CAPITOLO QUARANTATRE’
Io e Piergiorgio avevamo sempre saputo che i nostri giorni
erano contati.
Ahimè, allora a scandire le ore doveva restare solo il nostro
rumore, i nostri corpi che si univano, i nostri baci languidi e avidi.
Nonostante tutto, nonostante la sorte, nonostante il futile tempo che, come
sottofondo, scorreva nel rintocco di un orologio a pendolo, o nelle lancette di
un orologio qualsiasi.
Questa era la nostra storia, ed essa era basata su un amore
che non aveva età, né poteva essere classificato in qualcosa di ordinario. La
nostra convivenza era iniziata nel segno di tutto questo.
Inizialmente non capii perché George aveva adeguatamente
preparato la stanza in cui avevamo fatto l’amore per la prima volta a casa sua,
quella per gli ospiti. Perché non mi aveva condotto nella sua personale?
Perché, ancora, la nostra relazione doveva essere avvolta da quel doloroso
anonimato che la caratterizzava fin dai suoi albori?
Non avevo ancora risposte a tutti questi interrogativi,
eppure mi accontentavo. Mi bastava.
Avevo imparato che l’amore vero non si trovava tanto
facilmente, durante il corso di una normale esistenza. Io l’avevo trovato. Non
aveva importanza il letto in cui dormivamo, o la stanza che avremmo condiviso,
quando i nostri cuori battevano unicamente all’unisono.
Dopo il mio silenzioso arrivo a casa del mio futuro marito,
mi ero limitata quindi a seguirlo e a sistemarmi nell’ambiente da lui adibito.
Non avevo neanche disfatto la valigia, tanto non aveva importanza. Avrei avuto
tutto il tempo per farlo.
Eravamo finiti a letto e non eravamo usciti da sotto quelle
lenzuola prima dell’alba successiva, giunta troppo in fretta.
“Com’è andata la prima notte trascorsa in questa casa?” mi
domandò Piergiorgio al momento del mio risveglio. Lui era già in piedi e
sembrava che non avesse atteso altro fino a quel momento.
Io sbadigliai leggermente, quasi avessi avuto paura di
mandare in frantumi quel velo misto di silenziosa passione che ci aveva avvolti
fin dalla sera precedente.
In realtà avevo dormito ben poco, ma non c’era stato male. Il
letto era comodo e la stanza era anonima, senza alcun oggetto che riportasse ad
altri momenti della vita del mio compagno. Era stato come soggiornare in una
stanza d’albergo, in fondo.
“Bene…”, sospirai, con la voce bassissima. La gola secca e la
bocca impastata non mi aiutavano, senza contare che pure le palpebre volevano
tornare ad abbassarsi.
George però andò a spalancare gli scuri della finestra, e fui
inondata dall’abbagliante chiarore del sole nascente.
“Ne sono felice”, affermò dopo il suo gesto istintivo, “però
adesso è ora di alzarsi. Io devo uscire, e tu devi andare a lavoro”.
Il lavoro! Come potevo aver rimosso? Quei due giorni senza
orari mi erano bastati per rendere meno vigile il mio senso del dovere. Per le
otto dovevo essere al bar… le mie palpebre si spalancarono di colpo e potei
scorgere la sveglia che, a fianco del nostro giaciglio, segnava già le sette e
un quarto.
“Uffa”, soffiai, nervosa. Mi alzai in fretta dal letto e
recuperai gli abiti con cui ero giunta fin lì.
“Dai, ti aspetto in cucina”, disse George, notando il mio
nervosismo e preferendo lasciarmi sola per qualche istante. Non ne avevo
bisogno, poiché in fondo dovevo solo razionalizzare che mi attendeva il lavoro,
e quindi farmi passare quella momentanea scocciatura, eppure… mi ritrovai
improvvisamente a pensare che, in fondo, quando avrei riscosso i soldi che mi
aveva lasciato il mio defunto genitore, avrei anche potuto cambiare stile di
vita.
Quella fu la prima volta in cui pensai che quel denaro
maledetto mi avrebbe potuto aprire una qualche porta, una nuova speranza.
Accantonai ogni altro pensiero quando mi fui vestita,
preferendo cercare di non lasciare troppo libera la mia mente.
Mi presentai in cucina con un mezzo broncio, nonostante
avessi tanto desiderato di non farlo.
“Buongiorno”, mi salutò il mio compagno, che come promesso mi
stava aspettando proprio lì.
Sulla tavola, già apparecchiata, c’era tutto il necessario
per una buona e salutare prima colazione.
“Buongiorno, caro”, lo salutai, “ma non dovevi faticare per
me già dall’alba”, e indicai tutto quello che aveva premurosamente preparato.
“Non ti preoccupare, l’ho fatto con piacere. Giusto per
ricordarti che, d’ora in poi, sei mia ospite e come tale sarai trattata.
Inoltre questa sarà anche casa tua”, disse, sorridendo. Beato lui che riusciva
a sorridere fin dal mattino.
Quelle parole però mi emozionarono un po’, anche se a effetto
ritardato. Le rielaborai e le compresi sono quando mi fui seduta e il mio uomo
aveva iniziato a versarmi il caffelatte caldo nella mia tazza.
“Io non voglio essere un peso per te, e questa è casa tua”,
aggiunsi, titubante, sperando di non offenderlo. Mai e poi mai l’avrei reso un
mio servitore, anche se ben sapevo quanto ci tenesse alla galanteria e quanto
amasse avere premura di me.
“Tra poco ci sposeremo, e tutto questo sarà anche tuo,
volente o nolente. Inoltre, non ti sarò mai grato abbastanza per aver accettato
il mio invito a venire a vivere qui. Sei stata davvero gentile e comprensiva”,
si spiegò, e per fortuna non parve essersela presa di nulla.
“Mi piacerebbe se ci sposassimo presto”, dissi, consapevole
che ormai avevamo fatto quasi tutti i passi necessari per arrivare a quel
fantastico e ufficiale traguardo. Non aveva senso tentennare oltre.
“Sono d’accordo. Presto allora concorderemo una data, poi ci
daremo ai preparativi”, acconsentì, felice.
Bevvi il contenuto della tazza in fretta e mangiai un
biscotto, prima di lanciarmi letteralmente verso l’uscita.
“George, ti amo tanto”, affermai, affrettata, “ma se arrivo
in ritardo, poi Virginia me le suona. Questa sera continuiamo a parlarne, va
bene?”.
“Va benissimo!”.
Gli sorrisi. E il tempo scorreva, inesorabile… erano già le
sette e quaranta!
“Vado, allora. A più tardi”, lo salutai, ma egli mi raggiunse
in corridoio e mi chiamò.
“A mezzogiorno, lascio detto a Irina di prepararti qualcosa,
va bene? Vieni a mangiare qui, lei è una bravissima cuoca”, mi spiegò. Gli
riservai un’occhiata perplessa.
“Quindi tu non ci sei?”, gli chiesi.
“No”, negò, “dovrò fermarmi a Rimini, in ambulatorio. Ho una
paziente che sta molto male. Ci rivedremo questa sera”.
Restai zitta.
“E queste sono le chiavi!”, aggiunse, venendo ad allungarmi
un portachiavi già preparato.
“No, se tu non ci sei…”, mormorai, ma Piergiorgio parve non
sentirmi e proseguì nel suo discorso.
“La chiave più grande è quella per il cancello, mentre la più
piccola è quella per la porta d’ingresso. E non ti preoccupare se non ci sono!
Ricorda che questa ora è anche casa tua…”, e mi diede le spalle, tornando in
cucina.
Avrei tanto voluto ribadire qualcosa, ma non sapevo che altro
dire. Ancora perplessa, e resa agitata dal fatto che stavo rischiando il
ritardo, mi affrettai allora a mettere in tasca le chiavi che mi erano appena
state date e a uscire in giardino, tra le feste di un’euforica Kira. Là la mia
auto ancora mi attendeva, e mi affrettai a metter piede sull’acceleratore.
Già mi immaginavo la mia datrice di lavoro molto arrabbiata,
poiché un ritardo per lei era inammissibile, soprattutto dopo due giorni di
riposo. Due giorni di ferie che, però, per me erano stati alquanto impegnativi,
alla fine dei conti.
Giunsi giusto in tempo. Varcai la soglia del locale alle otto
spaccate.
Stranamente, Virginia non era appollaiata dietro la cassa, e
non c’era nessuno al bancone a servire.
Gettai solo un’occhiata rapida a quei particolari anomali,
poiché tutta la mia fretta mi faceva muovere soltanto verso il camerino dove
avrei potuto cambiarmi. La rapidità era tutto, agli occhi della mia datrice di
lavoro, e non volevo deluderla proprio ora che sembrava fidarsi di me.
Un cliente mi riconobbe e cercò di fermarmi, deciso a pagare
il caffè, però sapevo che non dovevo commettere passi falsi.
“La signora arriva tra un attimo”, dissi, meccanicamente. Non
mi chiesi dove fosse, pensavo al bagno.
E invece, non appena entrai nel camerino, me la ritrovai
all’improvviso di fronte a me, agguerrita e rossa in volto.
“B… buongiorno”, borbottai, sorpresa e un po’ spaventata.
Virginia però si sforzò di sorridermi, per poi deviarmi e
tornare alla cassa.
“Buongiorno a te, Isabella cara”, mi salutò, anche se il modo
con cui mi aveva parlato lasciava trapelare un nervosismo mal celato.
Scrollando le spalle, entrai dentro all’angusta stanzetta e
trovai Ilenia in preda alle lacrime, appoggiata con la testa contro il suo
armadietto.
“Ile! Ma che…”, tornai a dire, imbarazzata e senza sapere
cosa fare.
Perché quelle due si erano ritirate là dentro per qualche istante,
se non per litigare? Sapevo bene che la nostra datrice di lavoro sapeva essere
molto cattiva quando si arrabbiava, e quindi immaginavo che, per avere una
reazione così tragica, tra le due dovesse esserci stato un battibecco
importante.
Feci per abbracciare la mia collega, ma la ragazza evitò il
contatto, sgusciando via dalle mie braccia.
“Stammi lontano”, sussurrò, tra un singhiozzo e un altro, “lasciami
stare”.
Sbigottita da quell’allontanamento, restai perplessa.
“Perché?”, mi venne da chiederle, spontaneamente. “Cos’è
successo?”, insistetti, temendo di aver sbagliato anche io qualcosa.
Ilenia però mi riservò uno sguardo sbarrato, con gli occhi
avvolti dalle lacrime e un volto dai lineamenti scomposti.
“Sono due giorni che non facciamo altro che litigare, e oggi…
questa mattina… mi è anche caduta una tazzina. Le ho detto che l’avrei
ripagata, ma la vecchia ha fatto un casino… un casino”, e gesticolò, aumentando
l’enfasi.
“Non temere”, mi venne da rassicurarla, mentre recuperavo la
divisa da lavoro, “è stato un piccolo incidente. Vedrai che le passerà presto”.
La ragazza però non mi ascoltava nemmeno.
“Anche io volevo qualche giorno di ferie, ma non mi sono
state concesse. Come sempre, qui sei tu la favorita”, mi disse, con rancore.
Restai impietrita al cospetto di quel verdetto così
affrettato e rancoroso; era forse questo che la mia collega pensava di me? Era
giusto e meditato quel suo giudizio, oppure era solo frutto di un momento di
frustrazione?
“Te le concederà presto, vedrai”, fu tutto quello che riuscii
a dire.
Ile tornò a sorprendermi, poiché smise di asciugarsi le
silenziose lacrime e si lasciò sfuggire una mezza risata davvero irritante.
“Isa, io non vado a letto con il suo migliore amico. Io non
mi prostituisco con i vecchi per avere in cambio i suoi favori”, affermò.
Rimasi di nuovo sbigottita. Il cuore cominciò a battermi
forte nel petto, ormai punto nel vivo.
Allora era vero; era questo che la mia collega pensava di me.
Io, che mi fidavo tanto di lei… che la credevo una persona sensata.
“Io e Piergiorgio ci amiamo al di là di tutto questo. Il
lavoro, Virginia e la prostituzione non c’entrano proprio nulla”, le risposi,
senza tanta grinta. Ero spiazzata, non mi sarei mai aspettata un attacco così
improvviso.
Come sempre, ero la solita ingenua; ancora non capivo che
molte persone adoravano ferire il prossimo, quando si trovavano loro stesse in
difficoltà.
“Ah, no? E allora come mi spieghi, come ci spieghi, che da
quando quel vecchio si è messo di mezzo lei ti lascia sempre in pace? Non ti
tratta più di merda, come invece fa con noi? Eh?”, tornò a dire la sua,
insistendo con cattiveria.
Noi; quindi intendeva anche tutto il resto del personale.
Tutti dovevano pensarla in quel modo, a riguardo di me e George.
Ero confusa e ferita, non sapevo cosa dire, cosa fare, come
comportarmi…
“Senti Ile, non tirare in ballo me e il mio compagno. Se
avete litigato, è una questione che dovete risolvere tra di voi, quindi
lasciami in pace e non citare più George”, le intimai, sempre senza troppa
convinzione.
Notandomi vulnerabile, la mia collega prese la palla al
balzo.
“George”, disse, mimando il tono della mia voce, “così chiama
il suo pensionato! George!”. E rise, rise con una cattiveria isterica e
repressa.
Sentivo il mio volto arrossarsi, mentre le lacrime stavano
per sgorgare abbondanti dagli occhi.
“Aspetta che lo dica agli altri”, tornò a dire, infierendo.
Mi sentivo travolta, come quando ero tra i banchi di scuola e
i bulli mi prendevano in giro, poiché ero troppo timida per difendermi. Poi
divenni più matura e tirai fuori le unghie, ma a quanto pareva ciò non mi fu
utile in quel momento di vera emergenza. E me ne rimasi così, in balia della
vendetta di una ragazza che non poteva sfogarsi contro un superiore, e che
quindi si lasciava andare nei miei confronti.
A interrompere il terribile momento fu proprio Virginia, che
si affacciò sulla porta e interruppe l’isteria di Ilenia.
“Isabella cara, vieni a lavorare e lascia perdere
quell’ingrata. Ha solo delle brutte parole per gli altri, lasciala nel suo
brodo”, disse, con risolutezza.
Annuii, e poiché ero pronta, la raggiunsi e tornai nel
locale, in parte contenta di essere riuscita a sfuggire dalle grinfie della mia
perfida collega.
Tuttavia, le lacrime di frustrazione erano ancora lì, pronte
a sgorgare e a dilagare. Mi vergognavo perché non l’avevo difeso… non avevo
difeso il mio amore. Lui l’avrebbe fatto. Ma lui era forte, io non lo ero
ancora abbastanza, a quanto pareva.
Quando Virginia notò il mio stato, mi si avvicinò e appoggiò
la sua mano sulla mia spalla, con una delicatezza quasi genitoriale.
“Cos’è successo là dentro?”, mi chiese.
A quel punto non riuscii più a trattenermi, e mi diressi
verso il punto meno affollato del locale, lasciando andare le mie lacrime.
Virginia, che mi aveva seguito e che anche lei si stava
tutt’a un tratto disinteressando dei suoi stessi clienti, parve molto
preoccupata dalla mia reazione e mi seguì, non lasciandomi sola.
“Isabella, avanti. Dimmi cosa ti è successo”, mi solleticò.
Sapendo di poter solo peggiorare la situazione, preferii sussurrare un classico
niente, che ovviamente non convinse la signora.
“No, invece è successo qualcosa, perché tu quella soglia
l’hai varcata felice e serena, e sei uscita dal camerino in lacrime e
sconvolta. Essendo mia l’attività, ho diritto di sapere ciò che accade al suo
interno”, quasi m’intimò. Lo fece con poco garbo, ma si capiva che era ancora
irritata per poco prima, quindi immaginando che Ilenia avesse commesso qualche
altro affronto si era irritata di nuovo.
“Ha criticato lui… il nostro rapporto… ed io non ho nemmeno
avuto il coraggio di difenderlo…”, vuotai il sacco, piangendo.
Virginia capì immediatamente, e parve calmarsi. Mentre mi
sedevo in disparte, allungò una mano e mi accarezzò la testa.
“Bambina mia, la gente è tanto cattiva. Comunque non
preoccuparti, il nostro Piergiorgio non avrebbe mai voluto che tu reagissi
così. Lui è tanto buono, avrebbe perdonato, anzi, non avrebbe nemmeno
ascoltato, quindi tranquillizzati. È tutto a posto, non pensarci più”, spiegò,
con dolcezza.
Annuii, sospirando e asciugandomi le lacrime con uno dei miei
inseparabili fazzoletti di carta.
“La ringrazio”, le dissi, rialzandomi e tornando a prendere
in mano la situazione. Le parole di Ilenia si commentavano da sole, non c’era
bisogno che dessi spettacolo di fronte a un locale pieno di avventori.
Mi asciugai in fretta e per bene le guance, poi mi impressi
un sorriso tirato sulle labbra e andai a servire ai tavoli. Su di me, avvertivo
lo sguardo fiero della proprietaria, che doveva aver gradito il mio modo deciso
di rialzarmi. Non appena fui all’opera, il senso di disperazione fu facilmente
assorbito da quello del dovere.
Virginia tornò alla cassa e consegnò un paio di scontrini,
prima di andare di nuovo ad affacciarsi alla porta del camerino.
“Ilenia, avanti, non ti pago per startene nascosta! Vieni a
fare il tuo lavoro”, ordinò alla mia collega, a voce alta.
Io continuai a servire e a fare caffè, fintanto che Ile non
fece capolino dal suo nascondiglio e, tutta imbronciata, si mosse verso il
bancone e verso me.
Quando mi fu a fianco, mi urtò proprio mentre stavo servendo
un cappuccino. Inutile sottolineare che la tazzina finì a terra, frantumandosi
e sporcando un signore molto ben vestito, che cominciò a imprecare e a
lamentarsi.
“Ilenia!”, tuonò Virginia, dall’alto del suo sgabello. “Ho
visto tutto, maleducata!”, continuò a riprenderla, urlando a squarciagola.
Io cercai di evitare altre sceneggiate e mi scusai con il
cliente, andando poi a pulire.
Ilenia parlottò a mezza voce, dicendo qualcosa che non
riuscii ad avvertire, mentre la signora doveva invece aver sentito molto bene.
“Oh, che belle parole, complimenti”, disse infatti con
nervosa ironia, “sappi però che con questa tua iniziativa, ti sei giocata
tutto. Non ho più alcuna intenzione di rinnovarti il contratto”, sancì, infine,
per poi andare a sua volta a scusarsi con il cliente che si era sporcato per
via del piccolo incidente di poco prima.
La mia collega, però, era diventata violacea in volto e
sembrava arrabbiata più che mai, decisa a non mollare. Era letteralmente
esplosa.
“Sa che cazzo me ne frega? Me ne sbatto il cazzo del suo
contratto”, iniziò ad affermare a voce alta, continuando a provocare imbarazzo
e disagio tra i clienti, che a quel punto ascoltavano quasi tutti, incuriositi
dal battibecco feroce e inaspettato, oltre che fuori luogo.
“Smettila immediatamente, o sarò io a sbatterti fuori subito,
eh”, cercò di farla tacere Virginia, ma la giovane era fuori di sé.
“Sì, avanti, e ora difenda la sua raccomandata! La ragazza
del vecchio, la difenda, poverina! Che qua la sfottono tutti, è la presa per il
culo del bar…”, e continuò a dire, e a dire come se fosse una sorgente di
offese.
Mortificata, da parte mia restai in silenzio e mi ritrassi.
Preferii uscire dal locale, udendo ancora le urla della
ragazza, che per fortuna cessarono dopo poco. Eppure, non me la sentivo più di
tornare dentro.
Avevo sempre saputo che Ilenia era una ragazza di cristallo,
davvero molto fragile. Aveva avuto problemi anche nei precedenti locali dove
aveva lavorato, poiché era una che si teneva tutto dentro e poi diventava
esplosiva.
Non avevo idea di come fossero state le esplosioni
precedenti, tuttavia quella volta aveva passato ogni limite. La odiai con tutta
me stessa, nonostante mi stessi rendendo conto che quella poverina era una
persona instabile.
Non potevo comunque perdonare ciò che era appena accaduto.
Virginia mi raggiunse di nuovo quando meno me l’aspettavo, e
mi invitò a tornare dentro.
“L’ho messa a tacere. Le ho promesso una denuncia piuttosto
pesante, nel qual caso avesse deciso di continuare. Questo non è un circo, è un
bar”, affermò, arrabbiatissima.
Notando la mia mancata reazione, mi venne vicino e mi
abbracciò. Un contatto così profondo non c’era mai stato, tra noi due, e questo
gesto inatteso mi sorprese un po’. Quel tanto che mi bastò, da lì a qualche
minuto, a farmi cambiare idea.
D’altronde, la signora si era sempre dimostrata di ferro, ma
anche giusta nei miei confronti. Durante quella mattinata molto movimentata mi
aveva difeso, così come aveva fatto anche nei confronti della figura del suo
caro amico Piergiorgio, ed io le ero profondamente grata di tutto.
“Mi dispiace per quello che sta accadendo”, dissi, infine,
riuscendo a dire solo quello.
Virginia sciolse la leggera stretta materna.
“Non devi scusarti, credo sia tutta colpa mia. In ogni caso,
so già come rimedierò a riguardo del personale; però adesso torna dentro, per
favore, e non preoccuparti di nulla. Ora è davvero tutto a posto”, si spiegò,
tornando poi rigida come sempre. E allora la seguii, per me era ancora
importante quel lavoro. Non volevo essere la causa di un altro ammutinamento.
Nulla era a posto, però. Nulla.
Durante la pausa pranzo, tornai a casa di George. Disponevo
di tutte le chiavi, non ebbi quindi bisogno di nulla, se non fossi stata solo
strozzata dall’imbarazzo.
Avevo il cuore in gola e la mente stanca.
Ilenia, dopo l’esplosione, aveva ripreso a lavorare come al
solito, anche se non aveva fatto altro che riservarmi occhiate piene di odio.
Non potendosela prendere con il superiore, se l’era presa con me.
Ma a me ormai importava davvero molto poco… ero così stanca,
tanto stanca. Forse troppo. Restava il mio amore a rendermi felice, ma l’idea
di pranzare a casa sua senza la sua calda presenza mi incuteva un reverenziale
timore. Una sensazione di disagio che però dovevo imparare ad affrontare, se
volevo continuare a vivere assieme a lui.
D’altronde, il mio compagno aveva dormito tante volte da me
senza fare mai una piega. Forse era colpa mia, che non avevo il suo stesso
bagaglio di esperienze.
Parcheggiai al cospetto della villa di campagna e come al
solito fui accolta da una scodinzolante Kira, che mi fece un sacco di feste, ma
non mi rassicurò.
Prima di entrare in casa ne approfittai infatti per fare una
breve telefonata a mia madre, così da assicurarmi che stesse bene. Ebbi anche
modo di sentire una voce amica e molto cara, che mi disse che era tutto a posto
e che era felice per me. Ed io ero felice che lei stesse bene, nonostante tutto
e nonostante fosse di nuovo sola tra quelle quattro mura.
Infine, giunse il momento di varcare la fatidica soglia, per
la prima volta senza essere invitata al suo interno. Feci scattare la serratura
e fui immediatamente travolta dall’aria fresca che stagnava nel corridoio
interno.
Scansai Kira, facendo poi in modo che non entrasse in casa, e
chiusi di nuovo la porta alle mie spalle.
Con un profondo sospiro, mi mossi verso le cucine.
Scoprii presto che non ero sola; infatti, un rumore di
stoviglie mi accolse in cucina, dove Irina, la domestica, si stava dando da
fare attorno al tavolo.
“Benvenuta, signorina. Padrone ha detto di aspettarti”,
salutò con fredda prontezza. Le sorrisi con leggero imbarazzo, senza avanzare
oltre.
“La ringrazio”, mi limitai a ringraziare.
“Prego si accomodi a tavola. E non mi dia del Lei, io non
volere. Adesso tu parte di questa famiglia, pare”, e così dicendo, con il suo
forte accento straniero, scostò una sedia dal tavolo e mi incitò a prendere
posizione.
“Grazie”, tornai a dire, ripetitiva e imbarazzata. Non ero
abituata a quel genere di situazioni.
“Pappa al ragù o brodo?”, mi chiese poi, senza darmi il tempo
nemmeno per riprendere fiato.
“C’è anche la scelta? Non dovevi disturbarti”, risposi con
cortesia, “comunque, preferisco la pasta condita, grazie”.
Irina annuì, poi mi portò una porzione molto corposa di
pennette al sugo di pomodoro.
“E’ troppa, ma ti ringrazio”, mormorai, sorridendo.
“Tu no pensare al troppo. Tu mangiare e fare fianchi, aiuta a
fare più bambini”. Mi venne quasi da ridere al cospetto di tale affermazione,
molto all’antica. Tuttavia tacqui e mangiai ciò che mi era stato gentilmente
servito.
Finita la mia porzione, quasi a fatica, la donna si fece
avanti con altre richieste, ma io ero già ampiamente sazia.
“Ti ringrazio, ma sono piena come un uovo. Lascia stare,
quello che è rimasto lo mangerò questa sera”, le dissi, alzandomi poi da
tavola. Irina però mi riservò un’occhiata risentita.
“Qui non si mangia mai cibo riscaldato, sai? Quello che resta
si dà al cane, a cena si prepara sempre qualcosa di nuovo”, sancì come se fosse
stato un verdetto.
Io questo particolare non lo sapevo e a dirla tutta non
credevo che il mio uomo fosse così sprecone, e per l’ennesima volta rimasi
avvolta in un basito silenzio. Per affondare l’imbarazzo in qualche modo, mi
decisi a dirigermi verso il bagno per lavarmi le mani.
“E comunque qui si fa come tradizione, non si eseguono
consigli di nuovi arrivati”, parve aggiungere la donna, probabilmente per
pizzicarmi. Il mio senso di disagio aumentò e preferii dileguarmi.
Per fortuna il pasto si era concluso, e mi sarei potuta
sbarazzare di quella fastidiosa presenza.
Quando tornai in cucina per recuperare la borsa contenente i
miei oggetti personali, però, Irina era ancora lì ad attendermi; impalata nel
mezzo della stanza, a fianco al tavolo, non aveva ancora iniziato a
sparecchiare e aveva fissato il vano della porta fintanto che non ero tornata a
varcarlo.
“Padrona precedente molto buona ed elegante, guarda tu”,
disse, per poi allontanarsi di qualche passo e raccattare una vecchia foto in
bianco e nero staccata da una parete. Me la porse e notai immediatamente una
signora sulla sessantina, vestita con una lunga e preziosa pelliccia e con le
dita piene di gioielli. Il viso austero mi fece impressione, infatti spostai
subito lo sguardo.
“Lei buona con me. Lei mi aveva scelto, detto che io brava a
cucinare molto, a preparare mangiare fresco. Non mi ha mai parlato di scaldare
pappa. Pappa scaldata si dà al cane, non a persone per bene”, ribadì,
dimostrando una cocciutaggine prepotente.
Senza parole, mi ritrassi a testa china e afferrai la mia
borsa.
“Arrivederci…”, mugugnai, a singhiozzo, umiliata nuovamente.
Uscii da quella casa quasi di corsa, con il viso arrossato
dall’imbarazzo e dalla vergogna. Neppure il ritrovare Kira felice e
scodinzolante in giardino riuscì a farmi sentire meglio.
Quella era una giornata decisamente no e compresi anche che
avrei dovuto parlare al più presto a George, per spiegargli che qualcosa non
era andato per il verso giusto. Avevo infatti timore di tornare in quella casa
immensa, con Irina che mi perseguitava con vecchie foto, ricordi e discorsi che
non mi appartengono.
Quello non era uno stile di vita che mi apparteneva.
Mentre tornavo in macchina, le lacrime facevano nuovamente
capolino dai miei occhi socchiusi e provati dalla luminosità accecante del
sole. Speravo solo che il mio uomo mi capisse, che avesse qualche parola dolce
e di conforto per me… anche se avrei potuto confrontarmi con lui solo quella
sera.
Avevo bisogno anche di un abbraccio, di un po’ di sicurezza
trasmessa dalle sue parole, sempre se sarebbe stato disposto ad accettare le
mie considerazioni sul mio primo giorno a casa sua. Tutto ciò mi preoccupava
non poco.
Per fortuna, la prospettiva del ritorno al lavoro era
accettabile solo perché Ilenia aveva già concluso il suo turno, quindi non
l’avrei incontrata.
Mentre mi rimettevo in marcia verso il bar, mi ritrovai a
sperare che presto fosse sera.
NOTA DELL’AUTORE
Capitolo complicato, dal punto di vista relazionale! Ma… a
voi il giudizio finale ^^ grazie di tutto, come sempre!