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Autore: ninety nine    18/03/2019    2 recensioni
15 marzo 1945
Il fascista Arturo Ghidini viene mandato sulle montagne per catturare e uccidere i ribelli partigiani. Si considera un uomo forte e fedele al Duce. Ma tra i partigiani ritrova un vecchio amico d’infanzia, da cui si era allontanato entrando nelle camicie nere e uccidendo per codardia una persona a lui cara. I due avranno modo di riavvicinarsi, ma la guerra si nasconde anche nei momenti più inaspettati e, forse, non concede mai il lieto fine.
Guerra è la storia di un uomo codardo e pieno di paura, vittima delle persone che incontra che strada e carnefice per conto di quelle stesse persone. È la storia di un’amicizia rubata al Fascismo e da esso rovinata. È il racconto di una guerra civile che colpisce il quotidiano e rende le persone inconsapevoli, vinte, coraggiose o spietate.
Tra i boschi e le montagne del bresciano due uomini torneranno bambini, all’ombra di un uomo che li vuole lontani, all’ombra della morte, all’ombra della violenza che è sempre dietro l’angolo.
[Storia partecipante al contest " Il Contest dell'Antieroe! " indetto da MaryLondon sul Forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Guerra, capitolo III
La resa dei conti






 


I due uomini camminarono a lungo in silenzio. La pioggia non accennava a smettere e i due erano completamente fradici. Avanzare stava diventando difficile: la terra bagnata risucchiava le suole di entrambi. Gli stivali di Arturo, solidi anfibi da soldato, mantennero asciutti i piedi del colonello, ma gli scarponi di Sebastiano iniziarono presto a risentire dell’azione collosa del fango.

“Cazzo!” imprecò ad un certo punto: parte della suola si era praticamente staccata.

“Cambio di programma” sussurrò tra sé e sé, cambiando all’improvviso direzione e facendo trasalire il soldato, che continuava ad avanzare come in trance, ancora sorpreso da quell’ammissione di perdono e da quell’improvvisa grazia.

Sebastiano non avrebbe voluto portare Arturo nel luogo verso cui stava camminando ora; infatti, era lì che i fascisti avevano catturato Olmo, il comandante precedente, costringendo la banda a cambiare base e Sebastiano a diventare capo.
Quasi subito, all’orizzonte iniziarono a profilarsi le rovine bruciate di una cascina. I fascisti avevano scelto di distruggerla completamente, dunque. Anche per Arturo non fu difficile immaginare cosa fosse successo, lì: lui stesso era stato a capo di azioni del genere. Iniziò ad agitarsi, quasi sentendo i suoni che dovevano aver animato quella battaglia. Ordini urlati ai sottoposti, suoni di botte e spari, e poi il crepitare del fuoco. Arturo percepì il corpo di Sebastiano irrigidirsi, in preda a chissà quali ricordi.

“Mi dispiace” sussurrò all’improvviso.

“Io non c’ero” disse il biondo con semplicità.

“Non ho potuto fare nulla per evitarlo.”

La sua voce era velata di rimpianto e di senso di colpa.

“Non è stata colpa tua, Seba.”

Seba.
Erano tredici anni che quel soprannome non usciva dalle sue labbra. Si aspetta anche solo un accenno di sorriso sulle labbra dell’amico, ma questi piuttosto le strinse in una riga sottile.

“Non chiamarmi così” intimò glaciale.

Arturo sbatté gli occhi, di nuovo perplesso.

“Ti prego…” continuò con la voce improvvisamente spezzata dall’emozione e da un accenno di pianto.

Arturo si rese conto che non lo aveva respinto, ma che, semplicemente, quel soprannome gli riportava alla mente troppi ricordi. Sapeva che anche suo fratello lo chiamava così. Chissà che fine aveva fatto, quell’operaio così pieno di ideali. Per quanto ne sapeva, poteva essere morto. E anche il padre, probabilmente, usava quel soprannome con lui. Certo, era stato stupido e insensibile ad usarlo: non ne aveva il diritto, non dopo tutto quello che gli aveva fatto passare.
Se non avesse avuto le mani legate, Arturo forse l’avrebbe abbracciato. Così, non poté far altro che ribadire il concetto, sperando che Sebastiano capisse che con quella frase si riferiva anche a qualunque cosa fosse successo a suo fratello e agli altri suoi cari.

“Non è stata colpa tua.”

La tristezza non fuggì dal viso di Sebastiano, rimase ad aleggiare fra loro e a echeggiare nel rumore della pioggia che continuava a cadere.
Sebastiano si voltò e si avviò per superare la baita, lasciando indietro Arturo. Questi si guardo alle spalle. Avrebbe potuto scappare: sapeva essere silenzioso e la pioggia avrebbe cancellato le sue impronte. Quasi gli scappò da ridere nell’istante in cui si rese conto che non l’avrebbe fatto.
Codardo fino in fondo si disse.
Nemmeno in quel momento era capace di prendere una decisione autonoma, di non farsi legare dalle persone che aveva intorno. Nemmeno in quel momento, riusciva a scrollarsi di dosso la paura del giudizio. Cosa avrebbero detto i soldati se fosse tornato in caserma legato e fuggito come un coniglio? Che cosa suo padre, che anche in quella caserma aveva il potere di dar lui ordini come suo superiore? Che cosa avrebbe detto Sebastiano se lo avesse fatto?
No, non aveva il coraggio di sopportare il peso di quella decisione.
A testa china, seguì il partigiano.
 

 
***


Appena dietro la baita, all’inizio della guerra i partigiani avevano costruito un capanno, sapientemente nascosto nel bosco. Arturo, stupito, si rese conto che, se non ci fosse stato Sebastiano a guidarlo, non l’avrebbe mai trovato.
Il partigiano aprì la porticina. L’aria all’interno della stanza era fredda, ma l’ambiente era asciutto e accogliente. Lo sguardo di Arturo fu subito catturato da una fotografia sfocata al muro. Strizzando gli occhi, l’uomo si rese conto con sgomento che si trattava della Madonna.

“Siete cristiani, voi partigiani?”

Sebastiano, che nel frattempo aveva aperto una cassapanca vicina, sollevò gli occhi verso l’icona. Soltanto quella mattina si era ritrovato a riflettere sulla presenza di quell’immagine nella loro attuale base, a poco più di un’ora di cammino da lì.

“Io no. Ma qualcuno sì, e avere una Madonna vicina li fa sentire al sicuro.”

Per la prima volta in quella giornata, osservò Arturo, la voce del giovane suonava serena, come se quelle quattro mura e quell’icona facessero, in fondo, sentire al sicuro anche lui.

“Che icona vorresti tu, appesa lì?”

Sebastiano fece spallucce e si chinò verso la cassapanca. La domanda restò sospesa in aria, ma, in fondo, Arturo conosceva la risposta. La Giustizia con la bilancia in mano, la Libertà che spezza le catene, o forse soltanto il viso di suo padre o le fattezze dell’ultima ragazza che aveva amato. Sentiva le emozioni con forza, a tutto tondo, Sebastiano. Si lasciava guidare da esse, dal suo avventato, pericoloso idealismo. Non come lui.
Il giovane biondo estrasse due maglioni dalla cassapanca: puzzavano di chiuso e di vecchio, ma erano asciutti e sembravano caldi. Dando la schiena ad Arturo, il partigiano si sfilò il fucile che aveva a tracolla, la giacca e la camicia. Il soldato notò che sulla spalla aveva una cicatrice circolare: probabilmente il segno di una pallottola. Con un gesto fluido si infilò il maglione, di un paio di taglie più grandi. Lasciando il fucile e gli abiti bagnati appoggiati alla cassapanca, il giovane si avvicinò ad Arturo, chinandosi verso i suoi polsi legati.

“Niente scherzi, fascista” affermò, ma non c’era cattiveria nella sua voce. Arturo lo ringraziò mentalmente per quel tono.

Con facilità, Sebastiano gli liberò le mani, scoprendo i polsi segnati da profondi segni rossi.

Falco aveva fatto un buon lavoro, con queste corde” constatò mentre il fascista si massaggiava i polsi e le braccia indolenzite.

“Togliti quella divisa e mettiti questo, Arturo. Ti terrà al caldo mentre decido cosa fare di te.”

Lo aveva chiamato per nome. Arturo stentava a crederci: gli pareva di vivere in un sogno. Ma i brividi di freddo che lo scuotevano gli assicuravano che invece era le realtà, e che si trovava anche in un bel casino. Sapeva che Sebastiano non l’avrebbe mai lasciato andare: ne andava di mezzo la sua reputazione come capo partigiano, e potenzialmente anche la sua vita. Lo vedeva, stringere convulsamente la medaglietta che portava al collo mentre cercava di prendere una decisione. Lui non aveva mai avuto di fronte a sé una strada tracciata: aveva dovuto costruirsela, scelta dopo scelta, con fatica, combattendo contro tutti. Quanto erano diversi sotto quel punto di vista Arturo lo comprese solo in quel momento. Il biondo sollevò proprio in quel momento gli occhi e sogghignò.

“Che c’è, ti fai problemi a toglierti la camicia nera?”

Arturo scosse la testa e ribatté.

“Idiota.”

Sebastiano, improvvisamente, scoppiò a ridere. Così, come un bambino, come aveva fatto tante volte in passato insieme a lui. Quella risata argentea e cristallina contagiò Arturo, che sorrise a sua volta. Sembravano di nuovo i due ragazzini che rincorrevano un pallone per i vicoli del paese, sognando di diventare un giorno grandi calciatori. Il partigiano gli lanciò il maglione, e quando lui lo prese finse di esultare.

“Arturo para la palla di Sebastiano! Niente gol per la squadra del biondo!”

Si rendeva conto, vedendosi da fuori, di apparire stupido. Un ventisettenne grande e grosso che giocava come un qualsiasi monello di strada. Eppure, erano anni che non si sentiva così sereno, così gioioso. Era forse quello il sapore della pace, così lontano del tempo che quasi lo aveva dimenticato? Quelle risate avevano il sapore di un passato lontano e fanciullesco, di una spensieratezza a bordo strada che era stata solo e soltanto loro. Era incredibile provare quelle sensazioni di nuovo, tanto forti da spazzar via tutto il nero che si annidava dentro Arturo.
Sebastiano fece per alzarsi e raggiungerlo, con un sorriso stampato in viso, quando un urto improvviso lo sbatté a terra. Arturo sentì le orecchie fischiare e vide l’ambiente riempirsi di fumo. Il mondo parve vorticargli intorno e serrò gli occhi senza capire per qualche istante. Quando li riaprì vide che, poco distante da lui, Sebastiano si teneva la pancia gemendo di dolore. Le sue mani erano già rosse di sangue. Il sorriso sul suo viso si era spento e ora lo sguardava con gli occhi velati di dolore e confusione.
Arturo aprì la bocca per chiamare l’amico, ma le parole gli morirono in gola quando vide la sagoma che gli si parava davanti. Fradicio di pioggia e con il viso ghignante di odio e di scherno, il signor Ghidini pareva schiacciare l’aria con la sua presenza.

“Allora aveva ragione il verme, c’era davvero una baracca partigiana rimasta in piedi dopo le nostre operazioni di incendio! Proprio un
bel posticino, adatto per dei topi di fogna come questo.”

Arturo lo guardo senza capire, sentendo una paura profonda che gli attanagliava le viscere. L’impotenza gli bloccò le membra, gli impedì di fare qualsiasi cosa, di pronunciare qualsiasi parola. Come in un déjà-vu vide il viso sconvolto di Sebastiano, i suoi occhi che gli urlavano di aiutarlo. Aveva capito, lui, quello che stava succedendo. Aveva compreso di trovarsi ferito e disarmato nel bel mezzo di un’imboscata fascista. Aveva capito di essere a un passo dalla morte e, come quando riverso a terra era suo padre, lo implorava di intervenire.
Ma, come allora, tutto l’affetto che provava nei confronti dell’amico era svanito, schiacciato dal timore reverenziale, da quella forma di terrore che Arturo provava verso suo padre. Come fossero i fotogrammi di un film che gli scorrevano davanti agli occhi, il colonello vide suo padre entrare nella stanza e dirigersi con poche falcate verso il biondo, che nel frattempo si era accovacciato in un disperato tentativo di tirarsi in piedi. Ghidini lo afferrò per la camicia e, nonostante i tentativi di Sebastiano di liberarsi, lo inchiodò al muro con il peso del suo corpo.
Sebastiano tossì, il viso trasformato in una maschera di dolore.
Come tredici anni prima lo guardò, con le lacrime che suo malgrado gli rigavano il viso. Vide le sue labbra muoversi, formare il suo nome mentre suo padre faceva cenno ai soldati che si trovavano fuori dalla porta di entrare e lui restava lì, troppo codardo per agire.

“Arturo…”

Arturo rimase lì, a guardarlo, perso come un bambino che non si rende conto di quello che sta accadendo, senza il coraggio di alzarsi, scrollare suo padre di dosso da quell’amico appena ritrovato e fuggire in qualche modo. Gli occhi di Sebastiano si velarono di incomprensione, di disgusto, di paura della morte. Quello sguardò quasi fece sollevare Arturo dal suo quadrato di terra, ma suo padre fu più veloce. Non appena i soldati lo raggiunsero, due con i fucili spiananti e due trascinando un uomo che a malapena si reggeva in piedi, ordinò con tono secco di tenere il partigiano appena catturato inchiodato al muro.

“Bloccate anche questo qui, ma non penso possa andare tanto lontano.”

Suo padre poi si voltò verso di lui e gli tese una mano.

“Figlio. A quanto pare sei stato più veloce di me. Complimenti, sono fiero di te.”

Arturo avrebbe voluto sputare su quella mano come poche ore prima aveva sputato su quella di Sebastiano. Ma fu più forte di lui: la afferrò e si fece trascinare in piedi, lasciandosi condurre di fronte a quegli occhi azzurri che lo guardavano traditi e accusatori.

“Tu…eri con loro. Lo sapevi” affermò il partigiano, subito tossendo.

Arturo avrebbe voluto scuotere la testa, ma qualcosa negli occhi di suo padre glielo impedì. Sebastiano era spacciato: vedeva il rosso del sangue tingere il maglione che si era appena cambiato. Se suo padre avesse compreso che non era lì per ammazzare Sebastiano, ma piuttosto come prigioniero, e che era vivo soltanto perché il partigiano l’aveva graziato, non avrebbe esitato a sbatterlo al muro insieme a lui.
Uno dei soldati tirò un ceffone a Sebastiano. Il suo viso si voltò di lato, sangue, sudore e pioggia che scivolavano sulla guancia colpita. Il giovane rimase immobile alcuni istanti, rendendosi conto, solo in quel momento, che c’era un altro uomo oltre a lui.
Capelli scuri appena brizzolati, labbra spaccate in più punti, occhi pesti e corpo contratto da un dolore che doveva durare da mesi, Sebastiano ci mise alcuni istanti a riconoscere il suo vecchio capo brigata.

Olmo…” sussurrò, guadagnandosi un’intimazione a stare in silenzio.

Rosso.”

L’uomo parlava a fatica, come se ogni respiro e ogni parola andassero oltre le sue forze.

Rosso, ho tradito.”

Il corpo dell’uomo era scosso da tremiti.
Sebastiano lo guardo con occhi pieni di comprensione.

“Non è colpa tua. Non potevi resist…”

Un altro ceffone lo colpì in pieno viso. Quella volta, veniva da suo padre.

“Silenzio, schifose zecche” intimò tra i denti.

Si voltò poi verso il figlio.

“Identifica questo partigiano.”

Arturo, ancora una volta, si sentì bruciare dallo sguardo di Sebastiano. Lo stava tradendo. Di nuovo.

“Sebastiano Franzoni” sussurrò, ogni sillaba che pareva bruciargli la bocca.

Suo padre voltò gli occhi verso il giovane con il ventre sanguinante, guardandolo per la prima volta. Mise a fuoco gli zigomi marcati, i capelli biondi, gli occhi azzurri. Quel viso si sovrappose a quella del bimbetto che giocava con suo figlio, che lo sfidava, che urlava mentre gli ammazzavano il padre.
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata.

“Ben fatto, figlio.”

“Arturo” lo chiamò di nuovo Sebastiano, sollevando a fatica la testa che cadeva ora a penzoloni. Le forze lo stavano abbandonando. In città, o tra i partigiani, qualcuno poteva essere ancora in grado di curarlo. Peccato che l’unico che avesse il potere di salvarlo lì dentro fosse lui, codardo fino al midollo.

“Silenzio!” gridò nuovamente il soldato che lo teneva per le spalle.

Il signor Ghidini estrasse la pistola dalla cintola e la mise in mano al figlio.

“Rusconi, spostati” intimò al soldato che aveva appena parlato.

Questi si spostò, facendo barcollare Sebastiano, che rovinò in avanti.

“Sollevalo, Rusconi. E tu, partigiano, vedi di restarci, in piedi, se non vuoi morire preso a pugni come tuo padre.”

Sebastiano grugnì di rabbia e dolore: un suono animalesco, colmo di sofferenza. Arturo si sentì morire nel sentirlo. Il partigiano si staccò dal muro, cercando di caricare l’uomo, ma Rusconi fu lesto a picchiargli in pancia il calcio del fucile, vicino alla ferita aperta. Il biondo si accasciò di nuovo gemendo e, spinto contro il muro, vi rimase, con il mento alto. Tutto in lui però tradiva la fatica che stava facendo per reggersi in piedi e per non scoppiare a piangere come un bambino.
Arturo si chiede che cosa potesse significare guardare in faccia la morte in quel modo, sconfitto, tradito, sanguinante. Era sgomento, fin troppo consapevole del metallo freddo della pistola che suo padre gli aveva cacciato in mano.

“Sparagli” ordinò.

Sebastiano, senza muovere un muscolo, lo fissò. Lo fissò come lo aveva fissato tredici anni prima di fronte al padre morente a terra. Lo fissò chiedendogli di compiere la prima scelta della sua vita, in nome della loro amicizia. Di risparmiarlo come lui aveva fatto solo poche ore prima. Lo fissò chiedendogli di essere un uomo, di essere ancora l’Arturo che aveva conosciuto da ragazzino. Ma anche l’Arturo ragazzino non era stato capace di opporsi al padre, di fronte alle sofferenze dell’amico. Aveva lasciato che lo picchiasse, sul ciglio della strada, quella volta della partita di calcio. Non era intervenuto per salvare suo padre, anzi, si era reso partecipe della sua morte. E tante altre volte aveva agito da vile. Quella volta lo avrebbe fatto di nuovo, realizzò Arturo all’improvviso. Sebastiano era già spacciato. Se si fosse rifiutato di sparare, lo sarebbe stato anche lui. E poi, pensò per alleggerirsi la coscienza, avevano scelto anni prima da che parte stare. Non era colpa sua se Sebastiano aveva scelto i partigiani. Il nemico. Aveva scelto la sua fine. Aggrappandosi a quel pensiero, con gli occhi fissi a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare l’amico negli occhi mentre lo ammazzava, Arturo sollevò il braccio. Una scelta la fece: non guardò in faccia l’amico mentre gli sparava. Una scelta da vile. Non vide, così, le sue labbra muoversi silenziose nella prima preghiera della sua vita, un’invocazione a quella Madonna sfocata che lo guardava da sopra la cassapanca. Non vide i suoi occhi colmi di nostalgia per quei due ragazzini che giocavano sul ciglio della strada e a Madonne e pistole preferivano sorrisi e corse. Non vide il suo viso pieno di pena verso Arturo. Non rabbia, non rancore, ma pena per uomo che non era mai stato di capace di scegliere. Per un codardo, vinto dalla paura sempre e comunque. Nella mente di Arturo, Sebastiano rimase il partigiano che rideva alla sua battuta appena dopo avergli lanciato un vecchio maglione. Scelse quella, come immagine da conservare, perché faceva meno male. Era più facile portarsi quella nel cuore piuttosto che i suoi occhi spenti, pieni di dolore e prossimi alla morte. Arturo si aggrappò a quell’immagine serena e premette il grilletto. Lo fece come in un sogno, come se davanti a lui ci fosse un ceppo di legno e non un corpo amico
Sebastiano rovinò a terra, il foro lasciato dal colpo poco lontano dal cuore. Morì all’istante. I suoi compagni lo ritrovarono così, steso in una pozza di sangue secco, con accanto il cadavere ancora caldo del vecchio capo brigata, lasciato lì a morire come un animale. I fascisti non diedero fuoco alla casa: la lasciarono lì, come monito che il movimento partigiano poteva essere sconfitto nel suo stesso
covo.

La Storia non diede loro ragione, però. Il fascismo morì, e Arturo vide sgretolarsi, a pochi mesi da quel suo finale atto di viltà, tutto quello dietro cui si era nascosto per difendersi dalle sue stesse atrocità. Il 27 aprile 1945 a Brescia entrarono gli alleati. I Ghidini si barricarono in casa, la stessa ai cui piedi era morto il padre di Sebastiano. Fu la squadra partigiana di Falco, che aveva preso il comando dopo la morte di Sebastiano, a trovarli. Il signor Ghidini si era appena sparato un colpo in testa, sentendo i passi dei partigiani salire le scale e le grida degli americani per strada. Il secondo colpo sarebbe stato per Arturo, ma questi non ebbe la forza di premere il grilletto. Aveva paura, di nuovo. Paura della morte. Falco lo riconobbe, ne fu certo. Falco sapeva quello che aveva fatto a Sebastiano. Glielo leggeva negli occhi mentre gli puntava il fucile contro. Lacrime calde rigarono il viso di Arturo. Lacrime che i partigiani lessero come di debolezza. Falco forse fu l’unico a capire che erano di rimorso mentre, con negli occhi la tristezza dell’uomo buono di nuovo costretto ad uccidere, sparò ad Arturo. Questi rovinò a terra con un nome sulle labbra. Non fu quello di Sebastiano, tuttavia, ma quello del soggetto di una fotografia sfocata che aveva visto un paio di mesi prima. Maria. Ma la Madonna non rispose, mentre Arturo moriva. Era un involucro vuoto, un mostro che aveva ucciso il suo migliore amico. Un verme che non meritava il perdono divino. Un verme i cui occhi vitrei fissavano, ora, il soffitto della sua casa signorile. Nessuno si prese la briga di chiuderglieli: restarono spalancati, neri come la pece, senza nemmeno poter vedere il cielo. Il cielo, azzurro come gli occhi di quell’amico che non aveva avuto il coraggio di salvare.


 






Ciao a tutti! Eccoci giunti alla conclusione di questa mini long. Dovete capire che è stato traumatico, io mi ero innamorata dei miei stessi personaggi ed è stato bruttissimo illuderli per poi portarli fino qui. Ma un racconto simile non poteva avere un finale idillico, sarebbe stato profondamente antistorico. Spero davvero che la storia vi sia piaciuta e che le psicologie, soprattutto quella di Arturo, si sia delineata per bene in questo ultimo capitolo. Ci terrei davvero a sapere cosa pensate di lui e di Seba, perché il mio sforzo per renderli umani, fragili, entrambi vinti (anche se in modo diversi) è stato grande. Vi ringrazio di cuore di aver letto,
A presto,
99

 
  
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