and distinguished nothing
except a single green light
Il
vento non fa
distinzioni, scompiglia elaborate acconciature
d’eleganti donne borghesi, fa
svolazzare lembi di raffinati trench d’uomini
d’affari, dal portafoglio gonfio
di banconote, allo stesso modo in cui lambisce le logore giacche dei
proletari
e sferza gli scarni volti degli orfani; porta il freddo nelle pelli
d’ogni
classe sociale, incurante dei conti bancari o degli altisonanti
cognomi.
Il
vento di New York poi,
negli inverni grigi, pare esser meno clemente di qualsiasi altra brezza
rigida
e soffia impietoso, graffia zigomi arrossati e labbra screpolate,
gretta le
dita e lascia ruvidi segni, indifferente al tremore di chi è
troppo povero per
poter possedere protezione ed è costretto ad usare quelle
mani rovinate, per
distribuire volantini che nessuno accetta mai.
Una
volta Credence li ha
sognati, guanti in nera pelle, imbottiti di morbida lana, a difenderlo
dal
vento newyorkese che lo schiaffeggia ogni giorno, sugli scalini della
chiesa;
l’invidia è un peccato, gli ha
riecheggiato tirannica la voce della madre, e
s’è pentito sino al punto da lasciare che il vento
lo ferisse ancor di più.
Infondo
è un dolore
sopportabile, le frustrate dell’aria gelida non sono diverse
da quelle della
spessa cinta in cuoio che la madre usa, regolarmente, per punirlo degli
errori,
troppi, che commette anche quando non se ne accorge, anche quando non
li
compie.
È
routine, quotidianità,
questione di abitudine. Il corpo sa adattarsi a così tanto
dolore che, a volte,
Credence si chiede se, forse, non sia stato Dio stesso a volerlo, a
volere che
l’uomo si ferisse ripetutamente sino ad adeguarvisi.
Facevano
male, quand’era
bambino, le linee di sangue che la cinta disegnava, le cicatrici che si
rimarginavano, le crepe nell’epidermide che si riaprivano ad
ogni colpo
inferto, facevano così male che persino le lacrime, dopo ore
ed ore,
s’esaurivano e quel che restava erano decrescenti grida
dolenti d’una gola
stanca.
Fanno
male ancora, ma le
lacrime sono finite, le grida sono divenute mute e le labbra tremano
senza
saper più pregare una pietà che Dio non concede.
Per qualche ragione, ignota
com’è ignota la vita, Dio guarda impassibile,
nell’alto dei cieli, la sua
schiena divenire pallida tela cremisi e le mani ricoprirsi di sgraziate
linee
rubino; a volte pecca Credence, dicendosi che è
inutile pregare se nessuno
lassù vuole ascoltarlo.
I
volantini che stringe,
nel tempo, hanno perso valore e significato, non sono più
messaggi
d’avvertimento, ma passivo lavorare per una causa che ha
persino dimenticato. Allunga le braccia per inerzia, prova a
consegnarli per istinto di
sopravvivenza, non farlo equivarrebbe a sfiorare la morte e Credence,
malgrado
tutto, non vuole incontrare l’angelo dalle nere ali.
Cos’è
poi che recitano quei
fogli smossi dal vento?
A
volte deve chinare lo
sguardo e leggerli, per ricordarsi dell’assurdità.
Se le streghe esistessero,
pecca poi pensando, non
potrebbero essere né peggiori, né troppo diverse,
da
quel che sua madre è.
Vorrebbe
potersi pentire
dell’odio, ma ha smesso troppo tempo fa per poter riuscire a
ricordare come si
fa.
Non
esiste la magia,
dicono i ferventi credenti, non esiste destino, né fato,
né fortuna, né
sfortuna, esiste solamente il volere di Dio, così magnanimo
da aver concesso
all’uomo il più prezioso dei sentimenti, il
più duraturo dei legami, sotto
forma di quello che, per Credence, è sempre stata una magia
rifiutata dalla
chiesa e che, invece, per i fedeli è la prova tangibile
dell’esistenza divina.
Una
luce verde, intensa,
più brillante dello smeraldo più puro, che
avvolge ed irradia il corpo di chi
racchiude la metà perfetta d’un cuore che combacia
con il proprio.
Sua
madre non gliel’ha mai
spiegato, né s’è mai soffermata a
raccontarglielo, l’ha imparato nelle
interminabili ore della messa, nei libri segretamente nascosti sotto
una trave
removibile del parquet, negli occhi delle coppie passeggianti strette
l’uno
all’altra, a difendersi dal freddo e, senza riuscire a non
vergognarsi degli
impuri pensieri, le ha
invidiate aggrappandosi alla speranza che lì, là
fuori,
da qualche parte, esista qualcuno che potrebbe riscaldarlo dal freddo
che ne congela la
pelle ed il sangue.
Le
invidia anche ora,
ritto in piedi al ciglio dello scalino, la schiena ingobbita ed il
collo
infossato nelle spalle, tutte quelle anime felici che gli passano
accanto senza
neppure accorgersi di lui; un invisibile, uno strano ragazzino di
diciott’anni
appena dal volto troppo emaciato e la pelle di cadaverico pallore.
Evita
gli sguardi, i pochi
che riceve, di donne disgustate dalla povertà ed uomini
superficialmente
raccapricciati dalle vesta di terza mano. Mantiene chino il capo,
un’ennesima
abitudine, appresa negli anni in cui gli venne insegnata
l’assoluta reverenza, e
gli unici colori che sa vedere sono il grigiore della città
ed il nero dei
soprabiti che l’oltrepassano senza curarsi di lui.
Il
mondo, per Credence, è
una distesa bianca e nera, le uniche sfumature che conosce sono il
biondo
spento dei capelli di Modesty, li accarezza a volte, quando la notte
l’ascolta
sfogare la tristezza, e lo scuro rossore del sangue che picchietta al
pavimento, che macchia la cinghia in cuoio; non esistono, non sono mai
esistite, né mai esisteranno altre eccezioni ed il verde,
quel verde speranza,
non gli verrà mai data la possibilità
d’ammirarlo.
Di
questo, come di poche
altre cose, Credence ne è certo; più che certo ed
inspira il gelido vento,
stringendosi ancor di più nelle esili spalle.
Sobbalza
e barcolla alla
centesima spinta d’uomini indifferenti all’umana
sofferenza, ha le gambe
fragili di scheletrici digiuni, mantenere l’equilibrio
è ardua impresa, i
volantini minacciano di scivolargli dalle mani e, se cadessero, sua
madre non
mancherebbe di fargli notare l’errore; chiude gli occhi,
issando il capo
nell’istinto di bilanciare il corpo ed evitare il freddo
scalino alle sue
spalle, ma nel riaprirli è accecato da luce emersa
dal nulla.
E
scivolano, dalle fragili
mani crettate, alcuni volantini spinti dal vento all’asfalto,
calpestati da
scarpe di passanti distratti, dalla folla di persone che schermano la
fonte di
quella luce che continua a disorientarlo, al punto da costringerlo a
poggiare
la spalla destra al vicino lampione.
Verde.
Un
faro, un fascio intenso
di verde splendore che s’irradia dall’altro lato
della strada, schermato dal nero
di schiene fasciate in pesanti cappotti, eppure così
luminoso da sovrastare il
grigiore newyorkese.
È
lì, da qualche parte,
immobile, come se lo stesse attendendo, come se stesse aspettando
d’esser
scorto e Credence, senza pensare, senza soffermarsi a ragionare, lo
cerca nella
disperazione d’una speranza accesasi con quella luce
impossibile da non
riconoscere; quella luce che credeva impensabile.
Lo
trova, dopo minuti
d’insistenza, fermo al ciglio della strada, avvolto dal verde
e dal nero d’un
trench d’alta sartoria.
Lo
trova pietrificato lì,
al marciapiede, a guardarlo nella distanza di passi che paiono
incolmabili, ed
il peccato picchia il cuore di Credence più di quanto
saprebbe fare la madre.
Un
uomo, un distinto uomo
indubbiamente d’agiata borghesia, un elegante uomo
sicuramente più grande di
lui, dall’aspetto raffinato e la schiena eretta di chi non
subisce neppure il
freddo.
Un uomo, un peccato
inconfessabile, sacrilego, abominevole, inaccettabile.
Il
panico guida lo sguardo
all’asfalto, nella mente l’inquisizione di mille e
più voci l’accusa di
sodomia, e Credenze cade in una spirale d’eresia incolpando
Dio stesso,
all’altare d’un confessionale che esiste solamente
dentro di sé, punta il dito
contro quell’entità superiore che è
causa, la vera causa, d’un peccato che non
ha scelto di compiere; che
sia una punizione?
Che il Divino Signore
abbia scelto di punirlo per l’odio che ne annerisce
l’animo, per l’assenza di
cieca fede, per il miserabile blasfemo qual è?
Forse merita un simile destino
amorale.
E
quella luce verde,
cercata negli anni, dimenticata nel tempo, ritrovata quando aveva
cessato di
sperarla reale, diviene l’orribile onta d’una
vergogna inconfessabile; un
disgustoso colore da far svanire.
Serra
le palpebre, nel
vano tentativo d’ignorare, di cancellare l’immagine
di quell’estraneo, lì,
ritto in piedi, al ciglio della strada, fasciato nel nero trench
d’elegante
raffinatezza, composto ed austero, ad osservarlo senza batter ciglia e
senza
lasciar trapelare segno di stupore alcuno.
Stringe
a sé i volantini
da consegnare, cercando di render muti pensieri impuri, sussurranti
aggettivi
che solamente ad una donna di casta moralità andrebbero
rivolti, ma continuano
a mormorargli inarrestabili constatazioni oggettive d’una
bellezza sofistica,
curata, ricercata eppure semplice, immediata, impossibile da
trascurare.
Perde
il conto del tempo,
immerso in un isolamento forzato, e la madre lo trova così,
infossato nelle
spalle, ricurvo su di sé, poggiato al lampione
«
non sai fare neppure
questo? »
Sentenzia,
arcigna, strappandogli i volantini dalle mani strette al
petto, facendolo sussultare già
impaurito dalle conseguenze. Le materne dita, come artigli
d’arpia, gli
stringono le spalle trascinandolo malamente, mantenendo tuttavia il
contegno
apparente che cela la reale crudeltà che poi, nel privato
della dimora, gli
riserverà.
Credence
la segue senza
osare parlare, temendo che persino i passi possano ingannarne gli
ancora
tormentati pensieri e non trova il coraggio d’assecondare una
flebile curiosità,
riecheggiante nella mente, a tentarlo come un demone peccaminoso, di
volgere il
capo e cercare, in quel fiume di persone impegnate nelle loro vite, se
il verde
faro sia ancora o lì o se, invece, se ne sia andato
così come è arrivato; che
fosse solamente una prova di resistenza, l’ennesima, cui Dio
l'ha sottoposto?
Forse non
c’è mai stata
smeraldina luce dall’altro capo della strada, forse era una
tentazione, un
illusione escogitata dal Diavolo per macchiarne ancor più la
già sporca anima.
E se così fosse, Credence, non saprebbe scegliere se gioirne o disperarsene; la speranza è una nemica difficile da sconfiggere e, infondo, lasciarsi illudere che quell’uomo, seppure inaccettabile sodomia, potesse proteggerlo dal freddo è stato, nell’intimo del confuso animo, piacevolmente confortante.
Nulla
di più e nulla di
meno d’un simbolo, una manifestazione concreta del fato, un
fato cui non ha mai
concesso troppa importanza e, s’era convinto, che esso stesso
si fosse arreso a lasciarlo nella statica quotidianità
d’una vita dedita al lavoro, alla carriera,
al personale prestigio ed all’onorare quel cognome che veste
fiero.
In
ventotto anni tante le
storie che udì, innumerevoli i racconti che
ascoltò ed altrettanto consistenti
le testimonianze cui assistette, vi furono anni in cui chiunque lo
circondasse
pareva intenzionato a parlare unicamente di quello scintillante fascio
di verde
luce e di quanto felici fossero nell’averlo trovato; negli
anni scolastici, in
quelli dell’accademia, nel periodo d’addestramento.
Per
tutti si trattava
d’una benedizione, una gioia da gridare al mondo intero, da
celebrare e
glorificare. Una superficiale perdita di tempo, una distrazione
inaccettabile,
questo era per Percival che, d’amici e colleghi, ne vide
troppi compiere
grossolani errori a causa del tanto lodato e tanto cercato amore.
Persino
la madre, nei
ricordi di felice infanzia che possiede, non sprecò mai
parole positive per
quella luce verde così tanto bramata e, quando il padre
decise che era giunto
il tempo di spiegargli le ragioni, nascoste dietro quella materna
ostilità nei
confronti d’un sentimento desiderato da ogni cuore, comprese
la verità che
sfuggiva a molti; troppi.
La
luce non dura in eterno
e l’amore non è perfetto, alcuni fortunati posso
vantare la felicità che altri,
invece, sfiorano per esigui istanti di gioia, prima di precipitare in
un baratro
di sconforto, incastrati dal destino in una relazione malsana.
L’uomo,
un purosangue di
buona famiglia, cui la madre era predestinata non sapeva né
amare, né apprezzare l’amore che gli veniva
donato, si vestiva d’egoismo e sfoggiava
ghigni menefreghisti, la saccente bocca non sapeva tacere ed il denaro
era
l’unica lingua che conosceva, furono anni di sofferente ,
tacita, tristezza. A
lungo la madre si chiese per quale motivo il destino avesse scelto, per
lei,
una metà così spigolosa da collidere
faticosamente con la propria e, alla fine,
si disse che nessuno, neppure il fato, aveva diritto di scegliere per
lei;
decise di meritare la felicità e della predestinata luce
dimenticò persino il
colore.
L’amore,
per sua madre, è
una questione di scelta e Pervical crebbe
nell’ombra d’una convinzione materna,
assimilandola al punto da renderla propria.
A
volte, quand’ancora il
mondo non gli era chiaro, quand’ancora la vita racchiudeva in
sé domande
d’ingenua curiosità, si chiedeva se, forse, lui,
nato privo della benedizione
del fatto, possedesse un difetto nell’anima; crescendo poi si
disse che, forse, il suo era un cuore raro che il destino non aveva
potuto legare
a nessuno.
Forse
solo chi nasceva
sotto l’influsso della verde luce poteva riceverla a sua
volta, come la magia.
Se
ne convinse al punto da
non allarmarsene e non dispiacersene mai, neppure per un singolo
fulmineo istante,
dell’assenza che percepiva negli anni scolastici in cui gli
amici scoprivano,
inaspettatamente, l’eterno amore tra i banchi.
Eppure,
gli suggerì la
logica poi, nell’età ultima
dell’adolescenza, non poteva essere l’unico figlio
nato senza il benestare del destino, della verde luce, dovevano
esistere casi
simili, una questione di statistica e, allora, si disse che forse il fato aveva
già scelto qualcuno anche per lui, che era nato sotto una
stella incolore.
Pensarlo,
tuttavia, non lo
rese più disponibile, né ben accetto, ma anzi
parve persino accrescerne la
volontà di rifiutare l’eventualità e
s’aggrappo alle cose materiali che avevano
tangibile valore, che potevano essere toccate, si legò a
tutto ciò cui aveva
scelta, tutto quel che poteva modificare e decidere; divenne la
rigida, impassibile, precisa quanto ligia al dovere, persona che
è.
Ed
andava bene, davvero,
era tutto perfetto. L’accademia superata a pieni voti,
l’addestramento per auror ultimato
col massimo dei meriti, il lavoro al MACUSA ottenuto senza
difficoltà alcuna, la vita era
esattamente come Percival l’aveva sempre voluta; ogni pezzo
aveva un ordine
stabilito nella scacchiera e non cercava quell’unico che
mancava, né tanto
meno s’aspettava di trovarlo in una strada percorsa decine e
decine di volte.
Eppure
c’erano sempre
state quelle assurde orde di ferventi fedeli, ammassati ai gradini
della
chiesa, a gridare e sventolare cartelloni, a predicare il male della
stregoneria, a professarsi messaggeri di Dio, nella classica paura dei
no-mag
per tutto quel che a loro è ignoto, incomprensibile e
Percival non ha neppure mai
sprecato tempo a posarvi lo sguardo, infondo può persino
sforzarsi di capirli,
del resto chiunque teme la diversità, l’inusuale
che sfugge alla ragione della
logica; e, forse, proprio perché non l’ha sfiorati
d’una singola fugace occhiata
non l’ha notato prima, l’evidente fascio di verde
luce che vede ora.
Impossibile, nulla gli
sfugge, ha occhi abituati a captare ogni più
minimo mutamento e reattiva mente
predisposta al cogliere ogni singola incongruenza nella
normalità; è parte del
suo lavoro, è parte di sé.
Se
non l’ha notata prima è
solamente perché non c’era e, con essa, non
v’era neanche quel corpo pallido,
ingobbito, slanciato, fasciato in vestiti di terza mano, curati al
punto da
non risultare poveri, ma egualmente impossibili da credere borghesi; un
operaio
o, più probabilmente, figlio di proletari.
L’ha
analizzato, spinto da
una genuina curiosità, istinto
da osservatore l’ha corretto la mente, meglio
conoscere il volto da rifuggire s’è
giustificato.
Giovane,
troppo giovane, è
stato il primo aggettivo con cui l’ha identificato. Pallido,
troppo pallido, e
magro, troppo magro; troppo in ogni dettaglio.
Dal
volto eccessivamente
scarno, alle guance infossate a render ancor più evidenti
gli spigolosi
lineamenti, dagli zigomi pronunciati, all’elevata satura che
ne sottolinea
maggiormente la sproporzionata magrezza, sino ai corti capelli corvini,
discutibilmente acconciati, rimarcanti lo scavato viso.
Un
viso che, se non fosse
così palesemente emaciato, risulterebbe oggettivamente
gradevole, dotato
d’una bellezza particolare, racchiusa nei dettagli
d’un insieme singolarmente
affascinante; è un’ovvietà
che non può evitarsi di pensare, per quanto la
scacci poi accorgendosene.
L’etica
lavorativa, la
dedizione riposta nella carriera e nella carriera soltanto, gli
imporrebbe
d’allontanarsi soddisfatto d’aver mentalmente
fotografato il volto da evitare
per il resto dei suoi giorni, ma una curiosità che
oltrepassa la necessaria
osservazione, un umano interesse, ne mantiene ancorate al cemento le
suole delle
laccate scarpe nere.
E
allora la guarda, quella luce intensa, perché
non può fare altro, perché ha bisogno di trovare
un motivo, uno valido, a
giustificare l’inopportuna reazione ed il fatto che via
sia un uomo nella verde luce
non basta, è superflu; che sarebbe stato un uomo Percival
l’ha sempre saputo.
Ma
quel che guarda non è un uomo, è un ragazzino,
forse
maggiorenne o quasi e forse è questo il problema che lo
tiene saldo al
marciapiede.
O
magari è lo scarno
volto, la sgarbata maleducazione dei passanti che non si curano di lui,
che ne
fanno vacillare l’equilibrio, forse è
l’educazione che lo vorrebbe in prima linea,
ad aiutarlo a non cadere; ma non si muove e la smeraldina aura
traballa,
inciampa, si sorregge al lampione e Percival pensa che, forse, potrebbe
oltrepassare l’esigua distanza, attraversare
quell’asfalto che sembra un oceano
immenso, e comportarsi quale la civile persona che i genitori gli hanno
insegnato
ad essere.
Però
il respiro s’è bloccato da
qualche parte, nel processo, e la memoria gli ricorda il fugace istante
in cui
ha incontrato le lontane iridi, dall’altro capo della strada;
l’ha notato, quel ragazzino pallido, l’ha
guardato per una frazione di secondo o forse più, non ha
contato il tempo o
forse l’ha fatto e non se n’è accorto.
Che importanza ha? Anche
se fosse, anche se l’abbia scorto, non significa che abbia
visto la medesima
luce che ha visto lui; la statistica dovrebbe dire anche
questo, non tutti i
verdi fari sono destinati ad illuminarsi reciprocamente, o almeno
questo vuole
credere.
No, deve esserne certo,
ha
ventott’anni ed un intera carriera dinnanzi, ha appena
cominciato e
l’arrampicata ai piani alti è ancora ardua e
scoscesa, necessita di
concentrazione ed acuta attenzione, non ha spazio per distrazioni, non
importa
di che natura siano.
E
poi, oltre l’asfalto, v'è un ragazzino che di
vita, davanti a sé, ne ha ancor più di
quanta ne ha lui e d’esperienze deve ancora compierne
chissà quante, probabilmente ha ancora
l’ingenuità dei giovani addosso; sarebbe un crimine privargliene.
Intercetta
qualsiasi sia
la provenienza d’una vocina sottile, che tenta di sovrastarne
i razionali
pensieri, e l’azzitta nella testarda decisione di lasciare
che svanisca, che si
dissolva nella coltre di persone indaffarate a vivere le rispettive
esistenze e
s’appunta un promemoria di massima importanza : cancellare quel volto, quella
sagoma tremolante, infossata su se stessa come se tentasse di
nascondersi dal
mondo intero, per sempre.
Se lo segna nella bacheca dell’ordinata mente, concedendosi il lusso di rimirarne il mnemonico ritratto per qualche minuto ancora; non potrà certo condizionarlo troppo, il tenerselo tra i pensieri, nel consueto tragitto mattutino.
[and you
could hurt me, but you wouldn't know what to say]
¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨
[but you
should believe me, our dreams are all the same]
Ha
cercato, Credence, nei giorni a
seguire, di dimenticare l’inaspettata, quanto inattesa,
rivelazione; ma quel
che nessun prete e nessun libro ha detto mai è
l’impossibilità nel
riuscirvi.
Da quando
l’ha trovato, da quando l’ha
visto, lo sguardo ne pare magnetizzato e, in più
d’un occasione, s’è trovato
costretto a concentrare l’attenzione ai volantini stretti
nelle crettate mani,
al fine di ignorare l’evidente fascio di verde luce muoversi
in lontananza,
raggiungere il lato opposto della strada, fermarsi per qualche istante
ed
allontanarsi poi nuovamente. In un mattutino rituale che, ormai, dopo
settimane, ha
memorizzato al punto da esser preparato ancor prima che accada.
Più
d’una volta il demone tentatore ha
cercato di fargli sollevare il capo, di fargli incontrare nuovamente
quegli
occhi lontani, d'accorciare le distanze e scoprire, conoscere, avere un
nome
da attribuire alla smeraldina aura; ma più della punizione
divina quel che, Credence, teme è la materna ira.
Se lo
scoprisse, se lo trovasse lì,
dall’altra parte della strada, a parlare con un estraneo, un
uomo per giunta, lo
costringerebbe ad inginocchiarsi ed implorare perdono per tutti i
peccati che
non ha ancora commesso, per la sodomia di cui la mente
s’è macchiata, senza
concedergli scelta, e lo costringerebbe a sottostare all’eco
di frustrate a
lacerarne l’epidermide, a spezzarne la colonna vertebrale.
Perché
Dio l’ha condannato ad un simile
crudele destino? Quanti errori ha commesso, di quanti non
s’è accorto, per
meritare una simile tortura?
Doveva
essere una donna, una giovane
fanciulla di modesta estrazione sociale, pia e devota, casta ed
immacolata, ad
irradiare la verde luce dell’amore eterno; la diversità
è depravazione, è
scempio ed abominio.
Eppure,
se questo è il volere di Dio, se
è questo quel che il destino gli riserba, forse
può significare che,
l’onnipotente Signore, che tutto vede e tutto sa, non ripudia
le perversioni
della carne, ma anzi non le considera tali, perché
l’amore non può essere
sbagliato e non può nascere dal Diavolo; gli
sussurra una filosofica giustificazione, sorta da qualche parte nella
mente.
È
inutile, Credence non l’ascolta, non
può, gli insulti materni, le prediche del pastore, i cori
della chiesa,
la minaccia dell’eterna dannazione hanno un suono
più forte, una voce più
imperativa che sovrasta quel flebile spiraglio di speranza che,
incontrollato
ed inconscio, tenta di manifestarsi ogni giorno.
Se
soltanto potesse, se soltanto gli
fosse concesso, Credence l’attraverserebbe ad occhi chiusi
quell’oceano
asfaltato, s’aggrapperebbe all’altra riva,
approderebbe nell’opposta sponda e,
come un naufrago bisognoso d’aiuto, si lascerebbe accogliere
dalle braccia che
il destino gli ha predetto.
Non ha
importanza chi sia quell’uomo, né
che nome abbia, né tanto meno che sia un uomo, tutto quel
che conta, tutto quel
che Credenze necessità, è qualcuno che possa
portarlo lontano dall’annegare,
dal soffocare in un mare nero in perenne tempesta.
Tutto
quello di cui ha bisogno è la
speranza, la salvezza, qualcuno che l’accarezzi nelle notti
inquiete, che lo
stringa riscaldandone le fredde ossa, qualcuno che ne asciughi le gocce
salsedine dal bordo degli occhi e ne disinfetti l’anima
ferita; qualcuno che lo
curi da sé, dalla condanna della vita.
Che gli
insegni, l’accompagni, lo
istruisca, a trovare una ragione per svegliarsi senza tremare ogni
mattina.
Ed
è lì, davanti a sé, è
racchiusa in
quella luce verde che brilla al di là della strada, la
speranza, la salvezza, è
lì e non può sfiorarla, non può
averla; gli è preclusa, è l’ennesima
punizione
che dovrà imparare ad accettare, sino a convincersi di
meritarla.
[but a
love without life, well, that just happens every day]
¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨¨
[and I
wish I could change, but I'll probably stay the same]
Ha
dimenticato di dimenticare, Percival,
e quell’immagina che avrebbe dovuto cancellare gli
è rimasta incastrata,
tenacemente incollata, ai pensieri sino a divenire parte d’un
rituale
quotidiano.
Il
problema è che, anche volendo,
l’occhio non sa schivare gli invadenti verdi raggi. Li nota
già nella distanza
di metri e metri, li intercetta ancor prima che possa giungere
nell’ormai noto
punto in cui, sempre, non importa quanto freddo faccia, né
l’orario, si ferma
ad osservare quel gracile ragazzino dall’aspetto malaticcio e
denutrito.
Il
perché lo faccia è un mistero che
preferirebbe non scoprire, testardamente convintosi
nell’impossibilità d’un
incontro ed altrettanto certo dell’infattibilità
d’una conoscenza e dell'inaffidabilità della verde
luce, potrebbe
cambiare tragitto, potrebbe persino sfruttare la tanto cara magia, potrebbe
evitarlo in cento e più modi; se lo ripete da
settimane, ma mai riesce a farlo.
È
una forza superiore, un ordine imposto
da incorpora entità, a spingerlo sempre e solamente in
quella strada, a
cementificarlo al marciapiede per minuti e minuti, a rimirare e
studiare quel
ragazzino ingobbito, che pare volersi nascondere dal mondo e da lui.
La sente,
persino nella distanza, la
paura che emana. È così evidente da fargli
desiderare, per impercettibili
istanti di inspiegabile pazzia, d’attraversare
l’asfalto, divincolarsi tra
l’umana marea, e raggiungere quelle spalle infossate,
poggiarvi le mani e
donargli la sicurezza, la serenità, che è certo
meriti.
A volte
si scopre curioso di conoscerne
il nome, la forma del sorriso che mai gli vede affiorare alle carnose
labbra,
di saperne dettagli personali che
solamente ad un interesse andrebbero rivolti; e non è
questo, non
può essere
questo, non deve esser questo.
La
verde luce non è legge, la verde luce
può sbagliare, la verde luce non dev’esser sempre
assecondata.
Se lo
ribadisce come un mantra, ogni
singolo giorno, sperando di convincersene al punto da riuscire a
cambiare
percorso, lasciare quel volto emaciato nel fondo delle memorie, farlo
svanire,
cancellarlo per sempre; riuscire in quel che la magia non
può fare, ininfluente
nelle questioni di predestinazione.
È
la rigidità d’una testarda convinzione
ad impedirgli di navigare quell’oceano nero ed approdare in
nuove terre,
esplorarle, farsi accogliere come un marinaio giunto da lontano e
lasciarsi
coinvolgere nella conoscenza di nuova vita che il destino gli ha
presentato.
Se
soltanto non fosse un
ragazzino, così giovane, se soltanto non avesse la certezza
d’un eccessiva
differenza d’età, forse, potrebbe concedersi la
possibilità di scoprirlo, di valutare
l’offerta che la verde luce gli ha mostrato e scegliere cosa
pensarne.
Forse, gli
suggerisce una rigido
ragionare, è
proprio l’impossibilità d’avere quel
lieto fine che fa sospirare
tante bocche e batter tanti cuori, quel che il destino voleva fargli
provare,
la conferma che sin da giovane credeva di sapere già; chi
nasce senza la benedizione
della smeraldina aura è predestinato a non poterne mai
realmente conoscerne
l’essenza.
E lì, dinnanzi a sé, nella distanza di pochi passi, al di là della strada, racchiusa in quel volto scarno, di triste pallore, risiede l’amara consapevolezza che ne blocca i passi, nella contemplazione di quel che mai potrà avere, e ne muove poi le gambe, nella rigida rassegnazione, allontanandolo da quel che, si finge di credere, non necessità d’avere nozione.
[you can't hear me 'cause I sing to a different age]
Alla fine, dopo lungo meditare, ho deciso di tentare ad approdare anche in questo fandom (ultimamente mi va di disturbare) e provare a postare questa roba qua; probabilmente noiosa e sicuramente troppo lunga.
Il problema è che la mia mente ha deciso di creare un progetto, inutile, basato su vari spunti di Soulmates AU trovati in giro e, tra le ships scelte, c'è rientrata anche questa coppia qui.
Ho lasciato la magia ed un po' di contesto noto a tutti, ma ho deciso di rielaborare il concetto di Soulmates AU miscelandolo alla trama del Grande Gatsby e, inevitabilmente, i personaggi hanno subito dei cambiamenti; per necessità di narrazione.
Ad ogni modo spero che possa piacere ed interessare qualcuno e ringrazio tutti coloro che vorranno leggere, così come ringrazio già tutti coloro che sono arrivati fin qua.
Grazie e al prossimo
capitolo, se vorrete.