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Autore: iamnotgoodwithnames    12/03/2019    3 recensioni
[!Spoiler!Season 2][Introspective][Aureliano!Centric][Aureliano/Alberto]
La verità, quella che si deve costringe ad ammettere d’aver ormai capito, è che non voleva lasciarlo andare, si aspettava altro, un sorriso quanto meno o un risolino fastidiosamente squillante.
Alberto, invece, se ne è andato senza ridere e senza sorridere, freddo, distante, l’ha liquidato senza neppure ribattere con qualche battuta sarcastica, con quell’ironia tutta sua che miscela il garbo allo sbeffeggiamento; se n’è andato e basta e l’ha lasciato lì, come un idiota, come l’idiota che è, a fissare il nulla che gli è rimasto d’un sentimento mai espresso.
«te vojo bene Spadì, davero»
Che significato aveva poi, quel davvero, realmente? Quante parole ha nascosto tra le sillabe?
Lo sa, l’ha capito, ormai li ha rivisti tutti gli attimi d’istanti sfuggenti e l’ha ricollegati, uno dopo l'altro, come tasselli d’un puzzle rimasto sopra al tavolo per troppo tempo e finito quand’ormai non c’è più nessuno a cui mostrarlo.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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[Spoiler Season 2]

Ragni

Esistono istanti, attimi passeggieri, momenti di fragile fugacità, che durano in eternità; immutabili, permanenti, impressi da qualche parte negli angoli della mente.

Non li scegli, non puoi, accadono e basta.

Non puoi scappare, non puoi decidere, non puoi neppure sfiorarli, né catturarli davvero, ti passano davanti agli occhi e scappano a nascondersi nel sottoscala del cervello, in quegli angoli bui ed impolverati che nessuno controlla mai troppo spesso; dove crescono i ragni.

E non te li ricordi, neppure quando i ragni decidono d’uscire e passeggiare tra i neuroni, arrampicandosi attorno alla materia grigia, intessendo tele nei soffitti alti, in quegli anfratti che nessuno spolvera mai bene; e restano lì, appesi, a ciondolare dalle pareti, inosservati.

Poi, un giorno, alzi la testa, guardi qualcosa e vedi qualcos’altro e lo trovi lì, ad aspettarti chissà da quanto, il ragno scappato dal rifugio che s’era costruito intorno.

Non capisci, non subito, cosa sia quella chiazza scura che osservi, e allora pensi, e d'un tratto, lo vedi, il ragno, così bene eppure così sfuggente che cominci a perderti cercandolo.

E ricordi, all’improvviso, in un giorno qualsiasi, per nessuna ragione e per nessun motivo, ricordi quel frammento d’effimera eternità che neppure t’eri reso conto d’aver conservato; era passato, l’avevi rimosso, archiviato e dimenticato, o così credevi e invece eccolo lì; il ragno,

Due, sono solamente due le possibilità che hai, quando trovi un ragno che non sospettavi neppure ci fosse.

Lo puoi schiacciare, ucciderlo prima che possa muoversi altrove, fuggire a nascondersi da qualche altra parte, svanendo così bene da farti illudere che non sia mai esistito.

Oppure puoi raccoglierlo, contemplarlo agitarsi e contorcersi cercando d’allontanarsi da te, di tornare ad annidarsi da qualche parte, lontano dai tuoi occhi, e gettarlo fuori lasciandolo andare distante, così distante da non doverlo mai più rivedere; dimenticandotelo, per sempre.

Già, ma se poi torna?

Infondo tutti i ragni sono uguali, nessuno può sapere se scacciandolo dalla casa che s’era creato non tornerà poi, prima o poi, a riprendersi il posto che aveva.

Terrificante, l’impossibilità della certezza assoluta.

Ucciderlo, invece, è certo, ma come s’ammazza un ragno che corre più veloce di te?

E se poi non hai il coraggio, se per qualche assurdo motivo non vuoi assassinarlo? Cosa si fa?

C'è la terza opzione, quella che non piace a nessuno, quella che in pochi compiono, quella che rappresenta il maggiore dei pericoli; lo lasci lì dov’è, aspettandoti che se ne andrà da solo.

Per un po’ continuerai a pensarci, a quel ragnetto comparso dal nulla, e forse lo cercherai persino, ma non riuscirai più a trovarlo, sparito in chissà quale nuovo angolo, e alla fine te ne dimenticherai di nuovo e tutto tornerà come prima; finché non te lo ritroverai nuovamente davanti e allora tutto rincomincerà dal principio.

La scoperta, la contemplazione, la scelta, la decisione, in un ciclo infinito che nessuno sa realmente come spezzare; la verità è che dei ragni non ci si riesce a liberare mai.

La verità è che i ragni, come gli attimi di fugace eternità, non puoi decidere di scacciarli per sempre, prima o poi torneranno, ed anche se sceglierai d’ucciderli, tutti, ne arriveranno di nuovi ed avranno la stessa forma dei precedenti, saranno composti dalla medesima materia e forse, allora, tanto vale farseli alleati; i ragni come gli istanti creduti inosservati.

Forse la scelta migliore è anche l’unica che richiede troppo coraggio per esser compiuta da chiunque, forse lasciarli liberi d’arrampicarsi, d’intesser tele, di lasciarsi spiare di tanto in tanto, di farsi guardare immobili in un angolo, di farsi persino studiare nella ravvicinata distanza, è l’unica logica scelta che renderebbe tranquillo il cuore e sgombera la mente; quanto meno dai ragni che già conosci.

Perché se non lo scacci, se non lo uccidi, il ragno non si sposta e non scappa, resta lì, dove l’hai trovato, finché avrà voglia, finché non si sarà lasciato guardare abbastanza a lungo da darti l’illusione d’averlo conosciuto davvero; poi quando un giorno non lo troverai più t’accorgerai che, in fondo, non l’hai capito poi così tanto come credevi o che, forse, ti manca persino non averlo più.

E certi attimi sono così, come i ragni.

Sfuggenti eppure stabili, nascosti eppure visibili, capibili eppure incomprensibili.

Ad Aureliano, per esempio, i ragni non sono mai piaciuti, l’ha sempre schiacciati tutti, dal primo all’ultimo, a volte l’ha persino minacciati, ma i ragni non l’hanno ascoltato e son sempre tornati ad impolverargli la mente di ragnatele indecifrabili, ad intrappolargli pensieri in una tela d'attimi d’effimera eternità mai compresi e mai voluti guardare.

Gli sono sfrecciati davanti agli occhi ed Aureliano non ha mai provato a fermarli, li ha lasciati correre via e quando tornavano li uccideva senza neppure riflettervi troppo oltre; meglio ammazzarle le debolezze o loro ammazzano te, la filosofia era questa, sempre questa.

Perché alcuni ragni hanno il veleno in corpo e sfiorarli può far morire il cuore, in un battito di ciglia.

Meglio ucciderli prima.

Sua sorella una volta l’ha baciato, Aureliano non se l’è mai ricordato finché non gli è comparso dipinto al muro del soffitto, in una mattinata soleggiata ed annoiata, in cui a sua sorella neppure ci pensava, ha rotto la ragnatela ed ha ucciso il ragno; prima che potesse infettarlo col veleno denso di rabbia.

Isabel una volta l’ha abbracciato mentre dormiva, distratta, spontanea, e d’istinto le carezzò il dorso della mano, poggiatagli all’addome, e se la strinse a sé, nell’umana manifestazione d’emozioni che aveva; adesso s'è convinto d'averle seppellite troppo in profondità per poter essere riesumate ed ha ucciso anche quel ragno che aveva provato a farle riemergere.

Una volta suo padre gli ha urlato qualcosa contro, era ubriaco e credeva di non aver mai capito cosa gli avesse sputato spietatamente addosso, poi trovò il ragno e ricordò. L’aveva incolpato, così a lungo da farlo cedere, un bambino contro un gigante, quella volta pianse e per evitare l’odio, per evitare la debolezza, per dimenticare di aver ricordato, ammazzò il ragno affogandolo nel medesimo liquore di cui quel frammento d’istante portava il sapore.

Funzionava, la tattica perfetta, aveva imparato ad uccidere i ragni e distruggere le ragnatele prima ancora di poterle trovare davvero; ma non esiste tattica infallibile, adesso lo sa.

Adesso che fissa un covo di piccoli ragni, ammassati l’uno sopra l’altro, appiattiti nell’angolo più impolverato, adesso che dalla ragnatela prendono già forma immagini troppo nitide, colori accecanti che emergono dai meandri del buio, disturbando gli occhi e la ragione; come può ammazzare così tanti ragni, tutti insieme?

Tutti gli attimi che neppure pensava d’aver conservato, tutti gli istanti creduti rimossi, persino quelli durati così brevemente da esser sembrati inesistenti, gli riaffiorano alla memoria; salgono e formicolano sottocute, infastidiscono e bruciano.

E non se ne vanno, sono troppi, è un esercito di ragni ed è inutile combattere; ha già perso.

Una volta Alberto l’ha baciato, una volta gli ha cucinato degli spaghetti, una volta gli ha malamente spalmato fango addosso, una volta l'ha fatto ridere, ridere davvero, una volta gli si è seduto accanto senza parlare, condividendo il silenzio d’un dolore; quand'è successo, quando ha cominciato a conservato così tanti attimi senza accorgersene?

L’insopportabile meccanismo della memoria subconscia, che agisce senza chiedere permessi, che elabora senza avvertire, che si prende troppe libertà.

L’infelice tempismo dell’inconscio che fa riaffiorare memorie quando è tardi, quando fuori è notte, quando intorno c’è il vuoto e dentro il freddo, quando cerca l’esatto punto in cui prima, poco prima, c’era ancora qualcuno ad ascoltare parole che mai avrebbe pensato di poter dire; ma le ha provate, tutte, ogni singola sillaba, da chissà quanto tempo le teneva conservate nella mente, silenziate per chissà quanti giorni e mesi.

 

«t’ho ricordi quanno m’hai detto che t’ho cambiato ‘a vita?»

 

Ha parlato lui ed ancora non lo riesce a capire il perché, l’inconscio, abbia deciso che quello era il momento giusto per sputar fuori tutte quelle parole che pensò senza accorgersene, senza tenerne il conto ed il tempo, per chissà quanto; era scioccato dalla morte di Lele, se la giustifica così Aureliano, mentre fissa il pavimento dall’altezza del divano cui è crollato.

E cerca altro, per distrarsi dall’indagare, dal comprendere le ragioni del subconscio.

Cerca un viso diverso, un volto che non sia impresso nei ricordi che gli fluttuano attorno, e trova quello di Nadia; dormiente nell’altro divano, rannicchiata come una bambina.

È minuta, gracile, così esile sotto quegli strati d’abiti che le vestono abbondanti, s’ostina ad indossare giacche troppo ampie e pantaloni troppo larghi, ne accentuano ancor di più la magrezza, e quei capelli incastrati in strette trecce che ne espongono porzioni di cute, un’acconciatura ridicola, da giostraia direbbe qualcuno; che non è troppo diverso dall’esser zingari, aggiungerebbe qualcun altro.

Non riesce a guardarla senza che l’inconscio noti, le sottili somiglianze, qualcosa che gli ricorda quel volto che gli assilla la mente da ore; forse giorni, forse mesi. 

 

«pure 'a mia è cambiata e tu ce s’è sempre stato»

 

Anche quando non c’è, anche quando non è fisicamente presente, in qualche modo c’è sempre e non se n’è reso conto, mai, o forse ha preferito non accorgersene, ma adesso i ragni gli sono entrati sotto pelle e se guardia Nadia continua a vederlo lì, da qualche parte, tra i vestiti troppo larghi e le spalle esili, tra l’acconciatura ridicola e quei pacchiani orecchini dorati.

 

«nun m’hai accannato mai, manco quanno ‘n ce stavo a capì ‘n cazzo e manco quanno t’ho mannato affanculo»

 

E quanto male può avergli fatto? Quanto dolore gli ha inferto, quella volta, quando non l’ha rifiutato soltanto, ma gli ha sputato addosso ribrezzo e disgusto?

L’ha massacrato senza neppure colpirlo realmente con i pugni serrati, l’ha pugnalato, l’ha gettato nel Tevere, l’ha bruciato vivo, forse persino peggio, e non per un comprensibile rifiuto, no, ma per averlo disprezzato come chiunque altro già faceva, o avrebbe fatto, conoscendolo per quel che realmente è.

Zingaro e pure frocio, ci ripensò nei giorni che seguirono, ci pensò senza saperlo, Aureliano, senza che gli fosse concesso deciderlo, senza che si concedesse d’accorgersene.

Quel giorno, non fu migliore degli zingari.

E quanti ne passarono poi, di giorni, senza poter sentire più la voce, di quello zingaro che non aveva deciso mai niente nella vita, men che meno d’esser gay?

Sei, sette mesi si corregge la mente ed Aureliano vorrebbe sapere, adesso, quand’è che esattamente cominciò a tenerne il conto; perché riemerge tutto ora, come le onde che riportano a riva pezzi di conchiglie.

 

«te vojo bene Spadì, davero»

 

Se esiste il karma è qui, in questo preciso frammento d’attimo, che ha scelto di colpire Aureliano e regalargli un ematoma, trascurabile prova a convincersi, alla bocca dello stomaco; un pugno che ha incassato con la maestria d’un pugile abituato a riceverne di peggiori, ma quanto ha fatto male non l’ha dato a vedere.

Forse perché, infondo, era ancora convinto di non poterne restare ferito in alcun modo. 

Però poi, a fissare lo sgabello vuoto, a guardare Alberto allontanarsi a passo svelto, a rifiutarne la compagnia, l’aiuto, Aureliano c’è rimasto per minuti e minuti; ad osservare le porte ormai chiusesi e quando Nadia le ha varcate, non è più certo che abbia realmente visto lei.

Non l’ha lasciata parlare, troppo femminile la voce. Non le ha concesso di capire, osservatrice troppo attenta.

L’ha baciata, d’impulso, seguendo l’istinto come ha sempre fatto, a volte crede di saper far bene solo questo, seguire l’impeto del momento e vedere dove porta, cosa comporta e questa volta l’ha portato sulla superficie d’un tavolo da biliardo, a spogliarsi e spogliare, a chiudere gli occhi e pensare ad immagini inconfessabili che il subconscio, meccanismo bastardo, ha deciso di visualizzare per lui; perché da solo il coraggio di farlo non l’avrebbe mai trovato, sarebbe rimasto bloccato ad immaginare senza sapere, a pensare senza averne consapevolezza.

Diverso, è così che è stato, fare sesso con Nadia e non aprire mai gli occhi o farlo solo per trovare iridi nocciola, ma ancora troppo chiare, e braccia minute, ma ancora troppo femminili, e tornare,allora, a chiudere nuovamente le palpebre; dove si proiettavano segreti inesprimibili.

E non ha dormito, non c’è riuscito, è rimasto sveglio a cercare un dannato sgabello vuoto ed una birra ancora mezza piena lasciata lì, sul bancone d’un bar spoglio.

La verità, quella che si deve costringe ad ammettere d’aver ormai capito, è che non voleva lasciarlo andare, si aspettava altro, un sorriso quanto meno o un risolino fastidiosamente squillante.

Alberto, invece, se ne è andato senza ridere e senza sorridere, freddo, distante, l’ha liquidato senza neppure ribattere con qualche battuta sarcastica, con quell’ironia tutta sua che miscela il garbo allo sbeffeggiamento; se n’è andato e basta e l’ha lasciato lì, come un idiota, come l’idiota che è, a fissare il nulla che gli è rimasto d’un sentimento mai espresso.

 

«te vojo bene Spadì, davero»

 

Che significato aveva poi, quel davvero, realmente? Quante parole ha nascosto tra le sillabe?

Lo sa, l’ha capito, ormai li ha rivisti tutti gli attimi d’istanti sfuggenti e l’ha ricollegati, uno dopo l'altro, come tasselli d’un puzzle rimasto sopra al tavolo per troppo tempo e finito quand’ormai non c’è più nessuno a cui mostrarlo.

Ha impiegato troppi mesi a collegare i pezzi, a guardarli e capirli, a trovarli e dargli una ragione d’esistere, perché ad Aureliano i puzzle non sono mai riusciti bene, la pazienza non è mai stata sua alleata e i pezzi giusti li ha sempre smarriti sotto al divano, sotto ai cuscini, sotto al tappetto, e cercarli non gli è mai piaciuto; neppure la calma è mai riuscito ad apprendere.

Se li ritrovava bene, altrimenti se ne dimenticava.

E Alberto è un tassello rimasto sotto al tappetto per così tanto tempo da averlo convinto di non esserci neppure mai stato, di non aver mai provato a cercarlo, ma ogni tanto, di notte, nei sogni e nell’insonnia, quando guardava il mare bagnare la spiaggia d’Ostia, quando colpiva il sacco da box e restava ad osservarlo oscillare, controllava distrattamente quel pezzo di puzzle che mancava; e quel bugiardo del suo inconscio neppure lo avvertiva d’aver intrapreso una ricerca solitaria, contro ogni suo volere ed ogni suo sospetto.

Adesso, adesso che Nadia dorme, che Ostia tace, che Roma si veste di stelle, è tutto così dannatamente evidente da generare contorsioni innaturali tra le viscere dello stomaco, da causare giramenti di testa e mancanze d’ossigeno inspiegabili e, d’un tratto, si sente come quand’era solamente un ragazzino e tutto quel che lo circondava, la violenza che vedeva, il pericolo che sentiva, faceva ancora paura.

Criminale e pure frocio, se lo dovrebbe dire da solo Aureliano, ma non ha il coraggio, è più facile uccidere un essere umano, ardere al rogo un vivo, premere un grilletto ed aspettare che il proiettile trapassi il cranio di qualcuno, piuttosto che ammettersi di voler sentire com’è respirare l’odore d’un altro uomo; desiderarlo come desiderava Isabel e come non è riuscito a desiderare Nadia, troppo distratto a desiderare il viso nascosto nelle somiglianze che in lei riusciva a trovare.

Deve fingere di non averlo capito, deve dirsi d’essersi mentito e d’aver frainteso se stesso; perché la sua, infondo, è una mente destinata a non arrivare mai puntuale alle consapevolezze.

Isabel l’amava e l’ha capito quand’era troppo tardi, Livia l’adorava e l’ha compreso quando il tempo era già scaduto, Lele era una amico, uno vero, e l’ha scoperto quando ormai non poteva più esserne grato.

Alberto è una costante, la sua costante, un punto fermo in un perenne maremoto. Alberto è qualcosa di più, qualcosa che va oltre, qualcosa che vorrebbe scoprire, ma è scaduto il tempo massimo e non c’è altro che possa fare; è già lontano, è già la fantasia di quel che sarebbe potuto essere e che mai sarà.

È una tutta una vita che Aureliano arriva sempre troppo tardi, è una vita che perde treni che non ripassano più, che coglie attimi sbagliati e lascia scivolare via quelli giusti, è una vita che non si capisce mai quando dovrebbe; ci si è abituato, ma questa volta è diverso, questa volta è più insopportabile.

Perché Isabel è morta, Livia è morta, Lele è morto, ma Alberto è vivo, è là fuori da qualche parte, è un numero che può ancora chiamare, è una voce che può ancora sentire, è un viso che potrebbe ancora sfiorare.

No, è meglio lasciarlo distante, è più sicuro, perché, infondo, è anche tutta una vita che le uniche, poche, persone che ama, che apprezza, che tiene strette da qualche parte nel cuore che, persino lui ha, muoiono; e, in qualche modo, è sempre per colpa sua.

C’è nato, con la condanna a gravargli sulle spalle.

Sua madre è morta, per colpa sua; la prima vittima della maledizione.

Isabel è morta, per colpa sua, l'aveva lasciata avvicinare troppo.

Livia è morta, per colpa sua, parlò troppo ed il proiettile colpì lei per arrivare a lui.

Lele è morto ed è colpa sua comunque, infondo il padre glielo uccise lui e, forse, la vita non gliela rovinò Samurai soltanto.

Alberto no, Alberto è vivo, ma per quanto ancora?

Gli è già troppo vicino, gli ha già permesso d’annidarglisi sotto pelle, di rubargli un pezzo di cuore che non credeva più d’avere o d’aver mai avuto, emozioni che s'era detto sepolte ed impossibili da resuscitare. 

Dicono che gli zingari siano bravi a rubare senza farsi scoprire ed è vero, dannatamente vero, perché del furto Aureliano se n’è accorto adesso che è tardi per rimediare, adesso che gli ha già concesso di tenersi tutto quel che gli ha preso, adesso che non può più chiedergli di restituirglielo; se lo facesse Alberto capirebbe e la vita, il karma, la maledizione, capirebbero e lo ucciderebbero senza concedergli il tempo di scappare.

Infondo, ci riflette Aureliano, per una volta, è meglio così; è meglio che l’abbia compreso, prima di quanto sia mai riuscito a fare.

Può ancora evitargli la condanna, può ancora salvargli la vita che non è riuscito a salvare a nessun’altro, neppure a se stesso.

Meglio fingere di non aver capito nulla di sé, degli attimi di indelebili istanti, meglio sommergerli sotto cumuli di distratta incomprensione, meglio lasciarli tornare negli angoli bui della mente, piuttosto che aspettare diventino fantasmi ad affollargli pensieri di assenze mai più colmabili; ne ha già troppe, di più non riuscirebbe a sopportarle, diverrebbero un peso che riuscirebbe a schiacciare persino lui, che s’è indurito la pelle a forza di graffiarsi di dolenti memorie.

E allora li guarda, per un ultima volta, quei piccoli ragnetti camminargli intorno, costruire tele tra gli stanchi neuroni, e li lascia tornare a nascondersi in posti diversi, in anfratti ancora inesplorati e spera, per la prima volta, di non ritrovarli mai più; di poterli ignorare, smarrire, dimenticare davvero, per sempre.

Perché se torneranno, se proveranno a riapparire un’altra volta ancora, non sarà in grado d’ucciderli e non riuscirà neppure a fingere di non averli visti. 

Se li ritroverà di nuovo allora l’istinto del subconscio farà quel che vuol fare, anche ora, e niente potrà fermarlo dal massacrarsi, ancor di più, la vita e trascinarne a picco un’altra, ennesima, che non meritava la condanna di legarsi a lui.

E a perdonare, e perdonarsi, Aureliano non è mai stato particolarmente bravo ed è un’abilità che dubita, dubita seriamente, potrà mai riuscire ad apprendere; se gli strapperanno brutalmente anche l’ultimo appiglio d'umana sanità rimastogli.

 

«te vojo bene Spadì, davero»

 

Davvero, più di davvero, oltre il davvero, al di là del bene, al di là del male, al di là di tutto quel che gli ha detto, al di là di tutto quel che potrà mai dirgli. .

Boh io c'ho provato, così, perché non avevo di meglio da fare che disturbare fandom a caso. Chiedo quindi venia per tutta questa roba, incolpate la mia mente che ha deciso d'interpretare cose come voleva lei. 

Chiedo inoltre umilmente perdono per il dialetto romano trascritto qui sopra, pur essendo del centro Italia ed avendo qualche, sporadica, parola simile, le pronuce sono differenti e con esse la grammatica corretta da usare; quindi mi spiace per gli errori commessi.  E tra l'altro non so quanto tempo sia passato tra la prima e la seconda stagione, quindi ho sparato una cifra a caso. 

Inoltre ci terrei a precisare che mi dispiace in generale e mi pento quasi d'averla postata, questa cosa qui, ma l'insonnia fa brutti schervi e siccome l'ho buttata giù di getto ho voluto tentare; se vorrete lasciare un piccolissimo commento, di qualsiasi genere, pure insulti, ne sarei lieta. Comunque grazie a chiunque leggerà. 

Oh e sì, del film me ne infiscio altamente, l'ho visto, so cosa succede, ma l'ho collacato in una dimenzione alternativa che non segue la linea temporale della serie tv e me ne frego delle evidenti intenzioni che, gli sceneggiatori, hanno di tenervi fede. E sì, so che in Suburra la gente s'ammazza, ma non per questo non ci si può trovare un briciolo di romanticismo; poco importa quanto surreale possa risultare.

Bene, quindi...grazie a chiunque leggerà fin qui, spero abbiate gradito, almeno un pochino e niente alla prossima, penso; visto che qualche idea mi frulla nella testolina marcia che ho. 
 

   
 
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