversò a passo svelto il cortile e si fermò di fronte al suo superiore, facendo il saluto romano.

“Colonnello Ghidini ai suoi ordini, signore” annunciò.

Il superiore rispose al saluto, poi volse lo sguardo ai militi radunati di fronte.

“Vi ho mandati a chiamare per assegnarvi una missione che reputo solo voi possiate portare a termine. Vi ho osservato, in questi anni, e vi ritengo adatto a gestire un’operazione del genere in un momento delicato come questo. Siete fedele e diligente nei confronti del Fascismo, e so che lotterete fino alla morte piuttosto che arrendervi agli Alleati o ai comunisti.”

Mentre Cantoni parlava Arturo sentiva un moto di orgoglio scaldargli il petto: era stato un soldato fedele al Duce, aveva combattuto tutte le battaglie che gli erano state richieste, e ne andava fiero. Mai avrebbe pensato di rifiutare un incarico, nemmeno se si fosse trattata di una missione suicida, poiché credeva in quello per cui combatteva.

“Voglio che conduciate questi uomini sulle montagne. Stanate i ribelli, fateli prigionieri, giustiziateli: il governo è stato chiaro in merito; occorre indebolire il più possibile il movimento partigiano. Estirparlo, se possibile. Sono consapevole della delicata situazione interna al nostro paese, Ghidini, ma io scelgo di essere fedele al Fascismo fino alla fine. Ora vi chiedo, accettate la missione?”

Prima di rispondere, il soldato volse lo sguardo al manipolo di militari che lo avrebbero accompagnato sulle montagne. Erano appena una decina, con solo un accenno di barba sul collo. Il più giovane poteva avere sedici anni, il più anziano probabilmente non arrivava a venti. Erano militi dell’ultima ora, arruolati con un estremo, ultimo slancio patriottico, probabilmente terrorizzati dai giudizi della gente se avessero lasciato l’Italia in mano agli Alleati senza combatterli. La maggior parte di loro probabilmente non era nemmeno allenata alla guerra.
Arturo sperò soltanto che non sarebbero fuggiti al primo accenno di sparatoria. Si rifletteva nei loro occhi bassi e vedeva se stesso alla loro età, diviso tra la fedeltà al fascismo, la figura di un padre che oscurava tutto il resto e le amicizie per le quali non era riuscito a combattere. Si era aggrappato alla prima per sfuggire alla altre, buttandosi a capofitto nella preparazione militare ed uscendone cambiato, più forte, più consapevole, più uomo.

“Accetto l’incarico, signore.”

 
*** 


Seduto sul retro del furgone, il colonnello sentiva ogni buca nel terreno. La strada era particolarmente sconnessa: probabilmente erano stati gli stessi partigiani a danneggiarla per rendere più difficile l’avanzata di eventuali squadre fasciste. Gli alberi parevano muoversi ai lati del sentiero, nascondendo nemici con il fazzoletto rosso al collo. Arturo era consapevole che quella si trattava di una missione suicida: le bande partigiane della zona erano ben organizzate ed erano state capaci di dimostrarlo in altre occasioni. La popolazione li appoggiava portando loro cibo, medicamenti, messaggi. Tutto ciò che permetteva a loro, soldati del Duce, di continuare a combattere era l’ardore patriottico che vedeva brillare negli occhi di quei giovani inesperti che lo accompagnavano. O la Patria o la Morte, parevano gridare.
Ghidini alzò una mano e l’autista recepì il messaggio. Il furgone militare si fermò con uno sbuffo silenzioso. Di fronte a loro, il sentiero si biforcava; Ghidini, che da ragazzo era stato assiduo frequentatore di quelle montagne, sapeva che oltre a quelli soltanto una strada, ben più battuta da fascisti e tedeschi, portava al paese: i partigiani non l’avrebbero mai usata. Bloccando quei due passaggi, non avrebbero avuto alcuna via di scampo.

“Voi quattro, controllate il sentiero di destra. Voi altri, con me, quello di sinistra. Gli altri restino nei pressi del furgone e pattuglino la strada da cui siamo venuti. Nessuno deve passare non visto. Intesi?”

I soldati annuirono e si posizionarono secondo gli ordini, con i fucili spianati di fronte a loro. Erano tesi come ragazzini al primo appuntamento, Ghidini lo sapeva. Sentiva l’odore della loro paura, la loro smania di sparare, i nervi nelle loro gambe fremere. Sospirò, perché era consapevole che in battaglia l’eccitazione era nemica, ma puntò anch’egli il fucile, con il dito indice sul grilletto.
 
 ***
 

“Bloccano i sentieri.”

Un ragazzo dai capelli scuri si precipitò nella baita e si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato.

“I fascisti bloccano i sentieri”.

Sebastiano si passò le mani dietro al collo, poggiando la testa contro al muro cui era appoggiato. Non dormiva da giorni, se non brevi sonnellini quando gli altri membri della banda lo obbligavano a prendersi una pausa, e si sentiva esausto. L’ansia gli attanagliava le viscere e l’incertezza non faceva altro che peggiorare la situazione.  Era a capo di quella formazione partigiana solo da pochi mesi, dopo che il comandante precedente era stato catturato. Di lui non si sapeva nulla, né se era morto, né se aveva parlato. Sebastiano sapeva che era forte, ma i metodi fascisti erano capaci di far crollare la volontà di chiunque. Ogni giorno che passava il giovane si aspettava di sentire la Guardia Nazionale bussare alla porta della baita per prenderli e portarli in carcere. Quasi gli pareva, certe sere, di sentirsi già la corda intorno ai polsi.
Il capo volse gli occhi verso la fotografia sfuocata della Madonna che qualcuno aveva appesa sul muro e un sorriso amaro gli scappò dalle labbra: lui non era cattolico, non credeva a quelle cose. Ma per alcuni suoi compagni era rincuorante avere quell’icona appesa, e lui li lasciava fare. Il ragazzo castano era uno di quelli, partigiano dopo che il colonnello fascista gli aveva ucciso il fratello perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sebastiano gli fece un cenno.

“Grazie, Spartaco. Venite dentro”.

Di nuovo il suo sguardo arrivò alla foto della Madonna. Maria, come la staffetta partigiana che era entrata a far parte a pieno regime della banda dopo che i fascisti l’avevano scoperta e interrogata. Era corsa da loro con i capelli tagliati e il visto segnato dalle percosse, libera per intercessione di suo zio, sindaco del paese. Era stata fortunata: erano pochi quelli che riuscivano a sfuggire alla Guardia Repubblicana.
La ragazza stava entrando in quel momento insieme agli altri.

Montagna, Chiara e Falco, con me. Spartaco e gli altri, aggirateli dalla parte opposta. Cercate di non sparare finché non sarà strettamente necessario, abbiamo poche munizioni.”
 
***


Così, nel giro di un’ora, la montagna risuonò dell’eco degli spari. Li sentirono in paese, in caserma, tra le bande partigiane vicine.
Arturo Ghidini, non appena comprese che i partigiani erano riusciti ad accerchiarli nonostante i sentieri bloccati, sentì un moto di rabbia invadergli il petto. Su di lui gravava il peso di quella missione. Non poteva fallire, per rispetto di Cantoni, del Fascismo, dell’Italia, della sua famiglia.

“Sparate, soldati, sparate!” incitò i militi che lo accompagnavano.

Ma era già troppo tardi: un giovane fascista cadde colpito, e i partigiani approfittarono degli istanti di sgomento che seguirono per uscire con i fucili spianati.
Ghidini si rese conto che, pur essendo in numero superiore, non potevano sperare di uscirne vivi: i suoi soldati avevano paura. L’eccitazione, di fronte al pugno in pancia che era la morte di un compagno, era scomparsa. Non avrebbero sparato agli uomini che li tenevano sotto tiro, non sapendo che in cambio avrebbero ricevuto senza dubbio una pallottola in testa. Non vedendo altra via di fuga Arturo alzò le mani in segno di resa, imitato dagli altri.

“Armi a terra” intimò un partigiano.

Arturo gettò a terra il fucile imprecando. Non erano durati nemmeno un’ora, si erano fatti incastrare come topi di fogna. Sentì la rabbia e il disgusto ribollirgli in petto e un odio che non provava da anni che si faceva strada in lui. Gli parve di vedere la scena da fuori: dieci fascisti armati di tutto punto accerchiati da otto partigiani con le braghe rotte e gli occhi cerchiati dal sonno.
Patetici gli venne da pensare. Un istante dopo si chiese però se quel patetici fosse rivolto ai partigiani o a loro stessi.
Arturo cercò di pensare a una via d’uscita, non volendosi arrendersi all’idea della sconfitta. D’un tratto, sollevò lo sguardo e ciò che vide gli fece rivoltare lo stomaco. Il partigiano che pareva guidare la banda aveva occhi azzurri e capelli biondi che gli incorniciavano il viso spigoloso. Così ariano, avrebbe detto un tedesco, così diverso da lui, con gli occhi e i capelli neri come la camicia che aveva indossato quando pattugliava le strade con il manganello. Ma non era quello che lo sconvolgeva e lo disgustava: quel viso pareva riemergere come un fantasma dai sui ricordi d’infanzia.
 

“Seba! Seba!”
Appena la porta della scuola si chiuse dietro di loro, un bambinetto dai capelli scuri corse ad abbracciare l’amichetto biondo. Si erano conosciuti l’anno prima, quando il piccolo Arturo aveva cambiato quartiere. I due bambini si erano ritrovati compagni di banco ed erano diventati inseparabili. Arturo percepiva che l’amico a suo padre non piaceva, ma non riusciva a capire il perché. Lui gli voleva bene, giocavano insieme a pallone, a guardie e ladri e a nascondino.

“Ciao!”

Il bel viso di Sebastiano, incorniciato da lunghi ciuffi biondi, si aprì in un sorriso enorme quando vide l’amico. Subito aprì la cartella di cuoio e tirò fuori una scatola che conteneva i suoi trofei estivi. C’erano una pigna, un fazzoletto rosso e un piccolo ingranaggio storto.
Gli occhi di Arturo si illuminarono: Sebastiano sapeva raccontare delle magnifiche storie partendo dagli oggetti che raccoglieva per casa, e l’amico era certo che quell’estate aveva vissuto avventure incredibili.
Il biondino prese per prima la pigna.

“Questa l’ho raccolta sulle montagne, mi ci ha portato il mio papà. Ci sono un sacco di sentieri e un sacco di baite e di cascine, il mio papà mi ha raccontato la differenza, però non me la ricordo. E poi siamo arrivati in cima e si vedeva tutta la valle, giù fino a Brescia! Però la storia dell’ingranaggio è ancora più bella.”

Il bambino afferrò l’altro oggetto.

“Mio fratello ha cominciato a lavorare in fabbrica, perché ha detto che di studiare non ha voglia e che in fabbrica girano degli ideali, ha detto proprio così, degli ideali. E allora lui va lì al lavoro e a volte ci resta anche dopo, a parlare con i suoi colleghi operai. Tutte le volte torna contento, tipo acceso, sembra brillare. Un giorno mi ha portato questo, dicendo che si era rotto e che era un pezzo difettoso, che però essere difettosi non è necessariamente brutto. Tipo questo pezzo qui doveva andare in un fucile ma visto che è rotto si farà un fucile in meno e quindi una persona buona in meno verrà uccisa.”

Arturo lo interruppe.

“Ma il mio papà dice che con i fucili ci si uccidono le persone cattive mica quelle buone. Dice anche che il rosso è un brutto colore, che è il colore dei conumisti! È conumista anche quel fazzoletto lì?”

Sebastiano afferrò il fazzoletto e fece spallucce.

“Non lo so cosa sono i conumisti, Artu. Me lo ha dato papà anche questo, mi ha detto che era bello, che si intonava con i miei capelli biondi. Però si intona bene anche con i tuoi neri, se vuoi te lo regalo a te.”

L’altro ragazzino annuì contento. Fece per prendere il fazzoletto, ma in quel momento entrò la maestra. I due bambini ridacchiarono e corsero al loro posto. All’improvviso, Sebastiano parve ricordarsi di una cosa importantissima. Dalla tasca del pantalone che indossava tirò fuori una biglia lucida.

“Scherzavo, ti regalo questa!” sussurrò, facendo attenzione a non farsi sentire dalla maestra.
“L’ho trovata in piazza un giorno, però so che a te piacciono un sacco e allora ho deciso di portartela!”

Arturo sorrise entusiasta e strinse la mano dell’amico.

“Grazie Seba. Sei un grande!”

Il bambino sorrise, poi si voltò verso la lavagna e cominciò a scrivere sul quaderno.
1 settembre 1924.
 

“Sebastiano Franzoni” non poté trattenersi dal dire il colonnello.

Si sforzò di non far tremar la voce, di velare le parole di disprezzo, ma dallo sguardo che soldati e partigiani si scambiarono non fu certo di esserci riuscito.
Gli occhi del partigiano, fino a quel momento ben fissi sulle armi che alcuni soldati ancora avevano in mano, saettarono verso di lui. Un lampo di sorpresa li illuminò, e il colonnello non seppe cosa aspettarsi.

“Arturo Ghidini” rispose il ragazzo biondo.

a sua voce era ghiacciata, senza l’ombra di quelle emozioni che si erano invece, mal nascoste, insinuate in quelle del soldato.
Ghidini sentì tutto quello che lo aveva portato a combattere fino a quel momento sgretolarsi davanti a quella voce, che pure suonava così fredda, così diversa da quella che ricordava. Non seppe cosa dire, cosa fare. Si sentì impotente come un bambino.
Il partigiano nel frattempo si votò verso i compagni.

Falco. Portali via. Sai cosa fare”

Il ragazzo lo guardò, per un attimo smarrito. Di solito, era il capo che si prendeva la briga di legare i prigionieri e di scegliere dove portarli per interrogarli. Ma vedeva i polsi di Sebastiano tremare, e si rese conto che quel nome che aveva pronunciato con tanta freddezza in realtà significava qualcosa per lui. Si avvicinò dunque ai soldati tenendoli sotto tiro con l’intenzione di legargli le mani. Uno di loro provò a fuggire, ma Falco lo fermò prontamente con il calcio del fucile. Per ultimo, il ragazzo si avvicinò ad Arturo.

“No, lui no” gli intimò Sebastiano.

Arturo non seppe come reagire. La mente, solitamente lucida e reattiva, parve non rispondergli, divisa fra l’odio e un affetto che pensava di non poter più provare. Tutto ciò che riuscì a fare fu avvicinarsi al ragazzo e sputargli ai piedi. Sputargli parole che avrebbe voluto dirgli, sputargli domande che non trovavano voce. Non vedeva Sebastiano da anni, ma non poteva dimenticare la loro infanzia insieme, compagni di banco, compagni di partite di pallone, amici inseparabili, metà di un intero. Alleati, soci, anime affini eppure così diversi. Il fascismo e la guerra li avevano presi ragazzini e trasformati in uomini su schieramenti opposti. Li avevano separati e plasmati in modo che quelle due metà tanto simili non potessero più ricongiungersi, e lui non poteva che provare rabbia per quello. Rabbia e impotenza.
Arturo sentì all’improvviso le mani di Sebastiano stringergli un braccio con forza. Sentì le sue unghie premere contro il tessuto della giacca e stringere fino a lasciare un marchio violaceo.

“Tu vieni con me” ringhiò l’uomo, e Arturo non poté che sentirsi un po’ più vuoto.

Ma era stato abituato a non mostrare debolezza, quindi sollevò la testa in un moto di orgoglio e lo guardò dritto negli occhi, sentendosi accecare dalla luce che emanavano.

“Non abbandono i miei soldati. Sono fedele ai miei compagni, non come voi zecche rosse”.

Sentì le dita del giovane partigiano stringergli ancora di più il braccio e la guancia bruciargli per uno schiaffo che non appena nemmeno visto arrivare. Sentì il sapore del sangue esplodergli in gola e di nuovo sputò ai piedi del biondo. Ma non fu un gesto di scherno, anche se quello avrebbe voluto far intendere. Quel sangue gli bruciava in bocca del sapore del rimorso.
Sebastiano lo spinse verso Falco senza proferire parola. Il colonnello non se ne accorse, ma i suoi occhi tradivano l’inquietudine e la sorpresa, e anche quel gesto così poco razionale lo faceva: non era da Sebastiano un comportamento simile; infatti, se Arturo fosse stato sufficientemente pronto, sarebbe potuto fuggire. Di nuovo, anche Falco se ne rese conto e afferrò il colonnello, impedendogli le mani dietro la schiena e stringendogliele strette. Era preoccupato per il capo: non dormiva da giorni e non aveva bisogno di nuove preoccupazioni. Tanto meno, di fantasmi dolorosi del passato. Ma aveva detto di voler vedersela di persona con quel colonnello, e lui lo avrebbe lasciato fare.
Falco gli prese le spalle e lo costrinse a camminare verso Sebastiano. Ad Arturo sfuggì un gemito di dolore, che soffocò fra le labbra serrate. Ogni passo verso il suo vecchio amico gli costava una fatica immane, ed era sempre più difficile mantenere la maschera dell’indifferenza.

“Il capo ha detto che andrai con lui, e così farai, fascista” affermò, velando l’ultima parola di disprezzo.
 








Ciao a tutti! Questa storia è stata un parto, passo e chiudo. L’ennesima sui partigiani e sulla Resistenza che troverete sul mio profilo, ma questa volta ci ho provato ad essere originale (giuro!). Innanzitutto, ho cambiato punto di vista! Ho lasciato che, per la maggior parte della storia, a parlare fosse un fascista. Un fascista con una storia molto particolare, come già spero abbiate intuito qui, ma come avrete largamente modo di capire nei prossimi due capitoli (che arriveranno a brevissimo!). E poi ho volutamente inserito crudezza e violenza (anche qui, avrete modo di notarlo forse meglio nei prossimi capitoli, ma comunque anche qui l’intenzione è stata quella). Insomma, ho cercato di dipingere la guerra fascista/partigiana in maniera realistica, con un focus netto sui personaggi.
Non dirò altro (non è vero, mi sono già venuti in mente due NB da aggiungere), se non che ci terrei davvero a sapere cosa pensate della storia perché sono molto molto incerta sulle originali che pubblico e credo che nulla più del commento dei lettori aiuti a migliorarsi. Dunque, recensite, miei prodi Arturo o Sebastiano!
Grazie di cuore per aver letto, davvero! Spero di vedervi a breve nei due capitoli che seguiranno e concluderanno la mini long. Un bacio, 99!

NB1: nel flashback in cui Artu e Seba sono bambini, parole, sintassi etc dei loro dialoghi è volutamente fanciullesca/non del tutto italiana/pure un po’ dialettale. Espressioni come tipo/ te lo regalo a te/conumisti etc mi servivano per dovere di realisticità infantile!

NB2: la storia trae ispirazione dalla storia pubblicata su EFP in data 0/01/2015  da Regen Libertà e dovere. Purtroppo è rimasta incompiuta, ma comunque vi invito ad andare a spulciarla!
  
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