Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Saelde_und_Ehre    20/03/2019    8 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
IV.
Alte Kameraden auf dem Marsch durch's Land

 

La colonna di mezzi corazzati, camion e veicoli militari si fermò in prossimità di una villa di campagna abbandonata da anni. Mentre i soldati recuperavano l’attrezzatura, il tenente von Kleist scese dalla Kübelwagen per sgranchirsi le gambe e, incuriosito, allungò il collo per sbirciare oltre il muro soffocato dai rampicanti: l’edificio, che ai tempi del suo massimo splendore doveva essere residenza estiva di un qualche barone locale, era adesso una dimora spettrale, con le finestre che si aprivano verso l’interno come orbite vuote e l’intonaco butterato che veniva giù a pezzi, mentre il tetto era completamente crollato su se stesso. Il parco era invaso da una foresta impenetrabile di alberi abusivi ed erbacce.
Gli parve una metafora più che evidente della decadenza dei tempi, una delle prime avvisaglie di un’epoca che avrebbe sacrificato l’ideale, la bellezza e la virtù all’altare del materialismo. Lo percepiva nell’aria, quel flusso inarrestabile, e non poteva fare a meno di chiedersi se gli sforzi dei pochi che ancora ci credevano sarebbero mai stati sufficienti a contrastarlo, invertendo le tendenze per forgiare un futuro migliore.
Fu la voce del colonnello della Leibstandarte, che per quel giorno si era assunto l’impegno di coordinare le operazioni, a richiamarlo all’attenzione.
“Lasceremo ai Panzer il compito di aprire la strada, mentre la cavalleria attaccherà sui fianchi,” disse dopo i soliti convenevoli, quando tutti gli ufficiali furono radunati intorno a lui. “La fanteria si manterrà nelle retrovie a ridosso del bosco, pronta a intervenire in caso di necessità. Maggiore Ludendorff?”
Si fece avanti un ufficiale con gli speroni ai piedi e la sciabola da cavalleria appesa al fianco. “Signore?”
“Noi ci separiamo qui. Confido in una buona riuscita della strategia.”
“Non la deluderemo, signor colonnello,” rispose l’altro, salutando militarmente.
Il colonnello ripeté le ultime disposizioni ai comandanti delle due compagnie di fanteria, poi congedò anche loro, con l’ordine di tenersi in contatto via radio.
Konrad von Bentheim e Klaus Fromm si misero a capo delle rispettive colonne e s’incamminarono verso i recessi boscosi che delimitavano i contorni dell’ampia distesa pianeggiante.

Mano a mano che i soldati s’inoltravano nella vegetazione, l’umidità che permeava l’aria del primo mattino pareva infittirsi, avvolgendo le sagome dei pini in una nebbiolina che le rendeva quasi evanescenti, e l’odore del muschio diventava un tutt’uno con quello della terra bagnata. Il sottobosco scricchiolava sotto i loro piedi e il canto degli uccellini si levava timido dai rami, salutando il levare del Sole che tingeva i nembi di sfumature violette.
Friedrich von Kleist rimase assorto a guardare i suoi mitraglieri rimpiattati dietro i cespugli d’erba alta, camminando avanti e indietro per rivolgere cenni d’approvazione ai sottufficiali o ripetere le direttive del capitano. Udì la voce chioccia di Walther Eichmann che ammoniva un gruppo di soldati che si erano fermati a scroccare sigarette da Schneider: col suo occhio acuto, come un gufo appollaiato su un ramo, il maresciallo non si lasciava sfuggire nulla. “Ai vostri posti, marmittoni!” abbaiò, usando il fucile come se fosse un bastone per scacciare le belve. Il piccolo crocchio si diradò con un sottofondo di mugugnii e lamentele, e Eichmann si voltò verso il tenente con un sogghigno compiaciuto.
Il giovane si limitò a riservargli una muta approvazione, senza distogliere lo sguardo dalla barriera di sacchi di sabbia che aveva fatto allestire in prima linea, in attesa di prendervi posto. Gli parve strano non avere con sé il suo Schmeisser, che sul campo di battaglia costituiva un vero e proprio prolungamento del suo braccio. Con un gesto meccanico, involontario, la sua mano andò a sfiorare la fondina della pistola che gli pendeva dalla cintura.
“Von Kleist, il capitano ci vuole tutti quanti a rapporto,” gli disse Wessel, che passava di lì. “Veda di non tardare anche stavolta.”
Cogliendo la velata allusione del suo pari, il tenente roteò gli occhi e in silenzio lo seguì.

Friedrich si sedette su un sasso, le dita che tormentavano svagate la cordicella del suo binocolo. Rimanere in attesa, senza sapere quel che sarebbe successo di lì a poco, era di sicuro meno pericoloso che guidare le truppe all’assalto ma, se durante i combattimenti riusciva a fare il vuoto nella mente e concentrarsi solo sull’attimo presente, in quel momento i suoi pensieri erano tutti rivolti al senso d’incertezza che pervadeva quell’istante sospeso.
Guardò ancora una volta gli ufficiali della sua compagnia: il tenente Wessel conversava animatamente con Körner e il capitano, Hartmann pareva come sempre in attesa di un ordine e la figura del sottotenente Kühn torreggiava in tutta la sua imponenza vicino a un cannone controcarro così lucido da sembrare appena uscito dalla fabbrica. Si alzò per raggiungerlo, ma subito dopo individuò il capitano Bentheim, poco distante dal suo schieramento. Gli si avvicinò e lo chiamò.
“I miei uomini scalpitano”, disse Konrad, indicando con un sorriso bonario i soldati del reparto mortai pesanti. “Non vedono l’ora di entrare in azione.”
Il tenente annuì con aria critica. “Sono tutti quanti convinti che entro metà settembre Varsavia sarà già caduta, ma sottovalutano la determinazione dei nemici. Anche se l’intervento di ieri si è concluso con una nostra vittoria, pure loro ci hanno dato del filo da torcere.”
“È così. Ho come l’impressione che reincontreremo presto anche i carri superstiti di ieri. Si sono ritirati per andarsi a leccare le ferite da qualche parte, ma non si arrenderanno facilmente.”
“Oggi vedremo se i nostri Panzer riusciranno a tenergli testa.”
“Sicuramente.” Sulle labbra del capitano comparve l’ombra di un sorriso, effimero e fugace. A bassa voce soggiunse: “Sempre che non succeda come l’altro giorno…”
Sulle prime, Friedrich non disse nulla, né l’altro sembrava attendere una replica. Aveva compreso subito quale fosse l’oggetto di quell’allusione, anche se Konrad non l’aveva menzionato espressamente: quell’episodio così improvviso aveva lasciato sconvolti entrambi. Gli balenò davanti agli occhi la visione delle bandiere di guerra adagiate sui feretri, l’atmosfera austera della parata funebre, i camerati che cantavano Ich hatt’ einen Kameraden per tutti i caduti di quella giornata. Anche se quegli uomini erano morti facendo il loro dovere, anche se da soldati s’imparava presto a convivere con una simile consapevolezza, riaversi dal primo contatto ravvicinato con la morte non era stato facile per nessuno.
Proprio in quel momento, si iniziarono a udire botti di spari in lontananza, segno che lo scontro era iniziato e le truppe nemiche si stavano muovendo nella loro direzione.
“È ora di andare”, disse risoluto Bentheim, che improvvisamente aveva recuperato tutta la sua tempra.
Friedrich ordinò ai suoi soldati di tenersi pronti, si armò e andò a prendere il posto che gli spettava.

Una voce squillante si levò al di sopra degli spari. “Signor maggiore, convocazione urgente dal tenente colonnello von Rauheneck!”
Hans accolse l’annuncio con un sospiro rassegnato: se il suo superiore lo sottraeva dalle sue mansioni nel bel mezzo di uno scontro campale, c’era solo da aspettarsi l’ennesimo cicchetto. Si alzò sistemandosi la bustina sul capo e con un gesto sommario si ripulì i pantaloni dalla sporcizia, per rendersi un po’ più presentabile agli occhi dell’anziano ufficiale.
“Walkenhorst, conto su di lei,” disse semplicemente, dando al suo capitano una pacca sulla spalla.
“Sissignore!” esclamò l’altro, con un ghigno complice.
Prima di allontanarsi, Bühler lanciò un’ultima occhiata alla prima linea dello schieramento: il fumo nascondeva il colore del cielo, e l’odore pungente della polvere da sparo era così intenso da costringere un paio di soldati a coprirsi il naso con un fazzoletto bagnato.
Von Rauheneck gli piombò di fronte prima ancora che lui lo raggiungesse. Era un uomo di mezza età, più tozzo che robusto, con spessi occhiali dalla montatura d’oro e i capelli castani che gli si diradavano sulle tempie. Il giovane ufficiale si ricompose e scattò sull’attenti, mentre l’altro lo squadrava dall’alto in basso con l’aria di un padre intento a osservare il figlio adolescente che si atteggiava a uomo navigato. “Venga, maggiore, venga.”
Bühler lo seguì senza battere ciglio.
“Suppongo che lei sappia del tenente von Kleist,” esordì il tenente colonnello.
Egli si mise sulla difensiva. “Naturalmente, signore.”
“Bene, è già la seconda volta che un suo ufficiale si rende protagonista di un atto d’insubordinazione.” Von Rauheneck alzò la testa per guardarlo dritto in faccia, e il maggiore sostenne il suo sguardo senza fiatare: il suo superiore gli arrivava poco sopra la spalla, e le lenti spesse, l’espressione intenta e il viso rotondo facevano sembrare i suoi occhi ancora più piccoli. “Dovrebbe dare il buon esempio, guidare le sue truppe senza inutili ostentazioni di coraggio e ardimento.”
“È così, signor tenente colonnello.”
“Senz’altro, maggiore, senz’altro.”
Quando furono giunti alla postazione di comando, l’ufficiale più anziano trasse un’elegante pipa di legno dal taschino, la caricò e l’accese, con gesti che la dimestichezza aveva reso rapidi e precisi.
“Von Kleist ha delle doti eccellenti,” soggiunse infine, “ma è un po’ troppo abituato a fare di testa sua.”
Bühler non replicò, conoscendo ormai fin troppo bene il carattere del suo superiore. Anche se lui e Friedrich, nel privato, avevano superato da tempo certe barriere, la gerarchia militare gli imponeva di ostentare imparzialità e assumere la facciata granitica del superiore che emana disposizioni senza perdersi in sentimentalismi. “Intendo parlargli quanto prima, signore.”
Una cosa semplice, con gente come il caporale Schneider o il sottotenente Schultz, che però diveniva un’impresa ardua col cavaliere prussiano, come lo chiamava affettuosamente lui: il giovane sapeva tenergli testa alla pari, senza chinare il capo; poteva sembrare altero, ma l’arroganza non faceva parte della sua natura. E, forse proprio in virtù di questo, Hans non riusciva a vederlo come un semplice sottoposto: il legame che si era instaurato tra loro – prima nella vita militare, e in seguito anche in quella privata – era qualcosa che ricordava da vicino le fratellanze guerriere delle società indogermaniche.
“Mi faccia rapporto di quanto accaduto da quando ci siamo separati, prego”, lo interruppe nuovamente von Rauheneck. Si sedette su una seggiolina pieghevole e accavallò le gambe, spiegando la mappa del fronte.
Il maggiore rimase in piedi, le braccia conserte, e senza lasciar trapelare alcuna emozione iniziò a elencare le operazioni da lui condotte e i successi conseguiti negli ultimi giorni.
“Non si monti la testa, Bühler, e tenga bene a mente che comandare un battaglione è un fardello più che un onore”, lo ammonì l’altro quando ebbe finito, senza alzare gli occhi dalla cartina. “E adesso, bando alle ciance! Si metta pure comodo, perché intendo esporle la strategia alla quale desidero che lei si attenga.” Lasciò cadere una breve pausa a effetto, poi lo guardò di sottecchi e puntualizzò: “Alla sua età io ero ancora tenente, quindi le consiglio di ascoltare e imparare da chi ha più esperienza di lei.”
Hans corrugò la fronte. Avrebbe voluto replicare, ma ancora una volta preferì tenere la bocca chiusa: si rendeva conto che il suo superiore avrebbe messo da parte i propri pregiudizi solo dopo averlo visto in azione sul campo, e che ogni resistenza a quel trattamento avrebbe soltanto distorto la sua percezione. “Sissignore”, si limitò a dire, sedendosi su un muretto poco discosto da lui. Di nuovo incrociò le braccia sul petto e rimase in paziente attesa.
Von Rauheneck iniziò con una lunga digressione che partiva dai mesi antecedenti la guerra, ripetendo cose che Bühler sapeva già a memoria. Per un po’, il giovane rimase ad ascoltarlo, controllando di tanto in tanto l’orologio da polso, ma dopo dieci minuti abbondanti la sua attenzione iniziò a scemare e fu attirata dal capitano Walkenhorst che passava di lì. Quando i loro sguardi s’incontrarono, il maggiore finse di grattarsi la testa e, con un movimento appena percettibile, mimò con le dita il gesto di puntarsi la pistola alla tempia. L’altro si coprì il volto per non far vedere che stava ridendo, ma il tenente colonnello, troppo preso dal proprio eloquio, non ci fece minimamente caso.

Solo dopo un tempo che parve interminabile, von Rauheneck iniziò ad esporre i propri puntigli strategici. Parlava così veloce che Bühler fu costretto più volte a scarabocchiare le parole mentre li annotava sul suo taccuino, sbirciando la mappa da sopra la sua spalla per meglio controllare i riferimenti. Infine, il tenente colonnello allungò le gambe, si alzò con un grugnito di soddisfazione e batté una sonora pacca sulla schiena del giovane. “Adesso vada, maggiore. Vada a riferire i miei ordini e torni qui a farmi rapporto.”
Hans aggrottò le sopracciglia: von Rauheneck aveva l’abitudine di usarlo come portaordini fin da quando era sottotenente e, apparentemente, non aveva alcuna intenzione di sollevarlo da quell’incarico. Scuotendo il capo con rassegnazione, si avviò verso le prime linee ripassando mentalmente la gran quantità di disposizioni che il tenente colonnello gli aveva affidato.

Rombo di motori, deflagrazioni e sferragliare di cingoli segnalarono l’inesorabile avvicinamento delle truppe corazzate, producendo una cacofonia assordante. Sospinte dal vento, bollenti zaffate di fumo portavano con sé il tanfo del carburante e della lamiera bruciata.
Konrad von Bentheim imbracciò un MP38, lo caricò e si guardò intorno, cercando di fendere la caligine: i soldati della compagnia fremevano, incalzati dal desiderio di andare incontro ai nemici.
Appostato dietro la barriera, i gomiti appoggiati sui sacchi di sabbia, il tenente von Kleist osservava l’avanzata dei blindati attraverso le lenti del suo binocolo. Come sempre quando doveva guidare un assalto contro la fanteria nemica, oltre alle bandoliere che portava a tracolla, anche il suo tascapane era pieno fino all’orlo di munizioni.
Il capitano affidò il comando del plotone mortai pesanti al tenente Koch, gli ordinò di avvicinarsi quel tanto che bastava da poter tagliare un’eventuale ritirata al nemico e strisciò accanto a von Kleist, turandosi il naso e la bocca per evitare di tossire.
“Ci sono quasi addosso, ma non sembrano essersi accorti che ci troviamo qui,” gracchiò Friedrich, gli occhi che gli lacrimavano. “Ma che…” Rimase ammutolito per un istante, poi qualcuno completò la frase con l’onomatopea di un’esplosione.
“Meglio che al cinema!” esclamò allegramente un giovane maresciallo, che come lui stava assistendo alla battaglia.
Incuriosito, Konrad prese a sua volta il binocolo e individuò la scena che aveva attirato l’attenzione dell’amico: la carcassa di un 7TP giaceva riversa nel fango col fianco squarciato, divorata dalle fiamme, mentre una colonna di fumo nero si levava pigra verso il cielo. Quelli che dovevano essere due membri dell’equipaggio stavano trascinando a spalle un compagno ferito, sfruttando la protezione dei carri amici. Constatò che da un bel po’ di tempo le due formazioni compatte dovevano aver irrimediabilmente ceduto il passo a scontri isolati, con Panzer e 7TP che s’inseguivano e si recuperavano come belve sul terreno di caccia, talvolta ingaggiando duelli a colpi di cannone. I tedeschi erano in superiorità numerica e i loro carri più veloci, più robusti e meglio armati, ma dovette ammettere che i nemici si stavano battendo con grande coraggio. Un carro polacco virò bruscamente per evitare i traccianti di un Panzer III, slittò ruggendo su una pozza di carburante e brandeggiò il cannone in direzione del suo secondo rivale, un Panzer IV. Divenuto improvvisamente preda, l’inseguitore non ebbe tempo per contrattaccare: fece una manovra disperata nella speranza di limitare il danno, ma il proiettile centrò in pieno il suo serbatoio, sventrandolo come una scatoletta di latta e generando un incendio che lambì l’erba secca.
“Oh, cazzo,” imprecò un sottufficiale. “È già il secondo che fa saltare…”
Senza neanche compiacersi del proprio successo, l’aspirante asso polacco si dileguò tra le falde di fumo rutilante, facendosi beffe delle cannonate che scalfivano la sua corazzatura.
I due ufficiali, impressionati, rimasero in silenzio. Bentheim tornò a osservare il Panzer III, che nel frattempo si era lanciato all’inseguimento del carro polacco e stava crivellando di cannonate il suo fianco. Gli tornò in mente Reinhardt, che era comandante di un carro identico a quello, e per un istante gli venne da immaginare che fossero proprio lui e i suoi uomini a dare una così spietata caccia al suo nemico.
Quell’ultimo pensiero gli disegnò un accenno di sorriso sulle labbra.

Il maggiore Bühler finì di smistare i feriti e i prigionieri di quella giornata e varcò l’entrata dell’accampamento con la sensazione di essersi tolto uno sgradevole peso dal petto.
Alla fine, von Rauheneck si era convinto a lasciargli carta bianca per quanto riguardava il suo reparto, lui e Walkenhorst avevano guadagnato terreno e con un assalto frontale erano riusciti a penetrare a fondo nelle difese polacche, per poi disperderle e metterle in fuga.
Bühler sapeva che quella era una prova a cui il suo superiore li aveva sottoposti: la tendenza che lui e i suoi commilitoni avevano ironicamente soprannominato sindrome da precettore non tardava mai a manifestarsi, soprattutto nei confronti di coloro che il tenente colonnello reputava troppo giovani per il ruolo che ricoprivano – a detta sua, dei pivelli – e l’unico modo per abbatterla era rendersi degni della sua fiducia. Non era sicuro del fatto che quella vittoria sarebbe bastata a soddisfare le aspettative dell’anziano ufficiale, ma almeno per quel giorno poteva dire di aver fatto il suo dovere.
Il posto di medicazione era un grosso tendone verde con una croce rossa sulla parte frontale, che al suo interno ospitava file ordinate di lettini sui quali erano adagiati feriti più o meno gravi. Alcuni si lamentavano, rigirandosi inquieti tra le coperte sporche di sangue, altri scrivevano lettere da spedire alla famiglia o scalpitavano, impazienti di essere dimessi e tornare operativi.
Gli ufficiali medici supervisionavano l’operato degli infermieri, che andavano avanti e indietro coi loro carrelli. Qualcuno di loro sollevò il braccio per salutarlo militarmente, e il maggiore si ripromise che sarebbe andato a far loro visita per informarsi della salute dei suoi soldati.
Prima, però, si guardò intorno in cerca del medico che lo attendeva per le medicazioni di rito.
“Venga, signor maggiore”, lo chiamò un dottore biondo e mingherlino, all’incirca della sua età.
Hans si lavò le mani e il viso, ancora sporchi di polvere da sparo, nel catino che il giovane gli porgeva, poi si sbottonò la giubba e la camicia. Con la familiarità data da anni di cortesi interazioni, l’altro rimosse la fasciatura sporca e si chinò a esaminare la ferita, senza riuscire a trattenersi dallo scuotere la testa. Prima che Bühler potesse chiedergli delucidazioni, si affrettò a precisare: “Sta guarendo bene, ma le raccomando la massima attenzione.” Alzò appena la testa e lo guardò con una sfumatura severa negli occhi grigi. “Non vorrà mica che si riapra o che s’infetti?”
“Non si preoccupi, dottore, non ho intenzione di trascurare i suoi ammonimenti”, disse l’ufficiale in tono accomodante. Ed era vero, anche se nel loro precedente colloquio nessuno dei due aveva fatto cenno alla possibilità di condurre un assalto di fanteria su terreno accidentato – come effettivamente aveva fatto fino a poche ore prima.
“Mi raccomando: eviti di fare movimenti troppo bruschi e, soprattutto, domani torni da me per la medicazione”, concluse il medico, quando ebbe finito di disinfettargli la ferita e di applicargli nuove bende. “Se continua di questo passo, tra una settimana sarà come nuovo.”

Bühler si aggirò per i lettini dell’infermeria senza apparente meta, fin quando non individuò quello che ospitava il giovane soldato che era rimasto ferito nell’esplosione il giorno precedente. Appena notò che stava venendo verso di lui, il ragazzo si sollevò debolmente sui gomiti e accennò un saluto. “Signor maggiore?”
L’ufficiale gli fece cenno di tornare a sdraiarsi, prese uno sgabello e si sedette accanto al letto. “Come va oggi, Hase?”
“Bene, signore”, rispose la recluta, accennando un flebile sorriso. Affondò di nuovo la testa fasciata nel cuscino e gli rivolse uno sguardo carico di aspettativa. “Quando… quando potrò tornare a combattere?”
“Quando il dottore dirà che puoi farlo.” Notando che il luccichio negli occhi verdi del ragazzo si affievoliva, deluso da quella semplice asserzione, Bühler si affrettò a puntualizzare l’ovvio: “Sono un soldato, non un medico.”
La recluta rimase in silenzio a fissare il soffitto. Il suo volto era pallido, privo del solito rossore, e anche l’entusiasmo che solitamente lo animava sembrava infiacchito dalle ripercussioni di quell’incidente. “Signor maggiore,” mormorò poi, dopo una pausa che parve infinita. “Il maresciallo Bergmann dice sempre che lei è uno degli ufficiali migliori della Divisione… e io credo davvero che abbia ragione.”
Hans sorrise con indulgenza: Lars Hase, diciannove anni, era stato assegnato al suo battaglione la settimana successiva alla sua promozione a maggiore, e i commilitoni – Bergmann in particolare – lo avevano subito preso a benvolere. “Può darsi,” concesse, sentendo su di sé tutto il peso di quelle implicazioni. “Ma il valore va innanzitutto dimostrato sul campo di battaglia.”
La risposta parve solo in parte soddisfare il ragazzo, che aggrottò le sopracciglia bionde e si perse nuovamente a contemplare le lampade che pendevano a intervalli regolari dall’intelaiatura del tendone. “Spero soltanto di poter contribuire alla vittoria quando arriveremo a Varsavia…”
Il maggiore spostò lo sguardo dal ragazzo all’ambiente circostante: un infermiere, giunto sul momento per visitare il paziente, gli rivolse una muta richiesta di lasciarlo lavorare in pace. “Ognuno di noi farà la sua parte, quando giungerà il momento. Adesso, soldato, pensa a riposare.”
Con quelle parole si congedò e uscì di nuovo nell’aria aperta del piazzale, accogliendo con sollievo l’odore del cibo caldo e il tintinnio delle gavette e dei mestoli.

Ebbri di vittoria, gli ufficiali della Panzer-Division Leibstandarte avevano organizzato una piccola festa insieme allo squadrone di cavalleria di Ludendorff e alle due compagnie di fanteria della Ostpreußen. Ovunque echeggiavano risate, musica e brindisi; agli alberi erano appese file di fiammelle, ricavate da candele e barattoli dipinti, che oscillavano appena, proiettando strane fantasmagorie lungo i profili delle tende. Il frizzante venticello serale, che preannunciava l’approssimarsi dell’autunno, scuoteva le fronde dei pini in un sottofondo di bisbigli e fruscii.
I carri catturati erano stati opportunamente decorati con la Balkenkreuz simbolo dell’esercito tedesco e schierati all’entrata dell’accampamento, mentre i prigionieri, sorvegliati a vista da guardie armate, assistevano al trionfo dei nemici con gli sguardi animati da un fervente desiderio di rivalsa. Un gruppo di soldati ubriachi aveva loro offerto delle sigarette e si era fermato per scambiare qualche parola in un misto di tedesco e polacco smozzicato.
In disparte, lontani dalla generale euforia del convivio, Friedrich e Konrad rievocavano la loro esperienza di battaglia. Quel giorno, anche loro avevano avuto una parte significativa nel progresso dell’avanzata, conquistando ben due avamposti fortificati e almeno cinque chilometri di territorio polacco. Si erano lanciati all’assalto sfidando la tempesta di piombo e acciaio, e ne erano tornati con un dignitoso bottino di armi, carri armati e prigionieri. Era stato come un secondo battesimo del fuoco, che li aveva esposti al pericolo come mai prima di allora, ritemprandoli, mentre il brivido della battaglia li attraversava come un’ubriacatura.
“Ecco dove eravate finiti!” esclamò una voce. I due ufficiali si voltarono all’unisono, interrompendo di colpo la loro conversazione. Nel loro campo visivo, illuminato dalla luce di un lampione, si materializzò la figura di un giovane dall’aria impeccabile, come fosse appena tornato da una parata militare. Aveva i capelli fulvi, impomatati e pettinati all’indietro, e l’uniforme ben stirata si modellava alla perfezione intorno alla sua figura affusolata e snella.
“Oh, Paul,” lo salutò von Kleist, per nulla stupito di trovarselo davanti.
Il capitano von Seydlitz fece un sorrisetto bonario, spostando lo sguardo da lui a Bentheim. “Lupi della steppa, perché non ci degnate della vostra compagnia? Forza, venite che c’è anche Werner.”
Senza obiettare, i due giovani lo seguirono all’interno del tendone.

Il clima di festa non aveva risparmiato nessuno, nemmeno gli animali che avevano accompagnato i soldati al fronte: un giovane sergente mostrava ai commilitoni le sue reclute feline – due gattini tigrati che rispondevano ai nomi di Fritz e Karl e facevano le fusa a chiunque si avvicinasse – e Krause tracciava su un blocco da disegno un ritratto del cane-soldato Otto, che posava stranito col berretto del sottotenente Kühn e la giubba di Lindemann.
Poco distante, i tre ufficiali notarono il tenente Werner von Tannenberg circondato da un gruppo di soldati: il giovane, un bavarese alto dai riccioli scuri e gli occhi celesti, era tutto preso a vezzeggiare un gatto bianco e nero, che stava acciambellato dentro un elmetto delle Waffen-SS come se fosse un cesto.
“Che carino”, disse in falsetto uno di loro.
“Sembra il Führer, con quei baffetti neri!” esclamò un altro.
Il terzo, l’unico ad avere i gradi di caporale sul braccio, sorbì un lungo sorso di birra, schioccò la lingua e lo guardò ispirato. “Suppongo che allora dovremo chiamarlo Adolf.”
Il tenente rispose con un vigoroso cenno d’approvazione e sollevò l’elmo con un gesto cerimoniale. “Brindiamo alla salute del nostro Adolf! Che possa guidarci attraverso la gloria, la grandezza e la vittoria!”
“Meine Ehre heißt Treue!” ripeterono all’unisono gli altri tre, facendo cozzare i boccali.
Il gatto miagolò.

Il Rittmeister Paul Joseph von Seydlitz guardò con sussiego gli ufficiali intenti a trincare vino e birra, prese la bottiglia di champagne che aveva lasciato a raffreddare dentro il secchiello del ghiaccio e la stappò di fronte allo sguardo carico di aspettativa dei suoi camerati. Poi, con fare cerimonioso, lo versò in parti uguali nei quattro calici allineati sul tavolo.
“Non sono i bicchieri giusti, ma non ho trovato niente di meglio,” disse, quasi a mo’ di scuse.
Werner Adalbert von Tannenberg allungò timidamente una mano verso uno di essi, lo annusò aggrottando le sopracciglia e, dopo averlo assaggiato con la punta della lingua, ne tracannò un generoso sorso. Sulle prime sembrò apprezzare, ma subito dopo fu colto da un accesso di tosse e urtò per sbaglio il bicchiere, che riversò il suo contenuto per terra.
“Sei un cialtrone, un eretico, un sacrilego!” sbottò von Seydlitz, portandosi entrambe le mani al viso. “Non hai idea di quanto abbia faticato per trovare una fornitura di quest’annata!”
Werner, rosso in volto per la vergogna, si limitò a coprire la macchia di liquido con un fazzoletto e a ripulirla sommariamente affinché la stoffa la riassorbisse.
“Non mi dire che non hai mai bevuto champagne prima d’oggi!” rincarò il Rittmeister, fingendosi scandalizzato. “Voi aristocratici di montagna siete forse rimasti al buio Medioevo?”
Werner ghignò, gli occhi accesi da un subitaneo guizzo. “Vogliamo parlarne? I miei antenati si conquistarono la gloria in Terrasanta, combatterono al fianco dell’imperatore Barbarossa, colonizzarono la Prussia quando voi vivevate in casupole di fango e paglia e veneravate i vostri idoli di legno… forse non era un’epoca così buia per noi, non trovi?” Puntò le mani sui fianchi con l’attitudine, insieme beffarda e polemica, che ostentava durante le dispute verbali. “E poi lo champagne fa schifo, vuoi mettere la birra dei monasteri bavaresi?”
“Lo champagne si sposa bene con le ostriche e le lumache”, osservò Bentheim, con un sorriso ironico.
Von Seydlitz sollevò un sopracciglio. “Vorresti dire che sono un mangialumache?”
Prima che Konrad potesse rispondere, intervenne von Kleist. “Di fronte a un calice di vino del Reno non c’è cuvée de prestige che tenga,” motteggiò, calcando le parole in un francese privo d’inflessione. “E sì, per metà lo sei, visto che tua madre era una chanteuse.”
Paul lo guardò come se avesse appena proferito un’immonda bestemmia, poi gli rispose a tono: “E tu sei un retrogrado casque à pointe… o forse dovrei dire mangiasalsicce.”
“Fiero di esserlo,” replicò Friedrich. “A Lipsia, nel 1813, fummo noi a vincere contro Napoleone.”
L’altro scrollò la testa. “Non mi stupisco del fatto che le ragazze non ti vogliano, Fredi.”
“Pensi che me ne importi qualcosa, impenitente libertino?”
A quell’affermazione, Konrad ridacchiò sotto i baffi, ma la parte inferiore del suo viso rimase nascosta dietro la coppa ancora mezza piena, e von Seydlitz, che continuava a centellinare lo spumante mentre scrutava il cugino con un cipiglio divertito in volto, non ci fece minimamente caso.
“È perché ti manca lo charme, Fredi, sei troppo rigido e inquadrato”, disse infine il Rittmeister, schioccando la lingua e posando il bicchiere vuoto con un gesto elegante. “Altrimenti non disdegneresti certi svaghi.”
“Suvvia, Paul”, intervenne il tenente von Tannenberg, nello stesso tono di poco prima. “Non credete, entrambi, che sia giunto il momento di trovarvi una ragazza per bene e di sistemarvi?”
Anche se il suo amico lo aveva detto per il puro gusto di stuzzicarli, a Friedrich venne in mente la famosa illustrazione di Wolfgang Willrich, con quella numerosa famiglia dai figli biondissimi, la madre con l’infante attaccato al seno e il palo della pergola che nella forma ricordava la runa Algiz, simbolo di vita e protezione. Un sottile brivido gli percorse la schiena, ma si preoccupò di celare il proprio disagio ingollando un altro sorso.
Von Seydlitz si versò un secondo bicchiere di champagne. “La gioventù è una sola, mon ami. Se non mi diverto adesso, che cosa dovrò dire tra quindici anni, quando avrò i capelli radi e le zampe di gallina intorno agli occhi?”
Detto ciò, indicò il capannello che si era radunato fuori dal tendone: alcuni soldati avevano allestito un palco con le quinte ricavate dagli scarti di teli cuciti insieme, e chiunque avesse un qualche talento artistico improvvisava spettacoli per intrattenere i commilitoni. “Andiamo a vedere”, li esortò. “Mi sembrate un’ammucchiata di vecchie comari!”

  
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Saelde_und_Ehre