Capitolo
7
Oltre
le tue brutture
“Non ti voglio
pensare.
Aspetto che i
ricordi di te diventino più morbidi, più sfumati, meno taglienti.
Ancora ci si può
far male, se provo a guardarci dentro.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Campo di Fossoli, 17
febbraio 1944
Hermann sollevò la
testa dal cuscino e, passandosi una mano fra i biondi capelli, si stiracchiò
dal sonno con un sospiro soddisfatto. Girando lo sguardo attorno, la vide,
seduta per terra, con la schiena appoggiata alla parete, come una bambola rotta.
Bianca, come di
porcellana senza alito di vita, con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto, le
guance livide e i capelli aggrovigliati, come rami intrecciati, stringeva un
lembo di sottoveste, sporco di sangue, tra le sue intimità. La ragazza era
stata sincera sulla sua verginità e lui ne aveva violato l’innocenza, senza
pietà. Qualcosa di simile al rimorso sembrò vibrargli dentro, restituendogli un
po’ di umanità verso quel corpo che aveva desiderato, intrappolato con
l’inganno di un compromesso, preso con violenza, usato e che adesso giaceva per
terra come morto, sporco di lividi e sangue, immobile, rannicchiato nel suo
dolore.
Tenendo lo sguardo
fisso su di lei, Hermann lentamente si ricompose, sollevandosi i pantaloni e,
alzatosi dal letto, le si avvicinò. In uno slancio di compassione, la prese in
braccio e la ragazza, come se il suo corpo fosse realmente privo di vita,
lasciò la testa ciondolare all’indietro e le braccia aprirsi e penzolare mollemente
nel vuoto. La portò in bagno e la mise nella vasca, aprendo i rubinetti. I suoi
occhi, che non avevano più il colore caldo del miele, erano ancora spalancati e
persi nel vuoto in un’espressione indecifrabile, mentre, come filamenti, il
sangue iniziava a colorare l’acqua. Hermann chiuse i rubinetti e, continuando a
guardarla, nei capelli diramati dall’acqua e nelle forme che trasparivano dalla
sottoveste bagnata, rientrò nella sua risoluta strafottenza di nazista: quella
ragazza era un’ebrea, un qualcosa senz’anima, senza valore, che lui poteva
usare a suo piacimento. Abbottonandosi la camicia, uscì dal bagno e dalla
stanza per poi guardare a destra e sinistra nel corridoio.
“Kellnerin[1]!” richiamò l’attenzione di una
cameriera che passava di lì. “C’è da ripulire in bagno!”
Hermann aveva già
ripreso il suo atteggiamento di orgoglio e di disprezzo.
Berlino,
21 giugno 1946
Al
ricordo di Sarah, distesa in quella vasca, con lo sguardo assente e il corpo
paralizzato dalla sua violenza, abbandonata come uno straccio sporco, due
grosse lacrime gli solcarono il viso. Una era per lei, l’altra per i suoi
errori. Hermann alzò gli occhi e, guardando la sacca della flebo, emise un
sospiro tremante che gli morì in gola. Era strano come il lager di Sachsenhausen,
disumanizzandolo, lo avesse reso più umano, capace di guardare ai ricordi da
un’altra prospettiva, di rendersi conto dell’inutilità dell’odio razziale, per
il quale aveva sacrificato i migliori anni della sua vita, di entrare nelle
ferite inferte a Sarah e di piangerne di rimorso. E adesso, che era solo,
libero da ogni vincolo ideologico e senza difese, diede il nome di amore ai
sentimenti vissuti a Fossoli. Hermann alzò un po’ la mano e rivolse un altro
sguardo all’ago della flebo. Presto, la febbre sarebbe passata e avrebbe
ritrovato le forze per mettersi in viaggio e riabbracciare la sua Sarah.
Napoli
Era
da un po’ di giorni che Sarah si svegliava di buon umore al pensiero di Matteo e,
con il sorriso sulle labbra, iniziava a contare le ore che la separavano dal
loro prossimo incontro. Durante il giorno, a casa, a lavoro, per strada,
brividi di felicità, all’improvviso, la scuotevano al ricordo delle loro
passeggiate al tramonto che sfociavano nel rincorrersi giocando ad
acchiapparella in riva al mare e dei loro giri in barca con la promessa di
farle vedere un giorno le bellezze di Sorrento. Con Matteo,
Sarah aveva trovato un amico e ritrovato la spensieratezza di fanciulla,
vivendo, senza nemmeno accorgersene, una tappa che, a causa di Hermann, era
stata costretta a bruciare. Inconsapevolmente innamorata, pendeva sognante dai
suoi racconti di mare e di pescatori, sorrideva con aria serena alle sue risate
per le battute di Pulcinella, guardando lo spettacolo dei burattini e si
compiaceva di quel suo timido e goffo corteggiarla.
Inseguita
da Matteo, Sarah correva a perdifiato sul bagnasciuga, ridendo a squarciagola e
sfogandosi in gridolini di felicità. La brezza d’inizio estate spruzzava in
viso gocce salate e la sabbia, sollevandosi al loro veloce passaggio, pizzicava
alle caviglie. Nello sfondo degli ultimi bagliori del sole, correvano senza una
meta ma con l’obiettivo di tenersi stretta quella felicità, protraendola all’infinito
per non relegarla a un semplice ricordo. Poi Sarah fuggì in strada e, fermando
la sua corsa davanti a un palazzo diroccato, si volse verso Matteo, ormai a
pochi passi da lei. Guardandolo con aria vispa, s’infilò le scarpe e, per un
attimo, abbassò lo sguardo. Nemmeno il tempo di rialzare gli occhi che Sarah
subito li chiuse all’inaspettato tocco di due labbra appoggiate alle sue. E il
bacio di Matteo sapeva di acqua di mare e dei profumi portati dal vento
dell’estate, di fuochi accesi sulla spiaggia e di albe stellate, della
tenerezza di un’esperienza non ancora maturata, poiché quello doveva essere senza
dubbio il suo primo bacio, e sapeva anche del ricordo di Hermann. Indietreggiando
a occhi socchiusi, Sarah allontanò le labbra dal bacio gentile di Matteo e,
senza accorgersene, entrò nella casa abbandonata, mentre la memoria del cuore
la riportava al primo bacio di Hermann, profondo e determinato, passionale e
travolgente, che aveva dilatato i suoi sensi e le sue emozioni, fino a farla
sentire desiderata e amata, illusoriamente.
Frenato
di colpo il ricordo, che le aveva lasciato sulle labbra un sapore agrodolce,
Sarah si guardò attorno e, senza nemmeno sfiorare il discorso del bacio di
Matteo, come se fra loro non fosse successo nulla, gli chiese smarrita: “Dove
siamo qui?”
C’erano
fogli dappertutto, su scrivanie e in mobili posizionati alla rinfusa e, alle
pareti, vi erano disegnate delle svastiche, malamente cancellate. L’abbandono e
la sporcizia regnavano ovunque, nel tetrore di quella grande stanza.
“Qui
c’erano i tedeschi. Era il loro stazionamento durante la guerra”, rispose il
giovane, tristemente meravigliato per la tanta facilità con la quale Sarah si
era fatta scivolare addosso le emozioni del suo bacio, per lui il primo e sfogò
il suo dispiacere in parole di rabbia verso i nazisti, i nazifascisti, l’8
settembre, l’attacco ai cantieri e l’occupazione della città.
Alle
orecchie di Sarah, la voce di Matteo arrivava come un suono lontano, ovattato,
indecifrabile e, nella sua mente, si concatenavano i ricordi di Hermann, dell’arroganza
nel suo sguardo glaciale e nella sua voce imponente, nel suo portamento fiero e
nel suo passo risoluto, della crudeltà nei suoi modi di fare e
degli slanci di tenerezza verso di lei, che la facevano sentire al sicuro e che
rendevano amabili finanche le sue brutture.
“Matteo”,
lo interruppe Sarah, con voce afflitta. “Io sono ebrea”, disse, più per
ricordarlo alla se stessa di Fossoli che per confidarlo a Matteo.
E
negli occhi scuri del giovane vide un improvviso lampo che, intensificandosi,
esprimeva un groviglio di sentimenti, di stupore, di tristezza, di compassione,
di imbarazzo, di paura.
Rimasto
senza parole a quella rivelazione, distolse lo sguardo da Sarah, dai suoi occhi
lucidi e quasi imploranti di una risposta, per rivolgerlo a una finestra senza
vetri e, con voce spezzata, riuscì soltanto a dire: “Si sta facendo buio. Devo
andare a lavorare.”
Uscì
in gran fretta e Sarah, ferma sull’uscio, seguì con lo sguardo la sua corsa
sulla spiaggia verso la banchina, fino a quando non divenne un puntino lontano,
indistinguibile tra la folla di pescatori. Era certa che non lo avrebbe più
rivisto e, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime trattenute, si sorprese
dolcemente innamorata di Matteo e ancora prigioniera del suo folle amore per
Hermann.
“Quante volte lo
lascerei,
sai quante volte
di nuovo io lo inventerei.
Io porto i segni
del suo dolore
e lui respira
seguendo il ritmo del mio cuore.
E dalla ruota
del mio destino
lui sale e
scende
ed ogni volta
sembra un po’ più grande.”
Mia Martini,
Quante volte