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Autore: Nadine_Rose    14/03/2019    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
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Capitolo 7

 

Oltre le tue brutture

 

“Non ti voglio pensare.

Aspetto che i ricordi di te diventino più morbidi, più sfumati, meno taglienti.

Ancora ci si può far male, se provo a guardarci dentro.”

Fabrizio Caramagna

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Campo di Fossoli, 17 febbraio 1944

 

Hermann sollevò la testa dal cuscino e, passandosi una mano fra i biondi capelli, si stiracchiò dal sonno con un sospiro soddisfatto. Girando lo sguardo attorno, la vide, seduta per terra, con la schiena appoggiata alla parete, come una bambola rotta. Bianca, come di porcellana senza alito di vita, con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto, le guance livide e i capelli aggrovigliati, come rami intrecciati, stringeva un lembo di sottoveste, sporco di sangue, tra le sue intimità. La ragazza era stata sincera sulla sua verginità e lui ne aveva violato l’innocenza, senza pietà. Qualcosa di simile al rimorso sembrò vibrargli dentro, restituendogli un po’ di umanità verso quel corpo che aveva desiderato, intrappolato con l’inganno di un compromesso, preso con violenza, usato e che adesso giaceva per terra come morto, sporco di lividi e sangue, immobile, rannicchiato nel suo dolore.

Tenendo lo sguardo fisso su di lei, Hermann lentamente si ricompose, sollevandosi i pantaloni e, alzatosi dal letto, le si avvicinò. In uno slancio di compassione, la prese in braccio e la ragazza, come se il suo corpo fosse realmente privo di vita, lasciò la testa ciondolare all’indietro e le braccia aprirsi e penzolare mollemente nel vuoto. La portò in bagno e la mise nella vasca, aprendo i rubinetti. I suoi occhi, che non avevano più il colore caldo del miele, erano ancora spalancati e persi nel vuoto in un’espressione indecifrabile, mentre, come filamenti, il sangue iniziava a colorare l’acqua. Hermann chiuse i rubinetti e, continuando a guardarla, nei capelli diramati dall’acqua e nelle forme che trasparivano dalla sottoveste bagnata, rientrò nella sua risoluta strafottenza di nazista: quella ragazza era un’ebrea, un qualcosa senz’anima, senza valore, che lui poteva usare a suo piacimento. Abbottonandosi la camicia, uscì dal bagno e dalla stanza per poi guardare a destra e sinistra nel corridoio.

“Kellnerin[1]!” richiamò l’attenzione di una cameriera che passava di lì. “C’è da ripulire in bagno!”

Hermann aveva già ripreso il suo atteggiamento di orgoglio e di disprezzo.

 

Berlino, 21 giugno 1946

 

Al ricordo di Sarah, distesa in quella vasca, con lo sguardo assente e il corpo paralizzato dalla sua violenza, abbandonata come uno straccio sporco, due grosse lacrime gli solcarono il viso. Una era per lei, l’altra per i suoi errori. Hermann alzò gli occhi e, guardando la sacca della flebo, emise un sospiro tremante che gli morì in gola. Era strano come il lager di Sachsenhausen, disumanizzandolo, lo avesse reso più umano, capace di guardare ai ricordi da un’altra prospettiva, di rendersi conto dell’inutilità dell’odio razziale, per il quale aveva sacrificato i migliori anni della sua vita, di entrare nelle ferite inferte a Sarah e di piangerne di rimorso. E adesso, che era solo, libero da ogni vincolo ideologico e senza difese, diede il nome di amore ai sentimenti vissuti a Fossoli. Hermann alzò un po’ la mano e rivolse un altro sguardo all’ago della flebo. Presto, la febbre sarebbe passata e avrebbe ritrovato le forze per mettersi in viaggio e riabbracciare la sua Sarah.

 

Napoli

 

Era da un po’ di giorni che Sarah si svegliava di buon umore al pensiero di Matteo e, con il sorriso sulle labbra, iniziava a contare le ore che la separavano dal loro prossimo incontro. Durante il giorno, a casa, a lavoro, per strada, brividi di felicità, all’improvviso, la scuotevano al ricordo delle loro passeggiate al tramonto che sfociavano nel rincorrersi giocando ad acchiapparella in riva al mare e dei loro giri in barca con la promessa di farle vedere un giorno le bellezze di Sorrento. Con Matteo, Sarah aveva trovato un amico e ritrovato la spensieratezza di fanciulla, vivendo, senza nemmeno accorgersene, una tappa che, a causa di Hermann, era stata costretta a bruciare. Inconsapevolmente innamorata, pendeva sognante dai suoi racconti di mare e di pescatori, sorrideva con aria serena alle sue risate per le battute di Pulcinella, guardando lo spettacolo dei burattini e si compiaceva di quel suo timido e goffo corteggiarla.

Inseguita da Matteo, Sarah correva a perdifiato sul bagnasciuga, ridendo a squarciagola e sfogandosi in gridolini di felicità. La brezza d’inizio estate spruzzava in viso gocce salate e la sabbia, sollevandosi al loro veloce passaggio, pizzicava alle caviglie. Nello sfondo degli ultimi bagliori del sole, correvano senza una meta ma con l’obiettivo di tenersi stretta quella felicità, protraendola all’infinito per non relegarla a un semplice ricordo. Poi Sarah fuggì in strada e, fermando la sua corsa davanti a un palazzo diroccato, si volse verso Matteo, ormai a pochi passi da lei. Guardandolo con aria vispa, s’infilò le scarpe e, per un attimo, abbassò lo sguardo. Nemmeno il tempo di rialzare gli occhi che Sarah subito li chiuse all’inaspettato tocco di due labbra appoggiate alle sue. E il bacio di Matteo sapeva di acqua di mare e dei profumi portati dal vento dell’estate, di fuochi accesi sulla spiaggia e di albe stellate, della tenerezza di un’esperienza non ancora maturata, poiché quello doveva essere senza dubbio il suo primo bacio, e sapeva anche del ricordo di Hermann. Indietreggiando a occhi socchiusi, Sarah allontanò le labbra dal bacio gentile di Matteo e, senza accorgersene, entrò nella casa abbandonata, mentre la memoria del cuore la riportava al primo bacio di Hermann, profondo e determinato, passionale e travolgente, che aveva dilatato i suoi sensi e le sue emozioni, fino a farla sentire desiderata e amata, illusoriamente.

Frenato di colpo il ricordo, che le aveva lasciato sulle labbra un sapore agrodolce, Sarah si guardò attorno e, senza nemmeno sfiorare il discorso del bacio di Matteo, come se fra loro non fosse successo nulla, gli chiese smarrita: “Dove siamo qui?”

C’erano fogli dappertutto, su scrivanie e in mobili posizionati alla rinfusa e, alle pareti, vi erano disegnate delle svastiche, malamente cancellate. L’abbandono e la sporcizia regnavano ovunque, nel tetrore di quella grande stanza.

“Qui c’erano i tedeschi. Era il loro stazionamento durante la guerra”, rispose il giovane, tristemente meravigliato per la tanta facilità con la quale Sarah si era fatta scivolare addosso le emozioni del suo bacio, per lui il primo e sfogò il suo dispiacere in parole di rabbia verso i nazisti, i nazifascisti, l’8 settembre, l’attacco ai cantieri e l’occupazione della città.

Alle orecchie di Sarah, la voce di Matteo arrivava come un suono lontano, ovattato, indecifrabile e, nella sua mente, si concatenavano i ricordi di Hermann, dell’arroganza nel suo sguardo glaciale e nella sua voce imponente, nel suo portamento fiero e nel suo passo risoluto, della crudeltà nei suoi modi di fare e degli slanci di tenerezza verso di lei, che la facevano sentire al sicuro e che rendevano amabili finanche le sue brutture.

“Matteo”, lo interruppe Sarah, con voce afflitta. “Io sono ebrea”, disse, più per ricordarlo alla se stessa di Fossoli che per confidarlo a Matteo.

E negli occhi scuri del giovane vide un improvviso lampo che, intensificandosi, esprimeva un groviglio di sentimenti, di stupore, di tristezza, di compassione, di imbarazzo, di paura.

Rimasto senza parole a quella rivelazione, distolse lo sguardo da Sarah, dai suoi occhi lucidi e quasi imploranti di una risposta, per rivolgerlo a una finestra senza vetri e, con voce spezzata, riuscì soltanto a dire: “Si sta facendo buio. Devo andare a lavorare.”

Uscì in gran fretta e Sarah, ferma sull’uscio, seguì con lo sguardo la sua corsa sulla spiaggia verso la banchina, fino a quando non divenne un puntino lontano, indistinguibile tra la folla di pescatori. Era certa che non lo avrebbe più rivisto e, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime trattenute, si sorprese dolcemente innamorata di Matteo e ancora prigioniera del suo folle amore per Hermann.

 

“Quante volte lo lascerei,

sai quante volte di nuovo io lo inventerei.

Io porto i segni del suo dolore

e lui respira seguendo il ritmo del mio cuore.

E dalla ruota del mio destino

lui sale e scende

ed ogni volta sembra un po’ più grande.”

 

Mia Martini, Quante volte



[1]Cameriera.

   
 
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