Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Happy_Pumpkin    14/03/2019    3 recensioni
Halle, Germania. Eren è uno studente universitario: arrabbiato verso il proprio capo che lo sfrutta a lavoro, ma che, come dice Armin, ‘sa crederci tantissimo’.
New York, USA. Levi è un traduttore asociale e, allo stesso tempo, amministra uno sgangherato condominio per conto dell’amica e coinquilina Hanji, strampalata aspirante scrittrice di racconti fantasy che, però, per guadagnare qualcosa si ritrova a scrivere romanzi rosa di dubbio gusto.
Sembrano destinati a vivere le rispettive esistenze agli opposti del mondo, finché, un giorno, per un evento improbabile Eren e Levi entreranno l'uno nell'orbita dell'altro.
Da lì cominceranno le loro folli (dis)avventure tra inseguimenti, ubriacature e personaggi strambi, fino a potersi finalmente... innamorare, scoprendo di non essersi mai conosciuti così bene.
[Slowburning Ereri/Riren]
Genere: Avventura, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Hanji Zoe, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Karma is a bitch, kiddo

 

1.

Fluorescent Adolescent

 

Mikasa era una donna pragmatica. Seria, diligente e fin troppo responsabile a lavoro, non si concedeva molto tempo per pensare: agiva e basta; se però qualcosa non le tornava finiva per essere realmente spaventosa e vendicativa finché la problematica non si risolveva.
Per tali ragioni, quella settimana di gennaio si ritrovò a guardare il portafortuna stretto tra le sue mani senza essere comunque del tutto convinta di quanto stava facendo; credere in quelle stupidaggini o affidare i propri desideri a un coso che avrebbe dovuto somigliare a una coccinella e invece ricordava più uno scarafaggio era realmente infantile, persino da disperati.
Davanti alla fontana, occhieggiò lo scarafaggio-coccinella-mutazione-genetica stretto tra le sue mani, infine emise un impercettibile sospiro.
Beh, il suo desiderio, effettivamente, era un po’ disperato. Poteva contare lo stesso, giusto?
Di sicuro tutta la faccenda del ‘lancia nella fontana questo portafortuna benedetto dagli astri e il tuo sogno si realizzerà’ sostenuta da quella specie di vecchietto, vestito in un incrocio tra un barbone e uno pseudo-indovino, era una presa in giro ma, beh, tanto valeva gettare quell’obrobrio che aveva in mano e... chissà, magari succedeva davvero qualcosa capace di smuovere una situazione ormai statica da diversi anni.
Con espressione apparentemente apatica, Mikasa si girò di spalle, scrutò un’ultima volta la stuatuetta portafortuna, infine mosse il braccio in uno scatto rapido. Udì un tonfo nello specchio d’acqua, parecchio rassicurante sul fatto che l’oggetto avesse centrato il bersaglio, e allora con gli occhi chiusi, ignorando il fatto di sentirsi sciocca e infantile, Mikasa Ackerman espresse il proprio altrettanto stupido ma disperato desiderio. 

“Vi prego, dei, divinità e congiunzioni astrali. Fate che io possa rivedere Eren.”

Attese un istante, immobile, ma non sentì proprio un bel nulla cambiare: l’aria era fredda come capitava sempre in ogni città americana dell’east coast in pieno inverno, il parco era frequentato da vecchietti, coppiette e negli angoli bui persone di dubbia moralità, nell’altra mano lei continuava a tenere il sacchetto con il cibo d’asporto, gli stessi noodles scotti di sempre e...
Il cellulare squillò, il Requiem di Mozart. Ci stava bene in qualunque occasione.
“Eren?” mormorò istintivamente Mikasa, con il cuore che perse un battito.
Rapida, tirò fuori il telefono e rispose, ma prima di poter fiatare sentì la voce dall’altro capo anticiparla:
“Oi, mocciosa, pensi di arrivare entro stasera con i fottutissimi noodles del pranzo o devo assecondare Hanji e lasciare che ci faccia esplodere cucina, casa e il dannatissimo cortile?”
Assottigliò le labbra. Sentì un rumore di pentole e qualcosa che si rompeva, sembrava un piatto.

No, decisamente non era Eren.
“Sono per strada. Stronzo.” Replicò, tagliente.
Ma proprio sul filo dello stronzo, dall’altra parte avevano già staccato il telefono.
Impegnata com’era a uccidere a sangue freddo prima l’indovino, poi tutti i suoi dannatissimi parenti Ackerman, Mikasa non riuscì a scorgere, in cielo, una splendida cometa in fiamme atterrare.
 

*

 
“Whoa! L’hai vista quella, Eren?”
Questi annuì, con gli occhi sgranati nei quali riluceva tutta la bellezza di quello spettacolo astronomico inaspettato.
Finì di mangiare il pretzel avanzato da uno dei clienti della caffetteria, si pulì le mani dalle briciole sul grembiule e commentò:
“Possibile che si veda così bene in pieno giorno?”
“Magari è un aereo in fiamme?” dedusse l’altro, un ragazzo dai capelli castano chiari, l’aria osservatrice e un atteggiamento quasi d’ammirazione nel parlare con Eren che, per contro, tendeva a infervorarsi troppo facilmente e a non notare certi sguardi che gli venivano rivolti.
Sussultarono entrambi quando udirono aprirsi la porta che si affacciava sul cortiletto del retro dove, in quel momento, i due si trovavano.
“Floch, Eren, conviene che vi sbrigate a rientrare prima che Brzenska si lamenti della vostra assenza.”
Annunciò il ragazzo che si era sporto dall’apertura, anche lui con il grembiule e la divisa da cameriere e i capelli biondi un po’ scompigliati.
Floch annuì con un vago senso di colpa, ma Eren sbottò, incapace logicamente di accettare quella che per lui era un’ingiustizia:
“Era la nostra pausa, Armin, ce la siamo guadagnata dopo aver sgobbato tutta la mattina e anche il pranzo. Sono il primo a lavorare quando c’è bisogno, ma qui stiamo venendo tutti presi in giro! E non lo accetto! Voglio...”
Fece per dire altro, con gli occhi che saettavano furia e senso d’ingiustizia da tutte le parti, ma Armin lo prese per un braccio, annuendo, per poi interromperlo con diplomazia:
“Sì, sì certo Eren, però tieniti le proteste per dopo e pensiamo a tenerci il lavoro, perché abbiamo un affitto da pagare e l’università, quindi non possiamo esattamente concederci di contestare la politica aziendale dopo le feste.”
“Ciò non toglie che Eren abbia ragione, se non ci fosse lui a dire le cose come stanno staremmo tutti chini con la testa bassa” intervenne Floch con una luce vivida negli occhi, entrando, evidentemente già dimentico della pausa di cinque risicatissimi minuti per sostenere con energia la causa del suo collega.
“Taccagna e approfittatrice – sbottò Eren, lanciando nel frattempo un’occhiata a Floch – aspetti solo che finiamo questo girone infernale di lavoro e gliele farò scontare tutte.”
“Certo Eren, giusto il tempo di lasciare passare il mese di gennaio e ci pensiamo, ok? – convenne Armin, con un sorriso morbido sul volto accaldato e un leggero, impercettibile, tic all’occhio – ora, pensiamo alle venti ordinazioni in sospeso, ti va? E a Jean dalle cucine che insiste perché ci diamo una mossa a distribuire le portate visto che sono le quattro passate, che ne dici?”
Eren si allacciò meglio il grembiule per sbottare istintivamente, al solo sentire nominare quello stronzo dell’aiuto-cuoco: “Faccia da cavallo può anche andarsene a fanc... – ma si interruppe, vedendo lo sguardo spazientito di Armin, correggendosi – va bene, va bene, ci penso io. Andiamo a portare queste ordinazioni e facciamo in modo che la gente esca di qui pregandoci di tornare!”
Annuì, capace di caricarsi con energia e spirito di autoconvincimento esemplari.
Poi corse verso le cucine, litigando brevemente con Jean in uno scambio di insulti per partire infine verso la sala. Floch fece un fischio.
“Wow, Eren sa sempre come affrontare alla grande ogni situazione, anche se la vita non è stata esattamente gentile nei suoi confronti.”
Armin sospirò, sapendo bene a cosa il collega si stava riferendo, poi scrollò le spalle: “Più che altro – guardò con un’aria quasi rassegnata Floch e la sua espressione di timida contemplazione – è che Eren sa crederci tantissimo.”
 

*

 
La sera, Eren rientrò nell’appartamento più morto che vivo. Dopo essersi tolto l’apparecchio acustico, crollò sul letto della sua stanza con la faccia sul cuscino, senza nemmeno le forze di farsi una doccia. Pazienza, ci avrebbe pensato l’indomani, oltre a raccattare i libri e le robe lasciate sparse per la camera, cercare di studiare qualcosa in vista dell’esame del giorno successivo e arrancare la sera per il turno di chiusura della caffetteria che, in via del tutto eccezionale, avrebbe tenuto aperto in vista di una festa di compleanno; questo voleva dire gente che si sarebbe ubriacata come se non ci fosse stato un domani, vomito da pulire e rischio di litigarci, perché Eren sotto stress diventava una palla rabbiosa d’aggressività.
Si rigirò sul materasso, poi afferrò il cellulare e decise di posticipare la sveglia, esattamente come aveva posticipato la doccia. Anche se Armin aveva in programma di fare un gruppo di studio, Eren avrebbe potuto aggregarsi in seguito e godersi, finalmente, un attimo di tempo per ricaricare le pile in vista delle pessime giornate che lo aspettavano.

In fondo, che mai potrebbe capitare?
Autoconvicendosi di star facendo la cosa giusta con la solita ammirevole fiducia in se stesso, Eren si addormentò nel letto, mentre il telefono, al suo fianco, si spense e si riaccese improvvisamente.
 

*

 
“Levi, secondo te come potrei descrivere meglio questa cosa?”
Domandò la donna, all’improvviso.
L’interpellato deviò gli occhi dallo schermo, appoggiò un gomito sullo schienale della sedia e fissò la sua interlocutrice, anche lei davanti al computer con una matita in precario equilibrio sul labbro superiore, un’altra matita incastrata tra i capelli castani spettinati e gli occhiali scivolati fin sul naso.
“Quale cosa?”
Domandò, con voce piatta.
Hanji Zoe, scrittrice e in parte collega del succitato Levi a cui si stava rivolgendo, gesticolò un istante con le mani, nel tentativo di dare la forma a qualcosa per cui, un secondo dopo, Levi si pentì di aver chiesto informazioni più specifiche:
“È che c’è lui, sopra di lei. Ma non proprio che vuole entrare per vie normali, più tipo...”
“Oi, stop, fermati – Hanji lo guardò, per poi tornare a concentrarsi sulla matita prima che cadesse, dunque Levi inspirò brevemente – le entra con il cazzo nel culo? È questo che vuoi dire?”
Hanji lo fissò un istante. La matita le cadde dalle labbra. Poi annuì, lentamente, e altrettanto lentamente sorrise con quel misto tra beatitudine ed esaltazione che inquietavano la maggior parte degli esseri umani, poco consapevoli del carattere eccentrico della donna.
“Sì, sì esatto! Precisamente quello! – appuntò qualcosa sulla scrivania, mentre Levi la fissava inespressivo dopo aver roteato gli occhi seccato – È che forse dovrei metterci in mezzo qualcosa di più poetico. Alle donne in età da marito non è che piacciano queste cose tanto dirette.”
Levi afferrò per i bordi la tazza di the bollente, ma continuò a fissare la sua interlocutrice, mentre il leggero vapore gli ondeggiava quieto davanti al naso:
“Che mucchio di stronzate.”
Concluse alla fine, asciutto.
Hanji fece un lamento un po’ scenico: “Grazie tante, eh! Non sei tu che deve vendere squallidi romanzi rosa con aitanti stalloni dai muscoli improbabili che cavalcano ricche ereditiere annoiate – si arrestò un attimo, picchiettando un dito sulle labbra – o erano ricche ereditiere vogliose? Mmm... devo rivedere questo punto.”
Allora, Levi smise definitivamente di ascoltarla, sbottando mentre si alzava: “Con quei romanzi rosa mi ci pulisco il culo. Riprendi a scrivere il tuo cazzo di libro di fantascienza.”
Concluse, chiudendo il dizionario dei sinonimi e dei contrari che usava per tradurre, spegnendo il monitor.
Hanji fece un mezzo sorriso: sapeva che quello era il modo brutale di Levi per farle un complimento e incoraggiarla a scrivere ciò che davvero le piaceva. Almeno, dopo anni di amicizia era più o meno così che interpretava quel mix letale di carattere scostante, diretto in maniera brutale e del tutto privo di tatto tranne in casi totalmente inaspettati e, spesso, con un accompagnamento del tutto indelicato. Come quando Hanji era scoppiata a piangere davanti al finale di Band of Brothers e Levi, seduto sul divano al suo fianco, le aveva sporto un fazzoletto commentando: “Asciugati il moccio, quattrocchi.”
“Stasera magari do un’occhiata a quella parte nello spazio e vedo di lavorarci su. Posso prendermi anche una pausa dai maschioni aitanti.”
Gli fece l’occhiolino alla parola maschioni aitanti ma Levi si limitò a farle una mezza smorfia, per poi riprendere a ignorarla del tutto mentre apriva la porta che dava sul corridoio e, al fondo, alla sua stanza.
“Vai già a dormire?” domandò ancora Hanji, consapevole che l’appetito sessuale di Levi era un mistero la cui scoperta, probabilmente, avrebbe decretato il prossimo premio Nobel alla Scienza.
Dal corridoio non le arrivò alcuna risposta, eccetto una porta che si chiudeva in maniera brusca. Segno che... sì, Levi andava a dormire, e sì, essendo una cosa ovvia a quel punto non necessitava nemmeno di una risposta.
L’uomo, provando un profondo senso di sollievo all’idea di essersi già lavato da capo a piedi prima di concludere le ultime righe della traduzione, occhieggiò di sfuggita i suoi libri sulla teoria della traduzione, i vari dizionari inglese-tedesco e inglese-giapponese; poi, più accanto, qualche compendio sulla contabilità, dei faldoni ordinati per anno e una rubrica ancora cartacea con i numeri di idraulici, elettricisti e... sì, persino pompe funebri.
Perché in quei cinque fottutissimi anni tutto ciò era diventato una costante nella sua vita, più precisamente da quando Hanji si era ritrovata per le mani un intero palazzo, ereditato da un prozio morto che aveva intestato tutto all’unica nipote che si fosse degnata di ricordarsi di lui. Ancora più precisamente, dal momento in cui la suddetta ereditiera continuava a reputare gli immobili interessanti solo per essere picconati, rilevare le tubature di gas, acqua e cavi elettrici, assistendo con entusiasmo a tutti gli interventi di riparazioni, mentre progettava storie strampalate su tecnici riparatori sexy e casalinghe annoiate, dunque non esattamente un esempio di zelo burocratico o di ottica improntata sul guadagno.
Era una donna con molta fantasia, ma senso pratico rasente lo zero, ragion per cui era totalmente inadatta per gestire inquilini indisponenti, rendiconti, cattivi pagatori e disastri sostanzialmente nucleari.
Levi si era trovato progressivamente sempre più invischiato nei suoi casini, a cominciare da quando era andato a picchiare uno stronzo che aveva quasi un anno d’affitto arretrato e si lamentava pure degli spifferi del fottutissimo bagno. Incazzato, irritato dal vedere Hanji a sua volta irritata, Levi un giorno era andato a suonargli la porta, il tizio gli aveva aperto e senza dire una parola Levi gli aveva assestato un pugno dritto in faccia, per poi prenderlo impietosamente a calci:
“Comincia a pagare, figlio di puttana, o il culo congelato mentre vai a cagare sarà l’ultimo dei tuoi problemi.”
“Levi, com’è che finisci sempre per parlare di cacca?” era stato tutto quello che, visto lo spettacolo, Hanji aveva commentato. Sì, nemmeno le reazioni di quest’ultima di fronte alla violenza erano decisamente normali.
Così, più o meno da quell’occasione era stata questione di... mesi, giorni? Levi nemmeno lo sapeva con certezza, fatto stava che lui si era ritrovato ad aiutare Hanji a gestire quella specie di condominio, creando un piano di ristrutturazioni e, soprattutto, pulizie come si doveva, perché le scale facevano schifo da quanto erano luride, i mancorrenti erano talmente saturi di germi da poter prendere fuoco e i vetri erano sostanzialmente un simulatore di nebbia dalla sporcizia accumulata in anni.
In cambio della precisa gestione, Hanji gli aveva offerto di condividere un appartamento un po’ troppo spazioso per lei; se all’inizio Levi aveva rifiutato categoricamente, con il tempo, dietro insistenza dell’amica e ben poco disposto a cercare qualcosa che non fosse una topaia puzzolente, Levi aveva deciso di concederle un’occasione di prova per capire se avrebbe dovuto pensare a come seppellire il cadavere della donna o, semplicemente, pensare di comprare un letto da ficcare nella stanza assegnatagli.
Ebbene, sorprendentemente, i pensieri di Levi erano stati dirottati verso la seconda delle possibilità perché Hanji, nonostante alcuni momenti d’invadenza, sapeva essere a suo modo riservata con una sorprendente empatia, in altri casi semplicemente si estraniava nei suoi deliri creativi. Ancora più spesso, loro due soffrivano d’insonnia cronica e si ritrovavano alle tre di notte a riguardare qualche vecchissima puntata di Doctor Who, mentre Hanji agitava un cacciavite fingendo che fosse un potentissimo Cacciavite Sonico.
Quella sera, però, Levi sentiva una stanchezza micidiale addosso, gli occhi infossati che si chiudevano e la voglia di gettarsi nel letto per non riemergerne fino al mattino seguente.
Con addosso una maglietta dotata della scritta I solo killed 39 titans and all I got was this loosy T-shirt e un paio di boxer neri, il traduttore si gettò di peso sul letto, schiacciando una guancia contro il cuscino.
Dilatò impercettibilmente le narici.

C’è puzza di fottutissimi noodles, arriva dalla cucina. Se non penso io a mettere via gli avanzi, né la mocciosa, né la quattrocchi si ricordano...
Cos’è che doveva ricordarsi? Levi smise di pensarci. Ebbe un’idea, prima di capitolare definitivamente: non aveva visto la spettacolare cometa che era passata quella sera nel cielo. Hanji gli aveva quasi rotto l’osso del collo per fargli alzare la testa, ma era stato comunque troppo tardi.
Non seppe perché, ma Levi ritenne di essersi perso qualcosa d’importante.
 

*

 

 Eren si era svegliato carico di buone intenzioni, con l’idea di farsi una bella colazione energetica a base di uova strapazzate e bacon, rassettare quella sorta di prototipo di bomba atomica che era la sua stanza, per poi concludere con una doccia di almeno un’ora in modo da sentirsi in colpa per l’ecosistema.
Aveva sentito suonare una sveglia e sussultò di colpo, perché partì alla riscossa il ritornello di Fluorescent Adolescent degli Artic Monkeys – che, per carità, li amava ma non ascoltava quella canzone da secoli. Eren si mise di scatto a sedere, spalancando gli occhi nella semioscurità mentre il suo cervello gli diceva di non ricordarsi di aver salvato quel brano, ma lo mise a tacere; forse aveva cambiato sveglia la sera prima e non se l’era ricordato.
A tentoni, mentre la musica continuava, cercò il cellulare. Rise, sull’onda di una crisi isterica, perché il comodino incasinatissimo con quell’affidabile pila di libri e fumetti su cui era solito posare delicati oggetti tecnologici era sparito, mentre la musica continuava a volume sufficientemente alto da poterla sentire entrargli nel cervello.
Allungò l’altra mano e finalmente scoprì che il comodino doveva essersi trasformato in una mensola quadrata, bassa, mangiandosi anche i fumetti nel frattempo visto che era sostanzialmente vuota eccetto un libro rilegato messo simmetricamente rispetto al lato. Ma quando mai Eren metteva le cose simmetricamente ordinate?
Eren afferrò il telefono e realizzò che doveva trattarsi di una chiamata e non una sveglia. Vide anche che erano le sette del mattino, infatti era strano: andava bene ogni buon proposito, ma svegliarsi a quell’ora era da suicidio.
Rimase però interdetto quando vide che era... Mikasa a chiamarlo. Non si sentivano da più o meno dalla fine del liceo, quando sia lui che Armin avevano seguito rispettivamente l’uno sua madre ed Eren i suoi genitori, lasciando Mikasa in balia dei propri parenti, quelli Innominabili di cui non parlava mai; purtroppo, l’ultima volta che si erano visti tutti e tre non era finita esattamente benissimo.
Dopo un istante Eren rispose. Notò anche uno sfondo dello schermo con una cabina azzurra – altra roba che non si ricordava minimamente di aver cambiato.
“Mikasa?”
Domandò aggrottando appena le sopracciglia. Dette un colpo di tosse, sentendo la propria voce più bassa del solito.
Si sarebbe aspettato quantomeno un Eren! Detto con un po’ di stupore e l’aggiunta di una frase schiva, com’era tipico del carattere silenzioso di Mikasa, invece l’unica risposta che ebbe fu un gelidissimo:
“Sto andando a lavoro, Kenny è ancora sverso nell’ingresso. Ho fatto il possibile per il vomito.”
Eren tacque.
Mmmh, non esattamente la conversazione che si sarebbe aspettato, insomma.
“Kenny?” domandò dopo un istante. Non sapeva se magari aveva difettato qualcosa nelle orecchie. Ma, sorprendentemente, non aveva mai sentito così bene. Si tastò dunque le orecchie, realizzando di non aver nemmeno messo l’apparecchio acustico.
Sentì benissimo anche un sospiro spazientito dall’altra parte:
“Mi stai prendendo in giro? Sì, Kenny, nostro zio, il primo stronzo a parimerito della famiglia Ackerman. È uscito con una tipa ed è rientrato in casa giusto per vomitare sul tappeto d’ingresso del condominio. L’ho lasciato lì, sono già in ritardo.”
“Kenny – ripeté Eren, perplesso – me ne avevi accennato insieme all’altro tizio, è lui il secondo stronzo? Insomma, Mikasa, sono passati anni, dopo tutto questo tempo mi chiami per parlarmi di tuo zio annegato nel vomito? Ok spezzare il ghiaccio, ma qui c’è decisamente qualcosa che mi sfugge.”
Dall’altra parte Mikasa tacque un istante.
Dopodiché replicò: “È per i noodles, vero?”
Sembrava irritata. Lei si sentiva irritata, questa era bella. Eren scattò in piedi – strano, si sentì... basso. Annusò l’aria, concedendo:
“Sì, c’è puzza di noodles, non è questo il...”
“Lo sapevo, tipico. Sai che c’è? La prossima volta la cucina lavatela da solo! Ci sentiamo, Levi.”
A Eren parve di udire un sussurato nano malefico, ma non ne fu certo perché la chiamata era stata brutalmente chiusa.
Però aveva sentito chiaramente un Levi. L’aveva chiamato Levi? Mikasa aveva bevuto? Alle sette del mattino era tragica anche per chi soffriva d’alcolismo, ma lei gli era sempre sembrata una donna ben più che responsabile.
Eren si passò una mano tra i capelli, scostandosi un ciuffo nero da davanti agli occhi, mentre contemplava una stanza ordinata, almeno quello era un pensiero in meno all’idea di dover gestire strambe telefonare e pulire pure camera che...
Un momento.
Da quando aveva i capelli neri?
E, soprattutto, da quando aveva una stanza ordinata? Si guardò attorno. Il cuore prese a battere più veloce, sgranò gli occhi, confuso. Quelli... quelli non erano i suoi oggetti, ora che li osservava attentamente: niente poster dei Kinky Talks, il suo gruppo preferito e sconosciuto a quegli sciocchi comuni mortali ignoranti di musica, niente bersaglio per le freccette con la faccia di Jean traforata, niente ulteriori fumetti e videogiochi sparsi.
Eren si toccò la faccia. La sentì più spigolosa, i capelli più lisci, poi abbassò lo sguardo e vide una maglia mai indossata, e più sotto dei boxer neri che non ricordava di aver indossato: suvvia, che senso aveva indossare la biancheria intima a letto?
Quando qualcuno entrò spalancando di botto la porta al grido euforico di:
“Levi! Lo stalliere e la ricca ereditiera! Hanno fatto sesso, ce l’ho fatta! Contro ogni mobile in arte povera disponibile!”
“Cazzo!” Urlò Eren, irritato e spaventato dal vedere entrare all’improvviso una tipa altissima con gli occhiali e la faccia da esaltata che ribatté:
“Sì, è fantastico vero? Sono entusiasta anch’io!”
 

*

 
C’era stato un tempo in cui Levi aveva pensato di possedere un notevole controllo sulla propria vita; certo, esistevano comunque degli imprevisti che lo costringevano a variare leggermente gli intenti prefissati, ma in un modo o nell’altro l’uomo era sempre riuscito a evitare il disastro totale e salvare la giornata.
Ecco, quella volta Levi ebbe la smentita di qualunque cosa detta di cui sopra.
Aprì gli occhi dopo aver faticato diversi istanti, come se le palpebre gli si fossero incollate sopra. Istintivamente dilatò le narici per cogliere ancora l’odore rivoltante dei residui di cibo del giorno prima, ma soprendentemente la puzza di noodles era stata sostituita a qualcosa che ricordava puzza di stanza d’adolescente fetido in abiti da universitario. Il Maligno.
Mikasa aveva tanti difetti, tra i quali essere un’universitaria, ma perlomeno non puzzava. Aprì gli occhi, sollevò le coperte e sentì un fastidio immediato, procurato da un freddo alle palle che rappresentava l’ultima ciliegina sulla torta di quella mattinata già cominciata di merda.
Si alzò a sedere, stropiacciandosi lentamente gli occhi, per poi abbassare lo sguardo e rimanere pietrificato.
Realizzò due cose, quella mattina: prima di tutto, di essere nudo. Niente maglietta comprata online, niente boxer neri, nulla. Seconda cosa e, possibilmente ancora più sconvolgente, il cazzo... non era il suo. Proprio zero, nada, errore di sistema.
Scattò in piedi, rivoltando le coperte, rigirandosi con le natiche all’aria e i gioielli di famiglia, per poi guardarsi attorno braccato: c’era caos, caos e disordine. E... polvere. Cristo Santissimo la vedeva, sopra ogni scaffale pieno di dispense, fumetti, fotocopie, libri e altri testi imprestati dalla biblioteca come ogni universitario pezzente sembrava fare d’abitudine. Per non parlare di poster di tizi sconosciuti, una foto trapassata da freccette in plastica e videogiochi vari.
Fottuto, era fottuto.
Afferrò il lenzuolo, se lo mise addosso come un mantello e aprì la finestra, prima di morire soffocato, poi pensò, guardando la porta della stanza: Hanji. Deve essere là fuori nella cucina a cercare di preparare un caffè filtrato che sa di acqua sporca, ma Dio solo sa quanto mi vada bene anche la sua brodaglia schifosa in questo momento.
Aprì la porta, incurante di essere sostanzialmente un incrocio tra un maniaco e un cos player fallito di un antico romano.
Dall’altra parte, invece, il brillante e gentile Armin Artlet fece per sorridere nel sentire Eren già in piedi e lo cominciò a salutare con un:
“Ciao, Eren, che bello ved...”
Si bloccò. Anche l’altro si arrestò, con una mano ancora sulla maniglia.
Armin guardò un po’ spiazzato Eren con i capelli come sempre disordinati, sulle spalle le lenzuola, un’aria affannata e tutte le sue nudità allegramente all’aria. Non che Armin non avesse avuto occasione di vederlo nudo in quegli anni di convivenza, ma sicuramente mai con un prototipo barbone di mantello, specie di prima mattina, in cui Eren non si alzava nemmeno se gli avessero regalato un biglietto al concerto di una delle band sconosciute che piacevano soltanto a lui.
Levi, dall’altra parte, aveva visto un tizio biondo, coi capelli che ricordavano un incrocio tra He Man e un fungo, lo sguardo fastidiosamente pacifista e le labbra che avevano detto qualcosa ma lui aveva colto appena un suono leggero. La cosa che lo inquietò è che gli ricordava Erwin, e sapeva, poteva giurarci sul suo set di panni elettrostatici, c’era un motivo più che valido per quella somiglianza, ma in quel momento i suoi neuroni si connettevano a rallentatore.
“Che hai detto? Alza la voce!” ribattè dunque, per poi guardarsi attorno. Un divano sfondato, mobili recuperati forse alla discarica, poster da hypster di eventi musicali e film pieni di denunce sociali, pareti dalla tappezzeria imbarazzante mai cambiata nel corso dei secoli. La camera universitaria era tramutata nel salotto universitario. Levi sentì un moto di disgusto salirgli alla bocca dello stomaco.
Armin sospirò, alzando la voce: “Eren! L’apparecchio acustico! Hai dimenticato di metterlo?”
Levi lo fissò, smettendo di guardare la pila di piatti sporchi con residui di cibo precotto e si girò verso il ragazzetto biondo. Aveva parlato a rallentatore ma se non altro era riuscito a capire tutto, compreso un nome mai sentito prima.
“Eren? Chi cazzo è Eren?” gli era uscita di getto quella domanda, la testa che aveva cominciato a vorticargli per quell’insieme di cose mai viste, né sperimentate.
Armin cercò di non guardare l’amico come se stesse osservando una persona con evidenti problemi mentali, ma non fu certo di esserci riuscito. Con tutto il tatto possibile disse sempre a voce alta, mettendo su un sorriso conciliante:
“Dai, non scherzare. Jaeger, Eren Jaeger. Sei tu, su, fingere una crisi d’identità non ti aiuterà denunciare Brzenska per sfruttamento sul lavoro.”
Levi lo fissò, senza battere ciglio. Deglutì un solo istante, poi lentamente annuì, due volte, cercando di riprendere il controllo di se stesso o, perlomeno, di quanto era rimasto di sé.
“Il bagno. Dov’è?” domandò asciutto.
Armin aveva conosciuto Eren sotto molte sfaccettature bizzarre, ma se non altro era sempre stato estremamente discreto e autonomo nell’espletare le proprie funzioni corporali. Però non volle questionare e indicò la porta al fondo del corridoio:
“Laggiù.”
Lo vide annuire, molto più serio del solito, e dirigersi verso il bagno.
Levi dovette impiegare un istante per calibrare piede e cervello, rendendosi conto che, oltre a non sentire un cazzo, si avvertiva sbilanciato e fastidiosamente più in alto del normale. Non ebbe tempo per pensarci. Con ancora indosso il lenzuolo spalancò la porta del bagno, la richiuse con un gesto secco e si fiondò verso lo specchio.
Rimase paralizzato, con le mani inchiodate al lavandino – che, per giunta, aveva delle incrostazioni di dentifricio risalenti probabilmente al pleistocene – ma Levi era impegnato a vedere altro per notare i residui bellici di tardo adolescenti fuori controllo.
Aprì appena la bocca, poi la richiuse.
Non vide riflessi nello specchio i propri occhi un po’ affossati nelle occhiaie, né i capelli neri che tagliava alla stessa maniera da anni: ricambiavano il suo sguardo, infatti, due occhi verdi decisamente più grandi e vitali dei propri, contornati da capelli castani spettinati e sopracciglia piene.
Si sfiorò lo zigomo maggiormente morbido, con un velato accenno di barba, e lasciò lì le dita, la testa che gli vorticava, la salivazione assente. Non aveva mai visto nulla di più bello in quegli ultimi anni, anche se faticò a sentire la propria voce quando mormorò:
“Eren. Io sono... te.

Visti tutti i casini che sarebbero successi da lì in avanti, quella fu l’ultima volta in cui Levi pensò davvero ci fosse qualcosa di bello in tutto quel gigantesco, spropositato, ammasso di colossali sfighe.

Sproloqui di una zucca

Ebbene sì, dopo eoni finalmente sono tornata a scrivere sul fandom di AOT. In realtà avevo in testa questa storia da mesi e l'ho scritta nei vari ritagli di tempo. Ora è giunta quasi alla fine e, siccome avevo bisogno di qualcosa di leggero e carico d'ironia, ho pensato: pubblichiamo! Quindi beccatevi questo racconto (sarà di 11/12 capitoli credo) che spero vi farà fare qualche risata, anche se ogni tanto ci saranno delle punte di angst perché, suvvia, altrimenti non sarei io XD Ma comunque il tutto sempre alternato a eventi un po' bizzarri, inseguimenti, e via dicendo; nonostante il filo ironico, la storia non sarà mai demenziale e, soprattutto, cercherò sempre di rendere IC al massimo ogni personaggio che vi prenderà parte.

Due ultimi punti prima di salutarvi:

1. L'idea dello scambio di corpi è superusata: negli anime, nella letteratura, nei film e via dicendo. Tanti saluti. Posto ciò, lo svolgimento di trama sarà totalmente mio personale e, spero, con imprevisti divertenti/dinamici.

2. Ogni capitolo avrà il titolo di una canzone (questo, per esempio, è degli Artic Monkeys), titolo sul quale potrete cliccare per sentire la canzone stessa e avere un po' l'idea del ritmo. Cercherò sempre in ogni capitolo di mettere un riferimento a tale suddetta canzone scelta, perché mi diverto a mettere richiami vezzosi, e perché in un certo senso il titolo richiama il contenuto del capitolo stesso.

Giunti fin qui, vi ringrazio per aver letto. Come sempre, recensioni, opinioni e quant'altro sono ben gradite. Alla prossima!

   
 
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