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Autore: crazy lion    06/03/2019    6 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ansia. Questo penoso sentimento d’attesa.
(Pierre Janet)
 
 
 
Il buio e l’attesa hanno lo stesso colore.
(Giorgio Faletti)
 
 
 
Non c’è Speranza senza paura né Paura senza Speranza.
(Baruch Spinoza)
 
 
 
Sperare appartiene alla vita, è la vita stessa che si difende.
(Julio Cortázar)
 
 
 
 
 
 
106. ATTESA, LITIGI E SPERANZE
 
In un giorno possono accadere molte cose e la vita è in grado di schiacciarci, di lasciarci senza respiro per la preoccupazione e il dolore mentre ci domandiamo cosa succederà, se la situazione cambierà. La speranza resta, ma in giornate del genere è debole. L’importante, comunque, è che sia sempre presente.
Mackenzie non fu l’unica a non dormire, quella notte. Anche Demi, nonostante si trovasse tra le braccia del suo amato, non riuscì a prendere sonno. Cercava di non muoversi per non svegliarlo - lui, almeno, si era addormentato anche se il suo sonno era agitato e leggero - e pensava a quello che sarebbe potuto accadere il giorno seguente. Pensieri riguardanti il passato e il presente continuavano a rincorrersi e a riempirle la testa di ricordi di voci, volti, ma soprattutto di tristezza e tante paure. A un certo punto dovette sciogliersi da quell'abbraccio. Non avrebbe voluto, ma stava così male che anche sentirsi stretta le dava una brutta sensazione, come se stesse soffocando. Non avrebbe dovuto sentirsi così e non con lui, lo sapeva, ma non poteva farci niente. Andrew dovette capirlo in qualche modo perché alzò una mano per accarezzarle il viso.
"Scusa, amore" mormorò.
"Sei sveglio?"
"Ti ho sentita muovere ma non importa, mi riaddormenterò."
"Non hai niente di cui scusarti, sono io che non mi sentivo bene. Cioè, sto sempre divinamente quando mi abbracci ma stasera sono un po’… insomma, anche gesti di affetto come questo non mi aiutano."
Lo disse tutto d'un fiato, sperando di non farlo sentire male. Ferirlo era l'ultima cosa che voleva, ma non era riuscita a nascondergli la verità.
"Posso immaginarlo" replicò lui. "Va tutto bene, non me la sono presa."
"Sicuro?"
"Certo!"
 
 
 
Mackenzie si alzò dal letto, stanca di rimanerci dato che non faceva altro che rigirarsi senza prendere sonno, Sfregò le mani l’una contro l’altra e poi le chiuse a pugno, stringendo così forte che le dita cominciarono a farle male. Mise i piedi sul parquet e fu percorsa da brividi di freddo, si infilò le calze e le ciabatte e uscì. All’inizio pensò di andare a chiamare la mamma, ma poi decise che avrebbe potuto anche fare da sola. Scese in cucina cercando di fare meno rumore possibile e… Come aveva potuto pensare di arrivare al mobile che conteneva i bicchieri e le tazze? Era troppo alto! Non ce l’avrebbe mai fatta.
“Niente latte” si disse. “Peccato, forse mi avrebbe aiutata.”
Erano successe così tante cose in quella settimana che solo a pensarlo Mackenzie si disse che ultimamente le pareva di vivere in un film o in una serie televisiva nei quali in pochissimo tempo possono succedere un sacco di cose, così tante che a volte il tutto sembra irrealistico. Eppure quella era la realtà e la bambina si augurava che qualcosa finalmente andasse per il verso giusto, altrimenti sarebbe scoppiata. Immersa in quei pensieri, non si accorse nemmeno che i genitori l'avevano raggiunta.
"Non riesci a dormire nemmeno tu, eh?" le chiese la mamma abbracciandola da dietro.
La bambina prese un piccolo quaderno e una penna che erano vicino al microonde.
Volevo un po' di latte, ma non sono riuscita a prendere la tazza ovviamente le spiegò.
"Te lo preparo io."
Demi tirò fuori il cartone del latte dal frigo e mentre compiva i successivi, semplici gesti tra i tre calò un silenzio pesante. Nessuno sapeva cosa dire, tutti temevano di pronunciare parole sbagliate o scontate.
Sapete, riprese la piccola, il mio quartiere era molto brutto. Cerco di non pensarci, ma non è facile. Abitavo in una zona alla periferia di Los Angeles chiamata Skid Row. Ci sono quarantaquattro isolati. La mamma e il papà mi dicevano sempre di tenere la mano ad uno dei due perché avevano paura che mi succedesse qualcosa. Di giorno, ma anche di sera girava brutta gente, soprattutto persone che bevevano o si drogavano. A volte alcune di loro litigavano e ogni tanto si sentivano degli spari. Spesso c'erano bottiglie per terra, rotte o intere, e odore di alcol e non solo. A volte le strade facevano davvero schifo.
Raccontò che c'era così tanta sporcizia in certe zone che tra la gente che abitava lì e l'immondizia si faceva fatica a camminare. Ogni tanto qualcuno veniva a pulire, ma c'erano posti in cui questo non accadeva. Per fortuna lei e la sua famiglia vivevano a San Pedro, un posto abbastanza pulito e tranquillo.
Era la prima volta che ne parlava dopo più di un anno. Andrew e Demi non le avevano mai chiesto niente per non farla sentire peggio, ma si domandarono se avrebbero dovuto. Forse parlare del suo passato, di quanto era successo prima di quella tragica notte, di com’era la sua vita, avrebbe aiutato la bambina a sentirsi meglio. Anche se non l'aveva mai detto, Demi era stata combattuta molte volte a riguardo. Si era chiesta tantissimo se porle delle domande o no, le aveva detto che avrebbe potuto parlare dei suoi genitori tutte le volte che voleva, ma Mac l'aveva sempre fatto poco perché soffriva troppo anche solo nel pronunciare i loro nomi. E quando diceva qualcosa, anche se per un po' si sentiva meglio, poi il peso e il dolore che le riempivano e schiacciavano il cuore e l'anima ritornavano ed erano peggiori di prima. Tuttavia, quella sera voleva parlare di qualcosa che non fosse la situazione con i compagni di scuola, in particolare con James e, dato che non aveva trovato nessun argomento leggero, aveva iniziato ad aprirsi riguardo la sua vita di prima.
“Mio Dio, ma a vivere lì la gente si ammala. Per forza” si dissero gli adulti.
Avevano sentito parlare della situazione di Skid Row in televisione anche se non molto spesso e sapevano che c’erano delle organizzazioni che si occupavano di aiutare i senzatetto che si trovavano in quel luogo. Ma, come accade spesso, quando non facciamo parte di realtà del genere queste ci sembrano così lontane da noi che non ci pensiamo poi tanto. Ci dispiacciamo per le persone che soffrono, ma poi? Poi basta, mettiamo quei pensieri da parte, tanto noi stiamo bene, abbiamo cibo, vestiti, belle case. Non tutti provano il desiderio di aiutare chi ha bisogno. Demi e la sua famiglia per fortuna sì: davano una mano a quella bambina che avevano adottato a distanza e ne erano molto felici. Per quanto riguardava quel quartiere, invece, la ragazza non aveva mai pensato di far nulla e adesso che Mackenzie gliene stava parlando si sentiva male per questo. Chissà, si domandò, se Jade viveva lì.
Non mi ricordo perché io e i miei genitori ce ne siamo dovuti andare di casa continuò la piccola. Non eravamo ricchi ma neanche poveri, poi ad un certo punto la mamma mi ha detto che avevamo perso la casa… Non lo so. Insomma, abbiamo trovato una casa in quel quartiere perché costava poco, mamma era già molto avanti nella gravidanza e con gli altri soldi che avevamo abbiamo preso le cose che servivano a Hope. La culla e tutto il resto ci stavano appena nella camera dei miei, una stanza per la bambina non c'era. La casa era su due piani ma era tutto piccolo e stretto. Mi sentivo soffocare lì dentro. Entrambi i miei genitori avevano perso il lavoro da un po'.
"Cosa facevano?" le domandò il papà.
La mamma la cassiera, il papà costruiva le case. Come si dice?
Odiava il fatto che a volte non le venissero le parole. Era frustrante.
"Il muratore?" domandò Demi.
Sì, quello. Sono successe altre cose in quel periodo, prima che andassimo via intendo. Ma non mi va di parlarne.
La bambina chiuse lì il discorso e i genitori preferirono non insistere molto. Le fecero qualche domanda a cui lei non rispose, così scelsero di lasciar stare. Forse a Mac serviva più tempo per raccontare altre cose, o magari desiderava tenere alcuni avvenimenti  per lei e li avrebbe raccontati una volta diventata un po’ più grande, o forse mai. Per quanto volessero sapere di più sul suo passato, Demi ed Andrew non ritenevano giusto assillarla di domande.
Dopo un altro, affettuoso abbraccio di gruppo i tre si diressero nelle loro camere. Demi accompagnò Mackenzie nella sua e le rimboccò le coperte.
"Vuoi che resti con te finché non ti addormenti?" le domandò con dolcezza.
La piccola annuì e la ringraziò con un sorriso. Era così stanca che non aveva voglia di alzarsi e di prendere carta e penna per scrivere. Tuttavia, se fino a poco tempo prima non aveva avuto sonno, ora che si era un po' aperta con i suoi parlando del proprio passato una parte di quel gran peso che le premeva sul petto era sparito e si sentiva più rilassata. Demi le diede la mano e rimase lì con lei, senza parlare. E a Mackenzie bastava sapere che non era sola, che accanto a lei c'era qualcuno da poter toccare, da riuscire a stringere; qualcuno che la amava.
 
 
 
Una volta uscita dalla camera della bambina, la ragazza incontrò Andrew che l'aveva raggiunta a metà corridoio. Non aveva acceso la luce ed entrambi si tenevano al muro per non perdere la strada e non sbattere contro qualcosa, quindi si fermarono a pochissima distanza l'uno dall'altra perché Demi, immersa nei suoi pensieri, non l'aveva sentito camminare.
"Che ci fai qui?" mormorò. "Avresti potuto aspettarmi a letto."
"Mi andava. Volevo prenderti per mano e accompagnarti in camera, farti sentire che ci sono."
"So che ci sei" gli disse e sorrise, pensando che quel gesto era davvero carino.
"Sì, ma volevo che ne fossi ancora più consapevole." Cercò la sua mano e gliela strinse piano. "Dobbiamo provare a dormire. Domani sarà una giornata difficile per tutti."
"Già."
Non aggiunsero altro, erano troppo stanchi; eppure andarono a letto con la sensazione che ci fosse qualcosa di non detto fra
loro.
 
 
 
Ma se a casa di Demi c'era stata tensione e si respirava paura per quanto sarebbe accaduto il giorno successivo, proprio la mattina del 15 novembre Elizabeth, Mary e il marito Jayden non stavano di certo meglio.
"Ho paura, mamma" disse la bambina mentre faceva colazione.
Non aveva nemmeno fame, mangiava un cereale al cioccolato ogni tanto.
"Lo posso immaginare Lizzie, ma devi mangiare. Credimi, posso capire che tu non abbia fame, ma devi essere forte anche fisicamente e soprattutto oggi."
"E comunque" disse il padre "non succederà nulla di grave. Parleremo con la maestra e pian piano le cose miglioreranno."
Jayden era molto diverso dalla figlia. Aveva i capelli rossi e gli occhi chiari, ma Elizabeth aveva preso da lui molti atteggiamenti, tra i quali la dolcezza della voce e la maniera di camminare, veloce ma non troppo e poi il sorriso, la bocca e il naso.
"Speriamo" commentò la bambina e si decise a versarsi i cereali nel latte e a mangiare.
“Non puoi dire così, Jayden” lo rimproverò la moglie, senza però alzare la voce. “Voglio dire,  è giusto rassicurarla. È quello che faccio anch’io, ma minimizzare la cosa con un “Andrà tutto bene” non mi sembra corretto. Non possiamo sapere cosasuccederà.”
Jayden le lanciò uno sguardo che a Lizzie, che l’aveva notato, non piacque per niente.
“E cosa proponi, sentiamo?”
“Di dirle di stare tranquilla, perché anche se non dovesse andare bene noi le staremo sempre vicini.”
Lui sospirò ma non rispose. Da giorni litigavano, era come se per la figlia stessero iniznando ad avere diversi metodi di educazione. La situazione che si era venuta a creare la settimana precedente li aveva scossi molto e li stava allontanando.
Mary guardava la sua bambina crescere e ogni giorno se ne innamorava sempre di più. Non si sarebbe mai pentita della scelta che aveva fatto, mai. Elizabeth era la sua vita e, anche se era arrivata molto presto, lei l'aveva amata sin dal primo istante.
Lizzie si alzò, prese lo zaino che stava appoggiato sul pavimento ed uscì con la mamma. Il papà le accompagnò e montò su un'altra auto.
"Vado, ci vediamo dopo a scuola" disse.
"Sì, a dopo amore" lo salutò Mary.
Si sorrisero e poi ognuno andò per la sua strada.
Un silenzio carico di tensione calò nell'auto, mentre madre e figlia andavano verso la scuola. Nessuna delle due parlò e non accesero nemmeno la radio come invece facevano di solito. Non le avrebbe aiutate a distrarsi.
 
 
 
Generalmente la mamma le parlava, la mattina, mentre la cambiava e la vestiva. Le raccontava tante cose, molte delle quali Hope non capiva, ma le piaceva ascoltare la sua voce. Quel giorno, invece, Demi se ne stava in silenzio e non sorrideva. Hope invece lo faceva, sempre di più, per vedere se sarebbe riuscita a rendere felice la mamma; ma lei pareva sempre triste e alla fine la bambina si arrese e la guardò perplessa.
"Mamma?" chiese, con un filo di voce.
"Mmm?"
Demi era lì con il corpo ma con la mente da un'altra parte, anche se Hope non poteva saperlo e non l'avrebbe nemmeno compreso essendo troppo piccola. Eppure, non avrebbe saputo dire a cosa stava pensando. Brutti ricordi e mille  domande le riempivano la testa, tanto che questa le doleva già di prima mattina. E, a peggiorare la situazione, quel giorno le era arrivato anche il ciclo. Sì, era una cazzata in confronto a tutti i problemi che aveva ma la pancia la schiena e le gambe le facevano parecchio male e avrebbe voluto sbattere la testa contro un muro e tutto ciò di certo non la aiutava a sentirsi meglio. C'erano delle volte nelle quali non sentiva quasi quei dolori, ma in periodi di fortissimo stress erano davvero potenti, soprattutto i primi due giorni.
Hope non sapeva come spiegare, come dire quello che voleva. Avrebbe desiderato chiederle perché era triste, se era arrabbiata, ma non ricordava il modo in cui pronunciare quell'ultima parola. Fu per questo che fece l'unica cosa che le venne spontanea. Era sdraiata sul fasciatoio, la mamma la stava vestendo, ma la bambina allungò le braccia e la abbracciò. La strinse più forte che poteva.
"Oh, amore!" Demi sorrise e ricambiò. "La mamma non sta tanto bene in questi giorni e nemmeno Mac, ma andrà meglio. Non sono arrabbiata con te, e presto io e lei non saremo più tristi, d'accordo?"
La piccola comprese e sorrise.
Non aveva più menzionato la paura dell’acqua, ma la donna temeva che a Hope ci sarebbe voluto del tempo per sentirsi di nuovo tranquilla. Ad ogni modo, la cosa importante era che fisicamente stesse bene. Nei giorni seguenti aveva intenzione di portarla in piscina e cercare di farla entrare in acqua grazie a qualche gioco. Ne aveva già parlato con il fidanzato e nessuno dei due voleva che la bambina si entisse spaventata di fronte alll’acqua e desideravano che riprendesse confidenza con essa il prima possibile.
Andiamo.
Andrew se n'era andato dopo colazione, perché prima di recarsi al lavoro aveva preferito tornare a casa per vedere come stessero i suoi gatti e soprattutto se avessero acqua e cibo o la lettiera sporca. Demi e Mackenzie non ci erano rimaste male: aveva passato molto tempo con loro ed era ovvio che si preoccupasse anche per i suoi animali ai quali voleva un gran bene. Da quando era uscito, Mackenzie era rimasta vicino alla porta d'ingresso e da lì non si era mossa. Adesso aveva scritto quell'unica, semplice parola quando la mamma era venuta verso di lei.
"Sei sicura? Non è tardi, possiamo stare qui ancora un po'.
Ho detto che voglio andare, okay?
Lanciò il biglietto per terra con tutta la forza che aveva e batté un piede sul pavimento.
Demi lo raccolse e, rimanendo calma, disse:
“Ehi, guardami.” Le pareva una cazzata dirle di stare tranquilla, per cui cercò di trovare altre parole. “Non sei sola in tutto questo. Ci siamo io e papà, d’accordo?”
Ma a scuola lo sono ribatté prontamente Mackenzie e lanciò di nuovo quel foglio per terra.
Ancora una volta la mamma lo tirò su.
La bambina non avrebbe voluto rispondere male, né attaccarla. Non era da lei. Non si riconosceva, sembrava che fosse un’altra persona a compiere quei gesti. Si sentì ancora più male nel rileggere quanto aveva scritto. Ora Demi stava soffrendo per colpa sua. In un momento nel quale avrebbero dovuto restare unite, lei dava colpe ad una persona che non ne aveva e che, anzi, la amava e stava cercando di aiutarla.
Mac aveva ragione, si disse la ragazza. Lei ed Andrew non erano tra le mura della sua scuola ogni giorno e, per quanto avrebbero voluto proteggerla, non potevano nemmeno farla vivere sotto una campana di vetro. Non sarebbe stato giusto. I figli hanno bisogno di fare le loro esperienze, di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e a volte di soffrire; e, si disse Demi, quella era una cosa dura da accettare. Era anche un discorso forse troppo complicato da fare ad una bambina, nonostante Mackenzie, a livello di maturità, dimostrasse non sei anni ma dieci.
Scusa, mamma.
Mackenzie sperava davvero che Demi avrebbe accettato quelle scuse, perché aveva sbagliato e non voleva che questo le allontanasse l’una dall’altra.
“Non ti preoccupare.”
La mamma era sempre dolce. Le stava accarezzando i capelli, forse per farla rilassare e la bambina le fu grata per questo.
È che… sto male. Ho paura!
“Anche io, tesoro. Anche io.”
Era inutile nasconderglielo, pensò Demi, tanto sicuramente la bambina l’aveva già capito. Non avrebbe dovuto trasmetterle la sua ansia, vero, e si diede della stupida per aver detto quella frase. Ormai, però, era fatta.
La bambina le sorrise e la strinse. Ricordava quello che era successo con Denise e che la mamma era stata vittima di bullismo anche se, da quel che aveva capito, in maniera più pesante di quanto stava accadendo a lei. Quel momento non era facile per nessuna delle due.
Entrambe presero un respiro profondo mentre sentivano i muscoli rilassarsi e la tensione scemare un po', poi uscirono, salirono in macchina e partirono.
Il viaggio fino a scuola fu silenzioso. Mackenzie non sapeva cosa scrivere e non aveva nemmeno tanta voglia di comunicare. Hope si guardava in giro e ogni tanto salutava le altre macchine, cosa che faceva spesso ma che ogni volta inteneriva la sorella e soprattutto la mamma, e Demi era concentrata sulla strada e si impose di non pensare, almeno per qualche minuto.
Mamma?
"Sì?"
Ehm, guarda dietro di te. In macchina, intendo.
Demi si fermò ad un semaforo rosso e si girò.
"Batman? Che cavolo ci fai qui?"
Era sorpresa, non arrabbiata. Essendo un cagnolino di taglia molto piccola probabilmente si era infilato in auto senza che loro se ne rendessero conto, nella fretta di partire. L'animaletto la guardò e abbaiò, come per farle capire che voleva venire anche lui.
"Va bene" disse la ragazza sospirando.
Aveva un guinzaglio nel porta oggetti. Lo teneva lì in caso di bisogno.
Batman saltò sul sedile accanto a Hope.
"Però fai il bravo. Non saltare, non metterti a camminare o a correre in auto e non iniziare ad abbaiare come un matto, okay? Altrimenti ti riporto a casa."
Come se avesse capito, il cagnolino si sdraiò sul sedile e rimase lì immobile. Hope gli faceva qualche carezza ogni tanto, anche se era più interessata a guardare fuori e sia la mamma che Mac controllavano che il cane non la mordesse. Era successo solo una volta, per gioco e la bambina si era spaventata, quindi non si poteva mai sapere.
Arrivate a scuola, Mac scese non appena vide Elizabeth, corse da lei e la abbracciò.
 
 
 
Demi, dato che mancavano venti minuti circa all'inizio delle lezioni e al momento in cui avrebbe dovuto portare a scuola anche Hope, decise di far scendere sia lei sia il cane. Era inutile stare lì in macchina, meglio godersi un po' d'aria fresca nonostante la confusione.
Batman avrebbe cominciato a correre come un pazzo per il cortile se Demi non fosse stata abbastanza veloce da prenderlo e mettergli il guinzaglio, cosa che il cane non apprezzò e lo fece capire lamentandosi.
"Ti perderei, se ti allontanassi" gli disse la padrona.
Dato che Mackenzie ed Elizabeth stavano già passeggiando e parlando tra loro, la ragazza si guardò in giro alla ricerca di Mary. La vide seduta su una panchina del giardino, sotto un albero.
"Ehi, tesoro" mormorò avvicinandosi.
La ragazza era immersa nei suoi pensieri e Demi non voleva spaventarla alzando troppo la voce.
"Ciao."
L'altra si alzò e la abbracciò.
"Come va?"
Aveva il volto stanco e pallido e due occhiaie da far paura.
"Insomma. Elizabeth mi ha raccontato tutto ed è stato bruttissimo sapere che soffriva così tanto e né io, né Jayden ce n'eravamo accorti. Cioè, come può un genitore fare queste cose? Non dovrebbe rendersi conto di tutto?"
"Appunto, dovrebbe."
Demi fece accomodare Hope accanto a lei sulla panchina e con una mano teneva il guinzaglio mentre Batman si divertiva a raspare il terreno, alla ricerca di chissà cosa. Probabilmente aveva sentito un odore che gli piaceva; la ragazza si augurò soltanto che non mangiasse qualcosa che poi gli avrebbe fatto male. Doveva tenerlo d'occhio.
Mary sospirò.
"Senti,” proseguì Demetria, “guarda me e te: abbiamo fatto di tutto per nascondere ai nostri genitori i problemi che avevamo, nessuno di loro sapeva ciò che ci accadeva."
"E quindi ho trasmesso a mia figlia questa assurda mania di nascondere le cose? Fantastico."
"Non hai dormito, vero?"
"No, non molto. Tu?"
"Poco e male. Comunque non volevo dire che gliel’hai trasmessa, solo che purtroppo a volte i figli fanno queste cose, ci nascondono le loro sofferenze."
“Ma perché?”
“Per lo stesso motivo per cui lo facevamo noi: perché non credevamo fossero problemi seri e di riuscire a gestirli.”
“Sì, e anche perché volevamo impedire loro di soffrire con e per noi, di farli preoccupare.”
“Esatto. È molto triste, ma è così. Ora però sappiamo la verità, le nostre figlie sono state molto più coraggiose di noi e si sono aperte presto. Possiamo aiutarle, Mary!”
La cantante avrebbe voluto trovare qualcosa da dire, magari per cambiare argomento o distrarre l'amica, ma fu lei a riprendere la parola.
"A te non viene la tentazione di alzarti, andare ad abbracciare tua figlia e poi scappare per un po' assieme a lei?"
"Cosa? Scappare?"
Demi non capiva. Con il tempo aveva imparato che fuggire dai problemi non serve a niente, perché tanto questi rimangono e ti inseguivano, si nascondono ma poi saltano fuori all'improvviso attaccandoti e proprio nei momenti in cui sei più fragile e vulnerabile. Ti penetrano dentro come una malattia da cui non guarirai mai finché non troverai la cura, ovvero fino a quando non li risolverai o non tenterai di farlo. Perché si stava dando del tu da sola, mentre pensava?
"Non intendo fuggire dalle difficoltà," ricominciò Mary, "solo allontanarsi un po' per respirare. Da quando mi hai raccontato cos'è successo sento un peso allo stomaco e al petto che mi sta distruggendo. E sono due notti che praticamente non dormo."
Mary sapeva benissimo che stava sbagliando. Avrebbe dovuto essere più forte per sua figlia, che sicuramente stava soffrendo più di lei e invece si lasciava andare a quelle riflessioni senza alcun filo logico. Non seppe come, ma Demi dovette intuire ciò che stava pensando.
"Sei umana. Ed è umano avere paura. Anche le nostre figlie ne hanno e di certo Jayden ed Andrew non sono da meno. Sì, vorrei scappare con Mackenzie. Vorrei portarla in campagna, o nel bosco, insomma in qualunque posto dove si possa sentire in pace e serena, almeno per un po'. Ma c'è una parte di me che mi dice che non è il momento, adesso. Dobbiamo lottare, stare uniti tutti quanti, spiegare come sono andate le cose e affrontare ciò che succederà. Dobbiamo essere una squadra" disse, mostrandosi più sicura di quanto fosse in realtà. "Perciò, adesso dammi la mano."
Mary sospirò e gliela strinse. Hope allungò una manina e la mise sopra quella dell'amica della mamma, che le sorrise e le diede un bacio.
"Facciamo un respiro profondo e contiamo fino a dieci, respirando sempre lentamente."
"Non ce la faccio."
Mary aveva il respiro affannoso, la testa le doleva e le girava come una trottola impazzita e le sembrava di sentirsi cadere in avanti. In più, ogni fibra del suo corpo le diceva di alzarsi e correre via; si sforzava di non farlo, di rimanere immobile, ma Dio, era così difficile!
"Proviamoci. Magari non ci calmeremo, ma almeno tentiamo. Ti va?"
La voce di Demi tremava e anche il suo respiro non era regolare. Nessuna delle due stava bene, quel giorno.
"Okay."
Si strinsero più forte e cominciarono a contare insieme.
"Uno, due, tre…" Il respiro iniziava a rallentare. "Quattro, cinque, sei…" Forse i giramenti di testa erano meno frequenti, la sensazione di cadere finalmente aveva abbandonato Mary. "Sette, otto, nove, dieci."
“Nove, dieci” ripeté Hope.
“Brava!” esclamò Demi.
Adesso andava molto meglio. Le loro labbra si curvarono all'insù. Fu un sorriso debole, ma almeno ora la paura era un po' scemata.
"Grazie" disse Mary, "senza di te non ce l'avrei mai fatta."
"Figurati. Le amiche servono anche ad aiutare nei momenti di bisogno."
"Sono contenta di averti ritrovata. E mi scuso ancora infinitamente per…"
"Shhh. Va tutto bene."
 
 
 
"Ecco, e quindi praticamente ieri mi sono messa a fare questa torta con mia mamma, così per sfogare la tensione. Mi sono divertita e anche distratta, e poi…"
Quel giorno Elizabeth parlava, parlava e parlava. Di certo lo faceva per non pensare, o per tirare fuori le sue paure. Mackenzie si sentì malissimo quando, dopo un po', smise di ascoltare. James era passato accanto a loro; la sua amica non se n'era accorta, ma lei sì. Non le aveva nemmeno guardate, il che forse era meglio. Quello che era successo con lui nei giorni precedenti l'aveva scossa moltissimo, ma non solo per il fatto in sé. Cercava di dimenticare, questa era la verità. Provava a lasciarsi alle spalle ciò che la prima mamma affidataria le aveva fatto, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Eppure, sentire le prese in giro di James e vederlo mentre aveva buttato a terra Lizzie le aveva fatto tornare in mente certi episodi di quegli orribili giorni - nemmeno una settimana - che però avevano segnato ancora di più la sua vita. Non passava giorno senza che ci pensasse. Lo faceva soprattutto la sera e tremava; rammentava gli schiaffi ma soprattutto le cose brutte che le diceva, che l’avevano distrutta ancora di più psicologicamente. Ma poi cercava di concentrarsi sulle cose belle che aveva fatto, su Hope e sul suo sorriso, su quanto erano state fortunate a trovare una persona meravigliosa come Demi. E si diceva che non doveva più avere paura, anche se non era facile. I ricordi erano sempre lì, pronti ad assalirla. Si nascondevano, non se ne andavano e tornavano ogni giorno, anche se non ne parlava mai. Aveva sempre affrontato da sola quei momenti e lo sforzo che faceva per farsi venire in mente cose belle era immane, tanto che sembrava stancarla anche fisicamente. Eppure, non sapeva nemmeno lei come, riusciva a superare quei momenti orribili almeno per un po’, o meglio a metterli da parte e a pensare al fatto che Demi la adorava e non le avrebbe mai torto un capello. Chissà, si disse, se un giorno tutto quello che le era accaduto in passato sarebbe stato semplicemente quello: il passato e non l’avrebbe più condizionata così tanto nel presente. Aveva parlato una volta sola con Catherine della sua prima mamma affidataria, forse perché poi le erano succese altre cose sulle quali aveva preferito concentrarsi. Ma si disse che era il momento di ricominciare anche quel discorso, collegato a quello del bullismo che stava subendo.
"Mac, mi stai ascoltando?"
Eh?
Le parole di Lizzie, pronunciate più forte del normale, la riscossero. Tornare alla realtà fu come prendere una forte botta sbattendo contro qualcosa.
"Ti ho chiesto se hai capito quello che ti ho detto."
L'altra abbassò lo sguardo, poi scrisse:
Mi sono fermata alla torta.
Lizzie sospirò.
"Io ti ascolto sempre quando hai bisogno di parlare. Perché tu non lo fai con me?" chiese, mesta.
Questo non è vero! ribatté. Noi ci confidiamo e ci ascoltiamo a vicenda. Non puoi dire che non ti sto vicina.
Mac ci rimase male. Come poteva la sua amica dire una cosa tanto assurda?
"Non ho detto che non mi resti accanto; solo, ti stavo parlando di una cosa imporrtante e tu eri assente. Capisco tu sia piena di pensieri e di ricordi, ma…"
Ma cosa?
Lizzie prese un profondo respiro. Non sapeva se dirlo o no, non voleva farle male. Le parole le uscirono da sole.
"Devi vivere anche nel presente, non restare chiusa nel passato."
Un pugno allo stomaco le avrebbe provocato meno dolore, Mackenzie ne era sicura.
Mi concentro troppo sul passato? pensò.
Le ci volle qualche momento per riprendersi. Le parole di Lizzie le avevano fatto mancare il respiro.
E questa dove l'hai sentita? In uno di quei film che guardi con tua madre? sputò.
"Cioè secondo te non posso iniziare ad avere delle idee mie, a fare discorsi da grande? Solo tu ne hai il diritto perché sei cresciuta più in fretta degli altri?"
Mac batté un piede a terra.
Dobbiamo proprio litigare adesso?
"Certo, mi hai fatta arrabbiare ora" ci tenne a rimarcare Elizabeth. "Forse sono molto nervosa per oggi, okay? Scusa."
Mackenzie sbuffò. Sembrava che l'altra si fosse sforzata nel chiederle perdono.
Anche io non sono tranquilla, ma non era mia intenzione trattarti male. Se non ti ho ascoltata è perché stavo pensando ad altre cose oltre a quanto successo in questi giorni.
"E a cosa?"
Non importa.
"Meglio se ci parliamo dopo, quando saremo più calme."
Lo pensi davvero?
Mackenzie era dell'idea che le cose andassero chiarite subito, che non fosse il caso di aspettare.
"Sì."
Benissimo! esclamò l'altra, anche se in realtà intendeva il contrario.
Stava per allontanarsi, ma fu Elizabeth a farlo. Ben presto sparì dalla vista di Mackenzie, confondendosi con gli altri bambini che riempivano il cortile. Grosse e silenziose lacrime cominciarono a rigarle le guance. Lei e Lizzie si volevano bene e avrebbero dovuto restare insieme, soprattutto in quella circostanza; e invece per un piccolo errore di Mac, che si era distratta, Lizzie se l'era presa - probabilmente a causa del nervosismo, come aveva detto - e avevano litigato per quella stupidaggine.
"Sono stanca!" si disse la piccola. "Non può andare sempre tutto male."
E fu proprio mentre rifletteva su questo che accadde qualcos'altro. Un fatto che peggiorò ancoar di più il suo umore.
La mamma e Mary si stavano alzando dalla panchina su cui si erano sedute e molti bambini si stavano avvicinando per accarezzare Batman. Anche Mackenzie andò verso di loro, ma restò un po' a distanza. In fondo quello era il suo cane e poteva coccolarlo tutti i giorni, loro no.
"È bellissimo!" esclamò una bambina più grande che non conosceva.
I bimbi che lo toccavano o che aspettavano il proprio turno erano davvero tanti e Demi dovette dire loro di fare piano e di accarezzarlo uno alla volta per non spaventarlo. Tutti gli facevano le coccole e lui, felice, se le godeva leccando le mani di quelli le cui carezze gli piacevano di più. Mackenzie sorrideva nel vedere quanto i suoi compagni di scuola volevano bene a Batman senza nemmeno conoscerlo. Aveva sempre pensato che le persone che amavano gli animali fossero buone, non poteva essere il contrario, quindi si stupì quando vide avvicinarsi James, Yvan e Brianna. Sperò con tutto il cuore che la mamma li riconoscesse e li mandasse via, visto che le aveva detto chi erano. Tuttavia Demi non lo capì, forse perché i bambini erano molti, o più probabilmente non li cacciò per educazione. Doveva essere così, visto che i suoi lineamenti si irrigidirono non appena li vide, Mac lo notò con chiarezza, ma sorrise comunque. James allungò una mano come per toccare il cane e il cuore della bambina batteva così forte che presto sarebbe scoppiato.
"Non vi avvicinate!" avrebbe voluto dire loro.
Ma James e gli altri non sarebbero mai stati in grado di fargli del male, giusto? Non erano cattivi fino a quel punto, non poteva essere. Magari anche loro avevano un animale domestico e gli volevano bene. Eppure, quando vide James alzare il piede, spalancò la bocca per urlare. Batman, al quale il bambino aveva appena pestato la coda, cominciò ad ugiolare forte.
"Ma cosa…" sentì dire Demi che, un po' per la sorpresa e un po' senza volerlo, aveva alzato la voce. Il cane si rannicchiò dietro le sue gambe e gli altri bambini si allontanarono dicendo a James che era stato cattivo, o che gli aveva fatto male, o ancora che era uno stupido. Ma lui, Brianna e Yvan ridevano. Mackenzie, con una mano davanti alla bocca, sentiva la colazione venirle su e avrebbe solo voluto chinarsi e vomitare. Il mondo vorticò così in fretta da lasciarla senza fiato, tanto che dovette sedersi per terra.
 
 
 
"Avete esagerato, bambini" disse Mary guardandoli. "Non si fa." Quando vide che Demi apriva la bocca per parlare le sussurrò: "Mantieni la calma."
L'altra allora prese un respiro profondo e, cercando di non sembrare troppo arrabbiata disse:
“Tu, tu e tu” e li indicò, “gli hai fatto del male, e voi state ridendo. Vi pare il caso di ridere mentre un animale sta soffrendo? Ecco, sentite come si lamenta? È come se stesse piangendo. Sta male. E si è nascosto perché ha paura.”
“Non ho fatto app…” provò a dire James.
“No, ho visto che l’hai fatto proprio apposta, invece. Non sono tua mamma, ma lasciati dire che hai fatto una cosa sbagliata. Se qualcuno vi facesse del male, sareste contenti? Ridereste? Non penso proprio." Abbassò la voce, in modo da farsi sentire solo da loro e continuò: "E non mi sto riferendo solo al cane. Non credete che Mac, quando la offendete, le tirate addosso pezzi di carta e gomma e le tirate i capelli provi le stesse cose?”
Aveva fatto uscire quel fiume di parole guidata dalla rabbia e dall'istinto, senza nemmeno pensare. Aveva cercato di spiegare il tutto in modo semplice, visto che si trattava pur sempre di bambini e non avrebbe mai usato parole forti o offensive con loro, eppure ora si dava della stupida. Paragonando la situazione di Batman a quella della figlia, l'aveva esposta a possibili, ulteriori offese da parte di quei tre, che adesso avevano di certo capito che la bimba aveva raccontato tutto.
Cos'ho fatto? pensò. Demi, che cosa diamine hai combinato? Un disastro! Hai rovinato tutto, hai peggiorato la situazione. Ora Mackenzie soffrirà per colpa tua.
“Ora Mackenzie soffrirà per colpa tua” ripeté a voce bassissima e nessuno la udì.
Sei parole che continuava a sentirsi rimbombare nella testa e che non la lasciavano in pace. In tutta quella confusione non si era nemmeno accorta che Hope, quando James aveva pestato la coda al cane, si era messa a piangere.
"Che succede qui?"
Era la signorina Rivers, la prima delle maestre che Demi conosceva e che vedeva quel giorno. Era quasi l'ora di far entrare i bambini in classe, in effetti, e la donna si stava avvicinando con altre insegnanti che la ragazza non aveva mai visto.
"C'è stato un problema, signorina" cominciò Demi, prendendo Hope per mano.
"Tengo io il cane, prendila in braccio" le suggerì Mary che le stava accanto.
"Di che si tratta?" chiese un'altra insegnante facendo allontanare i bambini.
Demi spiegò in fretta quanto successo e, abbassando il tono, anche il paragone che aveva fatto tra quell'avvenimento e quanto stava succedendo a Mac.
"È di questo che dovrò parlarle, più tardi" aggiunse guardando la Rivers.
"Sì, anch'io" disse Mary.
Il tempo parve fermarsi, per quelle donne. Erano cinque, comprese la cantante e la sua amica. Tutt'intorno i bambini avevano ripreso a giocare e Mac si era alzata, felice che la mamma non si fosse accorta che si era seduta per terra sentendosi male. Ora la  testa non le girava più, ma non si sentiva bene. Elizabeth le si avvicinò.
"Mio Dio! Come ti senti?" le chiese,  preoccupata.
L'altra deglutì.
Vattene scrisse e, come aveva fatto prima con la mamma, lanciò a terra il biglietto; poi si allontanò.
Ma quel piccolo gruppo di donne non si accorgeva di ciò che accadeva. Ogni tanto lanciavano occhiate ai bambini per sorvegliarli, ma erano tranquille sapendo che c'erano anche altre maestre a farlo ed erano concentrate sul loro discorso.
"Quindi Mackenzie ed Elizabeth sono vittime di bullismo."
Non era una domanda quella di Beth Rivers, ma un'affermazione seguita da alcune esclamazioni da parte sua e delle altre maestre. Tutte capivano che era una questione molto delicata della quale di certo non si poteva parlare in un cortile con centinaia di bimbi presenti. La Rivers avrebbe voluto farlo subito e non aspettare neanche un attimo, ma aveva lezione e non poteva saltarla.
"Vi assicuro che all'appuntamento avrete tutta la mia attenzione" promise, seria. "E se qualche altra insegnante di quella classe fosse libera a quell'ora e volesse unirsi, sarebbe meglio così potremmo parlarne insieme."
Le altre due maestre, quella di matematica e quella di educazione fisica, dissero di avere un'ora buca e accettarono.
"Bene" riprese la donna. "Parleremo con voi genitori e poi decideremo il da farsi, anche seguendo il regolamento scolastico e in base a ciò che è accaduto e alla gravità delle azioni. Io… io non mi ero accorta, non avevo notato nulla, altrimenti vi avrei avvisate immediatamente."
La sua voce era rotta, si sentiva che aveva voglia di piangere e i suoi occhi lucidi ne erano un'ulteriore prova.
Demi e Mary rimasero colpite, perché ciò significava che teneva ai bambini ai quali insegnava molto più di quanto avessero immaginato.
"M-mamma! Mamma!" cominciò a lamentarsi Hope.
Respirava velocemente, era un po' scossa e forse stanca, anche perché di certo non capiva quel che stava accadendo ma vedere gli sguardi preoccupati di quelle persone non doveva trasmetterle belle sensazioni, pensò Demetria.
"Va tutto bene, piccola. Adesso salutiamo tua sorelle e andiamo."
"È bellissima" disse un'insegnante che Demi non aveva mai visto, quella di motoria.
"Grazie."
"Ho un bambino che ha più o meno la sua età. È una bella età, questa. Incominciano a parlare meglio, a voler dire cose che forse non capiscono nemmeno."
"Già."
Demi sorrise, la donna le piaceva e forse aveva detto quelle cose per farla rilassare un po'. Beh, ci era riuscita perché anche Hope sembrò calmarsi. La ringraziò.
Andò a cercare Mackenzie dopo aver salutato le insegnanti e Mary fece lo stesso con Elizabeth, tenendo sempre Batman al guinzaglio. Trovarono le figlie lontane l'una dall'altra, Mac accanto ad un muro, in un angolo, quasi che fosse in castigo ed Elizabeth sotto un albero.
"Perché non sei con lei?" chiesero entrambe e quando si sentirono rispondere che avevano litigato rimasero, per un momento, senza parole. Insistettero ma le bambine non vollero dire loro il motivo. Purtroppo non c’era tempo per parlare, per capire e ciò lasciò le madri con l’amaro in bocca. Salutarono le figlie con un bacio e un abbraccio, le rassicurarono che tutto sarebbe andato bene e poi se ne andarono.
"E adesso che succede?" chiese Mary a Demi prima di andare verso la sua auto.
"Non lo so, ma la cosa non mi piace. Sono stressate, forse hanno detto una parola di troppo."
"Dovrebbero stare unite."
"Faranno pace, Mary, vedrai. A tutti serve un po' di tempo, a volte."
"Speriamo."
Le due donne si abbracciarono, Demi mise Hope in macchina e fece salire Batman, poi salutò l'amica e partì.
"Mamma?" chiese Hope dopo un po'.
"Sì?"
"Non voglio."
"Sei riuscita a dire la "gl", brava!" si entusiasmò la ragazza. "Cosa non vuoi?"
L'altra non rispose.
Demi non capì ciò che la figlia non voleva fino a quando, dopo aver portato il cane a casa, la accompagnò all'asilo. Non l'avesse mai fatto. Appena scese dall'auto con la piccola per mano, questa cominciò a piangere disperata.
"Che cos'hai?"
Demi le sorrise e le parlò dolcemente.
"Non voglio! Non voglio, non voglio!"
"Andare all'asilo, dici? Perché?"
Hope le fece capire, tra parole sconnesse e altre incomprensibili, che desiderava stare con lei.
"Non posso portarti al lavoro con me, tesoro."
"P-perché?"
"Non potrei stare con te, e poi non so a chi lasciarti" le disse, sperando che avrebbe capito almeno una parte di quel discorso. "Dai, andiamo."
"No!”
"Hope, per favore."
Non voleva spazientirsi, ma nemmeno dargliela vinta subito.
"M-ma io…"
Demi sospirò. Hope era stressata, agitata e stanca, era chiaro, altrimenti non si sarebbe comportata così, o almeno non in maniera prolungata. Piangeva fortissimo, non faceva così quando voleva solo fare i capricci. Quello era un pianto diverso, un pianto simile a quello di Mackenzie quando era sfinita e aveva solo bisogno di un po' di attenzioni e di tranquillità. Tuttavia Mac era grandicella, sapeva gestire meglio quelle emozioni, Hope invece era piccola. Se davvero stava tanto male, tenerla a casa un giorno non poteva che farle bene e poi a Demi si spezzava sempre di più il cuore a sentirla strepitare.
"Va bene, adesso calmati. Shhh. Su, buona. Vieni con la mamma." La prese di nuovo in braccio e, quando vide che andavano verso la macchina, la bambina iniziò a calmarsi. "Stai tranquilla, d'accordo? Guardami." Hope la guardò, con gli occhietti neri e profondi ancora lucidi. "Oggi, solo oggi, non andrai all'asilo. Verrai al lavoro con me, almeno per stamattina. Non potrò rimanere sempre con te, ma starai con delle persone che ti vogliono tanto bene e comunque io sarò lì, mi sentirai cantare. Ti piace quando la mamma canta, vero?"
Hope aveva capito, più o meno, quindi annuì e sorrise.
Una volta arrivata allo studio di registrazione, Demi spiegò la situazione a Phil e al suo team.
"So che non dovrei portare le mie figlie al lavoro mentre devo registrare, ma credetemi, oggi siamo tutte molto stressate. Mackenzie è a scuola, ma la situazione non è facile." Raccontò meglio quel che stava accadendo e della riunione che avrebbe avuto con le insegnanti. "Allora, per voi va bene se resta?"
"E lo chiedi a noi?" le domandò una ballerina. "In fondo il capo sei tu, qui dentro, anche se Phil è il tuo manager."
"In realtà il capo è la casa discografica per cui lavoro" puntualizzò la ragazza che ci teneva a rispettare i suoi superiori ma sorrise ricordando che, in alcuni rarissimi casi, aveva permesso  a qualche musicista o ballerino di portare lì i loro bambini durante l'orario lavorativo se non potevano lasciarli a nessuno.
Era bello vedere dei bimbi lì in giro, rendeva il posto più allegro e pieno di vita.
"Per me non ci sono problemi" disse Phil e accarezzò Hope che, vedendo gli strumenti e gli abiti colorati che indossavano i ballerini, cominciò ad agitare le gambette e le braccia per scendere.
"D'accordo. Chi me la potrebbe tenere mentre canto?"
Demi era sicura che, anche se si fosse messa in una stanza a cantare, senza microfono, come a volte faceva per rilassarsi o per provare ascoltando la musica delle cuffie, non sarebbe riuscita a concentrarsi con Hope vicino. Sentendo la sua voce, si sarebbe messa a ballare o a saltellare, e per quanto l'immagine fosse tenera Demi non poteva deconcentrarsi.
"Io!" si propose Rosalie, la sua stilista.
"Okay, grazie." Demetria spiegò a Hope che sarebbe stata per un po' con quella ragazza, la rassicurò e, vedendo che quando l'altra la prese in braccio la bimba era tranquilla, riuscì a salire sul palco.
"Andiamo avanti con il documentario, oggi?" chiese a Phil.
"No, con l'album."
"Va bene. Mi date qualche momento? Penso di dovermi sfogare, prima."
"Sì, certo."
"Conosco un metodo infallibile" disse la ballerina che aveva parlato poco prima e le diede in mano le bacchette per suonare la batteria. "Inizi a battere sui piatti e urli, urli con tutto il fiato che hai in corpo! Funziona."
Demi sorrise e la ringraziò. Non sapeva suonare la batteria, così cominciò a battere a caso e, mentre lo faceva, gridava.
Batteva sui piatti con tutta la forza che aveva, a volte sentendo male ai polsi per quanta potenza ci metteva. Dopo un po', continuando a farlo senza riuscire a fermarsi, notò che il suo team era uscito. Non c'era più nessuno nella stanza. Forse il fracasso era troppo e in effetti a lei fischiavano le orecchie, o magari tutti erano andati fuori per darle il tempo di stare da sola e sfogarsi. Era loro grata per questo. Tuttavia, come al solito, era la musica quella che riusciva a farla stare davvero meglio. Non c'era, tra le sue canzoni, un pezzo che in quel momento l'avrebbe fatta sentire meglio e quella consapevolezza non le faceva provare una sensazione piacevole. Nemmeno "Skyscraper", che spesso le aveva dato tanta forza, avrebbe potuto esserle d'aiuto. Se pensare ad un brano non la faceva sentire subito un po' più leggera, Demi capiva che non era quello giusto. L'aveva sempre fatto. Si allontanò dalla batteria mettendosi esattamente al centro del palco. Lì, sola, si mise a pensare e dopo qualche minuto, ecco la canzone perfetta. Era di Miley Cyrus, una cantante la cui voce aveva sempre adorato. Prese un lungo respiro e poi cominciò. Conosceva le parole a memoria.
"We clawed, we chained, our hearts in vain
We jumped, never asking why
We kissed, I fell under your spell
A love no one could deny
Don’t you ever say I just walked away
I will always want you
I can’t live a lie, running for my life
I will always want you
 
I came in like a wrecking ball
I never hit so hard in love
All I wanted was to break your walls
All you ever did was break me
Yeah, you wreck me
 
I put you high up in the sky
And now, you’re not coming down
It slowly turned, you let me burn
And now, we’re ashes on the ground
[…]"
Parlava d’amore, certo, e per fortuna quello suo e di Andrew era saldo e forte a differenza di quello del testo. Non descriveva le sue emozioni, ma la potenza che bisognava mettere nella voce durante il ritornello la aiutava a buttar fuori un bel po’ di tensione. Ad ogni singola parola si immaginava di spaccare qualcosa con una mazza, di romperla e poi di ridurre in frantumi ogni singolo pezzo con rabbia, cosa che non aveva mai fatto nella sua vita e che, lo sapeva, non sarebbe mai riuscita a fare. Tuttavia quelle immagini mentali la aiutarono a buttar fuori lo stress, assieme alla musica e alle parole nelle quali si immerse completamente, estraniandosi dal mondo, dalle persone, da tutto. C'erano solo lei e la musica, in quel momento. Non riuscì a sentirsi completamente in armonia con essa, però, a staccarsi dai problemi come invece avrebbe voluto. La canzone non c'entrava niente con quanto stava vivendo, ma il sollievo dopo averla cantata a squarciagola fu immediato. Ora era pronta a concentrarsi sul proprio lavoro.
 
 
 
In classe, Mackenzie ed Elizabeth non si guardavano né si parlavano da circa due ore. In tutto quel tempo nessuna delle due aveva dato segno di volersi riconciliare con l'amica, anzi era accaduto l'esatto contrario e quando Lizzie aveva avuto bisogno di una penna l'aveva chiesta a Katie, una compagna seduta nel banco dietro al suo. Le maestre avevano capito che c'era qualcosa che non andava.
Mac diede un'occhiata all'orologio appeso in classe. Spesso quel ticchettio le dava fastidio perché le toglieva la concentrazione. Cercava di non badarci, però quel giorno osservare le lancette che si muovevano e sentire quel continuo tic tac, tic tac, tic tac le metteva addosso un'ansia sempre più forte.
“Chissà come mai sono ansiosa, eh?” si chiese, sorridendo amaramente.
Quella era una giornata particolare e, fino a quando non fosse tornata a casa, non avrebbe saputo niente della riunione tra genitori e insegnanti che si sarebbe tenuta di lì a poco. La litigata con Elizabeth, poi, non aveva fatto altro che peggiorare le cose.
"Andiamo bambini, su!"
Eccola. Chelsea Grant, l'insegnante di motoria, pareva essere sempre un concentrato di energia. Era una donna molto magra ma non troppo, con i capelli rossi raccolti in una treccia e che si vestiva sempre sportiva, il che era ovvio visto il lavoro che faceva. Il problema era che i suoi alunni spesso quest'energia non l'avevano e lei sembrava non rendersene conto. Tuttavia si alzarono e la seguirono, una volta scesi si diressero negli spogliatoi, separati tra maschi e femmine nonostante i bimbi fossero alle elementari. La maestra ogni tanto passava a controllare che tuto andasse bene e comunque era sempre lì fuori. Se in quello dei maschi si udivano schiamazzi e risate, nello spogliatoio delle femmine tutte - tranne Mackenzie e Lizzie - parlavano delle scarpe nuove che avevano comprato, o di trucchi. Non che alle due amiche questi argomenti non interessassero, solo non li ritenevano così importanti e poi avevano altro per la testa.
"Siete silenziose oggi" disse Katie. "Cioè, Mac tu non stai scrivendo, non volevo dire…"
Temeva di averla offesa utilizzando la parola "silenziose" visto che lei, effettivamente, lo era.
Ho capito, Katie. Tranquilla la rassicurò sorridendo.
Osservò Brianna per capire se avrebbe detto qualcosa magari riguardo il fatto che lei era diversa, ma la bambina non ricambiava nemmeno lo sguardo ed era intenta a parlare con un'altra compagna. Forse non aveva nemmeno prestato attenzione alla conversazione, o non voleva commentare visto che la maestra era lì fuori. Era una mossa furba, in effetti, per non farsi scoprire.
Una volta in palestra i bambini cominciarono a fare stretching guidati dall'insegnante. Erano seduti sul pavimento freddo con le gambe incrociate. La stanza era grande e spaziosa, con delle vetrate molto grandi dalle quali entrava molta luce. Era molto più luminosa della loro classe e il fatto di vedere più luce la rilassò un po’.
"Piegate la schiena tenendo le gambe allungate" ordinò l’insegnante, dicendo poi a quei pochi che parlavano di fare silenzio.
Mackenzie ubbidì anche se sentì un po' di dolore, ma andò ancora più giù.
"Uffa, fa male!" si lamentò qualcuno.
"Lo so, ma serve per scaldare i muscoli così poi correrete senza problemi."
Diversi bambini cominciarono a lamentarsi facendo dei piccoli urletti, ma si capiva benissimo che volevano solo fare gli scemi. Non che Mac non sentisse dolore e non intendeva certo dire di essere perfetta, ma non le sembrava il caso di comportarsi in quel modo. Dopo un po' eseguirono la stessa operazione ma con le gambe incrociate, poi ruotarono le spalle, dopo il busto e, alla fine, l'insegnante disse loro di fare dieci minuti di corsa. In quei mesi si erano allenati e sapevano che presto i minuti sarebbero diventati quindici. Di solito lei e Lizzie correvano sempre vicine e se una andava un po' più avanti l'altra cercava di raggiungerla. Avevano fiato, correvano abbastanza in fretta e Mac si ritrovò a pensare che in effetti quelle ultime settimane erano state una metaforica corsa, visto tutto quello che era accaduto e che avere l'amica al suo fianco, una persona della sua età che la capisse e che corresse assieme a lei nella vita - anche se, per fortuna, Lizzie non aveva passato ciò che lei aveva vissuto - l'aveva aiutata ad essere più forte. Ora, invece, era diverso. Erano distanti, non pensavano nemmeno ad avvicinarsi, non si guardavano ed ognuna andava alla velocità che voleva. Mackenzie provò ad andarle vicino perché in fondo non era più così arrabbiata e la guardò come a chiederle se avrebbero potuto parlare più tardi e far pace, ma l'altra non la badò.
"Adesso," disse la maestra quando gli alunni si furono ripresi dalla corsa, "vi dividerò in coppie e vi lancerete la palla, non a terra come fanno alcuni ma con le mani. E ogni tanto ognuno di voi farà dei palleggi."
"Che gioco stupido!" esclamò James.
"E sentiamo, cosa vorresti fare?" gli domandò la donna.
"Giocare a calcio, per esempio.”
"L'abbiamo fatto l'altra volta, oggi faremo qualcosa di più rilassante."
Il bambino sbuffò ma non disse nient'altro.
Quando Elizabeth e Mackenzie finirono in coppia insieme, non riuscirono a capire di preciso cosa provarono. Immaginarono però che l'insegnante dovesse aver capito qualcosa perché di solito quando facevano giochi in coppia tendeva sempre a scegliere per loro un altro compagno o compagna. Era proprio così, infatti. La donna era determinata a fare in modo che quelle due bambine risolvessero i loro problemi. Non era l'unica a sapere che la loro amicizia era forte, tutte le altre maestre se n'erano rese conto ed era brutto vederle comportarsi tanto freddamente l'una con l'altra. Non volendo intromettersi nelle loro questioni - dovevano essere loro a risolverle -, aveva pensato che farle giocare insieme sarebbe stato un modo per aiutarle a rilassarsi un po'. Mackenzie ed Elizabeth Fecero quanto era stato chiesto e la seconda non disse nulla, né la prima mise giù il pallone per scrivere. Entrambe avrebbero voluto, però. Sarebbe piaciuto loro andare da una parte e dirsi che erano state delle stupide, che si erano dette cose senza senso e che si volevano bene, ma qualcosa le bloccava. La brutta giornata che avevano, mista alla preoccupazione per la riunione tra i loro genitori e le insegnanti e la situazione in classe era troppo e la tensione creò loro un nodo in gola così stretto che non riuscirono a far nulla. Tornarono in classe sempre senza guardarsi né toccarsi. Più il tempo passava, più ad entrambe mancava il respiro e girava la testa. Un senso di nausea assalì Lizzie quando, a ricreazione, tutti i bambini uscirono e loro due parevano le uniche a non ridere e a non essere felici. Quella distanza faceva male anche a lei. Eppure, nessuna delle due fece il primo passo. Nonostante si sentissero deboli e vulnerabili l'una senza l'altra, rimasero chiuse in un cupo silenzio. E di secondo in secondo capivano di essere sempre più tristi, sole e lontane. In momenti diversi andarono in bagno, si chiusero nel gabinetto e scoppiarono in un pianto disperato, sentendosi in colpa perché non riuscivano a parlarsi e a riavvicinarsi, perché l'affetto che provavano l'una per l'altra sembrava essere, almeno per il momento, troppo debole per superare uno stupido litigio. Tuttavia erano sicure che la loro fosse un'amicizia sincera.
"Forse domani andrà meglio" si dicevano. "Magari abbiamo bisogno di tempo."
Ma questo non le consolava affatto e proprio il tempo, maledetto, pareva non passare mai.
 
 
 
Nella continua battaglia che chi ne soffre deve combattere per uscire dalla depressione, dall’ansia e dagli attacchi di panico, ci sono giorni nei quali ci si sente bene e altri in cui si vorrebbe sprofondare sotto terra, o anche solo starsene a casa e a letto. Andrew, purtroppo, stava vivendo una di quelle giornate orrende. Non era solo il fatto che quella mattina era particolare vista la riunione e dati i giorni precedenti; si sentiva in maniera diversa rispetto al giorno prima quando era andato a confessarsi. La gioia sembrava sparita, il sollievo anche.
"Bill?" gli chiese, smettendo per un attimo di scrivere al computer.
"Sì?"
"Come va con tua madre?"
"Stiamo lavorando e mi domandi questo?"
"Oh, dai! Ho bisogno di distrarmi un attimo."
Andrew aveva già spiegato all'amico come si sentiva e l'uomo sapeva anche della riunione.
"Okay, immagino. Va bene. Vado a mangiare da lei due o tre volte a settimana, parliamo molto e anche se siamo ancora un po' impacciati a volte, stiamo recuperando il rapporto."
"Non avete più litigato?"
"C'è stata qualche discussione, ma nulla di particolare. Ci sono rimasto male quando è successo, ma diciamo che abbiamo superato presto i nostri diverbi. Cerchiamo di avere una relazione sana, ecco."
"Ne sono felice."
"Ad ogni modo ci vorrà tempo, abbiamo così tanti anni da recuperare!"
"Sì, lo credo."
Bill era sollevato. Il suo amico stava migliorando piano piano. Non era più stanco come ad ottobre e non si deconcentrava più come prima, o comunque lo faceva di meno. Ma sapeva che non stava ancora bene perché aveva alti e bassi, e che la strada sarebbe stata lunga.
"Come fai?" gli domandò.
"A fare cosa?"
"A reggere questi sbalzi di umore. Ieri stavi bene, oggi invece non mi sembra."
"Non lo so nemmeno io" ammise sospirando. "È difficile, a volte. E poi è strano. Stare bene è strano."
Sì. Era bello sentirsi leggero, non avere più quel peso al petto almeno per un po', respirare meglio, non pensare sempre in negativo, non sentire il bisogno di piangere o quel senso di rassegnazione e tristezza. La depressione è più profonda della tristezza, più devastante, ma Andrew non avrebbe saputo come altro definirla in quel momento. Insomma, era bello sentirsi meglio dopo tanto tempo. Ne parlò con Bill.
"E allora, se stai bene, perché mi sembra tu non sia mai felice in quei giorni?"
Ad Andrew mancò il respiro. Si piegò in avanti mettendosi una mano sul petto e l'altra sullo stomaco. Bill non lo sapeva, ma aveva toccato un tasto dolente.
"Scusa, ma non mi va di parlarne. Non adesso, almeno."
"D'accordo. Lo faremo quando sarai pronto."
Ricominciarono a lavorare, ma Bill guardò preoccupato Andrew. Lui, però, non se ne accorse.
Mancava circa mezzora all'appuntamento e Andrew, che si era già fatto dare il permesso dal suo capo per uscire prima, salutò l’amico e gli disse che si sarebbero visti l’indomani. Quel giorno avrebbe lavorato solo fino a mezzogiorno, comunque, perché si era portato molto avanti con il lavoro.
Una volta fuori si diresse a un bar lì vicino per bere un caffè prima di andare a scuola, poi andò in bagno. Il pensiero di quanto stava accadendo a Mackenzie e le paure su quello che sarebbe potuto succedere assalivano anche lui, non solo Demi. Si inginocchiò davanti al gabinetto sentendo il caffè che gli veniva su. Fu assalito da un conato di vomito ma non buttò fuori niente, il che fu peggio perché la nausea aumentò.
Arrivò davanti all'edificio  un quarto d'ora prima dell'appuntamento, così si sedette su un muretto e aspettò Demi. La testa gli girava e non era sicuro di potercela fare. Se l'insegnante avesse minimizzato il problema, come purtroppo a volte accade nelle scuole, non era sicuro che sarebbe stato in grado di mantenere il controllo, di non alzare la voce. D'altra parte non voleva arrivare a fare nulla di tutto ciò, perché litigare non era la soluzione.
E se non cambiasse niente? Se le cose peggiorassero? pensò.
Doveva essere lo stesso dubbio che tormentava la sua ragazza e i genitori di Elizabeth, ma soprattutto lei e Mackenzie. Chissà quanta paura avevano e quanto stavano male in quel momento. Fu per questo che, anche se a causa di tali pensieri sentiva che stava per avere un attacco di panico, provò a respirare a fondo e a dirsi che lui era più forte dell'ansia, che ce l'avrebbe fatta, che doveva lottare per le persone a cui voleva bene. Era difficile non crollare e mantenere un respiro più o meno regolare. Lo sforzo fu così grande che gli venne da piangere. Avrebbe potuto prendere gli ansiolitici ma decise di resistere. Mentre calde lacrime gli rigavano le guance e si moltiplicavano secondo dopo secondo, sentì qualcuno toccargli la spalla.
"Ciao" disse, con voce rotta.
"Ciao." Demi gli si sedette accanto. "Lo so cosa stai provando. Fatichi a respirare, ti gira la testa e una parte di te vorrebbe solo prendere Mackenzie e correre via, ma l'altra sa che devi restare per combattere. Sono le mie stesse sensazioni, è così da stamattina."
Lui si asciugò le lacrime con il dorso della mano e la guardò, notando solo allora che Hope le dormiva fra le braccia.
"Sta male?" le chiese, preoccupato.
Lei rispose di no e gli spiegò come mai l'aveva tenuta con sé.
Si avvicinarono l'uno all'altra e si baciarono, poi si strinsero la mano per darsi forza. Non c'era bisogno di parole, i gesti dicevano tutto.
 
 
 
"Come stai?" chiese Jayden alla moglie quando scesero dall'auto.
Era andato a prenderla al lavoro poco prima.
"Sto bene, sto bene!" ripeté lei per la millesima volta, stanca che glielo chiedesse.
"Scusami, è che sono preoccupato anche per te."
"Sì, lo so."
"Davvero, Mary, guardami." Lei sbuffò e alzò gli occhi verso di lui. "Senti, non voglio essere tacchente ma sono due giorni che, vista la situazione, nessuno di noi due sta bene. Ma ho paura che quest'agitazione ti faccia male, non hai…"
"Oddio!" sbottò la ragazza. "Credi che non lo sappia? Cristo!"
Non avrebbe voluto trattarlo così male, lo amava tantissimo ed era dolce a preoccuparsi per lei, ma la ragazza era stanca, in ansia e aveva anche altri pensieri per la testa oltre ad Elizabeth, e Jayden lo sapeva benissimo.
"Non voglio litigare," le disse il marito alzando un po' la voce, "ma sappi che mi stai facendo perdere la pazienza."
"Smettila di essere così assillante e vedrai che non succederà niente."
Detto questo, Mary si batté una mano su una coscia e cominciò a camminare a passo spedito.
"Amore?"
"Che c'è?" gli chiese voltandosi.
"Ti amo" mormorò con dolcezza, guardandola con occhi pieni d'amore.
"Anch'io, non dimenticarlo okay? Nemmeno se in questi giorni ti tratto male.” Si disprezzava. Era stata proprio una merda con lui, si disse. “Non vorrei, credimi, tu non hai colpe come non le ho io. È che non riesco a controllare lo stress e ho mille pensieri."
"Mi prometti che quando andremo a casa dopo questa riunione ti riposerai, starai a letto per qualche ora e cercherai di dormire?"
"Sì."
Mary si lasciò andare fra le sue braccia. Jayden la strinse forte e lei ricambiò, inspirando a lungo il suo fresco profumo di menta. Poco dopo le loro labbra si unirono in un bacio dolce e lunghissimo che li lasciò senza fiato. Lei doveva molto a quell'uomo: era stato la sua forza nei momenti più difficili, le era rimasto accanto nonostante le difficoltà e le aveva dato i suoi tempi. Amava lei ed Elizabeth più della sua vita e Mary non avrebbe potuto desiderare un marito migliore.
 
 
 
L'aula dove si teneva la riunione era grande e spaziosa, con due finestre che lasciavano entrare molta luce. Questo rilassò le due coppie, che invece si sarebbero sentite soffocare in un ambiente tetro.
"Buongiorno" disse la maestra Rivers, entrando.
I quattro si alzarono in piedi e la salutarono.
A lei si aggiunsero anche altre quattro insegnanti e, quando furono tutti seduti, fu la prima a prendere la parola.
"Oggi siamo tutti qui perché la signorina Lovato e la signora Poe mi hanno chiesto entrambe un appuntamento per parlarmi di qualcosa con urgenza. Come sapete stamattina abbiamo assistito ad uno spiacevole episodio che ci ha portati a riunirci." Andrew non disse nulla perché Demi gli aveva già spiegato tutto tramite messaggio, così la donna poté continuare dicendo: "Si sono aggiunte altre due insegnanti perché non appena mi è stato riferito quanto accaduto ho avvertito tutte. Siamo riuscite a trovare dei supplenti e a venire a questa riunione perché era importante non mancasse nessuno. Ora lascerei la parola proprio a Demetria e Mary, in modo che possano spiegarci bene la situazione."
Le due donne si guardarono, domandandosi a vicenda con gli occhi:
"Chi comincia?"
Alla fine fu la seconda ad alzarsi. Trasse un profondo respiro, chiuse le mani a pugno ma poi le riaprì tentando di rilassarsi e sperando che la voce non le tremasse.
"Buongiorno” iniziò, incerta. “Io sono Mary, la mamma di Elizabeth. Non mi sono accorta del bullismo che mia figlia subiva e di questo mi vergogno tantissimo. Non è stata lei ad aprirsi e a raccontarmelo, probabilmente per paura che quei bambini facessero del male a lei o a Mackenzie. Demetria, l'altro giorno, mi ha messa al corrente della situazione di Mackenzie e mi ha detto che sua figlia le ha confidato che anche Lizzie aveva avuto dei problemi. Ha ricevuto delle offese da alcuni bambini di altre classi, ma sono state rare. Più che altro, il problema è che viene isolata dal resto del gruppo. Non la fanno mangiare al loro tavolo, né giocare con loro in cortile e qualche giorno fa James è passato alle mani."
"È vero” proseguì Demi alzandosi in piedi. La sua voce, invece, tremava parecchio. Si schiarì la voce e riprese: “Ha difeso Mackenzie da James e lui l'ha buttata per terra. Gli altri si sono messi a ridere pensando che fosse caduta, credo, o se hanno visto qualcosa l’avranno preso come un gioco, uno scherzo.”
Le due madri avrebbero voluto piangere, sentivano gli occhi pieni di lacrime e un nodo il gola stringersi sempre di più, pareva loro di soffocare. Tuttavia decisero di farsi forza. Andrew e Jayden restavano seduti composti, sembravano tranquilli ma non lo erano affatto. Sapevano però di dover essere delle rocce per le loro compagne e per questo si imposero di non crollare.
“E Mackenzie subisce qualche altre forma di bullismo oltre all’isolamento?” chiese la Grant.
“Sì” disse Andrew. “La chiamano negra, stupida, dicono che è inutile, a volte non utilizzano il suo nome. La apostrofano come Muta, con la “m” maiuscola, come se si chiamasse davvero così. In realtà, James lo fa molto spesso.”
“Insomma,” proseguì la sua ragazza, “le nostre figlie sono molto unite, sono sempre insieme ma non incluse nel gruppo classe. Non ve n'eravate rese conto?"
La sua voce si alzò di alcune ottave.
Le maestre dissero di no.
"Cioè," continuò quella di francese, "vedevamo che erano sempre insieme ma non  credevamo che ci fosse questo tipo di situazione. Non interagivano molto con gli altri ma io vi assicuro che non ho mai sospettato nulla, altrimenti ve ne avrei parlato, vi avrei chiamati."
Le altre quattro convennero con lei.
"Non vogliamo giustificarci, sia chiaro" riprese la Rivers, "ma il problema è che il bullismo molto spesso è nascosto. I bambini faticano a parlarne con gli adulti e loro non si accorgono di ciò che accade perché i bulli agiscono soprattutto quando noi non ci siamo, quando non possiamo vedere o sentire, anche se non sempre."
"Elizabeth, da quando ce ne ha parlato, sta molto male" continuò Jayden. "Mangia pochissimo e non riusciamo in nessun modo a farle tornare l'appetito, quasi non parla ed è sempre nervosa, agitata, di notte dorme male e credo stia facendo un grandissimo sforzo per andare a scuola. Ieri non voleva nemmeno venire. È spaventata. Prima non si comportava così. Credo si sia tenuta tutto dentro e una volta buttata fuori ogni cosa, forse perché si è resa veramente conto della gravità della situazione, il suo corpo e la sua mente hanno cominciato a risentirne molto di più."
"La situazione di Mackenzie è altrettanto seria” continò Andrew. "I bulli, perché sono tre e se volete vi posso fare gli altri due nomi, non solo la isolano come nel caso di Lizzie, ma  le dicono che è diversa, le fanno capire che è inferiore, che siccome non parla non può giocare con loro, che visto il suo problema non è intelligente.”
Fu Demi a prendere la parola.
“Questa cosa è cominciata poco dopo l'inizio della scuola, io però mi sono accorta che lei non stava bene solo qualche tempo fa. Avevo dei sospetti ma molto vaghi. Venerdì scorso sono riuscita a farla aprire. Stamattina mi ha anche detto che James è arrivato alle minacce: lei era riuscita a difendersi, a chiedergli se gli piaceva giocare con i sentimenti della gente e lui le ha risposto che non doveva permettersi di dire una cosa del genere e che gliel'avrebbe fatta pagare. Ecco, leggete. Questo è tutto quel che mi ha raccontato."
Appoggiò sul tavolo intorno a cui erano seduti i fogli sui quali la bambina aveva scritto ogni cosa. Le maestre se li passarono e, per alcuni minuti, nella stanza non si sentì altro che il rumore della carta. Le donne si guardarono per qualche momento mentre i genitori delle bambine facevano lo stesso, domandandosi cosa stessero pensando le insegnanti. Sembravano preoccupate, il che era un buon segno perché significava che stavano prendendo in considerazione il problema e che, lo volesse il cielo, avrebbero fatto qualcosa.
"Indubbiamente la situazione è seria" disse la signorina Rivers. "Vanno presi provvedimenti immediati. Per prima cosa propongo di parlarne alla Direttrice e avere il suo parere, se tutti siete d'accordo. James è arrivato alle mani, Elizabeth avrebbe potuto farsi male visto che si trovavano vicino ad un banco, come c’è scritto qui, e che comunque è caduta per terra e credo che di questo la Preside debba essere informata."
"Vado a vedere se è in ufficio e la faccio chiamare, allora" propose l'insegnante di educazione fisica.
Tutti assentirono, così la donna si alzò ed uscì. Attesero, rimanendo in silenzio per un po'.
"È meravigliosa" commentò un'altra maestra.
Demi non ricordava cosa insegnava, forse scienze. Le sorrise e la ringraziò.
Allora tutti gli sguardi andarono verso Hope che si stava svegliando, e le espressioni tese divennero più rilassate.
“Mamma” mormorò la bambina, guardandosi intorno un po’ intimorita.
Si trovavano in una stanza che non conosceva con delle persone che non credeva di aver mai visto. Non ricordava che ne aveva incontrate alcune poche ore prima.
“Tranquilla! Io e papà dobbiamo parlare un po’ con loro ma tra un po’ andiamo, okay?”
Non aveva nemmeno un giocattolo da darle perché si intrattenesse.
Accidenti! pensò
Andrew aprì una tasca della giacca e ne tirò fuori un pupazzetto, un gufo.
“Ti piace?” le chiese e lei gli sorrise.
“Cosa si dice a papà?” le domandò la mamma.
“Grazie!”
“Prego, tesoro!” Si rivolse a Demi e le disse che gliel’aveva comprato quella mattina. “L’ho visto in un negozio e non ho resistito.”
“Sei stato carino.”
“Ho anche una cosa per Mackenzie.”
La ragazza riaprì la bocca, ma non fece in tempo a dire niente.
"Eccoci. Buongiorno" disse la Direttrice, entrando seguita dalla maestra. "Mi è stato riferito quel che è capitato. Innanzitutto, lasciatemi dire che mi dispiace immensamente per come si sono sentite le vostre figlie nei mesi passati e per come stanno ora. Queste sono cose che non dovrebbero mai accadere, e invece succedono sotto i nostri occhi ogni giorno.” Il tono greve della donna faceva capire che era sincera. “Mary, lei ha spiegato come si sente sua figlia ma Demi, vorrei sapere la stessa cosa anche di Mackenzie. Lo posso immaginare ma vede, per noi  è importante capire."
"Certo. Beh è molto spaventata, ovviamente. Non viene volentieri a scuola, credo lo faccia solo perché sa che vedrà Elizabeth; poi, a volte a casa quando fa i compiti si deconcentra, sbaglia cose che in realtà sa benissimo. Io attribuivo questo fatto alla stanchezza, ma da quando so ciò che le accade penso che sia anche - anzi soprattutto - la situazione a scuola che la fa stare  così. Inoltre, Mac va da una psicologa da qualche mese.”
“Sì, l’ha detto alla signorina Rivers e lei ha informato me e le insegnanti.”
Demi non ne aveva mai parlato con le insegnanti perché non credeva fosse necessario, anche se viste le emozioni forti che le ultime sedute le avevano procurato stava pensando di farlo. Non ne aveva ancora parlato con Andrew ma era un argomento che aveva intenzione di affrontare, aspettava solo che il giorno della riunione arrivasse, che venidssero prese delle decisioni. Prima aveva avuto troppe cose per la testa per fissare un colloquio, non sarebbe riuscita a dire niente. Andrew era stato male e questo l’aveva condizionata moltissimo. Mac però era stata davvero male a fine ottobre, i primi giorni di novembre era andato tutto abbastanza bene e allora lei si era rilassata e, stupidamente, non ci aveva più pensato. Il 7 di quel mese Hope aveva avuto l’incidente, i giorni seguenti era stata preoccupata per lei e adesso erano al 15. Ecco, in quelle due settimne avrebbe potuto, anzi dovuto parlare di Mac con le insegnanti. Evidentemente, però, lei l’aveva anticipata. Sul suo volto e su quello del compagno si palesò un’espressione sorpresa che durò solo un istante.
Demi spiegò perché non l’aveva fatto lei.
“Ho sbagliato, me ne rendo conto” disse poi. “Avevo tempo e l’ho sprecato.”
“Non l’ha fatto apposta, signorina Lovato” la rassicurò la Direttrice. “Si è concentrata sulla sua famiglia e sui vostri problemi e questa non può essere una colpa.”
Quelle parole non confortarono molto la ragazza, ma le tolsero dal cuore un po’ di quel peso che la schiacciava. Lei ed Andrew si scambiarono uno sguardo d’intesa e poi annuirono, raccontando dell’incidente di Hope. La bambina era tutta intenta a guardare il suo nuovo giocattolo e a passarselo da una manina all’altra per prestare attenzione al discorso.
“Questo ovviamente ha scatenato molta paura e preoccupazione anche in Mackenzie” concluse Andrew. “Ma dopo un paio di giorni, vedendo che la sorellina stava bene, si è calmata. È un incidente al quale pensiamo tutti spesso, però.”
“Posso solo immaginare” disse l’insegnante di francese mentre tutte le donne della stanza, che erano mamme, vennero percorse da un brivido.
“Ecco,” riprese Demi, “anche le sedute dalla psicologa non sono facili. A volte ricorda qualcosa e i ricordi sono terribili, la fanno stare male, però anche quando non rammenta niente non si sente bene. È un periodo complicato e il bullismo che ha subito l'ha reso ancor più brutto. Quel che mi consola è che non le sia successo niente di grave per esempio a livello fisico, che non abbia subito violenza insomma; perché questa situazione unita a tutto il resto l'ha fatta quasi uscire di testa, credetemi, e penso che se ci fosse stato qualche episodio più grave sarebbe completamente impazzita."
La ragazza, come Andrew del resto, credeva che Mackenzie fosse andata davvero molto vicina ad un crollo psicologico, anzi forse quella crisi di pianto di lunedì poteva definirsi tale in un certo senso.
“Ed Elizabeth come sta?”
“Anche per noi non è un periodo facile, Direttrice. Io e mia moglie abbiamo alcuni problemi di soldi e a volte litighiamo. La bambina ne soffre, però stiamo cercando di rimanerle vicino e di risolvere tutto, anche se è dura.”
Jayden non aggiunse altro, non voleva entrare troppo nei particolari e Mary non disse niente. A Demi sembrava strana, quel pallore così intenso non era normale. E poi perché non parlava? Non aveva nulla da aggiungere?
Notando la loro riservatezza tutti la rispettarono e non fecero altre domande.
"La psicologa non sapeva nulla del bullismo, quindi?" chiese la Preside rivolgendosi a Demi.
"No Direttrice, non aveva detto niente nemmeno a lei altrimenti l'avrei saputo. Ne hanno parlato per la prima volta ieri."
"Il bullismo può avere conseguenze devastanti sulle vittime; e oggi abbiamo potuto vedere che, nonostante Mackenzie ed Elizabeth non stiano malissimo in questa scuola non stanno nemmeno bene, non si sentono al sicuro tra le mura scolastiche, sono spaventate, nervose, ansiose. In questa scuola ci sono delle regole che devono essere rispettate da tutti, e di sicuro spingere di proposito una persona e farla cadere a terra o offendere in quel modo non è tollerabile."
Parlava a voce molto alta, tanto che i genitori la guardavano senza capire se fosse arrabbiata o cosa volesse fare.
"M-mamma!" balbettò Hope, leggermente spaventata.
"Shhh, va tutto bene."
La Direttrice sorrise alla bambina.
"Scusatemi, ho parlato troppo forte. Non volevo farle paura."
"Non si preoccupi" le rispose Andrew.
"Chi sono i bambini che offendono le vostre figlie?”
Andrew li disse.
“Il nostro regolamento prevede di parlare con i genitori di James, Brianna e Yvan per spiegare loro la situazione, dopodiché io stessa parlerò con i tre sia separatamente che insieme, per spiegare loro che certe cose non vanno fatte ma senza arrabbiarmi. Non dobbiamo spaventarli, bensì far comprendere loro che hanno sbagliato. E infine, direi di organizzare un incontro tra la classe e la psicologa della scuola con almeno una maestra presente. Lei potrebbe spiegare in parole semplici cos'è il bullismo, far vedere dei video o fare altri esempi. In seguito, l’insegnante che sarà in classe, ma anche le altre, dovranno controllare la situazione, aiutare le bambine e gli altri compagni a comunicare - decidete voi il modo - e speriamo che questi episodi non si verifichino più."
Andò avanti dicendo che spesso chi fa il bullo viene da situazioni familiari difficili, per esempio i genitori di James si erano separati da poco e che, se questo di certo non giustificava quei comportamenti, il punto era che non erano solo le vittime a dover essere aiutate.
"Visto che James è il bambino che ha fatto più cose gravi, offendendo, spingendo, rischiando di far male ad Elizabeth e minacciando Mackenzie di fargliela pagare se avesse detto tutto, disporrò per lui una sospensione di tre giorni."
"Non le sembra un po' troppo, Direttrice?" le chiese la maestra Josephine. "Insomma, di certo il bambino non comprenderà perché è stato sospeso."
"Non sarebbe meglio fargli scrivere una lettera di scuse, o magari chiederle personalmente alle compagne?" domandò un’altra.
"Ma certo, farà anche questo. Scusarsi è il primo passo per rimediare ai propri errori. Tuttavia la mia decisione non cambia. Manderò subito una lettera ai genitori che probabilmente verranno da me arrabbiatissimi, ma cercherò di calmarli e di spiegare la situazione. E comunque, arrivare alle mani è una cosa molto grave. Non posso non sospenderlo. Ovviamente prima gli parlerò e gli spiegherò ogni cosa."
Ne discusse ancora un po' con le maestre, alla fine convennero tutte che pur essendo una punizione davvero molto dura, vista la gravità della cosa forse era la scelta giusta. Anche Mary, Demi, Andrew e Jayden rimasero un po' sorpresi. Non si aspettavano una sospensione perché credevano che non fosse un metodo efficace e in fondo si trattava di un bambino di soli sei anni, però la Direttrice era molto più esperta di loro in queste cose, quindi si fidarono. E comunque l’importante era che anche lui capisse che aveva commesso un grave errore.
"Vi chiamerò io per dirvi quando si terrà l'incontro con i genitori di Brianna, James ed Ivan" proseguì la Direttrice.
"Dobbiamo partecipare anche noi?" chiese Mary.
Non sarebbe stato un problema, era solo una domanda.
"Meglio di no, più che altro per evitare che la situazione degeneri e ci siano brutte litigate. Parlerò io con loro , anche se ovviamente non sarà facile. Ogni genitore tende a difendere il proprio figlio e anche loro faranno così. In fondo, è difficile accettare che il tuo bambino faccia del male ad altri. Comunque vi farò sapere com'è andata. Se mi date i vostri numeri di cellulare…"
Allungò loro un foglio e i quattro scrissero, poi glielo riconsegnarono.
 
Dopo quella breve ma - se si poteva dire così - intensa riunione, i genitori di Mackenzie ed Elizabeth uscirono dall'aula ancora preoccupati ma provando anche sollievo. Le insegnanti avevano capito, non avevano minimizzato e avevano pensato a delle soluzioni per provare a risolvere il problema. Ora non restava che aspettare e sperare che, se fossero accaduti ancora fatti del genere, chi era vittima di bullismo sarebbe stato in grado di parlare prima di entrare in quel buio tunnel da cui è difficile uscire.
Una volta in cortile, Andrew e Jayden si presentarono e quest'ultimo lo fece anche con Demi.
"Qualcosa abbiamo fatto" disse. "Potremo rassicurare un po' le nostre figlie, oggi."
"Sì, speriamo che la situazione cambi però" rispose Demetria. "Quando ho denunciato gli atti di bullismo che subivo, non è successo nulla anzi. Non voglio che la storia si ripeta."
"Non ho vissuto niente del genere ma posso capire, in parte, le tue paure. Mia sorella era bullizzata al liceo."
"Oh, mi dispiace."
Demi si rattristò. Era sempre brutto sapere che qualcun altro aveva sofferto.
"Già. Ne ha passate tante." Restò vago, sembrava volesse aggiungere qualcos'altro a riguardo ma non lo fece e la ragazza non gli domandò nulla. Non voleva essere invadente. "Comunque poi si è ripresa, le ci sono voluti anni ma adesso sta molto bene."
Intanto Mary si era seduta su una panchina del giardino, con le mani appoggiate sulle ginocchia e il viso stravolto. Non poteva vederlo, ma sentiva che era così. Era stanca, aveva la nausea e le veniva da vomitare.
"Tesoro."
Jayden le prese una mano.
"Sto bene" mormorò la ragazza. "È normale, lo sai. Anzi, scusate."
Detto questo si alzò di scatto. Le girò forte la testa ma non ci badò e si diresse dentro l'edificio. Arrivata in bagno si chinò sul water e i conati di vomito arrivarono quasi subito.
"Gesù" sospirò Jayden, sedendosi. "È un casino, ragazzi. So che non vi conosco ancora molto e non vorrei annoiarvi con i nostri problemi…"
"Mary è una mia grande amica e le ho sempre voluto bene anche se per tanti anni non ci siamo viste. In amicizia i problemi di uno sono quelli dell'altro, per cui parla pure" gli disse Demi.
"Io faccio il pizzaiolo, lei la commessa. Niente di che, insomma.”
“Aspetta, che intendi con “niente di che”?”
“Che non sono lavori importanti come i vostri, Andrew” spiegò.
“Io credo che ogni lavoro sia importante. Che tu faccia l’operaio o che tu sia un uomo d’affari ricco sfondato, quello che fai conta.”
“È vero” convenne la ragazza. “Spero che il fatto di parlare con due persone di una classe sociale diversa non ti faccia sentire a disagio.”
Demi non si era mai trovata in quella situazione, aveva paura di dire cose sbagliate, che lui avesse dei pregiudizi sui ricchi o che avesse paura che loro lo considerassero inferiore a causa del lavoro che svolgeva.
“No, assolutamente! Non mi crea nessun problema, anzi non so perché ho detto quella cosa. Sono stanco.” Mary sembrava non rendersi conto che non era l’unica a stare male e ad essere preoccupata e lui, per non farla star peggio, si teneva tutto dentro ma stava arrivando ad un punto di rottura, così decise di lasciar stare il discorso che aveva fatto sul proprio lavoro e di sfogarsi un po’. Demi ed Andrew gli sembravano, a pelle, persone comprensive. “Alcuni giorni fa sono stato licenziato perché il mio ex capo preferisce assumere degli stagisti piuttosto che tenere persone come noi che stanno lì da anni perché quelli che fanno gli stage possono essere pagati o anche no, e sicuramente molto meno di un dipendente con un contratto diverso. Perciò ha tenuto quelli più anziani e con più esperienza. Da un giorno all'altro mi sono ritrovato senza un'occupazione e adesso ne sto cercando un'altra sempre in quel settore, ma è difficile con la crisi. Guadagniamo, o meglio guadagnavamo abbastanza soldi per vivere in tre, ma adesso…"
Demi, che da quando Mary aveva detto di stare poco bene aveva avuto dei sospetti, ora ne aveva la certezza.
"Meglio che vada a vedere come sta" disse mettendo giù Hope. "Resti con papà, mmm?"
"Sì."
La trovò davanti ad una finestra, intenta a guardare il sole che, a quell'ora, aveva raggiunto lo Zenit.
"Sto male" disse la ragazza. "Questo piccolino non vuole farmi mangiare sano. Vomito qualsiasi cosa che non siano cioccolata, patatine o schifezze del genere. Avevi capito che sono incinta?"
"Lo sospettavo, poi da un discorso di tuo marito ne ho avuto la conferma."
"Quindi sai che non abbiamo abbastanza soldi per sfamare un'altra creatura?"
"Sì, l'avevo intuito. Lizzie lo sa?"
"No. Non sa niente, nemmeno della nostra situazione. Sai da quanto tempo stiamo provando ad avere un bambino? Quasi un anno! Stavamo per andare dal medico e fare degli esami per capire se c'erano dei problemi e invece è arrivato. Il test era positivo ed ero così felice sabato scorso quando l'ho scoperto. Me lo sono tenuto per me per un giorno. Volevo godermi da sola la meravigliosa sensazione, la gioia di sapere di stare per diventare mamma un'altra volta!” Il suo viso si illuminò. Demi l’aveva vista così solo quando era vicino ad Elizabeth. I suoi occhi brillavano di una luce diversa, quando stava con lei, e adesso che parlava del bambino era lo stesso. Lo desiderava con tutta se stessa, era evidente; ma le preoccupazioni non le davano tregua. “E lunedì, dopo che mi hai detto quel che era successo a Mac e a Lizzie, Jayden è tornato a casa con la notizia che era stato licenziato; ed io che gli ho detto?
"Sono incinta."
Noi vogliamo questo bambino! Lo vogliamo, lo amiamo già alla follia!" mise in chiaro, mentre cominciava a singhiozzare. "Ma siamo in una situazione complicata al momento e…"
Mary scoppiò in un pianto che non riuscì più a controllare e che le impedì di continuare a parlare. Tremava, si sentiva debole e aveva solo bisogno di essere abbracciata. Fu quello che accadde, perché Demi la strinse piano a sé per evitare di farle male e cominciò ad accarezzarle la schiena.
"Vi aiuteremo, non preoccuparti. Vedrai che si risolverà tutto."
"Non voglio la carità" mormorò l'altra.
"Non è carità, è amicizia. Ora non riesci a credere che andrà tutto bene, e dicendolo non voglio minimizzare il problema o prendere sottogamba quel che state passando, anzi. Sappi che non siete soli in tutto questo, okay? Ci sono le vostre famiglie che vi possono aiutare, e ci siamo noi."
Capiva che per Mary e Jayden sarebbe stato molto difficile chiedere a lei o ad Andrew denaro o altre cose, del resto non è facile domandare una mano in questi casi perché si ha sempre paura di disturbare o di dare fastidio. Sperava però che, in nome di quel legame che le univa, la ragazza si sarebbe sentita più a suo agio almeno con lei e che le avrebbe chiesto una mano anche per cose semplici come andare a prendere Elizabeth a scuola al posto suo, se fosse stata troppo male o particolarmente stanca.
"Grazie."
Mary si sentiva strana, oltre ad avere un peso al petto aveva la sensazione che la sua faccia non fosse normale ma si disse che stava così perché soffriva molto e, in effetti, guardandosi riflessa nel vetro notò di essere pallidissima e di avere un'espressione sofferente che esprimeva alla perfezione il dolore che provava. Dolore nel temere di non riuscire a crescere bene quel bambino, di non potergli dare una vita decente. Eppure lo amava, era suo figlio e sarebbe rimasto con loro qualsiasi cosa sarebbe accaduta. Non aveva mai pensato, nemmeno per un momento, di non tenerlo nonostante le paure, le insicurezze e i problemi. Non voleva pensare a suo figlio come ad un peso, ma come ad un bellissimo regalo che Dio le stava facendo. D'istinto si toccò il ventre.
"Di quanto sei?"
"Due mesi." Sorrise. Fu un sorriso appena accennato, ma l'importante era che la ragazza si sentisse un po' meglio. "Me ne sono accorta un po' tardi.”
“E come ti senti? A parte il fatto che non mangi sano, intendo.”
“Le nausee sono ancora piuttosto forti e il ginecologo ha detto che alcune donne le hanno per tutta la gravidanza, anche se non succede spesso. Spero non sia il mio caso. Con Lizie le ho avute tutto il primo trimestre e l'ultimo, anche se meno intense. Domani ho la prima ecografia.”
“Quando lo direte a Lizzie? Non voglio metterti fretta, solo sapere.”
“Ma figurati, avevo capito. Prestissimo, forse oggi. Desidera un fratellino da un sacco di tempo!”
"Dovrai fare anche altri esami, immagino."
"Oh, sì. Il dottore mi ha già spiegato tutto anche se mi ricordavo parecchie cose dalla prima gravidanza, poi devo seguire una dieta specifica e,  insomma, stare un po' attenta a certe cose. Per me ciò che conta è che sia sano e che stia bene. E tu, pensi di averne un giorno?"
"Mi piacerebbe, anche se fare l'inseminazione non sarà semplice. Vedremo."
"Ho bisogno d'aria."
Mary si accorse di star sudando, era corsa lì dentro per stare da sola e sentirsi più protetta ma adesso le pareva di soffocare.
"Okay, calma. Respira piano. Dentro e fuori, dentro e fuori, lentamente."
Grazie a quella tecnica Mary riuscì a tranquillizzarsi, e mano nella mano le due amiche uscirono.
"Amore!" Jayden le si avvicinò e la abbracciò con affetto. "Come ti senti?"
"Un po' meglio. Andiamo a casa?"
"Sì, abbiamo bisogno di riposare. Tutti e tre."
Dopo aver salutato Andrew e Demi e averli ringraziati, i due se ne andarono. Sembravano, se non sereni, perlomeno più tranquilli.
"E così, la loro famiglia si allarga" disse Andrew.
"Già. Magari lo farà anche la nostra, un giorno."
"Sarebbe bellissimo! Comunque un mio amico gestisce un ristorante che fa anche pizze, metterò una buona parola per Jayden."
“Sei molto gentile.”
Hope, a poca distanza da loro, calpestava le foglie secche che si trovavano sul prato.
“Che bel rumore fanno le foglie in questa stagione” osservò l’uomo.
"Vero. Dovremmo andare a casa, adesso."
Si stava facendo tardi, la bambina aveva sicuramente fame anche se giocando non se ne accorgeva, e poi quella era una scuola e non potevano rimanere lì a divertirsi.
"Hope!" la chiamò il papà, ma lei non lo ascoltò.
Era piegata in avanti. Demi si avvicinò a lei temendo che avesse preso in mano qualcosa o, peggio, che l'avesse messs o in bocca.
"Non devi prendere in mano quel che trovi per terra" le disse, indicando prima la terra e poi la foglia che stringeva fra le piccole dita, poi fece di no con la testa perché capisse.
"Perché?"
"Perché per terra è sporco, ti fai la bua" cercò di spiegarle, visto che Hope non avrebbe potuto capire il senso delle parole "ti ammali". "Su, dammi questa foglia."
"No."
Aveva letto che a quasi due anni d'età i bambini cominciano ad essere un po' ribelli, a dire più spesso di no, a cercare di dire con fermezza le loro opinioni.
"Me la dai così la posso vedere meglio?"
Era inutile sgridarla, pensò. La cosa giusta era portare pazienza.
Hope aprì la manina e gliela fece vedere. Le nervature irregolari erano marroni, ma avevano delle sfumature di un rosso appena accennato alle estremità, mentre il centro era ancora verde.
"Wow" riuscì a dire la ragazza, pensando che era incredibile che non sapesse aggiungere altro riguardo una semplice foglia secca.
Il suo colore l'aveva colpita, tanto che la mostrò ad Andrew.
"In effetti è molto strana, ma mi piace" disse l'uomo.
Hope sorrise tutta contenta e si mise a saltellare.
Dopo averle fatto lavare le mani, i genitori la portarono a casa. Decisero di andare in quella di Demetria e una volta entrati la ragazza andò in cucina a preparare il pranzo. Cucinò un piatto di pasta con un sugo che aveva preparato un paio di giorni prima, che consisteva in zucchine tagliate a pezzettini e un formaggio spalmabile. Il tutto formava una crema niente male. Hope non aveva ancora iniziato a mangiare sempre da sola, i genitori la facevano provare e la aiutavano di meno. La mamma tirò fuori una forchettina di plastica. Aveva le punte un po’ arrotondate ed era perfetta per lei. Cominciò a mangiare e Andrew fece lo stesso. La bambina attese qualche secondo, li guardò per capire meglio come facevano e poi provò. Batté la forchetta nel piatto e cercò di tirare su il cibo come si fa con il cucchiaio. Un po’ di sugo uscì e le sporcò la maglietta.
“Non fa niente” disse Demi, che immaginava sarebbe accaduto. “Hope!” esclamò, per richiamare la sua attenzione. “Guarda come fa la mamma. Si tiene la forchetta così, dritta. Vedi queste? Si chiamano punte. Ecco, si prende il cibo in questo modo, poi si alza la posata e si mette in bocca.” Mentre parlava le faceva vedere tutti i passaggi a rallentatore. “Prova.”
“No!”
“Hope, per favore.”
“No, non voio!” si lamentò.
“È stanca, forse dovresti…” provò ad intromettersi Andrew, ma la fidanzata lo fermò subito.
“No, voglio che inizi ad imparare. Con calma, ma deve. Non posso trovare ogni volta una scusa per imboccarla.”
Non voleva essere dura, né mettere fretta alla piccola perché in fondo ogni bambino ha i suoi tempi, però desiderava stimolarla e che cominciasse ad utilizzare almeno la forchetta. Per il cucchiaio forse ci sarebbe voluto di più, perché la minestra era liquida e l’unica volta che aveva provato, Hopenon era riuscita a tenere dritto il cucchiaio neanche una volta.
“Mamma!” si lamentò.
A Demi si spezzava il cuore sentirla supplicare un aiuto in quel modo, ma non voleva stare ai suoi capricci.
“Puoi farcela” la incoraggiò. “Te ne do una io, okay? Guarda come faccio, però.”
Questo servì da spinta a Hope, che subito dopo cominciò a mangiare da sola. Si sporcò di sugo, qualche pasta uscì dal piatto e andò sul seggiolone, una volta ci mise dentro le mani, ma comunque punzecchiava il cibo e anche se a volte le cadeva, sembrava aver capito il meccanismo. Ogni tanto Demi le dava da bere, ma aveva cominciato ad insegnarle anche a prendere il bicchiere con una mano. Per ora gliene faceva utilizzare uno di plastica.
“Io!2 disse infatti la piccola, prendendolo dalla mano della mamma.
Lo tenne stretto e riuscì a bere molto lentamente.
“Brava!” si complimentarono con lei i genitori, poi le sorrisero.
La bambina non ricambiò, era troppo stanca perfino per fare quello. Fu Andrew a infilarle il pigiamino e a metterla nel lettino accanto a loro due.
"Mmm, mmm" disse la piccola, spostandosi per trovare una posizione più comoda.
Era raro che usasse quel linguaggio che invece aveva utilizzato da piccola, ma ogni tanto lo faceva, soprattutto nei momenti nei quali era stanca.
Demi si alzò e le diede un bacio, poi tornò al suo posto.
Per quanto riguardava il riposo di Hope, lei e il suo ragazzo avevano avuto delle discussioni in quegli ultimi giorni. Demi sosteneva che sua mamma aveva fatto dormire lei e le sue sorelle da sole dai due anni di età, mentre Andrew diceva che la cosa andava anticipata e che avevano aspettato anche troppo. Non avevano mai litigato, solo parlato, però su questo avevano opinioni diverse e avevano deciso di riparlarne quando la situazione si sarebbe calmata un po'. Demi non era mai stata una di quelle mamme che pensano che i bambini vadano lasciati in una camera da soli fin da subito. Hope però sarebbe stata con la sorella per il momento, anche se la camera dove poi avrebbe dormito era già pronta, quindi forse era ora che accadesse e lei stava solo prendendo tempo perché non dormire più con la figlia la faceva soffrire. Non l'avrebbe mai ammesso, ma ogni volta che ci pensava non si sentiva bene.
Poco dopo si addormentarono tutti.
 
 
 
 
Mackenzie si alzò dalla sedia sentendo le gambe deboli. La campanella era suonata e avrebbe dovuto seguire gli altri compagni fino a fuori scuola, ma rimaneva immobile. Elizabeth era di fronte a lei, nella stessa identica posizione. Si guardavano, serie.
Dai! esclamò la prima. Abbiamo litigato per una sciocchezza che poi abbiamo ingigantito. Non ce la faccio a rimanere arrabbiata con te ancora a lungo. Io ti voglio bene, se ho detto cose brutte sappi che non le pensavo.
"Ah, è colpa mia! Sono stata una stupida. Non avrei dovuto prendermela così tanto."
Risentire la voce dell'amica dopo ore fu un sollievo per Mac, fu come vedere un raggio di sole dietro una coltre di nuvole nere.
"E comunque nemmeno io le pensavo. Eravamo entrambe nervose per stamattina e abbiamo litigato anziché aiutarci."
Allora diciamo che siamo pari.
"Sì, pari."
Si strinsero la mano e poi si abbracciarono. Fu un abbraccio lungo, forte e intenso, che avrebbero voluto non finisse più. In quel gesto ritrovarono tutto l'affetto e il calore di cui avevano bisogno.
Mi sei mancata tanto!
"Anche tu!"
Eravamo vicine, ma mi sentivo come se fossimo a chilometri di distanza.
Era stato brutto per entrambe, perché litigare  con qualcuno a cui teniamo è una cosa che fa soffrire molto. È anche necessaria per mantenere in equilibrio il rapporto, se le litigate non sono frequenti ovvio, ma le due bambine erano troppo piccole per capirlo.
"Adesso sono di nuovo con te, e tu con me. Pensiamo a questo."
Si diedero un bacio sulla guancia e poi uscirono, mano nella mano. Avevano risolto le loro incomprensioni velocemente, come fanno i bambini del resto. Abbiamo tanto da imparare da loro, in questa e in altre mille cose. Mac era ancora debole e in quel momento si rese conto che non si trattava solo di una stanchezza psicologica, ma anche fisica. Aveva i brividi, le girava la testa e faticava un po' a respirare.
Una volta fuori le amiche si salutarono e ognuna andò dalla propria mamma.
"Che c'è?" chiese Demi a Mac, dopo averla salutata.
La vedeva strana.
Non so. Non mi sento tanto bene.
Per sicurezza le toccò la fronte con le labbra.
"Dio, ma sei bollente!"
Le aveva fatto anche il vaccino antinfluenzale oltre a tutti gli altri, com'era possibile? Beh, in realtà può capitare di ammalarsi anche dopo quell'iniezione, ma non credeva che sarebbe successo a sua figlia. Forse anche lo stress aveva contribuito.
Una volta a casa, Hope le corse incontro e la abbracciò. Mackenzie ricambiò ma la  lasciò subito, non voleva starle troppo vicino per paura che si ammalasse.
“Mac!” Andrew si alzò dal divano e andò ad abbracciarla. “Hai la febbre?”
Sì. Come hai fatto a capirlo?
“Basta guardarti. Sei bianca come un cencio.”
Cos’è un cencio? chiese incuriosita.
Non aveva mai sentito quella parola, ma il suono le piaceva. Sapeva di antico.
“Uno straccio.”
Ah.
“Vado a vedere se c’è della Tachipirina” disse Demi e scoprì di non averne in casa.
Era strano, di solito ne teneva sempre un po’.
“Posso andare a comprarla con Hope, se vuoi” propose il suo ragazzo.
“Grazie, mi faresti un gran favore.”
“Sciroppo, immagino.”
“Sì.”
Mackenzie si mise una mano davanti alla bocca per non rischiare di vomitare.
"Giochi?" le domandò la sorellina e vedere i suoi occhietti pieni di speranza le spezzò il cuore.
"Non può, tesoro. Mac non sta tanto bene" le spiegò la mamma.
A Mac dispiacque non accontentare la sorella, anche perché vide il suo bellissimo sorriso spegnersi per un attimo e quella fu la cosa che le provocò più dolore. Nonostante il dispiacere, si sentiva troppo debole anche solo per concentrarsi su qualcosa e andò in camera, dove si infilò il pigiama e si distese a letto. La mamma le misurò la febbre e scoprì che il termometro segnava 38,8 quindi lei, che si era sentita uno straccio anche con la febbre più bassa, adesso era praticamente distrutta.
Ho la nausea riuscì a scrivere dopo un po'. E mi viene da vomitare, anche se è da ore che non mangio niente.
"Ti porto dei cracker. Ti asciugheranno lo stomaco."
No, mamma aspetta. Non ce la faccio a mangiare adesso, mi sento troppo male e sono stanca. Magari dopo.
"Va bene, come vuoi.”
Hope ci è rimasta molto male, vero?
“Le dirò che giocherete molto presto.”
Non vedo l’ora! Adoro giocare con lei, anche se vuole quasi sempre fare le torri con le costruzioni o i cubi. Come fa a piacerle sempre lo stesso gioco?
Demi sorrise.
“I bambini piccoli sono così. Com’è andata oggi a scuola?”
Ho litigato con Lizzie.
Al solo ricordo le venne da piangere, ma si trattenne.
"Perché?"
Per un motivo che neanche mi ricordo, da una piccola cosa abbiamo ingigantito sempre di più il discorso finché in pratica non ci siamo parlate per quasi tutto il tempo. Oggi pomeriggio abbiamo fatto pace, però.
"Sono contenta. È sempre brutto litigare con gli amici" rifletté Demi, ricordando la discussione con Selena che le aveva portate a separarsi per tanto tempo.
Com'è andato l'incontro con le maestre oggi?
Mackenzie voleva saperlo, erano ore che se lo domandava e non si dava pace, prima pensava che fosse filato tutto liscio e poi che forse c'erano stati dei problemi, non sapeva se essere ottimista o pessimista e stava impazzendo.
Demi le spiegò cos'avevano deciso le insegnanti e la Direttrice e Mackenzie tirò un sospiro di sollievo. Avevano creduto a lei e a Lizzie, allora. C'era ancora la speranza che le cose potessero cambiare, migliorare. E, si disse, per quanto riguardava la psicologa e il fatto che da un po' di tempo sentiva di non avere più la forza di ricordare, Mac ci aveva pensato a lungo non parlandone con nessuno. Non ne poteva più, era stanca. E sapeva cosa doveva fare. Il lunedì seguente ne avrebbe parlato con Catherine. In ogni caso, per quanto concerneva la situazione a scuola, non voleva avere speranze troppo alte per non rischiare di restare delusa. Era meglio cercare di mantenere un po' di ottimismo e aspettare di vedere cosa sarebbe accaduto.
Dopo aver preso la Tachipirina e fatto mille smorfie - Dio, faceva schifo! - chiuse gli occhi. Demi si sedette accanto a lei, su una sedia che portò lì apposta.
"Sono qui, amore" la sentì sussurrare. "Non ti lascio."
La ragazza non se l'era sentita di dire a Mac che aveva chiamato Catherine quel pomeriggio, dopo che Andrew le aveva riferito ciò che si erano detti il giorno precedente e che la psicologa aveva proposto di fare una seduta anche al giovedì. In fondo la bambina aveva la febbre e, anche se il giorno seguente fosse passata, alla donna non pareva il caso di farla uscire nemmeno per andare a scuola. Se fosse stata bene ci sarebbe tornata venerdì. Mandò un messaggio a Catherine per farglielo sapere. Ma purtroppo quella della bambina non fu una febbre passeggera. Dopo un paio d'ore si alzò arrivando a 39,7, e a quel punto i genitori telefonarono alla pediatra che però non trovarono in studio visto che era molto tardi. Le mandarono dunque una mail spiegandole la situazione e chiedendole se avrebbero dovuto portarla all pronto soccorso e il motivo per cui, secondo lei, si era ammalata visto che non aveva preso freddo né si era bagnata.
"Te lo ripeto, è meglio andare in ospedale" insisteva Demi cercando di non alzare la voce.
"Senti, sono preoccupatissimo anche io, ma ho avuto la febbre alta parecchie volte e non è sempre il caso di andarci" rispondeva Andrew, provando a restare calmo.
Non era facile perché i due parevano non trovare un punto d'accordo e Mackenzie, che a volte dormicchiava ma più spesso era sveglia anche se teneva gli occhi chiusi, ascoltava e ci stava male. La febbre, però, le faceva perdere la cognizione del tempo e la sua testa era confusa, piena di pensieri e di sogni che ricordava solo in parte, e ai quali non riusciva a dare un senso logico. Dormiva e sognava, poi si svegliava di colpo e quelli, che fossero belli o incubi, si interrompevano all’improvviso. Sentiva la mamma dire che la pediatra aveva risposto, che aveva detto che forse si era ammalata a causa dello stress eccessivo e poi basta, non udì altro perché la sua mente la portò lontano da tutto ciò che la circondava. Per un solo istante ebbe paura di quella sensazione, il cuore accelerò i battiti ma poi vi si abbandonò completamente, perché la faceva sentire in pace.
 
 
 
"Io e la mamma dobbiamo dirti un'altra cosa" riprese Jayden quella sera.
Elizabeth era a cena con i suoi e aveva appena ascoltato il resoconto della riunione, avendo più o meno gli stessi pensieri di Mac. L'ansia però non l'aveva lasciata, non del tutto almeno. Non voleva abbassare la guardia, illudersi.
"Che cosa?" chiese, cercando di nascondere la nota stanca della sua voce.
Quel giorno era stato già abbastanza pesante, non avrebbe sopportato un altro colpo. Aveva già parlato ai genitori della litigata con Mackenzie che, anche se grazie al cielo si era risolta, l'aveva ferita.
"Ascolta tesoro, non è colpa di nessuno ma io sto avendo qualche problema. Ho perso il lavoro."
Jayden aveva cercato di girarci un po' intorno, di renderle la cosa il meno dolorosa possibile ma alla fine aveva dovuto dirglielo.
"Cosa?"
La bambina alzò il tono, spalancò la bocca e sgranò gli occhi. Non se l'aspettava. Era ancora piccola, non ci capiva molto, ma sapeva che niente lavoro significava niente soldi e che senza denaro non si mangia e non si vive. I genitori non le avevano mai fatto mancare nulla, ma adesso che c'era questo problema cosa sarebbe cambiato?
"Posso rinunciare ai miei regali di Natale" disse subito, "tanto so già da un anno che non me li porta Babbo Natale ma che lo fate voi."
"No, non è vero!" esclamò Mary.
"Dai, mamma."
"Chi te l'ha detto?"
"Dei bambini all'asilo. Erano molto convinti e così ci ho creduto."
Mary e Jayden non trovavano giusto che certi genitori raccontassero così presto ai bambini la verità. Era più bello farli sognare, fantasticare su quell'uomo con la slitta e le renne che veniva a portare loro i regali se erano stati buoni.
"Perché non ci hai raccontato che lo sapevi?" le domandò il padre.
"Boh, perché alla fine non ci sono rimasta poi così male. Nel senso, posso comunque credere a Babbo Natale anche se so che non esiste, no?"
"Ma certo che puoi, lo facciamo anche io e la mamma. Vero cara?"
"Assolutamente!"
Elizabeth scoppiò a ridere.
"Non stiamo scherzando. È giusto tenere nel cuore quella magia, sai? Non dimenticarlo mai."
"Okay. Comunque davvero, posso rinunciare a quelli se vi fanno risparmiare qualcosa."
I genitori la abbracciarono e le diedero un bacio. Quel che aveva detto li aveva commossi nel profondo, e anche se alla fine le avrebbero comunque preso un regalo, apprezzavano il pensiero.
"Troverò un altro lavoro, vedrai. Sto andando a chiedere in alcuni ristoranti anche fuori città se cercano un pizzaiolo, mando curriculum di qua e di là o a volte li porto a mano, ma ci vorrà un po' di tempo. Comunque una soluzione la troviamo" cercò di tranquillizzarla il papà, che in realtà provava a calmare anche la moglie e se stesso.
"E c'è un'altra cosa che devi sapere" disse Mary. "È una cosa bella, però" continuò, accarezzandosi il ventre.
Elizabeth non ci fece nemmeno caso. Aspettò.
"Sono incinta!"
Furono le parole con il suono più dolce e bello del mondo.
"Che… che cosa? Ripetilo, per favore."
Non poteva crederci. Il suo cuore cominciava già a battere a velocità supersonica.
"A giugno avrai un fratellino o una sorellina, tesoro!"
A quel punto Elizabeth non resistette. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo alzando le mani in aria, poi abbracciò la mamma cercando di non stringerla troppo forte e, mentre lo faceva, sorrideva e piangeva al contempo.
"Che bello! Mamma, papà, che bello!" continuava a ripetere.
Avrebbe voluto bene a quel bambino e anzi, in realtà era già così, l'avrebbe coccolato e viziato, ci avrebbe giocato insieme. Insomma, sarebbe stato tutto fantastico. Quella notizia le fece dimenticare il resto, i problemi e le preoccupazioni cessarono di esistere per un po' per lasciare il posto alla felicità.
 
 
 
La pediatra aveva detto di portare Mackenzie in ospedale il giorno dopo se la febbre fosse stata ancora così alta. Era a 39,7 e Demi ed Andrew erano preoccupati. La donna era anche stata così gentile da venire a casa loro dopo quella telefonata per visitarla e, quando i genitori le avevano tolto le maglie perché la dottoressa la auscultasse e quando le aveva guardato in gola, ci era mancato poco che si mettesse ad urlare. Era stanca, aveva mal di testa, freddo, nausea e sonno, però non riusciva a dormire, come accade in quelle sere in cui siamo talmente esausti che l'unica cosa che vorremmo fare è addormentarci ma chissà perché non ne siamo capaci. Ecco, lei stava provando questo e la cosa la innervosiva parecchio. La pediatra aveva detto che la gola non era infiammata e che la piccola respirava bene, non aveva catarro né altro e aveva chiesto se per lei fosse un periodo stressante. Demi aveva risposto di sì e spiegato… cosa? Mac non lo sapeva, non aveva ascoltato, la sua mente si era persa chissà dove. Forse in realtà aveva dormito per qualche secondo, non era riuscita a capirlo. Comunque la donna aveva detto che poteva trattarsi di un fatto psicosomatico e spiegato che a volte quando siamo molto stressati ci possiamo ammalare, ma che passa con tanto riposo e un po' di tranquillità.
"Di solito la febbre arriva la sera e va via la mattina, ma non è così per tutte le persone in questa situazione" aveva continuato. "Dato che Mac è tanto tesa come dite, la sua febbre è più alta e non accenna ad abbassarsi. Tachipirina ogni quattro ore, scrivete ogni volta che la misurate quanta febbre ha e se non…"
E lì la sua mente era andata di nuovo via.
Quanto tempo era passato da quella visita? Un minuto? Un'ora?
"Mmm."
Un piccolo, debole lamento, che però le aveva fatto udire la sua voce. Era da un po' che non accadeva, che non sentiva riaffiorare in lei la speranza che quei debolissimi suoni strozzati che faceva ogni tanto forse, un giorno, si sarebbero trasformati in parole e frasi.
"Hope si è addormentata" sentì dire ad un certo punto e capì che era stato il papà a parlare.
Lo vide in piedi al centro della stanza, mentre la mamma era seduta su una sedia accanto al suo letto. Mackenzie la guardò e cominciò a gesticolare con le mani. Evidentemente quel suono era stato troppo debole e la donna non lo aveva sentito, altrimenti avrebbe avuto qualche reazione.
"Amore, ehi, cosa c'è?" le domandò Demi e lei continuò a fare gesti che, era evidente, la mamma non comprendeva.
Cercò di mimare l'atto di scrivere e dopo alcuni tentativi, proprio quando il nervosismo era tanto forte che la piccola aveva iniziato a mordersi il labbro inferiore trattenendo un pianto, Demi comprese e le passò quello che desiderava.
"Non sforzarti troppo, però" disse con dolcezza.
Mac trasse un profondo respiro e cercò di uscire da quello stato di confusione.
Sapete chi mi ha insegnato a scrivere così bene? chiese.
“No” rispose Andrew. “Chi?”
Come Demi, immaginava fossero stati i suoi genitori naturali, anche se la bambina aveva poco meno di cinque anni quando li aveva tragicamente perduti. Certo, ci sono bambini che imparano a scrivere prima di andare a scuola, quindi era possibile che Mackenzie avesse imparato.
La mia mamma, Tamara. Quando avevo circa tre anni le ho chiesto cosa voleva dire la parola “impavido”, perché me l’aveva letta in una storia in cui c’era un cavaliere che una principessa definiva così. Da allora ha capito che anche se ero piccola mi interessava imparare parole nuove, gliene domandavo sempre di più e ne ricordavo molte. Dopo mi ha insegnato a scrivere il mio nome e il cognome e da lì altre parole, poi piccole frasi semplici; e piano piano ho imparato. Mamma diceva che non si finisce mai, comunque, per questo ogni tanto chiedo e a volte cerco le parole sul… come si chiama quel libro così grande in cui ci sono tante parole?
“Dizionario” rispose Demi.
Ecco, quello.
“Tua mamma è stata molto brava” osservò Andrew.
Già. È grazie a lei se ogni tanto dico parole difficili. Volevo spiegarlo perché immagino vi sembri strano.
Detto questo, la bambina rimise al proprio posto il foglio e la penna e si riadagiò tra le coperte, troppo debole e stanca per scrivere ancora.   
 
 
 
"Io resto con lei" mormorò Demi.
"Va bene."
"Hope?"
"Si è addormentata, ma la sveglio perché è quasi ora di cena e se dorme adesso, stanotte non lo farà più. Tu non mangi niente?"
"Quando è pronto arrivo."
Andrew le circondò le spalle con un braccio.
"Ehi, come ti ho detto anch'io sono preoccupato, come per Hope i giorni dopo l'incidente." I loro sguardi si riempirono di tristezza e di dolore a quel ricordo ancora recente. "Ma abbiamo due bambine forti che hanno sempre lottato anche se piccole. Guarirà."
"Come fai ad esserne sicuro? Ha la febbre così alta!"
"Se dopo cena non si abbassa, faremo qualcosa."
La guardò ancora e lei capì.
"Quello? Non le piacerà."
"Non piace a nessuno, ma è necessario. Credimi, non lo vorrei fare. Stando così male potrebbe anche piangere e odio veder piangere lei o voi, ma se vogliamo aiutarla, oltre a darle le medicine questo è l'unico modo."
Demi sospirò.
"Come diavolo fai ad essere così sicuro di te? Lo sei stato quando mi hai detto che anche se avremmo dovuto controllare Hope i giorni seguenti non dovevamo preoccuparci, quando in realtà lo abbiamo fatto entrambi. E me lo dici adesso con una sicurezza e una positività che non…"
"Ah ah, ferma. Non riesco ad essere molto positivo, come te, e lo sai. È il nostro carattere. Tu sei migliorata molto negli anni, io invece no."
"Andrew, hai sofferto molto e lo stai ancora facendo, non è passato nemmeno un anno! Non pretendere troppo da te stesso. Per quanto riguarda me sì, sono migliorata ma ci sarà sempre una parte di me tendente al pessimismo, se così lo vogliamo definire. Comunque va bene, l'ho accettato e sono sicura che, quando supereremo questo periodo, staremo meglio tutti quanti."
Andrew sorrise.
"Già. Stavo dicendo che cerco solo di darti e di dare a me stesso forza e fiducia. Io e te ci sosteniamo a vicenda, siamo l'uno la roccia dell'altra. È così in amore quando ci sono delle difficoltà. E tra me e te sarà così per sempre."
Demetria sentì il suo cuore scaldarsi. Andrew era stato incredibilmente romantico nel dire quelle cose e le aveva dato coraggio. Sapeva che era un uomo dolce, che la capiva e che le dava forza, ma ogni volta che accadeva lei provava delle emozioni nuove e più intense. Non curandosi del fatto che Mackenzie stesse dormendo a pochi centimetri da loro la ragazza si alzò, i due si abbracciarono e avvicinarono i loro volti, lasciandosi poi trasportare da un bacio dal gusto dolceamaro, perché in sé racchiudeva i dolori che avevano patito ma anche le gioie che avevano provato, e l'amore che ardeva nei loro cuori come una fiamma che, speravano, non si sarebbe spenta mai.
Quando la porta si fu chiusa Demi prese la mano della bambina e gliela strinse piano per non svegliarla. Sembrava che dormisse tranquilla il che era un buon segno, vista la situazione, ma il fatto che non si muovesse in realtà non significava nulla. Si possono fare incubi orribili anche senza agitarsi nel sonno. Quando Andrew la chiamò per la cena, la ragazza non voleva uscire dalla stanza. Lasciare Mackenzie da sola… E se le fosse successo qualcosa? Se si fosse alzata e fosse caduta?
"Ho già mangiato, resto io" disse l'uomo, intuendo le preoccupazioni della fidanzata.
"Grazie. Hope ha cenato?"
"Sì. È ancora in cucina, comunque."
I due avevano già cominciato a parlare del fatto che sarebbe stato meglio iniziare a farle usare la sedia, soprattutto visto che all'asilo i bambini pranzavano su una sedia davanti ad un tavolino molto basso. Temevano però che, dato che quelle che avevano a casa erano più alte, Hope avrebbe potuto cadere e sbattere la testa, quindi pensavano di abituarla gradualmente.
Quando Demi arrivò in cucina, la trovò sul seggiolone intenta a giocare con un pacco chiuso di pasta come faceva quando era più piccola. Era stata Dianna a consigliare alla figlia di fare così, sostenendo che i bambini si divertono molto con giochi del genere perché sentono un rumore che a loro piace.
"Ciao" la salutò, poi cominciò a versarsi la minestra nel piatto.
"Ciao" rispose la piccola, si fermò per un secondo e poi continuò a muovere quel sacchetto, guardandolo con la tipica curiosità dei bambini che osservano le cose di tutti i giorni come se le vedessero per la prima volta.
La ragazza cominciò a mangiare. Non aveva molta fame, ma doveva tenersi in forze se voleva stare accanto a Hope e aiutare Mackenzie. La pediatra aveva detto che si era ammalata a causa del troppo stress, che a volte poteva capitare e che lei ed Andrew avrebbero dovuto farla stare tranquilla e rilassata. Hope la guardava e lei le sorrideva. Durante quella cena frugale il loro contatto si ridusse a ciò. Finito il pasto, Demi lasciò la pentola con la minestra avanzata sul fornello spento - l'avrebbe messa in frigo una volta raffreddata -, pensando che l'avrebbe lasciata per Mackenzie. Di sicuro si sarebbe svegliata con fame, ore dopo. Adesso non se la sentiva di svegliarla: se dormiva significava che il suo fisico ne aveva bisogno. Hope prese a lamentarsi.
"Voio… voio!" continuava a dire e non riusciva a pronunciare la parola successiva, ma agitava braccia e gambe sperando che la mamma comprendesse.
"Vuoi scendere, ho capito" disse infatti, prendendola in braccio.
La bambina si calmò subito e le sorrise.
Passarono diversi minuti a camminare mano nella mano per il salotto, poi si sedettero sul divano e si abbracciarono. Hope però voleva giocare e andò a prendere un carrellino giocattolo che riempì di frutta e verdure di plastica.
"Brum, brum, brum" diceva girando per la stanza.
"Oh, grazie!" esclamò Demi quando le portò una mela e fece finta di mangiarla. "È buonissima. Vediamo cos'altro hai preso. Un kiwi, una banana…"
"Banana" ripeté la bambina.
"Sì, brava. Poi un pomodoro, dell'uva e due zucchine."
Li diceva piano, in modo che Hope li potesse capire.
"Pomo" disse, non ricordando le altre lettere. "Uva" e mentre lo faceva, prendeva i frutti e la verdura giusti.
"Sì, esatto! Bravissima!"
Demi batté le mani e si fece i complimenti: le aveva insegnato bene nei mesi precedenti, facendole annusare e assaggiare quei cibi. Anche con Mackenzie ce la stava mettendo tutta per farla crescere bene. Sì, non era male come mamma.
"Demetria vieni, la febbre si è alzata."
La ragazza sospirò. Quel piccolo momento di tranquillità era finito.
Nonostante fosse presto misero Hope a letto, visto che era passato un po' da quando aveva mangiato e fortunatamente la bambina si addormentò in fretta.
"A quanto è?" chiese la ragazza entrando con Andrew nella stanza di Mac.
"A 39,8."
"Maledizione!"
La bambina era sveglia, li aveva sentiti ma non aveva fatto molto caso alle loro parole.
"Va bene, facciamolo" continuò Demi.
"Okay."
Mac aveva solo tanto freddo, avrebbe voluto che la smettessero di parlare e la lasciassero riposare in pace, ma allo stesso tempo non sentiva più di avere sonno. Aveva fatto brutti sogni, ma confusi quindi non ricordava molto. Il cuore le batteva in modo strano, ma stava così male che non capiva se lo facesse più piano o più veloce. Sapeva solo che faticava a respirare, sudava e poi aveva i brividi, con le poche forze che aveva continuava a coprirsi e a lanciare via le coperte.
"Tesoro, ascoltami" le disse la mamma, parlando il più dolcemente possibile. "Hai la febbre molto alta, ora faremo una cosa per abbassarla. Abbiamo questa bacinella d'acqua, vedi?" Girandosi, la bambina vide che era lì per terra. Non notava vapore, il che significava che o era appena tiepida, o… non era fredda, vero? Un brivido gelido le scese lungo la schiena. "Io e papà ti dobbiamo spogliare per passarti sul corpo un asciugamano."
"Sarà freddo," continuò Andrew, "ma dopo un po' ti farà stare meglio."
"Ma io ho già freddo!" avrebbe voluto urlare la bambina. "Mi volete far stare peggio?"
Cominciò a respirare più in fretta ma provò a fare in modo che non si udisse. Si disse che avrebbe dovuto essere coraggiosa anche in quell'occasione, perché benché paresse una stupidaggine, il pensiero di avere più freddo le faceva venire voglia di gridare. Serrò le labbra mentre i genitori la spogliavano, ma si lamentò un po'. Non appena uno dei due, non capì chi perché teneva gli occhi chiusi, le appoggiò l’asciugamano sul petto lei mandò al diavolo quel che si era detta e urlò. Gridò come se la stessero ammazzando, aprì gli occhi e si rese conto di non vedere più i suoi genitori. Erano lì ma lei ormai non lo capiva più. La febbre le annebbiò di nuovo la mente e stavolta anche la vista. Davanti a sé vedeva solo una nebbia fitta e null'altro, sapeva di stare facendo qualcosa ma non cosa.
Andrew e Demi assistettero ad una scena che non avrebbero mai voluto vedere. La bambina gridava, si dimenava, cercò di scendere dal letto ma loro la tennero ferma per paura che alzandosi in piedi potesse svenire o cadere. Batteva i pugni sul materasso e scalciava. Fu inutile parlarle, cercare di calmarla, prenderle le mani per aiutarla a tranquillizzarsi, come dirle che se avesse continuato ad agitarsi a quel modo si sarebbe sentita peggio. Tra le sue urla disperate si sentiva il pianto di Hope, ma Andrew e Demi erano troppo occupati a tenerla ferma per andare dalla più piccola. Non lo fecero con cattiveria, ovviamente. Non riuscivano a capire se era la febbre a farla reagire così o se stava avendo una delle crisi di cui aveva sofferto in passato.
"Chiamo un medico, un'ambulanza, qualcuno!" esclamò Andrew e stava per allontanarsi quando Mackenzie si fermò improvvisamente.
Restò ferma e il suo respiro pian piano si calmò.
I genitori rimasero qualche secondo senza sapere cosa fare, poi provarono a continuare a rinfrescarla e lei non si oppose più. Una volta rivestita tornò a dormire. La sua crisi era durata meno di un minuto, ma era stata forte e ai due adulti era sembrato che fosse trascorsa un’orribile eternità.
"Devo dirlo alla pediatra, domani, soprattutto se la febbre non si abbasserà" mormorò Demi.
"Sì, è la cosa migliore."
Mackenzie riaprì di scatto gli occhi, allungò una mano e trovò il foglio e la penna che aveva lasciato sul letto da una parte.
Mamma? scrisse, con una calligrafia talmente incerta che non sembrava nemmeno la sua.
"Sono qui."
Tremava e le era difficile vedere, ma voleva dire quella cosa perché ci credeva davvero, ne era convinta.
Questa malattia è un castigo di Dio.
Quando lo lesse, Demetria rimase per un momento senza parole. Mackenzie stava delirando, era chiaro. Chissà, forse aveva pensato a un programma che avevano visto qualche giorno prima, nel quale era stato detto che nel Medioevo le persone interpretavano le malattie come un castigo divino.
"Non è vero, amore. Non dire  così."
Sì, invece! Forse sono stata cattiva, ho fatto qualcosa di male o di brutto.
Era inutile cercare di farla ragionare.
La notte la mamma rimase con lei mentre Andrew andò a dormire in quella che ormai era diventata anche la sua camera. Mackenzie fu preda di incubi orribili.
 
 
Non sapeva dove si trovava, non vedeva nulla. C’era nero intorno a lei, era tutto buio. Provò a muoversi ma non ci riuscì, non capiva nemmeno se in quel posto facesse freddo o caldo. Voleva la mamma, ma non aveva idea di come tornare indietro. Cominciò a respirare male, a sudare e a tremare con violenza. Se solo avesse potuto sedersi forse si sarebbe tranquillizzata, ma il suo corpo non si muoveva ancora, una forza sconosciuta lo bloccava. Nessuno la stava tenendo ferma, però. Era solo paralizzata. Il panico aumentò. Era tutto confuso, in quello come in altri sogni. Udì James le urlava:
"Sei solo una stupida! Negra, non vali niente!"
e insulti simili, mentre lei nel sogno guardava a terra e piangeva. Poi, non sapeva se in un altro sogno o nello stesso sentì i due spari che avevano messo fine alla vita dei suoi genitori naturali cambiando quella sua e di Hope per sempre e lei e Hope sull'ambulanza, che urlavano per il dolore delle bruciature.
 
 
Si svegliò di soprassalto, poco dopo si addormentò. I sogni si mescolavano l'uno con l'altro in una confusione incredibile di voci, parole, suoni che tutti insieme mettevano ancora più paura.
Demi vide sua figlia agitarsi nel sonno mentre respirava con affanno, le tolse le coperte più volte per asciugarle il sudore dal petto e dal viso e anche qualche lacrima. Andrew veniva a controllare, rimaneva con lei un po', la aiutava, cercava di calmare la bambina e poi se ne andava, ma veniva spesso.  Non sapeva che ora fosse quando Danny entrò in camera e saltò subito sul letto della bambina. Si mise sopra la sua pancia e cominciò a massaggiare con le zampe facendo le fusa, poi si distese accanto ai piedi della piccola e rimase lì. Di sicuro aveva capito che non stava bene e che poteva aver bisogno di lui. Mackenzie allora si calmò. Non fece più nessun brutto sogno e Demi si rilassò vedendola più tranquilla. Ad un certo punto, dopo aver vegliato per ore, la ragazza prese sonno sulla sedia e stavolta fu lei a sognare.
 
 
Si ritrovò su una spiaggia. Era sola, ma non aveva paura. Camminò a piedi nudi sulla sabbia godendosi il rumore delle onde che si infrangevano contro la riva. Ad un certo punto vide Buddy in acqua, che saltava. Le si avvicinò e si lasciò accarezzare.
"Ciao, piccolino!" esclamò la ragazza, felice ed emozionata.
Non poteva crederci: il cane che aveva amato più della sua vita e poi perduto in una maniera tanto tragica adesso era lì con lei. La leccò e le fece le feste, poi scappò via come un fulmine e sparì.
 
 
Demi si svegliò. Ricordava benissimo ciò che aveva sognato, ma non era triste al contrario di quanto si sarebbe aspettata. Anzi, stava bene. Era come se Buddy fosse andato da lei per dirle di stare calma, che tutto si sarebbe risolto.
"È un segno" disse fra sé. "E forse devo proprio farmeli, quei tatuaggi."
Ci pensava da un po' di tempo. Desiderava tatuarsi qualcosa in onore del suo cane, ma nonne era mai stata convinta del tutto. Adesso però, anche grazie a quel sogno, pensò che l'avrebbe fatto non appena ne avesse avuto l'occasione. Buddy c'era sempre stato per lei, l'aveva aiutata ad affrontare momenti bui, le aveva fatto compagnia ma era stato molto più di un animale domestico, quasi un figlio, e proprio nel momento del bisogno era tornato. È proprio vero che chi abbiamo perso si fa sentire anche quando non è più fisicamente accanto a noi.
Appoggiò le labbra sulla fronte di Mackenzie. Era ancora calda ma scottava molto meno, la febbre si era abbassata.
"Brava, tesoro" sussurrò. "Sei stata forte anche stavolta."
"Come va?" chiese Andrew entrando.
In quel momento Mackenzie si svegliò e sorrise. Fu un sorriso luminoso, che i genitori non le vedevano fare da un po'.
"Sembra meglio. Ora le misuro la febbre. Che ore sono?"
"Le sei." Il termometro segnava 38. "Molto meglio di ieri!" esclamò l'uomo, tirando un sospiro di sollievo.
Sono ancora molto debole scrisse Mackenzie, che subito dopo si sentì sfinita.
"È normale, piccola. In questi giorni ti tengo a casa, tornerai lunedì se la febbre sarà passata."
Va bene, mamma. Tanto i compiti me li passa Lizzie.
E la questione della situazione in classe poteva aspettare. Mac non avrebbe avuto la forza di affrontarla in quel momento. Nonostante tutto, si dissero i tre, speravano ancora che presto dietro le nuvole avrebbero visto spuntare il sole.
 
 
 
Credits:
Miley Cyrus, Wrecking Ball
 
 
 
NOTE:
1. quel che ho scritto su Skid Row è vero, l’ho letto in un articolo trovato su internet di una persona che ci è stata, che aveva anche intervistato alcuni suoi abitanti e ho visto un documentario su YouTube. Purtroppo non ho potuto vedere le immagini, ma ho ascoltato la testimonianza di un senzatetto. Spero quindi di essere stata sufficientemente accurata, vi assicuro che mi sono documentata il più possibile.
2. La questione delle vetrate e delle finestre da cui entra luce non è un caso, e non lo è nemmeno il fatto che sia una cosa rilassante sia per Mackenzie che per i suoi genitori e per quelli di Elizabeth. Io vedo la luce solo con un occhio, il sinistro, e a volte guardarla mi rilassa, soprattutto se ne entra molta. La palestra delle mie scuole medie era come quella delle elementari di questa storia.
3. Ci si può davvero ammalare per lo stress. A me è successo, anche se non mi è venuta la febbre ma una serie di problemi fisici che sono durati per anni. Ognuno reagisce in maniera diversa, ovviamente. A Mackenzie è venuta la febbre, ad altre persone invece sale la sera e va via la mattina, come ho letto su internet e come ha detto la pediatra. Io invece avevo mal di stomaco, mal di testa, nausea e vomito.
4. Ho detto io, diversi anni fa, la frase che la bambina pronuncia sul castigo divino. Ricordo che avevo fatto le gare di atletica la mattina e un compagno di un’altra classe delle medie mi aveva offesa pesantemente dandomi anche un calcio. È sempre stato uno stronzo, quel ragazzino, fin dalle elementari e non ho problemi a dirlo. Comunque, siamo andati dal Preside per spiegare quello che era successo e per paura che non mi credesse ricordo che sentivo il cuore battermi fortissimo e la testa girare. Non rammento com’è andata a finire, ma so che mi è salita la febbre alta come quella di Mac e che ho detto una frase del genere. Sono stata male una settimana.
5. L’ultima frase si riferisce a tre cose che Mac e i suoi sperano: al fatto che la situazione in classe migliori, che Andrew stia meglio (in fondo è ancora in cura per la depressione e sta soffrendo, come ha detto Demi, per Carlie) e che in generale le cose andranno bene per tutti, per ritrovare un po’ di serenità.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
sono tornata!
Perdonatemi per il ritardo, ci sono state cause di forza maggiore. Innanzitutto per un mese ho studiato tutto il giorno per fare dei concorsi che poi non ho passato, e quindi non ho scritto niente. In seguito mia mamma è stata operata.
Innanzitutto, non dovete rileggere ma ho fatto alcune modifiche. In primo luogo al capitolo 83, nel quale avevo scritto che Andrew prendeva i farmaci per gli attacchi di panico da una settimana e dopo pochissimo tempo li cambiava. Tuttavia perché si possa vedere se un farmaco fa effetto o no bisogna lasciar passare almeno un mese, quindi ho scritto che lui era andato dal medico poco dopo essere uscito dall'ospedale perché aveva gli attacchi di panico quando Demi non c'era e che le aveva nascosto il fatto di prendere i farmaci, mettendoli in un posto dove lei non guardava mai. E la ragazza, pur notando che l'uomo era molto stanco e che spesso era giù, aveva dato la colpa di questo al fatto che aveva perso la sorella da poco e non aveva avuto sospetti a riguardo. Poi ovvio, ho aggiunto che ci è rimasta molto male che lui non le abbia raccontato niente ma che comunque ci sono persone che si vergognano di prendere quelle medicine o hanno paura di ammetterlo e quindi alla fine capiva perché lui l'aveva fatto. Poi ho apportato qualche modifica nel capitolo In cui Hope rischia di annegare scrivendo semplicemente che il medico dice ai genitori di controllare che nei due o tre giorni eguenti non abbia certi sintomi come stanchezza, nausea, vomito ecc. e che se succedesse dovrebbero portarla subito in ospedale (l'ho aggiunto perché mi sembrava giusto che venissero informati di cosa poteva accadere), ma alla fine appunto non succede nulla. E qualcos'altro, ma dettagli, ho precisato meglio alcune cose sui farmaci che Andrew prende modificando dallo Zoloft al Litio, farmaco che sinceramente a me fa stare molto meglio del primo, ma gli effetti sono gli stessi anche quando lo sospende. Ho cambiato queste cose per motivi di correttezza, volevo precisare meglio.
Tornando a noi, avevo già scritto un po’ quando mamma era in ospedale e anche prima, ma in questi giorni ci ho dato proprio dentro ed è uscito questo capitolo che, sinceramente, non credevo sarebbe venuto così lungo. Ho anche deciso di non scrivere una scena perché non era importante e quindi ho tagliato rispetto a come l’avevo pensato. Comunque, al di là della lunghezza c’è un po’ di roba: Mackenzie ed Elizabeth litigano, tutti sono agitati per la riunione e ognuno reagisce a suo modo, Mary è incinta (ve lo aspettavate?) e suo marito ha perso il lavoro, Mackenzie si ammala a causa del troppo stress. Penso farò comparire la famiglia di Elizabeth un po’ più spesso da ora in avanti, non in tutti i capitoli ma sicuramente un po’ più di prima.
Ho cercato di allungare il più possibile la parte del colloquio con le insegnanti, più di questo non credo ci fosse altro da dire. Secondo voi la decisione della Direttrice è stata giusta o troppo dura? Non sapevo se andarci giù pesante con James, alla fine ho deciso che si meritava  una punizione più forte degli altri, quindi oltre a capire che aveva sbagliato deve anche pagare le conseguenze di aver fatto cadere una compagna intenzionalmente, per di più vicino ad un banco rischiando di farle male sul serio e diaverne minacciata un'altra. Non ho però trovato materiale su sospensioni o bocciature negli Stati Uniti alle elementari. Ma una mia amica mi ha fatto riflettere che di solito in prima elementrare i bambini non vengono bocciati. Anche se, credo io, dopo una sospensione non si viene promossi, ma non so, quindi non ne ho parlato. Se James verrà promosso o meno dipenderà dal suo comportamento nei mesi successivi oltreché dal suo rendimento scolastico. Tuttavia, anche se ho cancellato la bocciatura, la sospensione ci sta tutta e non la tolgo. Okay, okay, sono stata dura lo so. Credetemi, ci ho pensato tanto prima di prendere questa decisione.
E Mackenzie? Vi è piaciuto il racconto di alcune cose del suo passato che ancora non si sapevano?
Nel prossimo capitolo parlerò di più giorni, precisamente di quelli che andranno dal lunedì successivo al giorno prima del battesimo delle piccole, ovvero una ventina. Devo, non posso più parlare di un giorno solo in ogni capitolo altrimenti non vado più avanti.
L’accenno alla prima mamma affidataria delle bambine verrà approfondito nel capitolo seguente, dalla psicologa. Mi sembrava importante parlarne almeno un’altra volta.
E niente, Hope è un amore come sempre. *-* Ho riassunto le discussioni tra Andrew e Demi riguardo il cibo e il riposo per non allungare troppo il testo, spero non siano risultate troppo affrettate.
A presto e grazie come sempre di tutto! Grazie anche ad Emmastory che mi ha consigliato di mettere la scena con Batman a scuola.
   
 
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