Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    19/03/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Caterina e Bernardino arrivarono alla rocca poco prima che imbrunisse, quando il sole si avvicinava all'orizzonte, gettando sulla città ombre lunghe e una luce quasi innaturale.

Passando sotto la statua di Giacomo, la Sforza non sollevò nemmeno lo sguardo, troppo abituata a ignorare quell'effige ogni qualvolta vi passasse accanto per evitarsi altra sofferenza, mentre il figlio continuò, per tutto il tragitto dal monumento al ponte, a guardare il viso del padre modellato nel bronzo. Anche se aveva ancora ricordi vividi del calore che il genitore gli aveva dato, nella sua memoria il suo aspetto cominciava a sfumare e, senza poter far nulla per evitarlo, poco per volta le riminiscenze dell'infanzia venivano sostituite dalle fattezze di quella statua.

Il piccolo Feo aveva sentito tanti dire che quel bronzo non rendeva giustizia alla bellezza di suo padre, ma era l'unica testimonianza che aveva di lui, eccezion fatta per il ritratto – a detta di tutti ancor meno somigliante – che stava dipinto sul muro della cappella di famiglia in San Girolamo.

“Portate la carne nelle cucine.” ordinò la Contessa, non appena furono nella rocca, e poi, rivolgendosi al figlio e vedendolo stravolto per la lunga giornata e la faticosa camminata, nonché ancora sporco del sangue del cervo, gli disse: “E tu vai a farti un bagno. Ti faccio portare da magiare qualcosa e poi subito a dormire. Intesi?”

Il bambino abbassò lo sguardo, annuendo, poco convinto. A lui, malgrado tutto, la giornata non sembrava ancora finita e avrebbe voluto andare a mangiare nella sala dei banchetti come sempre e vantarsi con Galeazzo della battuta di caccia a cui aveva preso parte e poi, finito di mangiare, andare dai suoi amici della servitù e fare altrettanto.

“Non ti reggi più in piedi.” insistette la madre, intuendo i pensieri del figlio.

Il modo in cui, mentre gli rivolgeva quelle poche parole, gli aveva accarezzato la guancia, fu ciò che fece breccia in Bernardino, che, scaldato da quel gesto, accettò: “Va bene, madre.” poi, non riuscendo a trattenersi, soggiunse: “Ma il bagno no...”

“Il bagno sì.” lo rimbrottò Caterina, con un buffetto sul mento: “Darò subito ordine di fartelo preparare. Sei coperto di sangue e polvere, ti sei sporcato più che se fossi sceso in battaglia... Non puoi andare a dormire conciato così.”

Il Feo strinse le labbra e poi, con l'eco di un sorriso negli occhi, convenne: “Come volete, madre.”

Congedato il figlio, la Tigre andò prima da un servo per ordinare il bagno e il cibo per Bernardino e poi dal castellano, per sapere come fosse andata la giornata, mentre lei era nei boschi, e Cesare le riferì che non c'erano stati problemi, che Giovanni da Casale aveva supplito degnamente la sua assenza e che non erano arrivate lettere né altra cosa degna di nota.

“Solo l'ambasciatore fiorentino...” fece il Feo, con un'espressione un po' seccata: “Ecco, da stamattina ha mandato quattro volte un messo a chiedere se eravate pronta a riceverlo.”

Caterina sbuffò e, guardandosi distrattamente le mani ancora un po' macchiate di rosso e sentendosi addosso l'odore di una giornata passata a cacciare, decise repentinamente: “Fatemi preparare un bagno. Quando sarò pronta, manderete un messaggero a questo ambasciatore fiorentino che ha tanta fretta di vedermi e lo incontrerò. A palazzo, però. Non voglio che entri in questa rocca. Ha già visto abbastanza.”

 

“Sicura di stare bene?” chiese Jacopo Salviati alla moglie, mentre la donna si posava una mano sul pancione con una smorfia di dolore.

“Sì, non è niente. Non ci siamo ancora, stai tranquillo.” lo zittì lei.

L'uomo sospirò, guardandola di soppiatto. Lucrezia aveva quasi ventinove anni, ma quella sera gli sembrava una bambina. E lui, che di anni ne aveva quasi trentotto, si sentiva ancora più piccolo di lei.

Gli era capitato così tutte le volte. Quando sapeva di essere in procinto di diventare di nuovo padre, si lasciava prendere dall'euforia. Poi, man mano che i mesi passavano, si crogiolava nell'idea del figlio o della figlia che sarebbe andato a far crescere la loro famiglia. Alla fine, però, quando il momento del parto si avvicinava, non poteva evitare di sentire una morsa di atavica paura stringergli lo stomaco.

“Mangio leggero e vado a dormire.” proseguì Lucrezia, andandosi a sedere in poltrona e facendo un respiro fondo.

Era stanca e aveva caldo. Anche se aveva convinto il marito a tenere le finestre aperte per far entrare un po' d'aria serale, di fatto non riusciva a sopportare quell'afa. Le avevano preparato del brodo, ma l'aveva rifiutato perché se avesse dovuto mangiare qualcosa di fumante, si sarebbe come minimo sciolta.

Sentiva qualche doloretto al ventre, ma aveva partorito già abbastanza volte da sapere che mancavano ancora ore, magari perfino giorni, alla nascita del suo nuovo figlio. Poteva solo aspettare.

Tutto quello che avrebbe voluto, sarebbe stato mettere qualcosa nello stomaco e riposarsi un po', ma il Salviati era così teso da rendere tesa anche lei.

“Jacopo...” sussurrò, guardando un secondo il marito.

L'uomo, scattando come una molla, le arrivò accanto, accucciandosi un po' vicino alla poltrona e, prendendole una mano nelle sue, se la portò alle labbra per baciarla e poi si offrì, solerte: “Dimmi, Lucrezia, tutto quello che vuoi.”

“Stai calmo. È un ordine.” gli disse, senza però trattenere un sorriso.

Il marito, un po' imbarazzato nel capire quanto fosse evidente il suo stato di agitazione, ricambiò il sorriso e poi, non molto convinto, promise: “Sì, sì, mi calmo.”

“Andrà tutto bene. Come sempre.” continuò lei, chiedendogli poi di portarle qualche da mangiare, ma nulla che le mettesse altro caldo addosso.

L'uomo le fece portare dei pezzi di formaggio, del pane, delle confetture e un altro paio di vassoio che Lucrezia non guardò nemmeno. Provò a mandar giù il primo boccone, ma già mentre stava deglutendo si rese conto che il suo stomaco non aveva alcuna voglie di mettersi a digerire la cena.

Più per non impensierire il marito che altro, però, si sforzò e mangiò ancora qualcosa, anche se più mangiava, più si accorgeva di non avere fame e, anzi, di avere una vaga nausea.

Quando Jacopo le parve sufficientemente rinfrancato circa la sua salute, si dichiarò sazia e, accompagnata da lui, che le camminava appresso come un'ombra, raggiunse finalmente il letto e, incurante del fatto che fosse ancora molto presto, si sistemò al meglio e cercò subito di dormire un po'.

 

“Sicura che sia una buona idea?” chiese Giovanni da Casale, aiutando Caterina a levarsi il pugnale che teneva celato sotto le gonne.

“Sì. E comunque sia, non ho voglia di incontrarlo da sola. E tu hai la scusa di essere il portavoce di Milano. Non potrà aver nulla da ridire, se ci sarai anche tu.” disse piano la donna, andando alla tinozza ed entrando in acqua.

Argentina si era occupata personalmente di prepararle quel bagno. L'aveva allestito nella sua tana, per lasciare la camera ufficiale libera, nel caso in cui Pirovano volesse riposare mentre la Contessa si lavava. Ovviamente, per quanto avesse lodato apertamente quell'idea gentile, la Tigre aveva richiesto all'amante di seguirla e di aiutarla.

Voleva parlargli, innanzi tutto, e poi si sentiva così provata da quella giornata passata nei boschi, sia fisicamente, sia emotivamente, da voler sentire qualcuno vicino.

Si immerse fino alla punta della testa nell'acqua piena di olii profumati ed essenze e quando tornò in superficie, riprese aria con forza, quasi fosse stata in apnea per ore. Giovanni la osservava un po' interrogativo, standosene a una certa distanza dalla tinozza, come se non osasse avvicinarsi oltre.

Era assurdo, pensava la Sforza, quanto sapesse dimostrarsi ancora imbarazzato, nel condividere la quotidianità con lei. Anche se dividevano il letto ormai da un certo tempo e anche se ormai quell'uomo conosceva il suo corpo in ogni dettaglio, in momenti come quelli si comportava alla stregua di un mezzo sconosciuto.

“Aiutami, per favore...” fece lei, indicando il telo imbevuto di estratto di erbe aromatiche che la sua domestica aveva lasciato a mollo in un piccolo mastello: “Passamelo sulla schiena.”

Preso un po' alla sprovvista, il milanese si arrotolò le maniche della camicia e si mise alle sue spalle, cominciando a passare con delicatezza il telo sulla pelle bianca e liscia della Leonessa.

“Non dovrai parlare, con il fiorentino.” iniziò a spiegare la donna, lasciando che il tocco deciso, ma dolce del suo amante le rilassasse i muscoli contratti del collo: “Se dovesse farti domande dirette o interpellarti in qualche modo, non cercare con lo sguardo la mia approvazione per parlare. Non dargli l'idea di dipendere da me. Rispondigli in modo evasivo, come un diplomatico vero.”

Pirovano annuì, prendendo mentalmente nota di quello che più che un consiglio appariva come un ordine in piena regola.

“Vestiti in modo elegante, ma non troppo. E porta al fianco la spada da battaglia, non quella decorata. Non voglio che quel fiorentino faccia strani collegamenti. So che riferirà quello che vede alla Signoria e che, quindi, mio cognato Lorenzo saprà ogni dettaglio.” la voce di Caterina si era fatta sottile, lasciando intendere quanto fosse stanca: “Dio solo sa cosa penserebbe Lorenzo, se ti sapesse coperto di stoffe preziose o con addosso armi costose...”

Il pensiero della Sforza era andato a tutte le chiacchiere che si erano sprecate attorno a Giacomo, al suo vestire lussuoso e allo sfarzo che mostrava ogni qual volta si presentava in pubblico. Per il Medici sarebbe stato anche troppo facile fare un parallelismo con Pirovano, se l'avesse saputo agghindato come un nobiluomo.

Dopo un altro paio di disposizioni di ordine pratico, mentre l'uomo immergeva sempre di più le braccia, per detergere al meglio l'intera schiena della Tigre, questa ebbe per un attimo la tentazione di chiedergli di spogliarsi e raggiungerla nella tinozza, per finire quello che avevano dovuto interrompere quella mattina all'alba.

Lasciò perdere, però, perché sapeva che se avesse ceduto a quel genere di distrazioni, quella sera, poi le sarebbe passata del tutto la voglia di incontrare Machiavelli e, malgrado tutto, sapeva di non potersi permettere di farlo aspettare fino al giorno seguente.

Tolti anche gli ultimi residui dello sporco della giornata anche dai lunghi capelli bianchi, la Contessa uscì dall'acqua e lasciò che fosse Giovanni a coprirla con il telo asciutto. Si godette le sue braccia che l'avvolgevano, abbracciandola in modo sensuale, con la scusa di volerla asciugare meglio. Per la seconda volta nel giro di poco, la tentazione di lasciar perdere gli affari di Stato e dedicarsi solo ed esclusivamente al proprio desiderio la mise in difficoltà. E per la seconda riuscì a imporsi sulle pulsioni del suo corpo.

“Vai di là e prendimi l'abito rosso.” gli disse, divincolandosi un po' dall'abbraccio.

L'uomo, che nel trovarsi la sua amante nuda e profumata stretta al petto, fece un po' fatica ad accettare quel distacco, ma, da buon soldato, ubbidì.

Mentre aspettava Giovanni, Caterina finì di asciugarsi e aprì la finestra. L'aria della sera era ancora abbastanza tiepida e spirava un leggero vento. Con quel clima, i suoi capelli sarebbero asciugati abbastanza in fretta. Decise che sarebbero stati proprio loro a dettare l'ora dell'incontro con Machiavelli. In fondo, pensò, non poteva presentarsi all'ambasciatore di Firenze con i capelli gocciolanti.

Anche aiutandola a vestirsi, stringendole i nodi dell'abito rosso che le lasciava scoperta gran parte della schiena, Pirovano dovette forzarsi a pensare ad altro. Da tutto il giorno aveva atteso il rientro di Caterina e sapere di dovere aspettare ancora, prima di riprendere ciò a cui aveva dovuto rinunciare quella mattina, era per lui una tortura.

Quando sentì le mani dell'uomo scostarle i capelli di lato e le sue labbra sfiorarle la base del collo, la Sforza fu davvero sul punto di cedere. Si voltò verso di lui, e, con uno sguardo inequivocabile, gli fece segno di chinarsi un po' verso di lei.

Tuttavia, proprio mentre faceva quel gesto, di nuovo la battaglia tra la ragion di Stato e il suo istinto si accese e si concluse con una vittoria schiacciante della prima, e così Giovanni si sentì sussurrare all'orecchio: “Adesso no. Dopo. Quando torneremo alla rocca.”

Il milanese non se lo fece ripetere e, dopo aver finito di vestirla, la seguì nell'altra stanza, perché la Contessa doveva ancora scegliere che gioielli indossare per quell'occasione.

La donna ci mise parecchio, ma alla fine scelse un anello sottile e poco vistoso da tenere al dito assieme al nodo nuziale, per farlo notare meno, disse, e una collana leggera, poco più che un filo d'oro con un paio di pietre preziose di piccola taglia come pendenti.

Aveva passato in rassegna il suo forzierino di preziosi quasi per intero, scartando tutti i monili troppo vistosi e tutti quelli che le ricordavano troppo il Vaticano. Alla fine, tanto per non presentarsi completamente disadorna, aveva optato per quell'abbinamento molto sobrio e quasi troppo scarno.

Stava per chiudere il bauletto, quando Pirovano, alle sue spalle si lasciò scappare un mezzo fischio di ammirazione e commentò: “Che diamine, Caterina... Hai un vero tesoro, lì dentro.”

“Sapessi quanto mi sono costati, alcuni di questi gioielli...” soppesò lei, ricordandosi, per esempio, della pesantissima collana regalatale dal suo primo marito, per lei da sempre un segno tangibile del cappio che lui, metaforicamente, le aveva stretto al collo il giorno in cui si erano sposati.

“Se li rivendessi, faresti abbastanza soldi da comprarti un esercito grosso il doppio di quello francese...” continuò l'uomo, esagerando forse un po' nella sua stima, ma rendendo bene l'idea di quanto fosse rimasto impressionato.

“Anche se volessi farlo, non potrei.” tagliò corto Caterina, chiudendo di scatto il piccolo forziere.

“E perché?” chiese lui, accigliandosi.

“Perché per questi gioielli ho altri progetti.” concluse lapidaria la Tigre, con un sospiro pesante.

 

Quando erano arrivati a chiamarlo, Machiavelli era già mezzo svestito e con gli occhi a mezz'asta, pronto ad addormentarsi sulla sedia su cui, pateticamente, si era messo ad aspettare. Si era detto che, probabilmente, la Tigre di Forlì non lo avrebbe ricevuto fino al mattino dopo e così si era imposto di cambiarsi e coricarsi appena passate le undici di sera.

Però, poco dopo le dieci, cogliendolo completamente alla sprovvista, erano andati a cercarlo e lui, da bravo diplomatico, aveva fatto subito un grande sorriso e si era rivestito in un lampo, riuscendo perfino a togliersi dal viso i segni del sonno e della stanchezza accumulata nei giorni di viaggio.

Si era lasciato guidare fino al palazzo dei Riario, senza fare domande, anzi, mostrandosi sicuro e fiero, come se non gli sembrasse per nulla strano essere chiamato a colloquio a quell'ora tarda, per di più in un edificio che dava tutta l'idea di essere pronto a crollare da un momento all'altro.

Si era atteso, però, di incontrare la Contessa a Ravaldino, e non a palazzo. Moriva dalla voglia di vedere più da vicino quella rocca che tutti additavano come il vero segreto del potere di quella donna. Avrebbe dovuto pazientare, però, e coltivarla, nella speranza di entrare in simpatia con lei e spingerla, una volta conquistata la sua fiducia, a mostrargli in prima persona la sua dimora e svelargliene i segreti.

In fondo, pensava Niccolò, la Leonessa di Romagna era comunque solo una donna e lui, con le donne, sapeva come comportarsi. Non era bello, non aveva particolari attrattive evidenti, ma se si impuntava di farne capitolare una ai suoi piedi, ebbene, questa lo faceva e basta.

Venne scortato fin davanti a una porta un po' rovinata, dall'intonaco in parte smangiato dall'incuria, e il soldato che l'aveva accompagnato bussò al suo posto e lo annunciò. Una voce femminile disse di entrare pure e così, finalmente, Machiavelli venne ammesso alla presenza di Caterina Sforza.

Ciò che colse di sorpresa l'uomo non fu tanto l'ambiente ampio, ma molto scuro, illuminato appena da un paio di file di candele, ma la totale assenza delle figure di spicco che si era atteso di conoscere.

Non c'erano cancellieri, non c'erano segretari, né consiglieri, ma solo una donna. E un uomo, che le stava alle spalle, in un punto d'ombra, vicino alle grosse finestre.

Invitato dalla Contessa a farsi avanti, il fiorentino si esibì in un profondo inchino e cominciò a parlare, passando dai convenevoli imparati a memoria, alle scuse per essere stato così insistente, quel giorno.

Quando ebbe finito, risollevò lo sguardo e per la prima volta poté guardare con attenzione la donna che, solo qualche anno addietro, era riuscita a spaventare l'intera Romagna e, forse, anche gran parte dell'Italia.

Malgrado fosse un uomo dallo spirito saldo, per qualche istante sentì l'aria mancargli nei polmoni.

Era vero, quello che tutti dicevano, dunque: la bellezza della Contessa era qualcosa che andasse oltre i canoni e gli ideali. Anche alla luce tremula delle candele, malgrado la freddezza del suo sguardo e l'alterigia delle sue labbra serrate, quella donna apparve a Machiavelli come l'essere più etereo e al contempo più carnale che potesse esistere, una presenza che da sola faceva sfigurare tutte le altre possibili rivali. Era una di quelle apparizioni capaci di far perdere la testa a un uomo anche solo con uno sguardo.

Era semplicemente diversa da qualsiasi altra gentildonna che Niccolò avesse mai visto. Erano forse i suoi capelli, lasciato lunghi e sciolti, malgrado la sua età e malgrado fossero più bianchi, ormai, che non biondi, o forse era la pelle chiara del suo viso e del suo petto, il suo seno prosperoso, messo in risalto dall'abito rosso e succinto che ne disegnava il profilo, o forse era la sua figura complessa, la sua altezza notevole o l'aura che sembrava emanare, di potere e sicurezza. Il fiorentino non sapeva dire quale fosse il suo segreto, ma adesso capiva, comunque, da dove derivasse gran parte della forza di quella donna.

“Mi scuso per mio figlio Ottaviano.” disse a voce bassa Caterina, notando all'istante l'effetto avuto sul suo ospite: “Si trova a Forlimpopoli, in questo momento, per un viaggio di piacere programmato da tempo e a cui non ha potuto rinunciare.”

Solo a quel punto, mentre faceva un cenno servile con il capo, come a dire che non importava, Niccolò si ricordò della figura che stava alle spalle della Sforza.

Con discrezione, spostò lo sguardo dalla Tigre all'uomo, ma lo riabbassò all'istante, nell'incrociare quello di lui, granitico e fisso. Si trattava per certo di un soldato, vista la fisicità notevole e la spada che portava al fianco. Per un attimo il fiorentino pensò che si potesse trattare di una sorta di guardia del corpo della Contessa, ma fu proprio lei a rivelargli la vera identità di quella figura dai capelli scuri e dalle spalle larghe.

“Lui è Giovanni da Casale.” gli disse, indicandolo, mentre il milanese le si avvicinava, arrivando a fiancheggiarla: “L'ambasciatore di mio zio, il Duca di Milano.”

Finalmente Machiavelli si permise di osservarlo davvero. Aveva un viso pressoché perfetto, un aspetto molto virile, benché si vedesse quanto fosse giovane, e la sensazione di forza che emanava ne faceva il degno compare della Leonessa.

In un solo istante, Niccolò fu sicuro che quell'uomo altro non fosse se non il nuovo amante favorito della Sforza. Tuttavia non si scompose, mettendo davanti a tutto l'interesse della Repubblica e il proprio. Quell'ambasceria era troppo importante, per la sua carriera e dunque non doveva lasciarsi trascinare troppo dalle sue idee personali, né dall'antipatia a pelle che già nutriva per quel Giovanni da Casale.

Caterina, lasciato il tempo al fiorentino di guardare per bene Pirovano, gli fece un cenno con la mano, invitandolo a dire quel che aveva da dire.

Fuori dal palazzo dei Riario la vita che animava la città di giorno si stava via via addormentando, lasciando il posto alla Forlì notturna, fatta di canti da osteria e risate sguaiate di nugoli di soldati che andavano per locande e lupanari. La Sforza avrebbe dato un braccio, pur di lasciare quel pedante ambasciatore al suo destino e unirsi ai suoi uomini, a bere e fare confusione, e non pensare a nulla fino al mattino seguente.

Machiavelli cominciò la sua lunga trattazione. Più parlava, però, benché stesse usando parole studiatissime, accenti caldi e accomodanti e formule retoriche degne di un oratore di rango, più la Contessa di scopriva insofferente, non solo verso il contenuto del suo discorso, ma anche verso di lui come uomo.

Di media corporatura, stava con le spalle un po' curve, quasi che così facendo potesse coinvolgere di più la sua interlocutrice. Aveva i capelli mossi, ricci, scomposti, che formavano uno strano ciuffo nero in messo alla fronte. Aveva tratti del viso aguzzi, ossuti, con due occhi piccoli e scuri che s'illuminavano al momento giusto del discorso e che poi, irrequieti, la squadravano, la indagavano, spostandosi di continuo dal suo viso alla scollatura del suo abito in un modo che la donna trovava più irritante che mai.

Le labbra sottili del fiorentino si muovevano appena, mentre parlava, e le sue mani agili gesticolavano al momento opportuno, sottolineando ciò che, evidentemente, doveva restare maggiormente impresso a chi ascoltava.

Nel complesso, alla Leonessa quello strano uomo parve un roditore, più che un ambasciatore e la sua bruttezza – perché brutto era l'unico aggettivo che le veniva in mente nel guardarlo – ebbe il potere di annebbiare quasi del tutto il suo discernimento.

Un odio irrazionale la portò a leggere ogni sua frase come una mezza dichiarazione di guerra, benché, di fatto, fossero solo le stesse promesse trite e ritrite che la Signoria cercava di avanzare da tempo.

Niccolò, praticamente, le stava dicendo che Firenze aveva tutta l'intenzione di pagarla, per i suoi servigi e anche che, pur non avendo obblighi formali, era anche pronta a concedere un anno di proroga alla condotta di Ottaviano, ma lo fece sottolineando in modo ripetuto e irritante il fatto che la Signoria non era tenuta in alcun modo a concederle quella gentilezza, benché avesse intenzione di farlo.

I soldi, poi, che lei sosteneva le fossero dovuti dalla Repubblica, perché presi in modo illegale, in realtà erano trattenute doverose e del tutto legittime, che comunque Firenze le avrebbe restituito, non appena avesse avuto i fondi necessari per farlo, dovendo prima, ovviamente, pensare alle spese vive necessarie per il bene dello Stato e solo in un secondo momento a quelle degli altri.

Aggiunse che per quell'anno la condotta sarebbe stata di diecimila ducati, con un numero di soldati da decidersi in tempo di pace, appena conclusa la questione pisana.

“E questa condotta – concluse l'arringa Machiavelli – sarà a cumulo degli altri vostri meriti, perché col tempo vi renderete conto di aver servito una Signoria tutt'altro che ingrata, e non vi pentirete di averla accettata, così come non vi pentirete di tutte le altre buone opere che avete fatto a beneficio di Firenze. Vi assicuro che sarete soddisfatta della ricompensa che vi darà la nostra Signoria.”

Siccome l'ambasciatore non diceva più niente e restava in attesa, Caterina fece un sospiro pesante e, guardandolo con distacco, ribatté, in risposta al suo discorso, durato quasi mezz'ora: “Le parole della vostra Signoria, come sempre, mi soddisfano. Sono i fatti a dispiacermi, dato che per quello che ho fatto per Firenze, non ho ancora avuto nulla in cambio.”

Niccolò sbiancò, davanti a un simile attacco, ma prima che potesse dire qualcosa per ammorbidirla, la Sforza andò avanti per la sua strada.

“So che i fiorentini sono sempre gratissimi e che non inizieranno ora a essere ingrati verso che ha fatto forse più che nessun altro alleato, ovvero mettere, senza obbligo alcuno – la Tigre calcò la voce su queste tre parole come a riecheggiare il continuo insistere dell'ambasciatore sulla gratuità dell'impegno di Firenze nei suoi confronti – il mio Stato in preda dei Veneziani, vicini e potentissimi.”

Giovanni da Casale, accanto alla Contessa, aveva gonfiato un po' il petto, posando la mano sull'elsa della spada. Quel gesto, assieme alla voce della donna, che si alzava a ogni parola, mise i brividi al fiorentino che avrebbe preferito portare avanti quell'incontro ufficiale alla luce del sole, piuttosto che in quella stanza spettrale, sotto la fiammella di una dozzina di candele.

“E sono felice – continuò Caterina – di saziarmi di questa speranza e non voglio più discutere se le loro Signorie sono tenute o meno a concedere il Beneplacito a mio figlio, ma voglio tempo per pensarci anche io, a questo punto, visto che la Signoria ci ha messo tanto a discutere e consultarsi.”

Il fiorentino sbatté un paio di volte le palpebre e chiese, sconcertato: “Volete del tempo per pensarci?”

La Leonessa annuì, senza parlare più. Pirovano, fermo come una statua, le restava alla destra, gli occhi fissi su Niccolò e la mano sempre alla spada.

“Quanto tempo pensate vi serva, per decidere? Io devo mandare una risposta a Firenze.” le ricordò Machiavelli, che si era aspettato tutto fuorché quella situazione.

Gli pareva assurdo, a dir poco. Prima la Sforza faceva di tutto pur di avere di nuovo la condotta assicurata per il figlio e poi, quando le veniva detto di sì, era lei a prendere tempo, sostenendo di doverci ragionare sopra, prima di accettare?

“Non lo so.” fece laconica la Tigre: “Ora potete andare, se non avete altro da dire. È notte, ormai, e siamo tutti stanchi.”

L'ambasciatore era incredulo, per tutto quanto e quando la donna, in un chiaro invito ad andarsene, gli indicò la porta con la mano, perse del tutto la pazienza.

Riuscì a trattenersi, però, almeno all'esterno e, maledicendola e riempiendola di insulti mentalmente, si esibì in un inchino e disse, la voce resa un po' spigolosa dalla rabbia: “Confido che vi basti poco tempo, in ogni caso, per giungere a una conclusione del vostro pensiero.”

Machiavelli rifiutò la scorta della guardia che voleva riaccompagnarlo alla porta d'ingresso del palazzo e quando fu in strada, non resistette a cercare con lo sguardo la finestra del salone in cui era stato accolto e borbottare a mezza bocca una serie di improperi coloriti, immaginandosi la Sforza scandalizzata nel sentirsi apostrofare a quel modo.

La donna, però, era affacciata, ben visibile al riflesso delle candele e il modo in cui lo stava osservando dall'alto, mise addosso una paura quasi incomprensibile al fiorentino che, rimangiandosi tutto, si mise a camminare veloce come un grillo, diretto alla locanda dove aveva trovato alloggio.

“Andiamo alla rocca. Sono stanca.” disse piano Caterina e, con passo lento e svogliato, lei e Pirovano tornarono a Ravaldino.

Andarono nella loro camera e mentre la Contessa si spogliava, e poi si metteva la crema per le mani, seduta alla scrivania, Giovanni non fece altro che ragionare su quanto appena accaduto.

“Perché hai fatto così?” le chiese, mentre l'amante passava a detergersi il viso con una delle sue misture profumate.

“Perché quell'uomo non mi piace, come non mi piace il tono che la Signoria gli ha messo in bocca.” spiegò lei, senza scomporsi.

Adesso che era al sicuro, nella sua camera, con l'uomo che si era scelta per lenire la sua solitudine, tutta la tensione di quelle ore si era come squagliata. Era una sensazione strana, le sembrava quasi di galleggiare. Era stremata, ma in un certo senso si sentiva bene.

“Puoi permetterti davvero di fare l'orgogliosa anche adesso?” le chiese Pirovano, incrociando le braccia sul petto.

La Tigre si voltò verso di lui, rendendosi conto solo in quel momento che il milanese non si era cambiato per la notte, e che, in piedi fisso accanto al letto, sembrava più tirato di una corda d'arco.

“Non sta a te muovermi certe critiche.” gli ricordò: “I patti tra noi sono chiari: io do gli ordini e tu li esegui. Sei al mio servizio, hai accettato la mia condotta. Devi fare quello per cui ti pago e basta.”

Giovanni si morse il labbro e quando la donna gli si avvicinò, prendendogli una mano e convincendolo a baciarla, si sentì proprio come un cagnaccio che si vendeva per un pezzo di carne.

“Anche questo è compreso nel prezzo, vero?” le chiese, mentre le mani di lei correvano ai lacci delle sue brache, nel chiaro intento di concludere quella giornata finendo ciò che avevano interrotto quella mattina all'alba.

“Vedila come vuoi. Fossi in te lo considererei un incentivo che ti accordo per i tuoi servigi militari.” sussurrò lei.

Vinto dalla voglia di farla sua, il milanese calpestò il proprio orgoglio con una facilità disarmante, e, senza più chiedersi chi avesse ragione, tra lui e Caterina, si lasciò andare, concedendosi quella parentesi di passione in una giornata che aveva portato con sé solo dubbi e apprensioni.

 

Le urla di Lucrezia Medici riempivano palazzo Salviati, insidiandosi in ogni anfratto, rendendo impossibile a tutti scappare da quel suono acuto e dolente.

Jacopo faticava quasi a respirare, per quanto era teso. Era in piedi, accanto alla porta della stanza in cui sua moglie stava partorendo. Aveva necessariamente lasciato alle donne della casa il compito di aiutarla e starle vicino, ma era come se una forza invisibile volesse costringerlo a entrare e mettersi accanto a lei, dividendo in due il dolore e la fatica di quel momento.

I loro figli erano con la balia, in un'ala tranquilla, lontani da quella confusione e i testimoni presenti erano pochissimi. Il Salviati non voleva pubblico, non subito, almeno. Non per sé, perché, in fondo, poco gli importava di mostrarsi così preda dell'ansia. Era tutto per Lucrezia. Voleva darle il modo di riprendersi, dopo, e una folla di gente pronta a travolgerla non appena il nuovo figlio fosse nato non era il massimo.

E poi... E poi c'era un'altra paura che aveva convinto Jacopo a non lanciare subito inviti e allarmi tra parenti e conoscenti.

C'era sempre la possibilità che quel figlio non nascesse vivo, che nascesse deforme, che nascesse malato, o che non nascesse affatto, morendo e uccidendo anche sua madre, o anche che morisse Lucrezia, mettendo al mondo un orfano.

Erano tutti scenari che la mente del Salviati si rifiutava di prendere seriamente in considerazione, ma era stata la stessa Medici, più pragmatica e cruda di lui, a farglieli presenti, qualche giorno addietro.

Era bene prepararsi anche al peggio, perché non si poteva mai stare tranquilli. Al massimo, se tutto fosse filato liscio, avrebbero raddoppiato la gioia.

Non era ancora spuntato il sole e l'unica fonte di luce, tanto per Jacopo, nell'anticamera, quanto per la moglie, nella sua stanza, erano le candele a muro e nei candelabri. Fuori la città era ancora immersa nell'atmosfera ovattata della notte ed era quella l'ora, per il Salviati, in cui era più facile lasciarsi cogliere dai fantasmi.

Quando non sentì più le grida della moglie, il suo cuore mancò un colpo. Tese l'orecchio, aspettando il pianto del neonato, ma c'era solo silenzio. Udì la voce della levatrice dire in fretta qualcosa, qualcuno risponderle e, quando la porta si spalancò, l'uomo, che si era appoggiato con una mano al legno, come a voler stare più vicino a Lucrezia, per poco non cadde.

“Vostra moglie chiede di voi.” disse piano la levatrice, le mani e le braccia rosse di sangue e un'espressione strana in viso.

Jacopo, la testa che girava, lanciò uno sguardo fugace ai pochi che avevano condiviso con lui l'attesa e si lanciò nella stanza, con la donna che gli chiudeva subito la porta alle spalle.

Per prima cosa, il Salviati vide Lucrezia. Era viva. Respirava. Era sudata, c'era il suo sangue sulle lenzuola, il suo corpo nudo non era ancora stato ricoperto, ma quel che importava era che fremeva di vita, attraversato da un respiro regolare e forte.

Una delle serve le posò addosso una coperta, più per non farle patire il freddo, che non per coprirla alla vista del marito. Anche se era il 17 luglio, con tutto il sangue che aveva perso e lo sforzo che aveva fatto, era normale che apprezzasse un po' di calore.

“Jacopo...” sussurrò lei, aprendosi finalmente in un sorriso.

L'uomo le si gettò vicino, inginocchiandosi sul gradino del letto, afferrando una mano nelle sue e baciandola: “Stai bene...” le sussurrò, mentre lacrime di sollievo minacciavano di inumidirgli gli occhi.

“Adesso arriviamo...” cantilenò una delle giovani che avevano aiutato la levatrice e che adesso dava le spalle ai due Salviati: “Eccoci qui...” bisbigliò, girandosi e mostrando il fagottino che portava in braccio.

“Volevo che prima la lavassero per bene... Volevo che la vedessi in ordine.” spiegò Lucrezia, seguendo con lo sguardo il marito che, rimettendosi in piedi, si parava davanti alla giovane e prendeva la piccola tra le mani.

“È una femmina?” chiese allora Jacopo, guardando incantato la sua nuova figlia e poi tornando alla moglie.

“Sì. E la voglio chiamare Maria.” dichiarò la Medici, mentre il Salviati si sedeva di nuovo sul gradino del letto e guardava rapito la piccola.

“Sì. Maria Salviati. È un buon nome.” convenne lui: “Ma perché non ha pianto?” chiese poi, ricordandosi la paura di poco prima, quando alla fine delle urla non era seguito il gemito inconsolabile di un bambino appena nato.

“Si vede che ha un buon carattere...” scherzò Lucrezia, che, comunque, si era spaventata tanto quando il marito, nel non sentirla piangere, e si era rasserenata solo quando la levatrice le aveva fatto vedere coi suoi occhi che la bambina respirava benissimo da sola, senza bisogno di indurle il pianto.

“Nata per sopportare, ecco cosa sembra essere...” scherzò la levatrice che poi, con delicatezza, ma anche con la fermezza che le aveva permesso di diventare una delle migliori, nel suo lavoro, chiese al Salviati di uscire ancora un attimo: “Il lavoro non è ancora finito, sapete, e come tempi, ormai ci siamo...”

L'uomo annuì. Aveva visto nascere abbastanza figli da sapere che dopo il bambino, a distanza di dieci minuti o un quarto d'ora, bisognava aspettare che la donna espellesse anche la placenta e che anche quello non era affatto un momento privo di rischi.

Così diede un bacio alla moglie, forte, profondo, come aveva fatto tutte le volte, in passato, in cui aveva dovuto aspettare la fine del secondamento, e poi chiese a una delle serve di uscire un attimo, dire che tutto era andato bene, ma che volevano un momento di tranquillità.

Quando la ragazzetta tornò per dirgli che non c'era più nessuno, in anticamera, l'uomo uscì, la sua bambina stretta al petto, così piccola da aver quasi paura di poterla rompere, a tenerla tra le braccia, e attese, assieme a lei, che Lucrezia potesse dirsi sana e salva.

“Maria...” le sussurrò, baciandole la manina e guardando i suoi occhietti ancora ridotti a due fessure: “La mia piccola Maria...”

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas