Serie TV > The Vampire Diaries
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Autore: darkrin    07/03/2019    1 recensioni
Li aveva visti davanti al Pantheon. Era stata la voce dell’uomo a tradirli e a farle voltare di scatto la testa, prima di potersi trattenere, di potersi fermare perché non aveva alcuna intenzione di farsi riconoscere e di essere costretta a parlarci. Era stata la sua voce, che un tempo le aveva fatto scorrere brividi lungo la schiena, solo accarezzando le sillabe del suo nome – Ca ro li ne –, e che in quel momento era intenta a raccontare a una ragazza dai capelli scuri e la pelle nivea di come Michelangelo considerasse quell’opera una creazione degli Angeli. / o di quella volta in cui Caroline andò in vacanza a Roma e incontrò Klaus in dolce compagnia di una ragazza dagli occhi azzurri e i capelli scuri.
(Klaroline | future!fic | tiene conto solo parzialmente degli avvenimenti della s6 di TVD e di TO | ORA UNA RACCOLTA IN TRE PARTI)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Klaus, Mikael
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: 
- Ho iniziato questo capitolo tipo ere geologiche fa e ora lo odio dopo aver tentato invano di farlo uscire meglio, mi sono arresa alla dura verità: che questo è il meglio possibile e addio. 

- Capitolo scritto per la M2 della quarta settimana del COWT di Lande di Fandom, prompt: Perdere qualcosa e ritrovarla.
- Il libro che legge Klaus a un certo punto è "L'amante" di Marguerite Duras; la canzone della strega invece è "At Last" di Etta James. 
- Shangai pare sia stata costruita su vecchie risaie e quindi ingegneri mi dicono che sta lentamente sprofondando a causa dei nuovi grattacieli e delle nuove linee di metro, ma poi boh, mal che vada prendetela come una licenza poetica. /o\

- "Il Gyokuro, un tè giapponese fra i più preziosi, quello delle grandi occasioni, chiamato anche "rugiada preziosa": è un tè ricco di clorofilla, grazie alla lavorazione, dall'inconfondibile colore verde brillante e dal sapore dolciastro.Il Genmaicha è il tè tipico delle colazioni giapponesi, miscelato con riso integrale tostato e chicchi di riso soffiati, molto gustoso e dal colore marrone chiaro." fonte qualche pagina internet che avevo trovato anni fa e ormai perso da secoli. 
- La rhumeria di Parigi esiste davvero e si trova dietro Bastille e, almeno da fuori, sembra una giungla.

- NO BETA quindi ogni errore è colpa mia, segnalatemelo pure. 


 
Passi
(Terzo Tempo)
                                                                                                                                                             
 
 
But I kept running
And then I ran some more
Because each time you run you kick back into you
I realized
Walking away from fairytales
And video games
And dreams and monsters
Is not walking away from yourself
 […]
I just want to be here and listen to piano music in my living room on a Sunday afternoon and think of the man I kicked back into
With love
And more love
While I was running.
(Iona Cristina Capasu)
 
 
 
È a Shangai che tutto finisce.
La città cinese è andata incontro, negli ultimi anni, a una crescita esponenziale: le vecchie abitazioni di lamiere, separate da buie strade di fango sono state soppiantate da immensi e pesanti grattacieli; le linee della metro si sono moltiplicate come piccole gallerie scavate da talpe laboriose; spessi cavi della luce si attorcigliano intorno ai rami degli alberi e la città, costruita su un’antica risaia sta lentamente sprofondando nel disinteresse generale. Si continuano ad aprire cantieri e a progettare linee di trasporti su un suolo che non può sostenerli e Caroline pensa che è una fottuta metafora.
A Shangai, Klaus se ne va, sbattendosi la porta alle spalle con un ringhio. Caroline rimane ad osservare la porta divelta ed i cardini che rimangono come penzolante testimonianza di quello che era ed ora non è più – di qualcosa che aveva e ora ha perso.
Da qualche parte, uomini continuano a svuotare le fondamenta della città e Caroline li sente come se le stessero scavando nel petto, come se tutta quella terra e quel fango glielo stessero strappando dalla cassa toracica.
 
 
Visita Tokyo da sola.
Compra una cartina all’aeroporto e mentre lascia cadere monete sconosciute sul bancone pensa a tutte quelle città per le cui strade ha girato senza nessun bisogno di leggere o informarsi o fare ricerche. Pensa che la Caroline che è cresciuta a Mystic Falls che era sempre preparata su tutto non l’avrebbe mai perdonata, che ci sono un sacco di cose che non le avrebbe perdonato. Pensa che a volte le manca, a volte si manca.
 
 
Le cose iniziano a finire, quando Hope li saluta, alla stazione di San Pietroburgo, e la bolla che hanno così faticosamente costruito comincia a perdere i suoi confini: ché se le persone possono andarsene, se possono alzarsi una mattina e decidere che devono raggiungere una madre, uno zio, un vecchio amico dimenticato, una tomba, sepolta da qualche parte, vuol dire che c’è un mondo fuori. Che esiste altro oltre le opere d’arte e i magnifici paesaggi, oltre al peso del braccio di Klaus intorno alla sua vita e al sorriso di Hope al mattino.
Klaus si volta a guardarla, mentre il treno si allontana e l’odore di Hope sparisce nell’aria, e per un attimo non sembra sapere cosa dire, ora che non c’è sua figlia a riempire i loro vuoti, a colmare le distanze. Caroline gli sorride e gli tende una mano e l’uomo esala un sospiro, prima di stringere le dita intorno alle sue e farsi trascinare per le strade della città.
San Pietroburgo è piena di colori, ma l’aria è spaventosamente fredda e Caroline sente quel gelo risalirle nelle vene e cristallizzarsi nei suoi polmoni quando osserva Klaus usare la compulsione su una ragazzina poco più piccola di Hope per divorarla in una stradina buia. Distoglie lo sguardo, ma non è abbastanza per nascondere i gemiti di dolore e l’odore del sangue che sembra risalirle nelle narici e incastrarvisi come un cancro.
Le ricorda un’altra scena, un’altra ragazza, capelli biondi contro il muro di una stradina adiacente al Mystic Grills e non è la stessa cosa, non è la stessa violenza, ma – Caroline si manca, si chiede se, da qualche parte, si è persa.
Dalle labbra della ragazza si leva ancora un gorgoglio indistinto, quando Klaus si volta a guardarla da sopra la spalla, con il mento sporco di sangue e gli occhi dorati e la trova intenta ad osservare con spaventosa attenzione la parete di mattoni davanti a loro. Un ringhio ferino gli sfugge dalle labbra perché non riesce neanche a sopportare di guardarlo e Caroline si volta, con gli occhi grandi come vecchie biglie di vetro. Per un istante non fanno altro che fissarsi, finché Klaus tende una mano versa di lei e non c’è sangue sulle sue dita perché ha fatto attenzione per lei, ma lascia cadere il cadavere della ragazzina – che era la figlia di qualcuno, la sorella, l’amica, l’amore della vita di… - a terra con la stessa noncuranza che presterebbe a una camicia, a una borsa, a qualcosa che non sia una fottuta persona e Caroline non riesce a distogliere lo sguardo da quel cadavere ai loro piedi. Quel cadavere che li separa.
Spera che Klaus non abbia visto il leggero tremito - l’esitazione - che le ha scosso le dita, spera che non si accorga di come, mentre si dirigono verso l’albero che li accoglie, gli cammini più distante del solito.
Quella notte Caroline si sveglia in un bagno di sudore e terrore, con l’immagine degli occhi di Klaus – dorati e pieni di tutto il sangue del mondo – impressa nella mente. Le mani dell’uomo corrono subito ad accarezzarle i capelli e la schiena nuda e Caroline trattiene a stento l’istinto di sobbalzare e allontanarsi – e singhiozzare perché le si spezza il cuore, le si spezza, le si…
- Caroline, tesoro, va tutto bene, era solo un incubo, era solo… -
Mormora all’infinito tra i suoi capelli e a Caroline sembra di sentire una punta di senso di colpa nella sua voce e si chiede se il suo incubo sia davvero finito.  
 
 
Il problema è: quella ragazzina le ricorda una Caroline passata e non le importa poi così tanto che sia morta, divorata da un mostro. Una parte di lei sempre più grande si ritrova a pensare, mentre osserva il cadavere davanti a lei macchiare la neve sporca di San Pietroburgo che è triste, ma normale, è così che va, è la catena alimentare. Caroline si deve ricordare – deve fare uno sforzo, capite? - che quella che ha di fronte è una persona che aveva una famiglia, degli amici, un amore, forse o forse non ne aveva mai avuto e avrebbe meritato una possibilità, del tempo.
Caroline ripensa a sua madre, a quanto poco è passato da quando era ancora umana anche lei e non si sente pronta a guardare il mondo con quegli occhi.
 
 
Tokyo, spiega la guida, è una città in continua evoluzione. È una capitale cosmopolita in cui coesistono panorami futuristici dominati da grattacieli, showroom delle più importati industrie di prodotti tecnologi, treni che Caroline teme siano in grado di andare più veloci anche di un vampiro, e quartieri popolari in cui ancora si respira l’aria di secoli passati. È un’immensa contraddizione, ma questo sembra solo renderla più maestosa. Ancor più facile da amare e terribile da dimenticare.
Da qualche parte, le sembra di sentire una galleria riprendere a pulsarle nel petto.
 
 
La prima volta che indossa un kimono per partecipare ad una cerimonia del tè al The Koomon, si sente di nuovo una principiante. Si sente come quella vola che, da bambina, è sgattaiolata in camera di sua madre per provare i ben pochi trucchi e le collane di Liz Forbes e quando aveva fatto una piroetta su sé stessa, con una risata tintinnante sulle labbra, aveva trovato sua madre ad osservarla sulla porta. Caroline era arrossita furiosamente, ma sua madre aveva solo scosso la testa e le aveva accarezzato i capelli con un sorriso.
- Stanno meglio a te che a me – aveva mormorato con la voce piena di affetto.
Come quella volta fa una piroetta su sé stessa, ma ad accoglierla c’è solo lo sguardo critico della donna che l’ha aiutata a vestirsi e che la scruta con espressione impenetrabile prima di dare la sua approvazione con un secco e asettico cenno del capo.
Caroline rimane sola, senza nessuno con cui condividere, nessuno che la guardi, che…
Una parte di lei si chiede se fosse questo che cercava in Klaus: qualcuno che la guardasse con quell’amore cieco che solo sua madre era stata in grado di rivolgerle, si chiede se il suo fosse solo un tentativo di scappare dalla solitudine che ora sembra volerla divorare.
C’è una galleria da qualche parte nel suo petto che le dice che non sarebbe scesa a compromessi con tutto quello che Klaus è e tutto il sangue dei suoi amici che gli macchia le mani solo per sentirsi amata, solo per riempire il vuoto che Liz Forbes ha lasciato, ma non riesce a prestarle ascolto.
Caroline si guarda allo specchio – ha i capelli biondi raccolti e l’obi le stringe la vita - e non si riconosce.
Qualunque cosa fosse quello che la legava a Klaus, si dice, scuotendo il capo e raddrizzando le spalle come un reginetta di bellezza, non ne resta che terra e fango.
 
Alcune foglie sono scivolate nella sua tazza, Caroline le osserva vorticare nel tè giallo chiaro, mentre stringe la tazzina di ceramica tra le dita e si bea del calore che le risveglia i polpastrelli. Si lascia sfuggire un sospiro, mentre poggia le labbra sul bordo e lascia che un po’ di quel liquido caldo le scivoli nella gola: ha un sapore dolciastro, con un lieve aroma di riso al forno e Caroline può immaginare migliaia di persone, di contadini nelle loro case che si preparano ad affrontare la loro giornate, decine di generazioni, bere questo tè del popolo e immagina che Klaus non le avrebbe concesso di assaggiarlo, pensa che l’avrebbe costretta ad assaporare il Gyokuro, affermando che null’altro fosse alla sua altezza.
Pensa che un tempo sarebbe stata lusingata da quell’ennesima attenzione, da quel riconoscimento della sua importanza, ma ora il pensiero le fa venire la nausea.
Il sapore del tè le scalda la gola e Caroline si sente parte di qualcosa – di umano, di vivo, di meraviglioso.
 
 
Passa una giornata intera a Shibuya, senza bisogno di mangiare o di bere. Di giorno osserva giovani coppie, studenti, gruppi di amiche incontrarsi e sorridersi e cerca di immaginare cosa si stiano dicendo, per cosa quella ragazza stia sorridendo e gesticolando a quel modo, cosa riempia i loro sacchetti, le loro borse, la loro vita. Alla sera osserva tutte le luci dell’incrocio diventare rosse, il traffico interrompersi e passanti comparire da ogni luogo, come sputati dalla terra stessa, per riempire lo spazio lasciato libero dalle autovetture.
Segue una coppia per le strade illuminate dalle insegne fino ad un albergo ad ore e li guarda sparire dietro la porta già avvolti l’uno nell’altra e si sente come una divinità misericordiosa che osserva dall’alto le creature a cui ha dato origine mentre queste approfittano della loro libertà, del loro essere vivi. Si sente come una madre che osserva i suoi bambini crescere e diventare indipendenti. Si sente vecchia e altro da quel mondo pieno di vita che vede scorrerle davanti nelle strade trafficate di Tokyo.
Si sente così poco umana e si chiede da quanto questa sia la vita di Klaus. Si chieda cosa voglia dire sentirsi così per secoli: vedere il mondo scorrere, le persone care morire, smettere di avere amici e amori e non essere parte di nulla, essere come una roccia lentamente erosa dal tempo. Si chiede cosa sarebbe rimasto di lei – della figlia di Liz Forbes, della capo cheerleader di Mystic Falls, dell’amica di Elena e di Bonnie, della ragazza che si era fatta ingannare da Damon Salvatore solo per un briciolo di attenzioni e una parvenza d’amore – se avesse l’età di Klaus. Si chiede cosa rimarrà di lei e non vuole, non vuole, non vuole scoprirlo. Non è pronta. Non sa se lo sarà mai, non sa se ha ancora tempo per prepararsi o se di lei non resta già nient’altro che un film dell’orrore.
 
 
Quella notte squarcia decine di sacche di sangue e le trangugia insieme alle sue stesse lacrime, il gusto salato delle sue secrezioni si mischia a quello del plasma e il sapore quasi le dà la nausea. Si chiede perché non dovrebbe bere sangue umano, perché dovrebbe trattenersi, perché se gli uomini mangiano conigli, agnelli, cani, gatti e lei non è mai stata vegetariana, non ha mai voluto esserlo, è solo parte della catena alimentare e…
Al mattino viene accolta da un paesaggio di mobili frantumati e pareti macchiate di sangue B negativo – lo riconosce dall’odore, che si mischia a quello acre delle lacrime.
Usa la compulsione su un’inserviente perché pulisca tutto e dimentichi ogni cosa e cambia albergo, cambia incrocio, cambia strada. Vorrebbe cambiare città, paese, scappare, nascondersi, ma c’è qualcosa che la trattiene ancorata a quel luogo.
 
 
Visita un cimitero pieno di tombe di sconosciuti e si inginocchia davanti a ideogrammi misteriosi per pregare e ricordare i suoi morti. Per chiedere loro perdono per essere diventata così diversa da quello che aveva promesso di essere. Per desiderare altro da quello che aveva promesso, che aveva scritto sul diario quando aveva sedici anni e un cuore che le batteva ancora nel petto.
C’è un ramo di ciliegio, posto in un vaso davanti alla tomba, e Caroline ne osserva i fiori chiari, mentre racconta a sua madre ogni colpa, ogni scelta.
- Mamma – mormora con voce già spezzata. – Mamma – e vorrebbe che Liz fosse lì, che potesse accarezzale i capelli, risponderle e dirle che va tutto bene, che non importa, che è fiera di lei, che vuole solo che lei sia felice, che la autorizza ad essere felice, a scendere a compromessi, ad accettare tutta l’oscurità e la morte che si porta dietro, che si porta dentro. Tutto il desiderio di rivedere Klaus, nonostante il tradimento e la delusione che ancora le bruciano le ossa.
 
 
La prima volta che lo chiama è assolutamente sobria, ma è tardi e Klaus non risponde. Caroline lancia il cellulare sul materasso con uno sbuffo e uno sguardo di puro odio, come se fosse colpa dell’oggetto.
La seconda, Klaus riattacca e Caroline quasi grida d’oltraggio nella sua stanza d’albergo.
Dopo la terza, Klaus le manda un messaggio in cui le ingiunge di smettere di chiamarlo da ubriaca.
Alla quarta, la sterile voce dell’operatore le comunica che: il numero da lei selezionato non esiste.
Caroline decide che ne ha abbastanza.
Non è così difficile rintracciare una strega, non dopo aver vissuto per anni con Bonnie e aver viaggiato per mesi con due dei Mikaelson. Più difficile è convincerla a lavorare per lei nel rintracciare l’Ibrido Originale.
 
***
 
L’abitazione della strega si trova in una stradina leggermente in salita. Dall’esterno appare uguale alle case bianche ed ordinate che la circondano, ma basta aprire la porta per avere l’impressione di essere stati trasportati in una giungla tropicale. Il pavimento è spaccato da radici e zolle di terra da cui spuntano piante dalle foglie ampie e rigogliose; i rami si intrecciano tra di loro e si spingono fino a raggiungere il soffitto, dove volano sciami di piccoli insetti.
L’aria della casa è carica di umidità e Caroline non soffre più il caldo, ma la sente pesarle addosso come un macigno.
- È permesso? – chiede al silenzio della stanza che la accoglie, quando la porta si apre, sola, al suo arrivo.
È un vampiro e non ha intenzione di andarsene fino a quando non avrà ottenuto quello di cui ha bisogno anche a costo di non muoversi dall’uscio per mesi, ma sua madre l’ha cresciuta perché fosse una bambina educata. E lo è ancora. Una persona educata, non una bambina, anche se Klaus ha espresso un’opinione diversa a riguardo l’ultima volta che si sono visti, quando l’uomo se ne è andato sbattendosi la porta alle spalle e promettendole silenziosamente di non cercarla mai più, di non farsi vedere, di lasciarla sola per l’eternità e Caroline non sa se voleva essere una vendetta o un atto di compassione - per lei.
Caroline scuote la testa: non è il momento per pensare a certe cose. A Klaus o a come quella casa le ricordi una rhumeria in cui Hope li aveva trascinati una sera, mentre erano ancora a Parigi, e Caroline ancora pensava di non aver bisogno di altro. Che le sarebbe bastato farsi trasportare dall’entusiasmo di Hope o dal desiderio di Klaus per essere felice. E forse aveva ragione Klaus, forse è davvero ancora solo una bambina
Scuote di nuovo la testa, con più veemenza per scacciare quei pensieri e gli insetti che sono discesi a ronzarle intorno al volto. Sembrano grossi, grassi e rigogliosi come le piante che li circondano.
- Non mi sorprende che tu non sia in grado di apprezzarle – afferma una voce, tra le fronde.
Caroline non sobbalza solo perché è troppo orgogliosa per farlo.
La donna che emerge dalle felci le arriva poco più in alto della vita e indossa un tradizionale kimono scuro, con disegni di foglie che ne ornano il bordo inferiore. Ha i capelli stretti in una crocchia, un volto che sembro privo di età, gli occhi severi fissi su di lei e sembra assolutamente fuori posto in mezzo a quel tropicale giardino dell’Eden in miniatura.
- Cosa? – domanda Caroline, resistendo alla tentazione di scacciare gli insetti con una mano.
- Le piante – afferma la donna e Caroline è quasi certa che si sia trattenuta a stento dal roteare gli occhi.
Parla un inglese stentato e ha una voce leggermente gracchiante, come se avesse fumato per anni e questo le avesse rovinato la gola. Caroline si chiede se non siano stati gli effluvi tossici di quella foresta in cui vive.
- Producono ossigeno e tu non ne hai bisogno – continua la donna con tono di rimprovero. – E voi tendete sempre a non apprezzare quello che non vi è utile. –
- Noi? –
Questa volta la donna non si trattiene dal roteare gli occhi.
- Quelli come te. La tua razza. I vampiri. –
Anni, mesi, una settimana prima Caroline si sarebbe offesa e avrebbe esclamato, oltraggiata, che no, non è vero, che lei è un vampiro, ma non è come tutti gli appartenenti alla sua specie e avrebbe preteso che la strega lo capisse. Gli altri vampiri uccidevano, lei no. Gli altri mostri, quelli che le streghe odiano tanto, ammazzano per divertimento e non danno alcun valore alla vita umana e le generalizzazioni sono sbagliate. Tumblr non ti ha insegnato niente?
Ora invece si limita a guardarla, senza distogliere gli occhi, fino a quando la donna non sbuffa.
- Allora? – domanda la strega.
- Allora? – le fa eco Caroline e nota con tristezza che non sta certo dando la migliore impressione di sé.
- Perché sei qui? –
Oh, quella è una risposta facile.
- Voglio trovare una persona. –
La strega inarca un sopracciglio. Caroline può quasi sentire la muta esasperazione e la richiesta di avere altre informazioni, se no come può la giovane americana pretendere che lei trovi chiunque?
- Un uomo. - inizia.
Quella è la parte difficile. Fosse chiunque altro, Caroline non ha dubbi che la strega non si porrebbe alcun problema a trovarlo, ma è Klaus e trovare l’Ibrido Originale quando lui vuole rimanere nascosto non può essere facile e deve essere pericoloso. E perché mai una strega dovrebbe essere disposta a correre un rischio del genere per una giovane vampira senza alcun potere?
- Un vampiro – sopperisce la donna al suo posto.
- Più o meno. -
La donna si limita, nuovamente, a guardarla e Caroline si trova costretta ad ammirare come l’educazione giapponese permetta loro di essere sempre splendidamente cortesi e, al contempo, farti sentire pesantemente insultato.
- Un ibrido – afferma, infine.
- Un? –
- L’ibrido – ammette controvoglia, con un sospiro.
- L’ibrido? –
- L’ibrido originale. Niklaus Mikaelson – sbotta, alla fine.
La donna non contorce il volto in un’espressione spaventata o inorridita - non che il suo viso sembri in grado di mostrare davvero una qualche emozione: i lineamenti sono come scolpiti nel legno di uno dei tronchi che le circondano – e Caroline non può impedirsi di provare un moto d’ammirazione.
La donna continua a scrutarla, ma per la prima volta non sembra guardarla per chiederle qualche altra ovvia informazione in più, ma solo per studiarla. E pensare.
- Devo riflettere – le annuncia, alla fine, prima di voltarsi e sparire tra le immense foglie.
Caroline rimane immobile davanti al portone d’ingresso della casa della strega, con un nugolo di moscerini che le ronza intorno alla testa – e non vuole neanche sapere in quanti si siano già suicidati tra i suoi capelli -, circondata da piante immense e un’aria piena di umidità e di ossigeno. La strega non ha risposto alla sua richiesta con un secco no, non sono folle e non l’ha neanche cacciata dalla sua abitazione, eppure Caroline non è certa che le cose potessero andare peggio di così.
 
 
La mattina dopo, Caroline ritorna dalla strega – forse dovrebbe almeno scoprirne il nome, se vuole portare avanti la pretesa di essere educata - portando, sotto braccio, un sacchetto di cookies e due caffè perché se c’è una cosa che ha imparato nei suoi anni da capo comitato a Mystic Falls è che se desideri una cosa devi insistere fino a quando non la otterrai. E se sei cortese le persone sono più propense ad accettare le tue richieste.
Quando varca la porta, la strega si trova in piedi sulla soglia che separa il salotto dal minuscolo cucinino, in cui si intravedono spessi tralicci carichi di frutti. Stringe una tazza di ceramica bianca tra le dita e, quando la vede, si limita ad alzare gli occhi al cielo e borbottare qualcosa sugli impazienti americani seguito da quello che, Caroline è quasi certa, sia un insulto masticato tra i denti.
La strega si fa strada con sorprendente facilità tra le radici che percorrono il suolo e si inginocchia compostamente davanti al basso tavolino che si trova al centro della stanza.
- Devo riflettere – ripete.
La voce le si riempie d’accento e di altre vecchie sfumature, quando usa quel tono brusco e Caroline si ritrova ad annuire prima ancora di rendersene conto.
La donna fa un secco cenno di assenso, posa le mani sul legno del tavolo, china gli occhi sul tè chiaro che riempie la tazza e da cui si leva ancora un filo di vapore e smette di muoversi. Se non fosse per il lento sollevarsi e abbassarsi del suo petto al ritmo del suo respiro e per l’eco del battito del suo cuore che riempie la stanza, Caroline potrebbe quasi pensare che la donna sia morta.
E non è orribile che il primo pensiero che la coglie all’idea sia solo che sarebbe una immensa seccatura dover rintracciare un’altra strega con lo stesso potere? Non la rende una persona orribile? Non la rende spaventosamente simile a tutto quello che, in Klaus e in Damon, ha sempre criticato? Resta ancora, in lei, qualcosa che la renda una persona?
Un sospiro tremulo le sfugge dalle labbra, mentre si lascia scivolare a sedere tra le spesse radici e porta la tazza di caffè alle labbra e si sente, di nuovo, terribilmente sola. Il suo sorseggiare sembra essere l’unico rumore che riempie la stanza, insieme al lento frusciare delle fronde e il basso ronzio dei moscerini.
 
 
Regge due ore prima di iniziare a parlare a vanvera solo per riempire quel silenzio pesante come l’aria gravida di umidità della stanza. Ha imparato a non parlare – e a riflettere prima di farlo. Ha dovuto, per poter sopravvivere alla sua solitaria esplorazione del mondo, ma non è mai stata brava a tollerare i pensieri che le si affollano nella mente e pretendono attenzioni, quando intorno a lei tutto tace.
Il mondo è piena di meraviglie, ma le Piramidi perdono gran parte del loro fascino quando non hai nessuno a cui confidare che nonostante la tua immortalità, non ti sei mai sentito così piccolo; il museo di Amsterdam diventa quasi noioso quando non hai nessuno che sorrida del tuo sentirti svenire davanti a un quadro di Van Gogh.
Le torna alla mente l’orrendo sospetto di aver accettato la proposta di Hope solo per non sentirsi più così completamente sola e teme che l’abbia pensato anche Klaus. Che abbia pensato che era disposta ad accettare la mano tesa di chiunque.
Una parte di lei, quella che osa guardare la verità che Caroline tenta di nascondersi, sa che non è vero: Stefan le ha proposto di vedersi, Enzo ha una porta sempre aperta per lei e se fosse stato solo un desiderio di compagnia a muoverla, Caroline avrebbe avuto altre strade più semplici da seguire.
Inizia a parlare e le racconta di quello che ha visto di Tokyo, di quello che si aspettava, di come non riesca a smettere di pensare alle gallerie di Shangai, ai grattacieli costruiti sul vuoto di un terreno scavato. Le cita interi brani di un libro e le mente dicendole che è l’ultimo che ha letto, non le dice che Klaus le ha recitato ogni frase, mentre lasciava scie di baci sulla sua pelle, mentre beveva il suo sangue e le accarezzava i capelli. “La conosco da sempre. Tutti dicono che da giovane lei era bella, sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane” ha mormorato, depositando baci e morsi leggeri sulla sua schiena, mentre, con una mano, scivolava ad accarezzarla tra le gambe, dove era già di nuovo bagnata per lui.
Cita frasi che Caroline non sa ancora dire se siano d’amore e le parla delle mancanza di fondamenta di Shanghai perché è più semplice che fermare a concentrarsi su quelle che mancano a lei. Che mancavano a loro.
La strega non dà mai nessun cenno di sentirla ed è così facile parlare con il vuoto di una stanza piena di piante e moscerini e di sé stessa. E dei capelli che, a causa dell’umidità, le si arricciano e formano una massa informe intorno alla testa, nonostante si ostini ad usare solo le migliori maschere sul mercato.
- Klaus se n’è andato – afferma, una mattina.
Ha le ginocchia strette intorno al petto e il volto nascosto contro le gambe, i capelli le ricadono come una tenda informe intorno al viso e la voce esce come un borbottio confuso da quella tana di pelle e ossa in cui si è nascosta. È così abituata all’immobilità della donna che non solleva neanche il capo per vedere se questa confessione sia riuscita a smuoverla.
- Perché io gli ho detto che l’avrei fatto. –
 
 
- Mi spaventa – mormora. – Mi spavento – aggiunge.
Non è colpa di Klaus, ma Klaus è un continuo promemoria di quella ragazza che si è lasciata alle spalle e di quello che rimarrà di lei e a volte non sopporta di guardarlo e di guardarsi. Di chiedersi se la amerà ancora, quando il tempo avrà smesso di logorarla. Se si amerà ancora.
È tutto solo un terribile gioco di specchi, in fondo.
Non sopporta di essersi fermata, sotto il soffitto di una discoteca di Shangai, ed essere stata costretta a chiedersi: mi ama? Mi ha mai amata? O ero solo anche io un gioco di potere?
Rialza il capo e sbatte la testa contro il tronco alle sue spalle. Rimane ferma e solleva lo sguardo sul soffitto ricoperto di foglie.
- Non volevo davvero andarmene -  afferma. – Volevo… Non lo so. Non volevo che se ne andasse. Non davvero. Non per sempre. –
Ma con Klaus è sempre stata una questione di per sempre.
A volte pensa che avrebbe avuto bisogno di più tempo. Che sarebbe stato più facile, se avesse potuto decidere quando raggiungerlo, se avesse potuto controllare il luogo e scegliere il momento perfetto, se non fosse stata trascinata da Hope in una storia in cui non era pronta.
Una parte di lei, che sembra ronzare come i moscerini che vivono in quella casa, si chiede se lo sarebbe mai stata davvero.
 
 
Senza la voce di Hope e con solo il profumo di Klaus e il calore del corpo dell’ibrido a cullarla, la notte, Caroline aveva sentito la sua mente ricominciare a lavorare incessantemente, a porsi domande, a chiedersi se è davvero quello che vuole, se…
Di giorno, aveva iniziato a farsi sempre più distante, a schernirsi davanti alle parole di devozione dell’uomo e ai suoi sorrisi e Klaus se n’era accorto perché non puoi sopravvivere per mille anni a un padre psicopatico se ti fai distrarre dal paesaggio.
Aveva iniziato a stringerla più saldamente contro di sé, quando uscivano in pubblico, a ringhiare sottovoce ad ogni singola attenzione che Caroline non gli rivolgeva, a sbatterla con più violenza contro la parete della stanza, quando rientravano alla sera. Non tanto da ricordarle Damon, ma abbastanza da lasciare per un istante segni sulla sua pelle candida, da ricordarle esattamente con chi stesse viaggiando. Aveva iniziato a morderla più spesso, mentre la fotteva negli immensi letti delle suite che dividevano, e a costringerla a morderlo perché il sangue lega.
Se fosse stata meno presa da sé stessa e dalla paura che la coglieva al solo guardarsi allo specchio, Caroline avrebbe notato i segni, avrebbe visto l’inquietudine negli occhi dell’uomo – il dolore che si agitava sotto la pelle - quando si allontanava da lui.
Avrebbe notato i sintomi che avevano preceduto Shangai e tutte le volte che Klaus aveva tentato di allontanarla. Tutte le volte che l’aveva messa alla prova per vedere quanto era disposta a reggere per lui. Per loro.
Shangai con le sue gallerie e i suoi grattacieli e l’eco della porta che sbatte, quando Klaus la ascolta e se ne va.
 
***
 
C’è una parte di Caroline che si è sempre chiesta fino a quando sarebbe potuto durare quello stato di grazia tra lei e Klaus. Fino a quando avrebbero potuto continuare a viaggiare e a fingere di non vedere tutte le ombre, tutte le parole ingoiate come piccoli sassi.
Ci sono dei sassi, tra le radici degli alberi che crescono nella casa della strega. Caroline li guarda e pensa ai locali di Shangai, alla sera in cui Klaus l’ha presa per mano e le ha chiesto:
- Tesoro, vuoi andare a ballare? –
Pensa al brivido che le era corso lungo alla schiena, alla premonizione di qualcosa.
Qualcuno le ha detto che quando le bombe vengono scagliate sulle città, ne senti il fischio e il peso nell’aria, prima che cadano e c’è quell’istante – quell’eterno, infinito istante – in cui sai che stai per sentire il boato di quartieri interi che crollano come castelli di carte. Caroline si era sentita come un palazzo, sotto un cielo bombardato, mentre si umettava le labbra prima di rispondere:
- Certo. –
Ed era parsa più una domanda, più un’incertezza, ma Klaus aveva sorriso e l’aveva baciata, passandole un braccio intorno alla vita e Caroline aveva cercato di convincersi che si era sbagliata, che non c’era nulla di strano nel fatto che Klaus volesse andare in una discoteca anche se ne odiava l’odore e la calca e la plebe, che volesse vederla felice, che non era Stefan, che era stata una volta sola e Damon non l’avrebbe più fatto, che suo padre l’amava, che avrebbe capito e avrebbe accettato, che  –
È brava a convincersi di qualsiasi cosa, fino a quando i denti di Damon non le perforano la giugulare o il sole non le brucia la schiena o Shangai non esplode come una città bombardata.
 
 
Le discoteche, a Mystic Falls, erano una leggenda mitologica e incredibile quasi quanto il mostro di Lochness. Gli unici posti in cui si potessero organizzare feste in quella minuscola cittadina della Virginia erano i boschi che la circondavano o le case dei fortunati che avevano genitori abbastanza ricchi e abbastanza lontani per il week end – e la cui madre non era lo Sceriffo della città. Crescendo, Caroline si era inebriata dei racconti di quei fortunati che partivano per le vacanze e delle raccomandazioni di sua madre che descrivevano quei luoghi come centri di perdizione e perversione in cui perfetti sconosciuti approfittavano degli angoli bui per fare sesso o drogarsi.
Quando a sedici anni, aveva approfittato di un documento finto e di una vacanza da Steven e suo padre per sgattaiolare in uno di quei luoghi, Caroline non aveva notato nulla di simile. Aveva sentito la musica rimbombarle nel cranio e le urla della folla levarsi al richiamo del deejay e si era divertita prima di passare la giornata successiva a letto ripetendo un’infinità di volte a Steven che no, non aveva bevuto nulla quando era uscita con Amy, doveva aver preso un colpo di freddo.
Quando vi era tornata, dopo la trasformazione, la prima cosa che l’aveva colpita come quasi al punto da farla ripiegare su sé stessa per il disgusto era stato l’odore di sudore, sesso e alcool che riempiva l’aria. Poi era venuta la musica e la sensazione che qualcuno le stesse prendendo i timpani a martellate. Non era stata un’esperienza piacevole, ma era stata un’esperienza in cui perdersi con l’umanità spenta e il cuore nascosto da qualche parte.
 
 
Un boato.
Non le ci vuole tanto a capire che Klaus aveva un piano in cui lei interpretava solo il ruolo della biondissima distrazione. Ci sono delle faccende, in quella città, che l’Ibrido Originale deve risolvere e giochi di potere, con vampiri antichi come le fondamenta stessa di quella terra, che Caroline non vuole capire, vuole solo tornare a casa e togliersi di dosso quel vestito che sa di fumo e sangue e mani e sguardi diversi da quelli per cui era stato previsto.
Vuole chiudersi la porta della stanza alle spalle e ingoiare le lacrime che le pizzicano gli angoli degli occhi e non mostrargli in quale modo perfetto e assoluto sia riuscito a mandarla in pezzi.
 
 
L’impatto.
- Ti aveva toccato – ringhia l’uomo e a Caroline viene quasi da ridere a quanto sia oltraggiato il suo tono. A quanto sembri convincente.
- Non fingere che non fosse esattamente quello che volevi. Una scusa per farli a pezzi – grida e non riesce a trattenere la risata amara che le zampilla dalle labbra come sangue da una ferita.
Non riesce a non scuotere la testa di fronte a quella follia che è stata fidarsi di lui, credere che fosse diverso, che…
Klaus si tira indietro, come se l’avesse schiaffeggiato.
- Non capisci – afferma.
- No – gli dice e si sente improvvisamente lontana anni luce da quella stanza, da lui, da tutto quel dolore. Si sente come le macerie ormai spente di un palazzo crollato. È così meravigliosamente distrutta e nulla ha più importanza. – No e non voglio capire. Non sono neanche sicura che dovrei restare – aggiunge come sovrappensiero. Come se non fosse, poi, una cosa che la riguarda così tanto restare o andarsene.
L’uomo indietreggia come se gli avesse piantato un paletto di quercia bianca nel petto e Caroline scoppia di nuovo a ridere perché come può reagire a quel modo dopo quella sera? Come può darle solo ora tanta importanza.
- Le cose stanno così, allora – conclude l’uomo.
La furia che lo animava sembra essersi improvvisamente spenta e qualcosa gli è calato sugli occhi e Caroline pensa che dovrebbe importarle di quell’improvvisa freddezza, del gelo che sembra avere riempito la loro stanza distrutta, ma è lontana anni luce e lo guarda e non riesce a vedere niente oltre al modo in cui l’ha usata, senza dirle nulla, in cui non si è fidato e non riesce a convincersi che non lo rifarà di nuovo, che, di nuovo, ci sarà sempre un qualche gioco di potere più importante di lei.
- Sì – mormora e le lettere non hanno ancora finito di staccarsi dalle sue labbra che la porta della stanza sbatte e trema sui cardini e di Klaus non rimane che l’odore che riempie la stanza.
 
 
Macerie.
Un sospiro tremulo le scivola fuori dai polmoni schiacciati e improvvisamente Caroline si ritrova rannicchiata sul pavimento, squassata da singhiozzi e frammenti di legno e lenzuola e lo odia e vuole che torni, che le dica che si è sbagliato, che sbaglieranno ancora, che non la terrà più all’oscuro, non la userà più come se non avesse alcun valore, che –
Vuole che torni e la rassicuri che la ama.
Voleva che scegliesse lei.
 
 
Klaus non torna e Caroline non si rende conto che c’era ancora una parte di lei che era rimasta in piedi fino a quando non realizza: Klaus non tornerà.
 
 
Non è facile: alzarsi, uscire dalla stanza, mangiare, dormire, ripetere. Caroline non realizza quanti bisogni abbia il corpo di un vampiro fino a quando compiere ognuno di essi non diventa uno sforzo pari a quello di portare il mondo sulle spalle. Ripensa al mito di Atlante, alla voce di Klaus che le accarezzava l’orecchio, mentre gliene parlava di fronte al Partenone e pensa che non aveva mai compreso l’immensità della sua fatica fino ad ora.
Un giorno si lascia cadere con un sospiro contro la porta della stanza e pensa a quanto sia faticoso e inutile raggiungere il letto, pensa che potrebbe dormire lì, che non rischia più di svegliarsi con il mal di schiena perché è morta e vecchia. Guarda gli stivali neri che indossa e la fatica necessaria a sollevarli e li odia e si odia.
- Basta – mormora. – Basta – ripete, alla stanza vuota.
Basta.
Klaus non è tornato e l’ha usata, ma c’è quella parte del suo petto che continua ad appartenergli, a sentirsi a casa solo quando si addormenta con il capo sul cuscino dell’uomo e Caroline non ha più diciassette anni – è vecchia – e non ha alcuna intenzione di rimanere sepolta nell’assenza dell’uomo.
 
***
 
Anni fa ha preso la sua terza laurea in psicologia e, al terzo anno, un vecchio professore passa l’intera lezione a spiegar loro quanto la vita sia una disgrazia terribile e chiaro segno dell’assenza di un dio misericordioso e che, proprio per questo, ognuno di loro debba trovare, come compito a casa, un gruppo di persone di cui circondarsi. Persone che vi facciano felici, aveva detto, che siano presenti nei momenti del bisogno e che voi sentiate di voler aiutare quando si trovano in difficoltà.
All’epoca, Caroline cominciava a sentirsi tanto vecchia e tanto immobile in un corpo da ragazzina che era rimasta sorpresa da come le parole di un uomo poco più grande di lei potessero colpirla a quel modo. Farla riflettere a quel modo.
- Solo che – confida alla strega. – A volte è spaventoso, quello che ci rende felici. –
- Mia madre non avrebbe mai approvato. Non avrebbe capito e… non voglio deluderla – continua. – Non voglio deludere nessuno di loro, ma a volte mi alzo al mattino e mi dimentico perché dovrebbe importarmi, perché... Perché dovrei vergognarmi se quella sera non volevo neanche delle scuse. Volevo solo che Klaus mi ricordasse che non importava di quanto tempo avrebbe avuto bisogno per fidarsi di me, di quanti secoli e quante prove, ero comunque la sua prima scelta. E che si sarebbe fidato, un giorno. -
Ha imparato che il momento perfetto – quello in cui si è pronti e sicuri e ogni cosa va al suo posto – non esiste davvero, non nella sua vita almeno, e non sa se si perdonerà mai per averlo fatto, se i suoi amici la perdoneranno mai, ma ha perdonato Klaus decenni fa e non c’è altro luogo, ora, dove lei voglia essere se non accanto a lui. L’ha accettato, mentre misurava le distanze tra i monumenti di Tokyo con il metro della sua assenza e non è pronta ad ammetterlo ad altri che a sé stessa, ma…
 
 
La donna rialza il capo e non c’è un sorriso sulle sue labbra – Caroline non è certa che il volto della strega sia stato fatto per accoglierne uno -, ma un’espressione quasi morbida le piega i lineamenti, quando posa i suoi occhi scuri sulla vampira bionda che si è accampata sotto il suo albero prediletto.
- Ho deciso – annuncia e la sua voce non sembra neanche un po’ colpita dallo scarso uso.
Caroline raddrizza la schiena e si irrigidisce come se fosse in attesa di un giudizio o di un attacco.
- Mi chiamo Kimiko – afferma la donna.
E alza gli occhi al cielo, di fronte allo sguardo interdetto di Caroline, prima di aggiunge:
- Pensavo dovessi sapere come mi chiamo se dobbiamo lavorare insieme, Caroline Forbes. -
 
Mentre prepara gli ingredienti necessari all’incantesimo di localizzazione, Kimiko fa partire un vecchio giradischi: il vinile è rovinato e gracchia leggermente, ma le parole della canzone e la melodia su cui si stendono come bambini su un prato sono ancora riconoscibili: At last / My love has come along / My lonely days are over / And life is like a song.
Caroline digrigna i denti, stringe i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e cerca di convincersi che sia una scelta casuale.
 
***
 
È un po’ delusa e un po’ ferita, quando scopre che Klaus non è a Tokyo: una parte di lei sperava che fosse rimasto a controllarla in quel suo modo assolutamente inquietante e invadente. Che non l’avesse ascoltata e non se ne fosse andato del tutto.
Ma l’ha fatto e, quando Caroline si imbarca per Kyoto, è un po’ ferita e un po’ felicemente sorpresa che abbia rispettato la sua volontà.
Kyoto è una cittadina incantevole, Caroline immagina, e piena di luoghi memorabili e eleganti. Sarà questo che racconterà ad Enzo: Kyoto era incantevole, c’era questo posto in cui ho bevuto un tè meraviglioso ed erano tutti così eleganti, ma la verità è che non vede nulla della città che attraversa. Ha un indirizzo che le brucia nella tasca del cappotto e l’urgenza di arrivare prima che Klaus sparisca di nuovo nel nulla.
 
 
Per un istante Caroline rimane ad osservare l’ombra che il suo pugno disegna sul legno scuro della porta chiusa che la separa da Klaus: immagina il suono che faranno le sue nocche contro la superficie liscia, si chiede se Klaus sia in casa, lo immagina muoversi; si domanda se sobbalzerà o se la attende. Si chiede se sia la cosa giusta da fare.
Ripensa a Kimiko e al suo volto privo di espressione, al modo in cui le ha ingiunto di dimenticarsi di lei:
- Non voglio più vedere te o altri vampiri – aveva affermato, alzandosi lentamente in piedi. Le ginocchia avevano scricchiolato piano sotto il peso dell’immobilità e della vecchiaia e Caroline si era avvicinata per aiutarla, ma la donna l’aveva scacciata con un gesto seccato della mano e aveva afferrato una liana che pendeva dal soffitto. – Non ho bisogno del tuo aiuto. Ho le mie piante e devo prendermi cura di loro – aveva affermato, prima di voltarsi nuovamente a guardarla e Caroline aveva sentito un brivido correrle lungo la schiena sotto l’esame di quegli occhi neri come biglie. – Hai l’indirizzo che cercavi – le ha detto. – Ma sei sicura di volerlo ritrovare? –
Caroline non aveva risposto, allora. Si era limitata a guardarla e a scuotere leggermente il capo più per rifiuto della domanda che in risposta ad essa, ma ora si trova di fronte a questa porta e non ha esitato neanche un istante a cercarla – a cercarlo – e lo sapeva anche allora che la risposta era sì. Era sempre stata sì.
Da quando si sono incontrati a Roma, da quando Hope li ha lasciati, da quando hanno navigato per le strade di Parigi come due giovani amanti e quelle di Mystic Falls come due nemici, la risposta è sempre stata sì.
Tra un anno o un secolo.
Sì.
Busserai alla mia porta.
Sì.
Dimmi la verità, Splendore, sei già perdutamente innamorata di lui?
Sì.
Il rumore delle nocche che si scontrano contro il legno della porta è quasi assordante nel silenzio che regna nel corridoio vuoto. Caroline trattiene un fiato di cui non ha bisogno e resiste a stento dall’incrociare le dita come la ragazzina che non è più da decenni.
Dall’altra parte della soglia la accoglie solo un silenzio assoluto, totale, travolgente e Caroline sente già un groppo in gola formarsi alla prospettiva che Klaus non sia in casa, che forse non sia neanche più a Kyoto, che dovrà inseguirlo per anni, quando, improvvisamente, sente un sospiro affranto, frustrato, sorpreso scontrarsi contro le tavole e infine la porta aprirsi sul volto di Klaus Mikaelson.
L’uomo indossa un paio di jeans e una maglietta nera con le maniche arrotolate a scoprire le braccia. Il volto sembra scolpito nella pietra e solo gli occhi che seguono, guardinghi, ogni suo agitato movimento sembrano tradire una qualche emozione.
- Cosa ci fai qui? – domanda non appena apre la porta della lussuosa suite che occupa da giorni.
Caroline si aspettava un ringhio, qualcosa che le ricordasse che è un uomo pericoloso e che dovrebbe temerlo perché è quello che fa Klaus, ma la voce dell’uomo è fredda e distante e la cosa fa ancora più male. C’era calore negli occhi dell’uomo ogni volta che la guardava – anche quando era furioso con lei, anche quando voleva solo strozzarla o baciarla -, ma ora non c’è più alcuna luce nel suo sguardo. Caroline potrebbe essere una perfetta sconosciuta, un’ombra sul selciato su cui cammina.
- Ho provato a chiamare – risponde, piccata. – Ma non rispondevi. –
Klaus scuote le spalle, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite della porta. La posa sembra casuale e rilassata, ma Caroline può scorgere la tensione che gli irrigidisce i muscoli e come faccia attenzione a non offrirle neanche un millimetro di spazio attraverso cui infilarsi. Nella stanza o nella sua vita.
- Le chiamate da ubriaca non mi affascinano affatto. –
- Non… - Caroline alza le mani al cielo ed esala un ringhio frustrato. – Non ero ubriaca ed è molto maleducato dare per scontato che lo fossi – sbotta.
Per un attimo, un’espressione sorpresa gli attraversa il volto - le spezza il cuore che ancora Klaus non riesca a credere che sì, lo chiamerebbe anche da sobria, che sì, vorrebbe davvero stare con lui, se lui smettesse di essere un’idiota e glielo concedesse, grazie tante -, ma rapidamente com’era apparsa scompare e lei si ritrova nuovamente a fronteggiare un Klaus che non è mai stato così distante.
- Non c’era altro da aggiungere, Caroline. –
È il tono con cui lo dice, è l’espressione che non ha sul volto, che le ricorda la strega da cui ha passato giorni interi per trovarlo, è il leggero movimento delle spalle, il leggero voltarsi come per mettere fine a quella conversazione, a lei, a loro, che le spezza il cuore e le parole da dire – tutti i discorsi e le mille possibili repliche che ha preparato sull’aereo - le si affollano in bocca.
Lo schiaffo rimbomba secco nel silenzio del corridoio. Caroline è la prima a rimanere paralizzata con lo sguardo fisso sulla sua mano e sul volto di Klaus, spostato di lato più dalla sorpresa che dalla forza del colpo.
- Caroline – ringhia l’uomo.
Un lampo di giallo gli attraversa lo sguardo e Caroline sente una risata isterica risalirle nella gola. Non ha paura di lui – ha smesso di averla così tanti anni prima –, ma le spezza il cuore vederlo così con lei. E riconoscere l’ira e i chilometri che ha frapposto fra di loro.
 
Quando Klaus se ne è andato, a Shangai, l’ha fatto perché ha sentito l’aria mancargli, ha visto la risoluzione negli occhi di Caroline e ha capito che era la fine, che Caroline se ne sarebbe andata e lo sapeva che non sarebbe rimasta per sempre. Come avrebbe potuto sopportare di stare con lui per sempre? Con lui che ha torturato e perseguitato i suoi amici, che ha sterminato innocenti e massacrato intere contee. Klaus aveva sentito i pugni serrarsi e il desiderio di strapparle il cuore – che non lo avesse nessuno, se non poteva averlo lui - o di dissanguarla e costringerla a rimanere bruciargli le vene.
Aveva serrato i pugni e aveva costretto i suoi piedi a muoversi, ad andarsene prima di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito per l’eternità. O prima che fosse lei ad andarsene.
Ora che Caroline è di nuovo di fronte a lui, con i capelli biondi e quella luce che lo fa sentire come un assetato in mezzo al deserto, Klaus sente di nuovo il desiderio di farla a pezzi o imprigionarla e non permetterle mai più di lasciarlo, andarsene, sparire. Stringe lo stipite della porta tra le dita fino a frantumare il legno. Minuscole schegge cadono ai suoi piedi e gli si infilano nella carne e Klaus accoglie il fastidio che provocano come una benedizione.
Caroline si umetta le labbra, guarda sconcertata la mano con cui l’ha colpito, prima di rialzare lo sguardo su di lui.
- Dobbiamo parlare – afferma, con un sospiro.
No, non dobbiamo vorrebbe ringhiare.
- Parla – la invita invece, con un sorriso per nulla piacevole a piegargli le labbra.
Caroline sbuffa, sbatte un piede per terra, incrocia le braccia davanti al petto. Sembra una bambina e Dio, quanto la ama.
- Non penso sia una conversazione da avere nel corridoio di un albergo – ribatte, piccata.
Klaus scuote il capo, noncurante.
Caroline sapeva che non sarebbe stato facile, farlo ragionare e fargli capire che aveva ragione lei, grazie tante, ma in nessuno dei suoi peggiori incubi sarebbe stata in grado di immaginare con tanta precisione l’immensità della frustrazione che la riempie, mentre cerca di discutere e Klaus sembra volersi comportare come un fottuto. Muro. Di. Gomma. Vorrebbe urlare che non dovrebbe essere lei l’adulta tra loro due e allo stesso tempo sa che sarebbe inutile, che non c’è altro modo.
- Klaus – afferma e lascia filtrare nella voce un po’ della stanchezza che le rende doloranti le ossa.
L’uomo la guarda, osserva i suoi occhi chiari, i capelli che le incorniciano il volto, la piega ferrea della bocca, il tremore che le scuote le labbra rosse. È lo stesso volto che disegnato per giorni, da quando ha lasciato Shangai, da quando si è sradicato dalla sua vita perché Caroline se ne sarebbe andata, Caroline se ne stava andando e non poteva sopportare di essere quello che rimaneva, di vedere la sua schiena e di sapere che era stata colpa sua. Di averla avuta solo per perderla.
Per giorni ha pensato che sarebbe stato meglio vivere in eterno in attesa di un suo arrivo piuttosto che doverla lasciare andare. Per giorni ha pensato di averle fatto un favore; per giorni ha cercato di strappare ogni brandello di pensiero e di mancanza e desiderio e nasconderlo tra i tratti scuri del carboncino con cui ha delineato i lineamenti di Caroline sulla carta.
Con un sospiro, si fa da parte e la lascia entrare nella sua stanza. Si ripete che quella concessione non ha nessun significato.
 
- Mi hai usata – afferma.
Caroline aveva preparato un discorso, tra le radici delle piante di Kimiko e lungo le rotaie che l’hanno portata fino alla stanza di Klaus. Un discorso lungo e articolato in cui avrebbe spiegato a Klaus ogni cosa e che non iniziava così.
Si morde la lingua e si maledice, ma è troppo tardi per tornare indietro.
- Mi hai usata – ripete con più forza, con più rabbia. – Non mi importava che avessi degli affari o dei vampiri da uccidere. Sei Klaus Mikaelson, hai sempre delle persone da uccidere o torturare o terrorizzare, ma mi hai usato come esca.
Come facevano Damon, Stefan, Elena, resta in sospeso fra di loro.
- E non hai avuto neanche il coraggio di dirmelo. E sai la cosa peggiore? È che ti avrei aiutato, se me l’avessi chiesto. Se ti fossi fidato di me. -
Caroline aveva preparato un discorso. Era articolato e meraviglioso, ma l’unica cosa importante è quella che le lascia le labbra con un singhiozzo:
- Fallo un’altra volta e non mi vedrai mai più. -
Klaus non le corre incontro, non l’abbraccia, non le promette tra i capelli ogni cosa che desidera perché è Klaus ed è impegnato a guardarla con una tenue e terrorizzata speranza negli occhi, con i pugni serrati e i denti che vogliono trasformarsi in zanne, con un lupo appena nascosto sotto la pelle che vorrebbe ululare e invece chiede:
- Cosa vuol dire? –
Una risata strozzata le lascia le labbra, zampilla come sangue rosso e limpido da una ferita finalmente pulita dall’infezione che la stava divorando.
Caroline prende un respiro, trattiene nei polmoni dell’aria che non le serve più a nulla se non a ricordarle gli esercizi che una ragazza di diciassette anni aveva imparato a fare per tentare di calmarsi quando le sembrava di non riuscire a controllare più nulla.
- Non dovevi andartene – dice ai muscoli serrati della mascella dell’uomo, ai capelli che gli ricadono sulla fronte, alle collane che porta al collo. – Ero furiosa e avevo bisogno di spazio, di tempo per capire e smaltire, ma non che te ne andassi – continua e spera che Klaus capisca la differenza. Caroline alza le spalle, le scuote, le lascia ricadere sconfitta.
- Te ne stavi già andando. Erano mesi che te ne stavi andando – ringhia l’uomo.
Caroline quasi sobbalza di colpevolezza perché ci sono cose che può negare, ma non quella. Solleva le spalle, in un gesto di pura impotenza.
- Da me. Me ne stavo andando da me, non da te – afferma. – Guardami. Sto diventando sempre più simile a te e… -
- E questo ti disgusta così tanto? –
- Cos…? No – quasi urla - Ma mi spaventa. Meno di cinquant’anni fa ero viva, Klaus. Respiravo e volevo soltanto diventare la reginetta della scuola e ora guardo gli esseri umani e non mi importa più così tanto vederli morire e non è facile cambiare – sbotta, levando le mani al cielo. – Non per me, almeno – aggiunge con la voce che somiglia ad un pigolio. – Mi ci vuole tempo, mi ci vorrà tempo – si corregge – per imparare ad accettare la mia immagine allo specchio, a non sentirmi sul punto di perdermi per sempre, ma non eri tu il problema – mormora. – Almeno fino a Shangai e… anche lì non volevo che te ne andassi davvero. Volevo, non lo so, che chiedessi scusa, che supplicassi per avere il mio perdono – afferma, esasperata. - Non potrà mai funzionare, se continuerai a rimanere con un piede sulla soglia, ad aspettare che me ne vada, per andartene prima – sbotta, abbassando le braccia in un gesto stizzito.
Quando tace, un silenzio vischioso cala su di loro. Caroline si guarda intorno pur di non impazzire o peggio, riprendere a parlare a vanvera pur di sentire qualcosa. La stanza era elegante, seppur dai toni troppo scuri e barocchi per i suoi gusti. Lo si riesce a capire anche ora che sembra sepolta sotto schegge di legno di quelli che un tempo erano mobili, sotto gli strati di piume liberate dai cuscini squartati e dai divani sventrati, sotto gli strati di fogli e pittura nera che ricoprono ogni superficie ancora intatta.
- Volevo ucciderti – ringhia l’uomo d’improvviso ed è come uno sparo nella quiete della stanza.
Gli occhi di Caroline tornano a posarsi sul volto di Klaus, che ha la mascella serrata e gli occhi gialli come certi inferni.
- Volevo strapparti il cuore dal petto purché nessun altro potesse averlo – prosegue, facendo un passo verso di lei.
Ha i pugni serrati, lungo i fianchi ed è così minaccioso. Caroline non riesce a trattenere uno sbuffo.
- Oh per favore – sbotta, allargando le braccia. – Come se fosse stata la prima volta.
- Caroline… -
- E non l’hai fatto – continua, imperterrita, senza lasciarlo parlare.
- Perché me ne sono andato. –
- Non l’avresti fatto lo stesso. Non ci sei riuscito quando avresti avuto ogni motivo per farlo. -
- Non puoi saperlo! –
Il volto, rosso di rabbia, di Klaus è improvvisamente vicinissimo al suo e basterebbe così poco per baciarlo, ma è troppo presto, ci sono armadi da svuotare e scheletri da ricomporre, prima.
- Lo so perché mi fido di te – ribatte, più calma. – Ma il problema è che tu non ti fidi di me o di te – osserva, sconfitta.
- Caroline. –
L’uomo solleva una mano fino a sfiorarle il volto senza toccarla, ma limitandosi ad accarezzare il vuoto che ancora li separa.
- Non so come fare – mormora, alla fine.
Caroline china il capo e quanto vorrebbe poterlo poggiare contro la spalla dell’uomo e lasciarsi andare, lasciarsi respirare contro la sua pelle. Rialza la testa, torna a guardarlo negli occhi.
- Neanche io – ammette, scuotendo le spalle. – Forse è una cosa che va imparata. Con il tempo. E che… possiamo imparare? –
L’ultima frase assume, contro la sua volontà, la forma di una domanda, di un vecchio accusato in attesa di verdetto sul patibolo, ma quando Caroline se ne accorge è troppo tardi per tornare indietro: le parole sono già lì nell’aria tra loro, con quell’inclinazione finale.
Klaus esala un sospiro, quasi contro la sua pelle.
- Non lo so – ammette.
Caroline schiocca la lingua e risponde più bruscamente di quanto vorrebbe per nascondere la delusione, le lacrime che le stringono la gola:
- Non era davvero una domanda -
Klaus esala lo sbuffo di una risata. Caroline lo sente solleticarle i capelli che le ricadono scomposti intorno al viso.
È lei a chiudere la distanza tra la mano dell’uomo e la sua guancia in una carezza all’incontrario, è lei a mormorare un: per favore Klaus, è qui che voglio stare, cos’è che vuoi tu?, che sembra svuotarlo di ogni energia, sembra risucchiare tutta la violenza che riempie la stanza.
Resta il vuoto, la mano di Klaus sulla sua guancia, il sospiro dell’uomo contro le sue labbra quando si china a baciarla e non hanno risolto niente, non davvero, ma forse basta così. Forse è un inizio.
Resta uno spazio per ricostruire qualcosa.
 
***
 
Klaus non le dice di quando Davina e Aya sono riuscite a spezzare il suo legame con la sua stirpe, non le dice del fuoco che gli ha riempito le vene e del dolore e della solitudine che aveva fatto seguito. Non le dice di non averne mai provato una così grande sofferenza neanche nei mille anni che aveva passato a camminare sulla terra con la convinzione che non esistesse nessun altra creatura simile a lui, sulla faccia del mondo – e che per questo lui fosse un bastardo, maledetto, Niklaus.
Un giorno lo farà e Caroline non avrà alcuna frase di conforto da offrirgli perché non esistono parole abbastanza grandi, abbastanza morbide per avvolgerlo come merita e si limiterà a stringerglisi addosso nella speranza che capisca e lui sospirerà contro la sua pelle perché la conosce e anche se non riesce ancora a fidarsi del tutto, Caroline Forbes è comunque la persona a cui lui creda di più al mondo.
Un giorno. Non oggi che ci sono ancora ferite così fresche da leccare. Oggi si limita a stendersi accanto a lei tra i resti dell’immenso letto (- Non riesco a credere che tu davvero non l’avessi lasciato intatto di proposito. Era l’unico mobile in piedi in tutta la stanza. - - Che ti posso dire, tesoro, mi piace dormire comodo. -) che hanno distrutto e a nascondere il volto tra le ciocche bionde che profumano di lei e di sangue e a soffocare un singhiozzo contro la sua pelle. Caroline gli circonda la vita con un braccio e gli accarezza i capelli con la mano libera.
Ci sono macerie tutt’intorno a loro, ma è un inizio.
 
Un giorno, i telegiornali di tutto il mondo saranno aperti da un servizio di immagini di pura devastazione. Shanghai è crollata nella notte, intitoleranno i quotidiani, sotto il peso dei grattacieli e la leggerezza del vuoto su cui sono costruiti e ci saranno macerie e sangue e ossa spezzate e così tanti morti, ma il suolo sarà finalmente pieno e solido e ci saranno macerie, ma è un inizio.
 
***
 
Quando, giorno dopo, lasciano Tokyo con una mano stringe quella di Klaus, mentre nell’altra tiene un bicchiere di Starbucks ripieno di sangue. Una improvvisa folata di vento le fa finire una ciocca di capelli tra le labbra e Caroline scuote la testa e sputacchia nel vano tentativo di liberarsene. Prima che possa decidere se deve lasciare il bicchiere o le dita di Klaus, l’uomo al suo fianco interviene e le scosta i capelli dal volto.
- Grazie – borbotta, con le gote leggermente arrossate.
C’è il sole sull’aeroporto di Tokyo e Caroline sente nell’aria un leggero profumo di fiori di ciliegio, come quello che circondava la tomba che non apparteneva a Liz Forbes. Uno degli ideogrammi del nome dell’aeroporto sembra farle l’occhiolino e Caroline sorride, nascondendo la fronte contro la spalla di Klaus.
- Tesoro? – domanda l’uomo e sembra una scena così mondana, così umana, così.
Una coppia di anziani si volta a guardarli: la donna sorride con condiscendenza, prima di voltarsi verso il marito e mormorargli all’orecchio qualcosa in una lingua che Caroline non comprende e che lo spinge a voltarsi e a guardarli con un sorriso così simile a quello della moglie, che per un istante sembrano quasi avere gli stessi lineamenti, ma è solo la familiarità. Sono solo gli anni passati insieme a guardarsi, respirarsi e, inconsciamente, imitarsi. Ed è spaventoso ed esilarante realizzare che potrebbe accadere anche a lei – che sta già accadendo. Che accetta che le accada. Che accetta di crescere e di farlo accanto ad un uomo che ha distrutto intere città, che ha causato genocidi, che ha ucciso e manipolato i suoi migliori amici. Che lo accetta e lo perdona e lo ama– Dio è così spaventoso – e si perdona nonostante tutto. Per tutto.
Che non teme più così tanto di finire con l’assomigliargli. Con lo scoprire cosa rimarrà di lei dopo secoli e millenni.
Non è certa di essersi ancora ritrovata del tutto, ma almeno ha recuperato il filo di Arianna da seguire e ha tutto il tempo del mondo per scovarsi.
- Tesoro? – domanda ancora Klaus al suo fianco, stringendole leggermente la mano. - È maleducato fissare le persone a questo modo – le mormora all’orecchio, solleticandole il lobo con le labbra.
Caroline scuote le testa.
- Mi ero incantata – borbotta, scuotendo la testa a mo’ di scuse.
- L’ho notato – osserva, lasciandole le dita e scivolando a posarle la mano sulla schiena, per guidarla oltre la soglia dell’aeroporto. – Ma dobbiamo andare. –
Caroline inarca un sopracciglio.
- Non pensavo che il tuo aereo privato avesse orari – afferma.
Klaus scuote le spalle, con un sorriso. Non le dice che le crede, che sa che resterà, che non sarà facile, forse, ma che sa che non ha intenzione di andare da nessuna parte se non con lui; non le dice che le crede, ma che ha comunque ogni intenzione di lasciare quel maledetto continente il prima possibile e non rimetterci piede per i prossimi cinque secoli.
Non dice nulla, ma Caroline gli avvolge un braccio intorno alla vita e gli si stringe addosso come se sapesse.
 
A chi li osserva passare sembrano solo un’altra felice coppia di giovani americani. C’è chi si chiede se si siano fidanzati o se non sia ancora nulla di ufficiale, se fosse un viaggio preparato da mesi e sognato tra le mura delle loro stanze al college. Una signora esala un sospiro commosso e ringrazia che, nonostante la tecnologia, le chat e la rapidità con cui il mondo moderno sembra in grado di soddisfare qualsiasi desiderio, ci siano ancora giovani in grado di guardarsi a quel modo, di amarsi a quel modo.
 
   
 
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