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Autore: Piperilla    07/03/2019    1 recensioni
Le storie sono belle, ma la vita vera è un'altra cosa: si nasconde agli angoli delle strade, negli appartamenti anonimi, nelle periferie, e quando va in pezzi, ti dilania come le schegge di una granata.
Questo Vera lo sa bene: piena di ferite e di demoni con cui convivere, ha smesso di illudersi. La vita è crudele, meschina, e senza giustizia.
Anche Vittorio lo sa, ma non se ne cura: dopo vent'anni passati seguendo passione e vocazione, tutto quello che ha realizzato gli si sta sgretolando tra le mani. La vita è dura, irriconoscente, e ha un pessimo senso dell'umorismo.
La vita spesso fa schifo: è questo che pensa Vera mentre si domanda se le cose andranno mai meglio.
La vita a volte è proprio una stronza: è questo che si dice Vittorio mentre si chiede se valga la pena di ricostruire quelle macerie.
La risposta che entrambi si danno è no: ormai pieni solo di rabbia e amarezza, l'unica cosa che riescono a fare è usarle come spinta per alzarsi al mattino. Se lo tengono stretto, tutto quel veleno che gli scorre nelle vene.
Almeno finché qualcuno non glielo tirerà fuori a forza e gli ricorderà che esiste anche altro oltre la rabbia.
Genere: Angst, Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Quell'estate era già calda, calda, troppo calda.
   Vera avrebbe potuto giurare di non aver mai sudato tanto come in quegli ultimissimi giorni di giugno: quel giorno in particolare, poi, nonostante fosse ormai pomeriggio inoltrato, minuscole gocce salate le scorrevano sul volto e lungo il collo.
   La venticinquenne salì l'ultimo gradino e lanciò un'occhiataccia all'ascensore del palazzo, sulla cui porta era attaccato un cartello con la scritta “GUASTO” che sembrava sbeffeggiarla. Sbuffando inferocita, infilò la chiave nella serratura ed entrò nell'appartamento di Vittorio.
   «Ehi». Vittorio mise fuori la testa dalla porta della cucina e le scoccò uno sguardo perplesso. «Tutto bene, Gamba Bionica?»
   «Non chiamarmi così, non chiamarmi così» ringhiò Vera; si buttò a peso morto sul divano e chiuse gli occhi, le mani strette intorno alla coscia sinistra.
   Il carabiniere si pulì le dita sul grembiule da cucina che indossava e la raggiunse. «Ti fa male la gamba?»
   «Sì, dannazione, » sibilò lei in risposta. «Mi faceva male già prima, e arrampicarmi su per tutte quelle stramaledette rampe di scale non mi ha aiutata per niente!». Sbatté la testa contro i cuscini dello schienale. «La casa al quarto piano doveva prendere, proprio quella!» mugugnò tra sé.
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Quindi immagino sia colpa mia» replicò pungente.
   Vera lo guardò mentre ci rifletteva sopra. «In parte» confermò infine.
   Il carabiniere alzò gli occhi al cielo. «È bello sapere che qualsiasi cosa io dica, qualunque cosa io faccia, avrò sempre la colpa di ogni evento negativo che ti capita» dichiarò, sarcastico. «In fondo, avere dei punti saldi, nella vita, è importante».
   «Piantala di fare la vittima: non ti si addice» rispose secca Vera. «E poi, non ho voglia di discutere».
   «Sarebbe una novità assoluta». Vittorio ignorò lo sguardo rabbioso della sua fidanzata e le staccò le mani dalla gamba. «Se la protesi ti fa così male, toglila» le suggerì.
   «E poi come cammino? Saltellando su un piede solo?» domandò Vera, sarcastica quanto lo era stato Vittorio poco prima.
   Per tutta risposta, lui si alzò sbuffando e sparì verso nella zona notte della casa per tornare un minuto più tardi con un paio di stampelle.
   «To'» disse scocciato. «Le ho prese un po' di tempo fa perché ho pensato che non si sa mai, magari un giorno ti sarebbero potute servire mentre eri da me. E adesso piantala con tutto 'sto malumore» aggiunse prima di andare in cucina.
   La ragazza grugnì un assenso; arrotolò completamente la gamba del pantalone, poi si sfilò la protesi e l'appoggiò con malagrazia accanto a sé; Estia, curiosa, saltò sul divano e prese a osservare e annusare l'oggetto.
   «Ti piace, Estia? Perché se la vuoi, te la regalo».
   «Non penso se ne farebbe granché; Efesto, invece, potrebbe apprezzare l'offerta» commentò Vittorio, tornando a sedere accanto a Vera. «Per la cena manca ancora un po', se ti va puoi riposarti».
   «Voglio una gamba nuova!»
   Il carabiniere allungo una mano verso la protesi, ma si fermò prima di afferrarla. «Posso?»
   Vera sghignazzò suo malgrado. «Quando si tratta di altre parti di me, il permesso non lo chiedi mica».
   «Sulle altre parti non sei così suscettibile». Vittorio schivò il pugno di Vera e prese la gamba artificiale per studiarne l'interno della cuffia in silicone. «Sei sicura che questo affare vada bene, per te? Va bene tutto, ma non so se sia normale che tu abbia tutti questi dolori».
   «Me lo sono chiesto anch'io» ammise lei.
   «E...?»
   «E niente, Vittò. La uso da otto mesi, con un po' di tempo in più potrei avere meno problemi» rispose Vera, massaggiandosi il moncone con fare distratto.
   «Mhhh» mugugnò l'uomo, poco convinto, mentre metteva la protesi su una sedia. Finalmente con le mani libere, si appoggiò al bracciolo del divano e trascinò Vera tra le proprie gambe, allungate sui cuscini. «Vieni qui».
   La donna ridacchiò. «Non hai caldo?»
   «Nah» replicò Vittorio. «E tu?»
   Vera si sistemò meglio con la schiena contro il petto di lui. «Non abbastanza da spostarmi».
   «Ottimo». Il carabiniere le baciò una tempia. «Adesso che siamo belli comodi e pronti a una sudata da record, ti va di parlarmi di qualcosa in particolare?»
   «Tipo cosa?»
   «Non lo so. Tipo il processo che dovrebbe iniziare a giorni?»
   Vera batté rapidamente le palpebre e si contorse nel suo abbraccio per tentare di guardarlo in volto. «E tu come...»
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Casa di mia madre?»
   «Ah, già. Stupido telegiornale» sbuffò Vera. Si grattò l'attaccatura dei capelli, lo sguardo fisso sulla libreria che aveva di fronte. «Sì, be', la prima udienza è tra una decina di giorni e l'idea non mi fa impazzire, quindi penso... penso che non ci andrò» disse. «Giulia vuole andarci, e se ci va lei, ci va anche Tiziano; i genitori e il fratello di Noemi ci saranno di sicuro, ma io... io non so se ce la faccio».
   L'uomo tacque per un istante. «Di cos'hai paura, Vè?» chiese lentamente.
   Lei deglutì. «Dovrò andarci comunque, più avanti, per testimoniare su... sull'incidente» sussurrò. «Non lo posso evitare, non posso scappare, e allora... allora ho pensato che forse è meglio se... se non ci vado, in aula, prima di quel giorno. Ho paura, Vittò» disse con voce tremante. «Che succede se quando sono lì non riesco a parlare? Che succede se ci vado già dalla prima udienza e poi non riesco a sedermi su quella sedia e dire com'è stato quando... quando quella macchina ci è venuta addosso, quando mi sono svegliata senza una gamba, quando continuavo a cercare Noemi perché ero abituata a condividere tutto con lei e mi dimenticavo che non c'era più? Come...»
   La voce di Vera si spezzò.
   Vittorio sospirò e le accarezzò i capelli. «I giudici non ti mangiano, tesoro» la rassicurò. «Forse l'avvocato del ragazzo potrebbe provarci, ma dopo quello che hai passato, penso che sarebbero i giudici stessi a dirgli di darsi una calmata, se si agita troppo. E comunque, se ci vai tu, allora ci vado anch'io». Tacque per un istante. «Se tu mi vuoi lì con te».
   Nonostante il pensiero del processo le gravasse sul petto come un macigno, Vera ridacchiò di nuovo. «Stai dicendo che te la senti di affrontare i miei genitori?»
   «Non mi sembra di aver avuto problemi, due mesi fa» ribatté Vittorio in tono spavaldo.
   «No, ma due mesi fa non stavamo insieme» sogghignò Vera prima di tornare seria. «Comunque, se non ti crea problemi con il lavoro, io... io ti vorrei in aula con me, sì».
   «Non ti preoccupare del mio lavoro: a quello ci penso io».
   «Io...». Vera deglutì un paio di volte prima di riuscire a parlare di nuovo. «Grazie, Vittorio» sussurrò.
   La risposta dimessa di Vera punse Vittorio come una vespa feroce: era così poco da lei da farlo vibrare dalla testa ai piedi in modo negativo. Dopo aver spinto la venticinquenne in posizione seduta si alzò di scatto, afferrò la protesi e gliela porse. «Sai che ti dico? Possiamo cenare più tardi. Adesso rimettiti la gamba: usciamo».
   Vera lo guardò, incuriosita. «E dove andiamo?»
   «Aspetta e vedrai».

******

Vittorio portò indietro il braccio e lo spinse in avanti con un movimento simile a un colpo di frusta.
   «Avanti, Hermes, prendila!»
   Il pastore tedesco partì all'inseguimento della pallina che l'uomo aveva appena lanciato verso Vera; la ragazza scoppiò a ridere e l'afferrò al volo mentre il cane si bloccava di fronte a lei, in attesa.
   Quando Vittorio le aveva proposto di uscire, l'ultima cosa che Vera si sarebbe aspettata era un'uscita al parco con Hermes. Sulle prime era stata scettica: fosse stato per lei, si sarebbe parcheggiata di fronte al ventilatore dopo una bella doccia fredda e, a giudicare da come Hermes stava spalmato in un angolo d'ombra sul pavimento del giardino, il suo cane aveva più o meno gli stessi progetti.
   Vittorio, invece, li aveva trascinati per strada incurante della loro pigrizia, sordo all'ansimare di Hermes e al mugugnare incessante di Vera; aveva rallentato solo quando si erano inoltrati lungo i viali del parco, e per quel momento sia il cane che la donna si erano rassegnati all'inevitabile.
   In quel momento, però, mentre una brezza appena accennata dava loro un po' di respiro, Vera non poté fare a meno di essere contenta che il carabiniere li avesse portati lì contro la loro volontà: nonostante la gamba le facesse ancora male, nonostante la sua pelle fosse appiccicaticcia a causa del sudore e il suo stomaco brontolasse per la fame, le corse disperate di Hermes alle calcagna della pallina e la risata ricca e profonda di Vittorio la facevano sentire infinitamente più leggera.
   Vera agitò la palla colorata sotto il naso di Hermes e la scagliò lontano, gli occhi fissi sul cane che galoppava, prima di spostare lo sguardo su Vittorio.
   «Un po' mi scoccia ammetterlo, ma hai fatto bene a trascinarci qui» commentò, con un sorriso sul volto.
   Vittorio la fissò con tanto d'occhi. «Le mie orecchie mi ingannano o hai appena detto che ho fatto bene? Che io ho fatto bene qualcosa?». Si coprì la testa con le mani. «Presto, corriamo al riparo prima che si scateni una bufera di neve!»
   Hermes tornò da Vera giusto due secondi più tardi e lei ne approfittò per prendere la palla dalla sua bocca e lanciarla dritto in faccia a Vittorio; e anche se in condizioni normali il carabiniere quel colpo l'avrebbe schivato a occhi chiusi, in quel momento era troppo impegnato con la sua scena da melodramma greco per muoversi con la consueta prontezza di riflessi.
   La pallina, coperta di erba e bava di cane, si spiaccicò sulla guancia sinistra dell'uomo.
   «Centro!» esultò Vera, alzando le braccia al cielo.
   Vittorio si ripulì col dorso della mano ed emise un verso disgustato. «Quando fai così, ti odio! Sei persino peggio di mia sorella!»
   «Perché? Che fa tua sorella?» indagò la venticinquenne, curiosa.
   «L'ultima volta che le ho tappato la bocca con la mano, me l'ha leccata» grugnì Vittorio.
   Vera scrollò le spalle. «Capirai! Chissà che m'immaginavo!»
   «Capirai?» le fece eco lui, incredulo. «Ti pare una cosa normale? Valeria...». S'interruppe, improvvisamente cereo, gli occhi fissi su un gruppo di quattro persone che avanzava a passo di marcia alle spalle di Vera, dritto verso di loro. Fece un movimento come per fuggire. «Valeria!»
   Vera si voltò verso il punto fissato da Vittorio appena in tempo per vedere una donna, con un caschetto di capelli scuri e mossi,  fare un gesto ai due bambini che le camminavano accanto e puntare il dito verso il carabiniere.
   «All'attacco, piccoli mostri!»
   I ragazzini partirono urlando e si scagliarono su Vittorio; l'uomo barcollò vistosamente e cadde all'indietro sull'erba. Senza perdere un istante, i due bambini gli saltarono addosso e lo sommersero proprio come aveva fatto Hermes qualche settimana prima, e che in quel momento girava intorno al groviglio umano che si agitava a terra, annusando curioso.
   «Cristo santo...» gemette Vittorio, tentando invano di liberarsi. Cercò Vera con lo sguardo. «Aiutami!»
   L'ex ginnasta inarcò le sopracciglia. «Non so se voglio farlo. Insomma, non è che hai una doppia vita e un paio di figli e adesso hai paura di essere ammazzato di botte da me e dalla loro madre?»
   «Figli? Con 'sto qui?» disse l'altra donna, che finalmente li aveva raggiunti. «Per carità!»
   Vera la scrutò attentamente. «Tu mi sei simpatica» decretò. «Sempre che tu non sia davvero la compagna di Vittorio e la madre dei due bambini che stanno tentando di soffocarlo».
   «La madre dei due mostri, sì; la compagna di quello sciagurato, no». La sconosciuta sbuffò. «Sono sua sorella e fidati, se potessi scegliere, al momento non lo sarei!»
   La venticinquenne la guardò con una nuova consapevolezza negli occhi. «Ah, sei quella che gli lecca la mano quando prova a zittirti».
   «E tu la sua nuova ragazza». L'altra donna le porse la mano. «Valeria».
   Vera l'afferrò e la strinse. «Vera». Accennò all'uomo alle loro spalle, che guardava Vittorio sogghignando. «Tuo marito, immagino».
   Valeria annuì. «E il padre dei due mostriciattoli. E il cognato dell'imbecille lì per terra».
   L'uomo tese la mano a Vera come aveva fatto Valeria un minuto prima. «Simone; piacere di conoscerti».
   Vera accettò anche la sua mano. «Vera: piacere mio».
   «Avete finito di scambiarvi piacevolezze?» sbraitò Vittorio, ancora impegnato in quella sorta di incontro di wrestling. «Simò, toglimi di dosso questi due bulldozer!»
   Simone affondò le mani nelle tasche dei bermuda e lo fissò impassibile. «Non ci penso proprio» rispose. «È il primo di luglio e ancora non ti sei degnato di venire a trovarci: ti meriti tutto quello che ti faranno, e anche di più».
   «E dai!» ruggì Vittorio.
   L'altro scrollò le spalle. «Nah. Cristian, Samuel, fatelo nero!»
   Vittorio grugnì mentre i due bambini gli saltavano sulle costole strillando eccitati e Vera, mossa a pietà, decise di dargli una mano.
   «Pssst! Cristian! Samuel!» li richiamò, sottovoce e con un gesto cospiratore. I due, che a occhio avevano sette e cinque anni, trotterellarono verso di lei, tallonati da Hermes. «Vi va di giocare con il mio cane? Si chiama Hermes, è buonissimo e adora rincorrere le palline».
   Cristian si girò verso il pastore tedesco e lo guardò serio.
   «Hermes» ripeté. «Ti va di giocare?»
   Il cane agitò freneticamente la coda.
   «Prendete quella e vedrete come scatta» gli suggerì Vera, indicando la pallina abbandonata a poca distanza da un Vittorio dolorante e ancora intento a rialzarsi.
   «Credo di avere le costole polverizzate» gnaulò il quarantenne.
   «Sta’ zitto e aiuta i tuoi nipoti a fare amicizia con Hermes» ordinò Vera, mentre i bambini prendevano la palla e venivano rincorsi da Hermes.
   Vittorio la ignorò e rimase dov'era, gli occhi fissi sulla propria sorella. «Come hai fatto a trovarmi?»
   Valeria sbuffò. «Mamma mi ha detto che hai una nuova ragazza e volevo conoscerla...»
   «Non ti ho chiesto perché sei qui, ma come hai fatto a trovarmi» la interruppe lui.
   La trentacinquenne sbuffò una seconda volta. «Ho chiesto a mamma, che ha chiamato il maresciallo, che ha contattato il collega con cui sei sempre di pattuglia, che ci ha dato il tuo indirizzo e ha detto che se non eri a casa, allora forse eri qui perché ti piace venire a correre in questo parco».
   Vera scoppiò in una risata. «Quindi è una cosa di famiglia, rintracciare la gente per vie traverse!»
   Simone sghignazzò qualcosa di incomprensibile e Vittorio scosse la testa.
   «Mi sa che hai ragione tu, Gamba Bionica: sto meglio coi miei nipoti» commentò il secondo, girando sui tacchi per raggiungere i due bambini.
   Quando Vittorio fu fuori tiro d'orecchi, Valeria soppesò Vera con lo sguardo. «Per caso tu sei la stessa che ha provato a prendere a schiaffi la mia ex cognata?»
   L'altra sibilò un paio di imprecazioni. «È solo colpa di tuo fratello e del suo vizio di mettersi in mezzo, se non ci sono riuscita. E ti assicuro che lo volevo proprio tanto».
   «Oh, non sei sola, fidati» ribatté cupa Valeria. «Per fortuna si è deciso a lasciarla e a trovarsi una ragazza normale».
   Vera inarcò le sopracciglia. «Grazie, credo».
   La trentacinquenne agitò una mano con fare noncurante. «Ti pare!»
   Simone sghignazzò di nuovo e rivolse un'occhiata eloquente a Vera. «Si somigliano un sacco, non trovi?» commentò, accennando a sua moglie e a suo cognato.
   «Anche troppo» soffiò Vera. «Io pensavo che un Valenti fosse un cataclisma naturale, ma due potrebbero essere proprio l'Apocalisse».
   «Ehi!» insorse Valeria, in una perfetta replica del tono più indignato di Vittorio, quando gli altri due scoppiarono a ridere. «Io non sono pessima come Vittorio! Neanche lontanamente!»
   «Tu sei peggio di Vittorio: sei la sua versione riveduta e corretta» ribatté Simone. «Ma molto più bella» aggiunse di fronte all'espressione aggrondata di sua moglie. Tornò a rivolgersi a Vera. «Però devo farmi spiegare da Vittorio come ha fatto a trovarsi una fidanzata giovane, normale e pure bella!»
   Valeria gli rifilò un violento schiaffo sulla nuca. «Perché? Devi fare conquiste?» abbaiò.
   «Gelosona» disse compiaciuto suo marito; l'abbracciò stretta per impedirle di schiaffeggiarlo ancora e le schioccò un umido, rumoroso bacio sulla guancia. «Sono solo curioso. Tuo fratello è un po' troppo burbero per il suo bene: ecco perché mi chiedo come ci sia riuscito».
   «Perché io sono peggio di lui» rispose Vera con sincerità.
   «Impossibile» decretò all'istante Valeria. «Questo...». S'interruppe e masticò un insulto tra i denti. «Questo» riprese, con un gesto eloquente in direzione di suo fratello, «ha una capacità mai vista nella storia del genere umano, di far saltare i nervi alla gente: in parole povere, sa essere irritante come una pianta d'ortica ficcata nelle mutande».
   Vera sbottò in una via di mezzo tra una risata e un grugnito.
   «Quanta grazia in un corpo solo, amore mio» esclamò sardonico Simone.
   «Ho solo detto la verità» replicò sua moglie. «Ha quarant'anni – anzi, quarantuno, visto che tra un paio di settimane è il suo compleanno – ma su certe cose, è ancora un ragazzino!»
   L'ex ginnasta drizzò le orecchie. «Ah sì?»
   Valeria sbuffò. «Ci stai insieme: vorresti dirmi che non ti sei accorta che a volte Vittorio ha la maturità di un bambino delle elementari?»
   «Non parlavo di quello, ma del suo compleanno» spiegò Vera. «Anzi, dimmi il giorno preciso: fino a due secondi fa non avevo la minima idea sulla sua data di nascita».
   L'altra le rivolse un sorrisetto. «Tu hai in mente qualcosa».
   «Oh, è solo una cosetta... ma forse mi puoi aiutare».

******

Vera non era mai stata meno convinta di una propria scelta, benché in più di un'occasione si fosse pentita di una decisione presa; sì, aveva avuto dei dubbi quando si era iscritta all'università e per tenere il passo con le lezioni e gli allenamenti aveva trascorso così tante notti insonni da perdere il conto, e sì, aveva capito di aver commesso un errore madornale quando, a sedici anni, aveva accettato di uscire con Daniele Terenzi – non s'era mai annoiata tanto nella sua vita quanto in quei tre mesi in cui era stata fidanzata col suo compagno di allenamenti in palestra – ma assecondare la sua migliore amica e far sedere Vittorio e Tiziano allo stesso tavolo... be', quella decisione le batteva tutte.
   Dall'altro lato del tavolo rettangolare, Giulia sembrava di tutt'altro avviso: l'ampio sorriso soddisfatto che le troneggiava sul volto la diceva lunga su come lei, invece, fosse convinta che quell'uscita a quattro – o meglio, a cinque, se si contava la piccola Ludovica inerpicata sul seggiolone a capotavola – fosse una delle trovate più brillanti che avesse mai avuto.
   L'ex ginnasta scoccò un'occhiata preoccupata prima a Vittorio, seduto giusto di fronte a lei, e poi a Tiziano, che le stava accanto. Loro non se ne accorsero nemmeno: erano troppo occupati in una sfida di sguardi, e nessuno dei due sembrava intenzionato a cedere. Nel momento in cui si erano accomodati al tavolo del ristorante, Vera aveva considerato un successo essere riuscita a farli sedere a una distanza sufficiente da impedire eventuali contatti fisici tra i due, ma non aveva messo in conto la petulanza di entrambi: iniziava a pensare che, di quel passo, i due uomini non avrebbero spiccicato parola per tutta la sera.
   Trascorse un'altra manciata di minuti senza che la tensione che aleggiava sulla tavolata si allentasse; poi, senza distogliere lo sguardo da Tiziano, Vittorio incrociò le braccia al petto e rivolse un sorrisetto all'altro uomo.
   «Puoi anche rilassarti, juventino» disse il carabiniere, spezzando finalmente il silenzio. «Il buongusto in fatto di calcio non si trasmette per via aerea».
   Per un attimo Tiziano boccheggiò, indignato. «E ce l'avresti tu, il buongusto in fatto di calcio?»
   Vittorio inarcò le sopracciglia. «Visto che io non tifo per una squadra di ladri, direi proprio di sì».
   Vera si voltò verso Tiziano, allarmata: provocarlo sulla sua squadra del cuore era un modo certo per farlo infuriare. E infatti il suo migliore amico sembrava aver temporaneamente perso l'uso della parola; il suo volto, però, si stava chiazzando di rosso, segno che l'esplosione era imminente. L'ex ginnasta lanciò uno sguardo fugace a Giulia, che appariva altrettanto preoccupata.
   «Ma... ma... ma pensa per te, romanista» replicò infine il trentenne, sputando l'ultima parola con aria disgustata. «Tifi per una squadra che se vince uno scudetto ogni vent'anni, è grasso che cola!»
   Il ghigno sul volto di Vittorio si allargò. «Almeno a noi gli scudetti non li revocano».
   Tiziano sbuffò. «E che vuoi revocare, se non vincete nemmeno la coppa del nonno?»
   «La differenza tra la mia squadra e la tua si riassume in una sola parola» ribatté il carabiniere. «Calciopoli».
   Tiziano fece per alzarsi, ma prima di poterci riuscire, Giulia e Vera si dimenarono sulle sedie in un identico movimento; i due uomini grugnirono di dolore quasi contemporaneamente e assunsero un'espressione risentita.
   «Ehi!» disse oltraggiato il più giovane, guardando sua moglie, mentre si piegava per massaggiarsi lo stinco. «Mi hai fatto male!»
   Vittorio, invece, appoggiò la caviglia destra sul ginocchio sinistro e se la strinse tra le mani. «Non vale, prendermi a calci con la gamba finta» si lagnò, fissando l'ex ginnasta.
   «In realtà ho usato quella vera» replicò lei, alzando gli occhi al cielo. «Non vi sopporto più, voi due. Pensate di riuscire a comportarvi da adulti almeno finché siamo qui?»
   «Ha cominciato lui» borbottò Tiziano, indicando il carabiniere; Giulia lo guardò, in parte incredula in parte esasperata.
   «Molto maturo» commentò.
   «Io volevo solo rompere il ghiaccio» mugugnò Vittorio, accanto a lei. «Visto che mi guarda storto da quando sono arrivato...»
   Giulia scosse la testa. «Siete insopportabili. Ma come mi è venuto in mente, di organizzare questa cena?»
   «Prenditela con te stessa: io ti avevo detto che era una cattiva idea» replicò Vera.
   «Scusa tanto se pensavo di andare a cena con degli uomini, e non con due bambini dell'asilo!»
   «Sono maschi, Giù: che ti aspettavi?»
   Tiziano conficcò un dito tra le costole di Vera per richiamare la sua attenzione. «Io e il coso romanista siamo ancora qui, eh».
   Sua moglie si portò una mano alla fronte. «Non puoi chiamarlo “coso romanista” e poi prendertela se ti provoca!»
   Vera agitò un braccio per attirare l'attenzione di un cameriere qualunque. «Scusi, ci porta il menù dei bimbi?»
   «Oh, ah ah, ma quanto sei spiritosa!» grugnì Tiziano.
   Giulia gemette sconfortata. «Una serata tranquilla, volevo solo una serata tranquilla...»
   L'ex ginnasta premette i palmi delle mani sulla tovaglia e guardò prima il suo migliore amico, poi il proprio fidanzato. «Fatemi il favore, tutti e due, di dimenticarvi che esiste il calcio e comportarvi da persone adulte che parlano senza guardarsi male, senza provocarsi e senza azzuffarsi, sennò prendo Giulia e Ludovica e ce ne andiamo a cena per conto nostro» sibilò.
   I due uomini si scrutarono torvi per qualche istante; poi sospirarono e scrollarono le spalle.
   «Immagino che per una sera, si possa fare» mugugnò Tiziano.
   «Purché non diventi un'abitudine» brontolò Vittorio.
   Giulia guardò Vera a bocca aperta, scuotendo lentamente la testa.
   «Sono impossibili» commentò. «Però hanno fatto un passetto in avanti, dai».
   «Sì, ma sbrighiamoci lo stesso a ordinare: mentre mangiano non possono azzuffarsi» sospirò Vera.
   Fatta la loro ordinazione, Vera e Giulia si misero a chiacchierare tra di loro ignorando platealmente i rispettivi compagni e i loro tentativi di inserirsi nella conversazione. Alla fine, i due si rassegnarono ad ascoltarle in silenzio; continuarono così fino al momento in cui furono portati via i piatti degli antipasti, poi Vittorio scoccò un'occhiata furtiva all'altro uomo.
   «Insomma...» mugugnò.
   «Be'...» rispose Tiziano, poco convinto.
   Il carabiniere alzò le braccia al cielo. «Ce l'avremo pure qualcosa in comune di cui parlare, no?» sbottò. «Sono stanco del gioco del silenzio».
   «Sì, anch'io» convenne l'altro.
   «Allora... allora...». Vittorio si frugò il cervello alla ricerca di qualcosa da dire che non scatenasse una miccia. «Quest'inverno ci saranno i Metallica in concerto in Italia e io non sono riuscito a procurarmi i biglietti!»
   Il volto di Tiziano s'illuminò. «Anche tu fan dei Metallica?»
   Il carabiniere annuì vigorosamente. «Sono andato al DatchForum per il World Magnetic Tour otto anni fa... una roba pazzesca, sono stato senza voce per due settimane!»
   «Me lo ricordo, quello! L'unica altra data oltre a Milano è stata a Roma due giorni dopo, ci sono andato con degli amici» rispose Tiziano. «Quel palco al centro coi fan tutto intorno... grandioso, veramente! Pensavo che il Palalottomatica sarebbe venuto giù!»
   «Eh, i Metallica» sospirò affettuosamente Vittorio. «Ho provato in tutti i modi a trovare i biglietti per Torino, l'anno prossimo, ma non c'è stato verso».
   Tiziano puntellò i gomiti sul tavolo e appoggiò il mento sui pugni chiusi.
   «Sì, ma ci sono anche due date a Bologna» commentò. «Secondo me, se teniamo d'occhio la situazione tutti e due, un paio di biglietti riusciamo a rimediarli... tanto c'è sempre qualcuno che finisce fregato per un imprevisto o per l'altro e si rivende i biglietti».
   «Bologna si può fare: da qua è pure abbastanza comodo arrivarci, sia con la macchina che con il treno...» rimuginò il carabiniere a mezza voce. «Sì, ci sto. Senti un po', dei Kasabian che dici?»
   «Che mi piacciono» replicò il trentenne. «Perché?»
   «Perché possiamo vedere se riusciamo a trovare i biglietti per il loro concerto al Rock in Roma. È il ventuno di questo mese, magari anche qua, qualcuno che li rivende perché non ci può più andare lo troviamo».
   Fu la volta di Tiziano di annuire. «Andata!»
   I due uomini continuarono a fare progetti, dimentichi di avere compagnia.
   Vera guardò Giulia, le sopracciglia inarcate e l'espressione beffarda. «Hanno protestato fino allo sfinimento e adesso già parlano di andare ai concerti insieme».
   L'altra fece una smorfia. «E ci voleva tanto, no, a trovare un punto d'incontro?»
   Le due amiche si guardarono per un istante.
   «Maschi!» sbottarono in perfetta sincronia.
   
 
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