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Autore: Luana89    14/03/2019    1 recensioni
Non fu la sua bellezza a colpirmi: bensì l’assenza d’espressione sul suo viso. Il mio occhio fissava attraverso l’obiettivo, poco prima di scattare la prima foto del mio anno scolastico. Lo sconosciuto sembrò quasi sentire il lavorio dei miei pensieri, sollevò di scattò il capo guardando tra la folla, e i suoi occhi si poggiarono su di me per una manciata di secondi che valsero un’intera vita. C’era qualcosa in lui, qualcosa di assolutamente inspiegabile. Lo capii poco prima che sparisse all’interno della struttura: le persone attorno a quel ragazzo sembravano scostarsi al suo passaggio, come se quel singolo essere umano fosse in grado di domare la forza di gravità e il baricentro spostandoli a suo piacimento. Mi persi per un istante.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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I.


 Il coma mi ha portato in un mondo dove il tempo e lo spazio sembravano svanire; era un'esistenza onirica in cui persone, luoghi e situazioni si muovevano con la stessa rapidità dei pensieri. Avevo una profonda sensazione di essere a un bivio, un punto di svolta, a metà tra la morte e la vita. Sono stato nel posto in cui scorre il fiume del tempo, dove vanno gli ologrammi quando spariscono nell'aria, non ero né completamente sognante né completamente sveglio.
Adesso invece una sensazione simile a un risucchio, quando delle mani ti trattengono sott'acqua e improvvisamente ti lasciano andare, il tuo corpo non se l'aspetta e sbalzato verso la superficie spalanca occhi e bocca alla ricerca del fiato.
«Chiamate subito il medico, PRESTO.» Voci confuse, ticchettii contro il pavimento.
«Che succede?»
«Dottore, il paziente della camera 1290..» una voce esitante, cristallizzata.
«Ha deciso finalmente di lasciarci?»
«No, si è svegliato.»
 
*
 
«Guarda cosa ti ho portato?» Shou Lee si stagliò nel suo metro e ottantacinque agitando una busta di carta, l’odore di muffin appena sfornati impregnò le mie narici. Era coreano di origine, ma si era trasferito in America ormai dieci anni prima, raccontava di essere stato l’amante di una donna facoltosa e che per sfuggire alla morte per mano del marito era fuggito. Tutte cazzate a mio parere, ma era divertente quando lo raccontava.
«Grazie.» chinai il capo massaggiandomi nervosamente le gambe, il formicolio persistente non sembrava volermi dare tregua. Il medico diceva che era un buon segno, che avrei ripreso a camminare presto. Ma presto quando? Mi ero risvegliato ormai tre mesi prima, dopo un anno di incoscienza..
«Terra chiama Joshua, pronto?» Scossi il capo rovesciando la busta a terra, i muffin si sparsero sulle piastrelle.
«Vattene via.»
«Ehi, ragazzino..» la sua voce familiare mi aveva sempre calmato nel bene o nel male, ma non stavolta. Scoppiai a piangere disperatamente, mi sentivo come una barchetta sbalzata tra le onde pronta a colare a picco.
«Sono passati tre mesi, e ancora vivo bloccato su questa maledetta sedia. E’ giustizia questa?» Nello stesso istante in cui lo dissi un nodo prepotente si formò dentro la mia gola, attorcigliava le mie corde vocali come a volermi dire ‘’si, è la giustizia degli assassini’’.
«Il medico ha detto che tornerai a camminare, la riabilitazione sta funzionando..»
«Vai via.»  
«Joshua..»
«VAI VIA HO DETTO.» Osservai le sue spalle ingobbite allontanarsi, avevo conosciuto Lee Shou ormai tre anni prima, quando mi ero presentato sotto il suo studio in una giornata piovosa. Fradicio come un pulcino agonizzante affidai a lui la mia vita, gli chiesi di trovare i miei genitori biologici e lui accettò. Mi diede un lavoro, affetto, tutte cose che non ero sicuro di essere riuscito a ripagare. Mi salvò poco prima dello schianto, io nomade senza casa. Un ragazzo che continuava a fuggire dai suoi mostri. Continuai a piangere tutte le mie lacrime.
 
La riabilitazione durò più di sei mesi, riacquistai completamente l’uso delle gambe, ma mi rifiutai di continuare la terapia psicologica. Era difficile fissare il dottor. Moore e mentire, continuavo a costruire la mia esistenza su castelli di bugie. Era come un effetto domino difficile da fermare, le persone che avevo amato mi erano state infedeli, e a mia volta io continuavo a essere infedele a me stesso. Raschiai il fondo del piatto con la forchetta, col cibo non si giocava era questa la prima regola che mi diede il Signor Padre quando arrivai nella sua casa, odorosa di cera d’api e crostata alle mele, avevo solo due anni e quel posto mi parve il paradiso. Mi resi conto col tempo che vivevo in una bugia. Un’altra, si. In quella casa eravamo cinque: io, Thomas Junior il mio fratellastro chiamato TJ da tutti, Ruth la minore, il Signor Padre Thomas reverendo del paese e sua moglie Mary. Una famiglia rispettata da tutta la comunità, considerata un modello di rettitudine e fede. Quale incubo fu per me scoprire che quel paradiso altri non era che una porta per l’inferno. Iniziai a capirlo a tredici anni, quando il signor padre mi annunciò che presto sarei stato convocato nel suo ‘’studio’’. Sapevo cosa succedeva lì, prima di me vi era stato TJ, avevo sentito le sue urla nascosto sotto le scale, nonostante mi coprissi forte le orecchie. In quel paese tutto era alterato, ovattato, migliaia di occhi sembravano spiarti sempre e comunque. Se andavi bene a scuola ti fissavano, se andavi male il demonio ti stava distraendo, se sembravi felice ti fissavano sospettosamente, se eri triste il demonio ci metteva lo zampino. Dovevi sorridere, si ma non troppo. Non piangere. Non puoi avere l’ansia, non puoi leggere quel libro, né vedere quel cartone. E’ tutta roba del demonio per traviare la tua giovane anima. Pensieri, pensieri, PENSIERI.
«Ma quel tizio non è..?» la voce di Shou mi riscosse, fissai il televisore riconoscendo il viso di Mattew. Sembrava ieri quando c’eravamo fissati e ‘’tornerò presto, devo risolvere alcune questioni a Seattle’’, la giornalista annunciava il suo matrimonio imminente con la fidanzata storica, e ricca ereditiera. Il simile in fondo cerca sempre il simile no? Conficcai la forchetta nel purè continuando a guardare la televisione, cos’è che provavo esattamente? Nulla. Un abisso nero di aridità. Avevo di fronte la persona con cui ero stato per mesi, una relazione che sembrava averci divorato, fatta di bugie e cose non dette. Il senso di malinconia mi rendeva difficile respirare, era così crudele risvegliarsi e rendersi conto che tutti erano andati avanti.. nessuno escluso. Tutti avevano camminato, percorso miglia e miglia e io ero rimasto fermo nel medesimo punto, a domandarmi come un povero coglione dove fossero tutti quanti. Non ero nemmeno stato in grado di amarlo, avendo vissuto per sedici anni in una gabbia, pensavo che anche una relazione lo fosse; e quindi scappavo in tondo, inseguito da lui. Poi cambiava il giro, ed ero io a inseguire, così fino allo sfinimento. Conobbi Mattew quasi due anni prima, tramite conoscenze comuni. Come me anche lui sembrava avvolto in una nube di misteri, come un puzzle che composi quasi fino alla fine, ma l’ultimo tassello mi sfuggì drammaticamente. Un ragazzo con una sete di vendetta mai vista prima, a Las Vegas per cercare l’uomo che aveva distrutto la sua famiglia e preso possesso dell’azienda milionaria che sarebbe spettata a lui, in questa baraonda di marciume ci incontrammo legandoci. Inizialmente andava bene, era la ventata d’aria fresca che mi serviva, la sua gelosia e possessività mi faceva sorridere ma lentamente andò a opprimermi sempre di più. Il modo in cui mi vestivo, i miei pensieri, le mie azioni, lui voleva il controllo di tutto. Teneva sott’acqua la mia testa, impedendomi di respirare, e io tenevo in mano il suo cuore stringendolo finché non lo sentivo contorcersi per il dolore. Non c’era alcun futuro per noi, lo sapevo io e lo sapeva lui, ma ci rifiutammo di ammetterlo; accettai la sua menzogna guardandolo partire consapevole di non rivederlo mai più.
«Spegni la televisione.»
«Ti fa male il cuoricino?» Non sapeva seriamente quando tacere quello stronzo, lo fulminai con un’occhiata.
«Vuoi che a te faccia male l’occhio a breve?» Sorrisi candidamente, le fossette sbucarono prepotenti come sempre conferendomi quell’aria angelica che in un certo senso era stata la mia rovina. Aveva attirato TJ, e Mattew dopo di lui. Tossici in maniera diversa. E adesso? Chi avrebbero attirato adesso?
 
 
La chiesa era silenziosa, odorava di incenso e pace. Fissai la croce sopra l’altare, così immensa e terrificante nella sua maestosità. Strinsi i denti sedendomi nel confessionale, la finestrella si aprì pochi istanti dopo e una voce bassa mi invitò a parlare.
«Mi perdoni padre perché ho peccato.» tremai.
«Qual è la tua colpa, figliolo?»
«Ho ucciso un uomo..» il silenzio si frappose tra noi, insinuandosi attraverso quei piccoli fori luminosi.
«Vedi, tutti noi uccidiamo ogni giorno.. con le parole, le opere.»
«No, padre. Ho ucciso un uomo, l’ho ucciso sparandogli un colpo dritto nel petto.» Piansi silenziosamente scuotendo il capo. Chi poteva salvarmi da questa disperazione? «Andrò all’inferno..»
«Dio è misericordioso figliolo, se il tuo cuore è pentito lui lo saprà..» quella voce non perse la dolcezza.
«E se il mio cuore non fosse pentito? Se volessi uccidere ..ancora?» non riuscivo a parlare sopra il sussurro, temevo di frantumarmi lì.
«Perché dovresti? Affida la tua croce a Dio e lui saprà ricompensarti.» L’avrebbe fatto davvero? Quando uscii dalla chiesa il sole in cielo non riuscì a riscaldare nemmeno un lembo della mia pelle scoperta. Il cellulare squillò, fissai il numero sospirando.
«Shou?»
«Ehilà ragazzino, vieni nel mio studio.» Sbuffai premurandomi di farglielo sentire.
«Senti detective da strapazzo, sbaglio o ti ho detto che oggi non avrei lavorato?»
«Non devi infatti, sei licenziato.» Mi bloccai nel bel mezzo della strada, un clacson mi fece sobbalzare mentre pensavo a tutti i debiti che non sarei riuscito a sanare.
«Mi prendi in giro?»
«Per niente, devi fare le valigie New Haven ti aspetta. Ti piace il Connecticut?»
«Hai ripreso a bere di mattina? Guarda che hai trent’anni, il tuo fegato non reggerà a questi ritmi.»
«Yale ha stanziato una borsa di studio per il corso di ‘’arte e fotografia’’, porta il tuo culo da femminuccia qui e adesso. Devi mandargli i tuoi lavori.»
«Shou—»la chiamata venne interrotta senza possibilità di replica.
 
«Mi spieghi che diavolo ti passa per il cervello?» Gettai lo zaino sulla sua scrivania mettendo le mani sui fianchi, fogli bianchi volarono per aria sparpagliandosi a terra.
«Vuoi continuare a lavorare per me tutta la vita? Fotografando mariti fedifraghi che si scopano segretarie e travestiti raccattati nelle vie a luci rosse di Las Vegas?» Inarcò un sopracciglio quasi a volermi sfidare.
«Yale? E’ troppo costosa.. e poi ..»
«E poi cosa? Senti Joshua, nella mia vita non vi è mai stata una singola cosa degna di nota, non ho mai fatto un cazzo di buono. Per una sola volta vorrei poter fare qualcosa di utile, ho visto i tuoi lavori.. cazzo le tue foto sono opere d’arte, e io di fotografia non ci capisco un cazzo ci credi?» Oh si che ci credevo, restai però in silenzio. «Non posso relegarti nel mio ufficio, pensando che hai vent’anni e una marea di possibilità che non coglierai mai.» Il silenzio piombò tra noi, ci fissammo per la prima volta senza il consueto sarcasmo che contraddistingueva il nostro rapporto.
«Non sai nemmeno se mi prenderanno…»
«Proviamoci almeno, e se non andrà non dirò più nulla.» Alzò le mani in segno di finta resa, ma sapevo che in quella diatriba il perdente ero io. In fondo Shou era stato un padre per me, o comunque un fratello maggiore, maniaco e stronzo si ma comunque affettuoso. Chinai il capo scacciando l’aria con la mano e la sua risata mi fece prudere le mani.
 
 
Il mio cuore sembrava destinato a dividersi in tanti piccoli frammenti, ne avevo lasciato un pezzo nel villaggio a Mississipi quando ancora credevo che TJ mi amasse, adesso un pezzo a Las Vegas dove avevo lasciato Shou con la promessa di rivederci. Fissai la camera del mio dormitorio ancora spoglia di me, di ciò che amavo. Sentivo le mani appiccicose, le sfregai sui jeans guardandomi attorno, fino a pochi mesi fa per me il Campus era un’utopia – non pensavo sarei mai andato all’università, che avrei ‘’svoltato’’ in qualche modo. Adesso ero lì, con una borsa di studio che mi permetteva di frequentare una delle università più prestigiose del Paese, e senza impiccarmi per i debiti (okay magari per quelli mi sarei impiccato un’altra volta).
 
Ricorderò quel giorno per sempre, il vento soffiava particolarmente forte e caldo e io sedevo fissando il via vai di studenti attorno a me. Quello era il mio campo da gioco preferito, invisibile in mezzo a una folla di gente pronto a catturare i loro visi e le loro emozioni, come il peggiore dei guardoni, questo era ciò che da sempre amavo. Non i paesaggi, ma le emozioni vere e forti. Lo vidi in quel momento, stava attraversando il viale completamente solo, la mano strinse la macchina fotografica sul mio grembo come richiamata da un suono udibile solo a me. I capelli corvini e spettinati col sole mandavano strani bagliori blu, una diversa sfumatura di quella contenuta nei suoi occhi il cui colore dubitavo fosse presente in alcuna tavolozza. Aveva alcuni piercing alle orecchie, e anche al labbro, il colorito pallido di chi è abituato a rintanarsi in camera piuttosto che uscire alla luce del sole. Alle dita portava strani tatuaggi, simboli che allora non riuscivo a capire. Le spalle larghe, il fisico snello ma forte, lo capivo dal modo in cui la camicia tirava sulle braccia. Non fu la sua bellezza a colpirmi: bensì l’assenza d’espressione sul suo viso. Il mio occhio fissava attraverso l’obiettivo, poco prima di scattare la prima foto del mio anno scolastico. Lo sconosciuto sembrò quasi sentire il lavorio dei miei pensieri, sollevò di scatto il capo guardando tra la folla, e i suoi occhi si poggiarono su di me per una manciata di secondi che valsero un’intera vita. C’era qualcosa in lui, qualcosa di assolutamente inspiegabile. Lo capii poco prima che sparisse all’interno della struttura: le persone attorno a quel ragazzo sembravano scostarsi al suo passaggio, come se quel singolo essere umano fosse in grado di domare la forza di gravità e il baricentro spostandoli a suo piacimento.
Mi persi per un istante.
 
 
  
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