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Autore: visbs88    15/03/2019    2 recensioni
Gli uomini in nero vennero con monete. Tante, tantissime, ben tre sacchi gonfi e pieni e tintinnanti verso cui le mani scheletriche di suo padre si tesero in un gesto disperato. Teresa sentì la vita e il calore rifluirle nelle vene, una scintilla di speranza, un fuoco che la sconvolse solo di più nel momento in cui le si congelò nello stomaco.
Perché chi dava monete voleva bambole. E gli uomini in nero stavano indicando lei.

[Scritta per il COWT #9 di Lande di Fandom]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Teresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Iniziativa: COWT #9 di Lande di Fandom, con il prompt Tristezza del team Pmviira.

 

 

 

Chi dà monete, vuole bambole.

 

 

 

 

La cittadina in cui Teresa viveva non era né molto grande, né molto piccola. Però, tra tutte le case, la sua era di certo la più grande e la più bella; e, secondo lei, era anche migliore di tutte quelle che aveva visto nelle gite con papà, che ogni tanto la portava a cavallo o nella loro piccola carrozza fino alla città più vicina, ad appena mezza giornata di viaggio.

Sapeva che gli altri bambini passavano davanti ai suoi cancelli e si fermavano a guardare ammirati, come se il suo fosse un giardino proibito, o un castello. A volte si divertiva a sconcertarli ancora di più, rivelandosi da dietro le tende come un’apparizione misteriosa, che faceva l’occhiolino, un cenno con la mano e un sorrisetto prima di scomparire di nuovo dentro, ridacchiando.

In verità, con alcuni aveva parlato e perfino giocato, un po’ di tempo prima; si era divertita a correre per scappare dal malcapitato che veniva scelto per fare lo Yoma e si era sentita lusingata e compiaciuta dal fatto che non avessero mai assegnato quel ruolo a lei; qualche maschietto le aveva regalato, tutto rosso, dei fiori, deliziandola; ma si era anche ben presto annoiata: nessuno aveva letto libri come lei, e nessuna bambina aveva bambole belle come le sue.

Ed era a loro che era sempre tornata, nel suo bel solaio: alle bambole riposte con cura in un baule, preziosi regali di papà. Aveva visto come funzionava, al mercato o nei negozi: papà porgeva le monete e un altro adulto gli dava in cambio un grazioso esserino di legno o di pezza, con occhi grandi e capelli di lana del colore che lei voleva e un vestitino rifinito di tutto punto, con merletti e bottoni. Le pareva semplice e si domandava come mai anche gli altri papà non facessero così. Quando l’aveva chiesto ad alta voce, la mamma le aveva accarezzato la testa con affetto, dicendo che loro erano fortunati ad avere le monete, che erano rare, e lei doveva impararlo. Teresa aveva stretto le labbra, ancora un po’ perplessa, ma per quel giorno aveva deciso di accontentarsi. Con i libri e con gli anni, avrebbe imparato di più e magari aiutato gli altri bambini ad avere più monete.

Nella sua cameretta grande e ariosa aveva anche, insieme al letto, agli armadi coi vestiti e ai giocattoli che di tanto in tanto lasciava in giro, un mobile di legno scuro e lucido con una seggiolina abbinata e uno specchio ampio e alto sopra: ogni tanto, seduta lì davanti, si divertiva a trattarsi un po’ da bambola lei stessa. Amava i suoi capelli, soprattutto: erano neri e lucenti, mossi in belle onde che a volte, nelle giornate particolarmente belle, si trasformavano in veri ricci. La mamma non le permetteva di farli crescere molto oltre le sue spalle, trovandolo poco igienico e pratico, ma le andavano bene anche così: poteva comunque raccoglierli sulla nuca o in cima alla testa; farci dei codini, o piccole trecce, come aveva imparato con quelli delle bambole. Ma i suoi erano più morbidi, più malleabili, più vivi – adorava toccarli e maneggiarli e agghindarli, tantissimo. Una volta, aveva rubato un po’ del lucidalabbra della mamma e se l’era messo, insieme al suo vestito preferito, quello rosso scuro con lacci e fiocchi dorati: guardandosi allo specchio, i grandi occhi neri come carbone spalancati dalla meraviglia, un sorriso timido ed entusiasta insieme sul visetto e i capelli raccolti nella sua acconciatura migliore, si era sentita a un passo da poter spiccare il volo.

Era certa che la vita non avrebbe mai potuto deluderla.

 

 

Era normale che, come papà dava agli altri monete per avere qualcosa, avvenisse anche il contrario – comprare e vendere, Teresa aveva imparato i due verbi. Non le era mai parso nulla di straordinario, al di là di chiedersi chi davvero decidesse il valore delle cose. Tuttavia, a partire da un certo giorno di pioggia e temporale, in cui la mamma pianse molto chiusa in camera e papà non si fece vedere, vendere divenne una parola usata molto più di frequente, in casa. Troppo.

All’inizio, Teresa cercò di non farci granché caso: in cima al suo solaio, con lo specchio, i suoi bei capelli e le bambole, riusciva a distrarsi, anche se non c’era più molto olio per le lampade grazie alle quali, di solito, leggeva i suoi libri alla sera.

Ma un giorno papà, gli occhi cerchiati di scuro che si rifiutavano di incrociare i suoi, si diresse verso il baule delle bambole e ne prese una di quelle per cui aveva dato più monete, di legno, con trecce rosse che le aveva fatto lei e un abitino azzurro. Teresa provò l’impulso di protestare e aprì la bocca, ma alla vista della tristezza sul viso di papà la richiuse e rimase immobile, bloccata sulla sua seggiolina, il cuore che le batteva forte nel petto, seguendolo solo con lo sguardo, implorando risposte che non arrivarono.

Alla fine riuscì a muoversi, a scendere di soppiatto le scale. Nell’ingresso c’era un uomo, che diede a papà monete e ricevette la bambola, portandosela via.

Le si annodò lo stomaco: era la prima volta che qualcosa del genere le succedeva. Era troppo matura per fare i capricci, e troppo intelligente per non capire che doveva star succedendo qualcosa di importante e grave, se papà pensava che quella fosse la soluzione giusta. Ma conosceva troppo poco del mondo per trovare una soluzione al mistero tutto intero.

Quella sera, pianse un po’ contro il cuscino, preda di una malinconia che non comprendeva del tutto e che aveva poco a che fare con quella bambola – la usava poco, comunque. Alla fine, si disse di doversi calmare: che tutto sarebbe andato bene, perché ci avrebbero pensato mamma e papà.

 

 

Alla prima bambola seguirono tutte le altre. E poi lo specchio, i suoi nastri, i giocattoli e i libri. Il rito era sempre lo stesso: gli uomini davano monete, suo padre gli oggetti. Anche i gioielli della mamma fecero quella fine; il vaso che Teresa aveva sempre visto in salotto, i quadri alle pareti, le posate più scintillanti, le tazzine per il tè. I suoi genitori provavano a sorriderle, a dirle che era tutto momentaneo e che sarebbe passato, ma in verità Teresa sentiva le loro lacrime sui suoi capelli quando la abbracciavano in silenzio. Non osava protestare, sicura che li avrebbe solo fatti soffrire di più; decideva di credere alle loro flebili parole, per quanto passasse le giornate seduta nel solaio a guardare fuori dalla finestra e ad annoiarsi, turbata e nervosa, senza trovare più gioia nelle piccole cose come prima. Vedeva i suoi occhi neri spegnersi nel vetro. Aveva provato a correre nei prati lì vicino, a esplorare il boschetto, ma gli altri bambini si erano tenuti a distanza, chi con ghigni malevoli chi con aria preoccupata e intimorita; e, in ogni caso, lei continuava sempre a girarsi e a guardare verso casa, l’unica cosa che le importasse, confusa, angosciata, senza più curarsi del cielo azzurro o del canto dei fringuelli.

Alla fine, però, anche la casa le fu tolta.

La mamma era vestita di nero, a lutto, quando salirono insieme sulla loro piccola carrozza, che forse papà non aveva dato via per monete proprio in previsione di quel momento. Aveva scambiato il loro meraviglioso cavallo marrone per un altro grigiastro e dall’aria più debole, e qualche moneta in più. Se ne andarono dalla cittadina senza dire una parola e senza salutare nessuno; anzi, Teresa quasi credeva che fosse una gita, un viaggio momentaneo, e non dedicò davvero un ultimo sguardo alla dimora della sua infanzia, con il suo giardino, la piccola fontana, il suo solaio e le stanze un tempo piene di risate. D’altronde, l’avrebbe trovata grigia e priva dei fiori che di solito la rallegravano; quindi, forse, fu meglio così.

 

 

Il cavallo e la carrozza svanirono per procurare il cibo e le coperte. Teresa lo accettò di buon grado, perché stava scoprendo cosa fossero la fame, il freddo e la paura.

I villaggi li scacciavano, per quanto fossero deboli e stanchi. Anziani, donne, uomini e bambini, tutti stringevano gli occhi e storcevano il naso alla loro vista; c’era chi osava bisbigliare Yoma a voce quasi udibile, ma la maggior parte delle volte si limitavano solo tutti a pensarlo – e anche quello Teresa lo sentiva, lo percepiva nei loro sguardi cattivi, sospettosi e crudeli. Odiavano soprattutto lei, si rese conto, in qualche modo più diffidenti nei confronti di un’apparenza innocente che più di ogni altra avrebbe potuto trarre in inganno.

Ogni tanto, c’era qualche persona gentile, che dava loro un tetto, un fuoco e della zuppa. Ma ben presto esauriva le sue scarne risorse, così gentilmente donate; oppure, i compaesani insistevano perché scacciasse gli sconosciuti, tutti preda di un terrore cieco e ottuso, e anche i più buoni dovevano piegarsi ai malvagi, se non volevano diventare reietti a propria volta.

Arrivò l’inverno, e non era mai stato così gelido come sotto alla pioggia sferzante e alla neve che picchiavano sul suo misero cappuccio e in verità parevano penetrarle fino alle ossa, in un corpicino che si faceva più magro a vista d’occhio, come i volti di mamma e papà. Dormivano rannicchiati insieme, tutti e tre, cercando di scaldarsi come potevano; a volte, Teresa chiudeva gli occhi pensando di non volerli riaprire mai più fino a che non fosse tornato a splendere il sole. Sarebbe stato tutto più facile.

 

 

In seguito, si rese conto di essere arrivata davvero vicina a una morte così misera: aveva avuto i giorni contati, fino a che gli uomini in nero non erano apparsi.

Li videro arrivare da lontano e sgranarono tutti e tre gli occhi stanchi, perché c’era una Claymore ad accompagnarli. Bella, alta, bianchissima, con un’armatura scintillante e l’enorme spada sulla schiena. Li videro confabulare, e alla fine la guerriera annuì, prima di dare le spalle a tutti loro e andarsene. Doveva averli assicurati che non fossero Yoma – comprese molto tempo dopo.

Gli uomini in nero vennero con monete. Tante, tantissime, ben tre sacchi gonfi e pieni e tintinnanti verso cui le mani scheletriche di suo padre si tesero in un gesto disperato. Teresa sentì la vita e il calore rifluirle nelle vene, una scintilla di speranza, un fuoco che la sconvolse solo di più nel momento in cui le si congelò nello stomaco.

Perché chi dava monete voleva bambole. E gli uomini in nero stavano indicando lei.

La mamma emise un lamento straziante e le strinse i polsi fino a farle male; papà cadde in ginocchio e si portò le mani al viso, poi iniziò a implorare. Teresa aveva paura, tremava dalla testa ai piedi, ma sapeva che i suoi genitori non avrebbero mai fatto una cosa simile. Non aveva mai visto umani essere scambiati per monete, non era possibile – e lei non voleva lasciarli, non importava che riuscissero a malapena a nutrirla.

Si fidò di loro fino all’ultimo istante, rimanendo in silenzio a occhi sgranati come un cervo di fronte al cacciatore; ma, alla fine, papà prese le monete e un uomo in nero prese lei.

Fu solo allora che Teresa gridò. Provò a dimenarsi, a mordere e a scalciare; scoppiò a piangere, anche se stava iniziando a piovere e non faceva molta differenza. Si tese verso la mamma, pregando per un bacio, uno solo, perché tutto fosse un incubo e stesse per finire, doveva essere così, come nei suoi libri preferiti… vedeva solo grigio, e dolore, e ombre, e non ebbe nemmeno il conforto di un’ultima carezza di papà.

Salita sul carro nero degli uomini in nero, le fu premuto un panno dal sapore acre sulla bocca e sul naso, e ogni forza le abbandonò il corpo, perfino quella di soffrire.

 

 

Riaprì gli occhi a fatica, lottando contro i raggi del sole che piovevano dalle grate sul soffitto. La abbagliavano, bruciando; e questo prima ancora che si accorgesse che era il suo ventre a urlare.

Si agitò debolmente, spostando le braccia quel poco che le bastò per sentire il freddo della pietra là dove il suo corpo non l’aveva scaldata. Era nuda, si rese conto con un ansito; nuda, distesa sulla schiena, e con un dolore all’addome che la teneva schiacciata in basso come un macigno.

Sentì gli occhi riempirlesi di lacrime, troppo confusa, ancora, per capire il perché. Tremava. Strinse forte i denti, soffocando un grido, e con quella smorfia rabbiosa si costrinse ad alzarsi a sedere, in uno strano impeto di terrore e determinazione insieme.

Abbassò gli occhi sul suo corpo e li sgranò.

Smise di provare alcunché. Né meraviglia, né orrore, né disperazione. Ciò che vedeva su di sé era così nuovo e irreale da lasciarla del tutto incapace di reagire, se non sfiorandosi debolmente con le dita qualche punto in cui i fili che la tenevano insieme le affondavano nella carne. Formulò uno strano pensiero: non aveva più un ombelico, per via di quella cicatrice, di quel taglio profondo e purulento che le partiva tra le gambe e le arrivava fino quasi alla gola, passando tra due accenni di seni acerbi e tra le sue costole ancora visibili. La mamma le aveva detto che l’ombelico era il segno che una volta Teresa era stata dentro di lei.

La mamma.

Le sue budella ebbero uno spasmo, come se stessero cercando di riversarsi fuori dalla cicatrice. Fu travolta dai conati, e si sentiva come se stesse cercando di rigettare il suo stomaco intero; si piegò giù dal tavolo e vomitò un liquido giallo e disgustoso e poi tracce di sangue, rosso e viola – viola? Strinse le mani alla pietra in modo spasmodico, rendendosi conto che c’era qualcosa che la masticava da dentro, e un’energia mai provata che le scorreva nelle vene e gliele faceva ingrossare nelle braccine ossute…

Un istinto primordiale le ordinò di smettere di ringhiare. Il suo respiro le si risucchiò in gola e Teresa si alzò a sedere di scatto, sconvolta, un fischio sibilante nelle orecchie, ma neppure il sentore di una goccia di sudore sulla schiena.

Il dolore nel suo stomaco retrocesse, ma la memoria le si era ormai schiarita del tutto, e adesso era il cuore a spezzarlesi dentro.

Era stata l’Organizzazione. Quello era ciò che succedeva alle Claymore, il piccolo mistero che con tanta ingenuità si era posta in qualche serata noiosa, dandosi la sbrigativa spiegazione che forse le guerriere si allenavano per diventare mezze Yoma, o che forse li mangiavano; ma no: erano gli Yoma a mangiare loro. Da dentro.

Le nuove lacrime le caddero sulle cosce, quasi senza nessun singhiozzo. La sua pelle era così bianca, alla luce di quel sole che non la scaldava affatto. Bianca come le perle della mamma, e come i vestiti che più le piacevano; bianca come non era mai stata…

Sbatté le palpebre, poi saltò giù dal tavolo, piena di un nuovo impeto di disperazione che fece dimenticare al suo corpo troppo magro la debolezza. Il suo sguardo saettò verso un alto specchio appoggiato in un angolo, accanto a un tavolo con attrezzi orripilanti sporchi di sangue che oltrepassò senza degnarli neppure d’attenzione.

Fu solo incrociando i propri occhi in quello specchio che Teresa capì davvero. Non i suoi occhi neri e vivaci, dalle ciglia scure e dalla luce profonda, ma due superfici d’argento quasi vuote, come monete sbeccate; avevano la stessa forma, ma non c’era più nulla di lei in loro, né nei suoi capelli – i suoi meravigliosi capelli scuri e lucidi avevano perso ogni traccia di colore, spegnendosi in un biondo latteo sporco di sudore, pallide onde che le sfioravano le orecchie come fili di paglia già mietuti.

Una bambola.

Le sue dita sottili e bianchissime si tesero verso il vetro e verso una bambola, proprio come tutte quelle che lei aveva maneggiato, cambiato, manipolato, scambiando vestiti e colori, scegliendo di volta in volta capelli e forme diverse. Una bambola che l’Organizzazione aveva preso e modificato a suo piacere, svuotandola e lasciando solo il rosso della cicatrice a decorare il suo spettro.

Si avvicinò a se stessa, a questa nuova versione del giocattolo privo di volontà che i suoi genitori l’avevano resa. Se il suo respiro non avesse appannato lo specchio, non si sarebbe creduta viva. Toccò quei capelli così chiari nel vetro, senza osare portarseli davanti ai suoi nuovi occhi d’argento per vederli anche nella realtà. Forse, fu solo allora che finalmente pianse davvero, un pianto né gridato né soffocato dagli spasmi del dolore; un pianto del cuore, una malinconia straziante, un disperato senso di solitudine che nemmeno premersi contro la sconosciuta nello specchio alleviava.

Aveva perso le bambole, i libri, i vestiti, la casa e l’affetto molto, troppo tempo prima, ma solo allora, quando fu certa che non li avrebbe riavuti mai più, capì quanto avevano significato per lei. Capì che non era più umana, che era tutto ormai un sogno perduto; capì quanto era stata stupidamente felice, il vero valore di tutte quelle gioie, che stavano già diventando simboli di un passato perduto. I capelli che aveva tanto amato e che adesso non esistevano più erano una prova più schiacciante dei suoi occhi, della cicatrice, del luogo orribile in cui era rinchiusa, dell’essenza demoniaca che si sentiva in gola. Li pianse come avrebbe pianto la morte di mamma e papà; e poi capì che stava davvero piangendo anche loro, insieme a se stessa.

 

 

Gli uomini in nero arrivarono mormorando cupi tra loro. Uno, abbassandosi il cappuccio con un sorriso orribile che voleva essere rassicurante, le disse che si stava comportando bene. Un altro borbottò che era tutto un errore: che le altre non facevano così perché non capivano, e lei capiva troppo, andava eliminata. L’avevano presa troppo grande, suggerì il terzo; in fondo alla sala, il nuovo udito troppo acuto di Teresa li udì sussurrare che forse non avrebbe voluto combattere gli Yoma, non essendo motivata da nessun odio verso di loro.

Li lasciò parlare. Annuì molte volte, quando le spiegarono quali sarebbero stati il suo addestramento e i suoi compiti; che doveva essere paziente, che la trasformazione sarebbe durata ancora un po’. Non parlò, né quasi si mosse dallo specchio.

Fu docile, almeno allora. Perché in parte avevano ragione: capiva troppo; o almeno, sapeva cosa c’era da aspettarsi da una bambola. Che si facesse toccare, sconvolgere, usare, senza mai emettere un lamento né disobbedire.

Ma su altro si sbagliavano: odiava, certo che odiava. Odiava quegli occhi d’argento che si ritrovò a fissare, vitrei, e allo stesso tempo carichi di una rabbia che poteva vedere solo lei, lei che aveva conosciuto le iridi nere e gioiose che loro avevano rubato. Odiava il fantoccio che era diventata, odiava ogni centimetro della sua pelle incolore e perfino le sue labbra sbiadite.

Le dissero che, in fondo, le avevano salvato la vita; sì, poteva accettarlo e crederci, e non odiare chi l’aveva tradita.

Ma più si guardava, annullando le loro voci a uno sciocco ronzio, più la sua determinazione cresceva: non sarebbe rimasta quella bambola per sempre, anche se avrebbe fatto in modo che non se ne accorgessero. Era la sua unica vendetta, e forse non valeva nulla; forse l’avrebbero spezzata, o uccisa molto in fretta.

Ma lo Yoma dentro di lei udì la sua promessa.

 

 

Le notti della trasformazione passarono buie, dolorose e solitarie. Non aveva compagne di cella e le sofferenze lancinanti nel suo ventre se le lenì da sé, rannicchiandosi su se stessa e stringendo i denti più che poteva per non gemere; non funzionò sempre, ma almeno riuscì a non versare più lacrime. Inoltre, era fin troppo conscia del fatto che tutto quel tormento non la stava indebolendo: non era lui ad affievolirsi, di giorno in giorno, ma lei a diventare un mostro, e dunque abbastanza forte da sopprimerlo, percependone solo una vaga eco nelle vene. Era un potere aberrante, disgustoso e talvolta schiacciante; dal momento che non poteva rigettarlo senza morire, l’avrebbe usato.

Percepì i piccoli fuochi delle altre bambine, al di là delle pareti di pietra, già dalle prime nottate insonni. Flebili, come se sempre sul punto di spegnersi; qualche picco di scintille e poi un tremolio instabile. Flussi più potenti di quell’energia esterna la colpirono come uno schiaffo in faccia quando per la prima volta fu condotta nel cortile degli allenamenti: una bella casa di bambole, si disse, tutte addobbate dei colori spenti che i loro padroni esigevano, e tutte percorse da rivoli di potere che la rendevano troppo consapevole della loro presenza, dei loro movimenti, dei loro passi e dei deboli fendenti di prova mentre si trastullavano per le prime volte con spade quasi più grandi di loro.

Non parlò a nessuno. Le sue intenzioni, all’inizio, erano di comportarsi con diligenza e applicarsi al massimo, da bravo pupazzetto; ed era facile, troppo facile disarmare le altre, gettarle a terra con un calcio ed evitare colpi di cui, anche se con poca chiarezza, intuiva l’arrivo con qualche secondo di anticipo. Era più veloce di loro. Alcune cominciarono a piangere, o a lamentarsi, e fu allora che Teresa si accorse che gli uomini in nero la fissavano, immobili, al più sussurrando tra loro.

Quello andava contro i suoi piani: si stava facendo notare troppo. Aspettò qualche minuto, scelse una ragazzina la cui energia pulsava un po’ più forte delle altre e si lasciò colpire al fianco dalla spada smussata, piombando a terra, nella polvere. Qualcuna ridacchiò, altre sospirarono di sollievo, ma Teresa era impegnata solo a sbirciare da terra gli uomini dell’Organizzazione: alcuni dei quali alzarono le spalle e se ne andarono.

Nascondendosi un po’ tra i suoi odiati capelli biondi, si concesse un sorrisetto. Forse aveva trovato la giusta strada.

 

 

Arrivò al punto da saper controllare la propria forza abbastanza da sfruttarla per piegare le sbarre della cella, finché non si fu formato un varco largo a sufficienza per farla passare. Le salì il cuore in gola dalla gioia: senza esitare, ma guardandosi attorno con attenzione, scivolò fuori.

Era piccola, silenziosa, insignificante. Aveva tenuto d’occhio gli spostamenti delle guardie e, anche se non poteva conoscerli a memoria, li indovinò. Si appiattì contro i muri, scivolò nei corridoi più bui, attraversò i cortili più in fretta che poté e infine, con un balzo, fu fuori dalla fortezza.

Corse, corse a perdifiato verso la foresta. Era a piedi nudi e molto presto scoppiò a ridere per il solletico dell’erba tra le dita, incurante del pungere dei sassi; c’erano anche dei fiori coperti di rugiada, il terreno era in declivio e alla fine, dopo aver spalancato le braccia per sentire tutta la potenza dell’aria su di sé, si lasciò cadere e rotolare. La terra le finì in bocca e nelle narici, ma non le importava: si fermò sulla schiena, ansimando forte con un gran sorriso, fissando il cielo violaceo dell’alba sopra di lei.

Ce l’aveva fatta.

Chiuse gli occhi per un momento, uno solo, il minimo che le serviva per assaporare la gioia.

Sapeva che i cambiamenti che avevano impresso in lei erano irreversibili: questo la rendeva una bambola rotta, immodificabile. Ma cosa importava, dal momento che non aveva padroni? Avrebbe cercato mamma e papà, e loro l’avrebbe riaccolta malgrado tutto. Era il suo unico piano e non sapeva da dove iniziare a cercare; si accontentò, per cominciare, di alzarsi in piedi e di inoltrarsi infine nel bosco.

Percorse un buon tratto di strada prima di percepire il primo Yoki sconosciuto. I suoi nervi si tesero, colmi di una sensazione del tutto nuova: qualcosa che le parlava come le sue compagne, ma che non aveva nulla di umano. Pervadeva la creatura che caracollava tra gli alberi in modo più totale e viscerale: confuso, violento, un potere più antico del suo, che lei non aveva armi per affrontare se non quella sua conoscenza. Doveva evitarlo, pensò, e così si impegnò a fare.

Ma l’Organizzazione aveva un vantaggio su di lei. Gli uomini in nero erano solo questo: uomini.

La deviazione la portò a trovarsi circondata, se ne rese conto troppo tardi grazie ai rumori e agli odori. Forse poteva correre, correre a perdifiato usando tutta la forza che poteva imprimere nelle sue gambe… ma avrebbero usato una guerriera adulta per inseguirla, forse? Era un rischio che non poteva permettersi. Si maledisse, si odiò ancora di più per la propria ingenuità e mancanza di cautela, ma lasciò che la trovassero, che la buttassero a terra con un ceffone, che la riportassero di peso alla fortezza e che lì la chiudessero in un buco oscuro senza sbarre né finestre.

Ma cercò di pensare a cosa aveva guadagnato: avrebbe potuto essere più sveglia e più veloce, e questo loro non lo sapevano. La sottovalutavano ancora, sperava; prima o poi l’avrebbero rimessa in cella e lei li avrebbe ingannati di nuovo. Si aggrappò con tutta se stessa a quella speranza.

 

 

Ritentò e fallì altre due, tre, quattro volte. Incontrò qualche essere umano: un paio si allontanarono da lei con una smorfia disgustata, e d’altra parte Teresa si rifiutò di implorarli; un gruppetto di tre, con un cavallo e un carro, fu più compassionevole e si offrì di darle un passaggio per andare più veloce. Accettò, ma significò solo essere individuata più in fretta, quindi si ripromise di non farlo mai più. Nella penultima fuga, si spinse così lontano da incontrare una guerriera misteriosa con una cicatrice sull’occhio sinistro; si era fermata per domandarle di aiutarla, dopo tutto l’affanno che aveva passato a evitare gli Yoma e uccidendone un paio con l’astuzia o a mani nude, ma era stato solo l’ennesimo errore che aveva riportato gli uomini in nero da lei. L’ultima volta, incappò in mostri troppo veloci, intelligenti e potenti, i primi che le fecero provare paura, che le parlarono sghignazzando di quanto sperassero che non fosse ancora troppo corrotta e dunque saporita come un’umana. Avevano bocche meno sbavanti e corpi più belli di quelli degli Yoma normali, ma proprio per questo il loro sguardo le aveva ghiacciato il sangue nelle vene. L’unico modo per uscirne viva fu tornare ad avvicinarsi all’Organizzazione, ripresentandosi quasi alla loro porta con la coda tra le gambe.

E, a poco a poco, cominciò a sedimentarsi in lei la verità: chi pagava possedeva, e vie di scampo non ce n’erano. L’avrebbero inseguita fino in capo al mondo, per riportarla da loro o ucciderla; l’aveva intuito molto prima che un uomo dai modi affabili, con il naso appuntito, strani occhiali e un cappello glielo spiegasse. Non poteva più sperare di mescolarsi agli umani. Non l’avevano già rigettata molto prima che l’Organizzazione arrivasse, le chiese lui? Non aveva già perso ogni cosa? Dove stava cercando di andare?

C’erano pochi specchi, nella fortezza, ma Teresa ci si avvicinava, quando poteva. Fissava i suoi capelli e i suoi occhi e si sforzava di aggrapparsi al nero così caldo che li aveva tinti un tempo, ma diventava sempre più difficile. Era quel guscio bianco e argento, ormai, ci si riconosceva; oh, non era così stupida da farsi raggirare, da non sapere che gli esecutori materiali della sua rovina erano solo gli uomini dell’Organizzazione. Ma il rimpianto, il rimpianto era così forte da avvelenarle il sangue già sporco di fluidi mostruosi. L’invidia, il bisogno di riavere una vita normale, tranquilla, anche molto più povera di quella che aveva avuto, ma almeno umana. Forse poteva scordarsi la sua vecchia immagine, ma il calore dei giochi e della spensieratezza non si sarebbe mai esiliato dal suo cuore; si sarebbe chiuso in un cristallo di ghiaccio, abbastanza freddo da non farle male, abbastanza tagliente da ricordarle la sua promessa di vivere secondo le proprie regole a sfregio di chi voleva controllarla.

L’avrebbe lasciato a sanguinare fino a che non si fosse essiccato; a quel punto, sarebbe stato vuoto, ma inestirpabile.

 

 

Quando ritornò su quel prato di fiori per l’ultima volta, fu dopo aver ricevuto il suo simbolo e il suo primo numero. Il sole era tiepido, l’aria pulita. Concesse al suo sguardo di perdersi all’orizzonte per un momento, in piedi, immobile nel luogo in cui, quelli che parevano secoli prima, si era illusa di poter ritrovare la libertà.

Si era lasciata crescere i capelli, che ora le arrivavano quasi alla vita. L’unico vezzo di volontà concesso a una bambola che adesso era perfino agghindata in modo appropriato, con una divisa, un’armatura e un’arma del tutto identiche a quelle delle altre, eccetto che per un piccolo simbolo sul collo e sulla lama della spada. Una donna, ormai, e tanto di meno di una donna allo stesso tempo. Fredda e amara, abbastanza da poter sorridere appena di sarcasmo di fronte allo Yoma che aveva ucciso per passare la sua prova finale; abbastanza da accettare senza battere ciglio il suo primo incarico e incamminarsi verso di esso da bravo soldatino.

 

 

La strada la portò al villaggio dove era cominciata la sua storia. Non alla sua bella villa, no, non fu così inclemente; ma a un gruppo di casupole che all’inizio nemmeno riconobbe, perché ci era arrivata sotto la pioggia, avvolta da un mantello troppo leggero, sull’orlo di svenire.

Giunta a una casetta con un orto e alcune vacche che pascolavano appena fuori, si fermò.

Un uomo lavorava la terra mentre la moglie filava all’aperto, accanto a lui. Erano sempre stati così vecchi, così scavati, così miseri? Che ne era delle loro apparenze eleganti? Malgrado questo, erano felici?

Sì, pensò, sentendosi pervadere da una tristezza infinita. Qualunque cosa, anche la più povera vita umana, doveva essere felice. Le monete non compravano soltanto bambole; e una singola bambola doveva pur valere due esistenze serene.

La donna la notò ed ebbe un sussulto, poi chiamò l’uomo, che alzò a propria volta gli occhi. La fissarono strizzando gli occhi contro al sole, confusi, intimoriti. Le parve di vedere sua madre versare una lacrima; e fu allora che decise di girarsi e di andarsene prima di sapere se l’avessero riconosciuta davvero.

Non aveva più importanza.

Le restava solo qualche creatura da uccidere, e la ferma volontà di non farsi uccidere a propria volta; l’idea, forse, di rimanere sempre un passo avanti ai suoi aguzzini; né i capelli neri né gli occhi neri di cui andava tanto fiera, ma solo due occhi d’argento in un corpo incolore come quello di un albino.

 

 

 

 

 

 

Spazio autrice:

Sono davvero emozionata. Questo mio headcanon su Teresa lo covo da un sacco, concepito già a partire da quella paginetta minima di sue riflessioni nel capitolo 13 del manga, tagliata nell’anime, e raffinato e confermato dalle ultime teorie di Dae, secondo il quale la forza di una Claymore è direttamente proporzionale all’odio che prova verso lo Yoma dentro di lei. Ho amato all’istante come questa rivelazione così tarda si incastrasse alla perfezione con i vari personaggi – da Claire, che oltre a essere Yoma solo per un quarto non ha neppure motivo di odiare la parte mostruosa dentro di sé, in quanto si tratta di Teresa; fino a Easley, a quanto pare così diligente nel suo odio sistematico verso gli Yoma da Risvegliarsi per poterli meglio uccidere (e infine sacrificare tutto il suo esercito contro Riful pure da Risvegliato, meraviglia); passando per Priscilla, che non necessita spiegazione, eccetera. Ebbene, ho sempre avuto l’impressione che Teresa dovesse aver avuto una bella vita, se si concedeva di amare tanto i propri capelli e di non avere altre preoccupazioni, né pensava a genitori morti o altro di simile nel suo breve flashback; e chi può odiare di più la perdita della propria umanità, se non qualcuno che l’ha vissuta davvero, davvero appieno?

Amo Claymore con tutto il mio cuore per la sua cura immensa ai dettagli e spero di avergli fatto onore; mi sentirò sempre benedetta per averlo scoperto. E spero che la one-shot vi sia piaciuta, anche se nella mia testa è sempre stata più bella come doujinshi priva di parole – eccetto che sono inabile a disegnare, quindi devo ricorrere alle mie dubbie capacità letterarie per tradurre le mie idee. Fatemi sapere cosa ne pensate, e se vi va venite a trovarmi sulla mia pagina Facebook. ♥

Un bacione, visbs88.

   
 
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