and distinguished nothing
except a single green light
Febbraio
è il mese peggiore, corto o
lungo che sia, il freddo diviene pungente nelle ore mattutine per poi
decrescere, concedendo spazio ad una temperatura meno congelante, ma
nell’incostanza di statico clima rigido le mani risentono del
tenue sbalzo e divengono
ancor più ruvide, ferite ancor di più dai graffi
del vento.
I
passanti poi paiono peggiorare con il
passar delle stagioni, d’inverno molti si limitano a sguardi
disgustati, ad
occhiate raccapricciate o ad insulti fugaci, ma con
l’avvicinarsi della
primavera non si limitano a rifiutare i volantini, li
stracciano, li gettano a terra, senza cura alcuna spingono via il
gracile corpo
di Credenze e l’equilibrio vacilla, al punto da costringerlo
a sorreggersi al
lampione.
Oggi,
come tante altre mattinate
interminabili, s’è stretto nelle spalle,
infossando il collo come una tartaruga
spaventata, riducendosi a giunco sottile accostato alle scalinate della
chiesa,
allungando le braccia quel tanto che basta per far notare i volantini;
ed ha
cercato di non pensare all’assenza, prolungata, della verde
luce che non è più
stato in grado di captare neppure con la coda dell’occhio,
neppure lontano.
Che
sia svanita? Che non sia mai
realmente esistita?
Era
solamente un’illusione, un inganno
architettato dal Diavolo in persona?
Vuol
forse significare che ha superato la
prova, che Dio l’ha perdonato?
O
significa, forse, che quell’uomo l’ha
rifiutato, sdegnato d’esser stato predestinato ad un
miserabile come lui?
No, deve
lasciar perire la speranza,
come aveva fatto anni fa, non può continuare a peccare, deve
imprigionare gli
impuri pensieri nel profondo dell’animo; sa farlo,
può farlo, deve
farlo.
La
distratta mente, immersa nella
confusione di una psiche che non sa aiutarsi e non riesce a trovare
esterno
aiuto, lo fa muovere per inerzia d’abitudine e gli impedisce
di notare un uomo,
tarchiato e dall’aspetto borioso, strappargli bruscamente il
volantino dalle tremule dita ed irriderlo; le spalle collidono e nello
scontro
è Credence a cadere, troppo deboli le magre gambe di digiuni
forzati.
Il
cemento duole al coccige e la
schiena, le vecchie cicatrici e le nuove ancora fresche, gridano
silenziose
nello scontrarsi al freddo lampione, stringe i denti, forzando le
ginocchia al marciapiede,
chinandosi ed allungandosi nella fretta di raccogliere i caduti
volantini.
Nella
foga di rimediare ad un
imperdonabile errore, prima che la madre possa
vederlo, prima che
Dio possa punirlo, non coglie lo spostamento d’aria che gli
s’infrange al volto
e non percepisce una presenza aiutarlo a raccogliere gli sparpagliati
fogli; se
ne accorge solamente quando raffinate dita sfiorano le proprie.
Istintivo
si ritrae, stringendo i pochi
volanti recuperati, lo sguardo vorrebbe sollevarsi ad osservare quel
magnanimo
passante, ma la nuca non trova il coraggio necessario e tutto quel che
Credence
riesce a vedere sono le maniche d’un trench nero,
impeccabilmente rifinito, cui
si scorgono i polsini della camicia avorio, i grigi bottoni lucidi
comunicano
eleganza e la verde luce l'acceca.
«
la stregoneria è un abominio »
la voce
gli risuona nei timpani, rauca quel tanto che basta a conferirgli un
suono serioso e maturo, la
dizione così impeccabile da non lasciar trapelare neppure
l’accenno d’un
accento che ne possa indicare le esatte origini, Credence si vergogna
come
fosse un miserabile vagabondo nel sentirlo leggere quel che, i
volantini,
riportano
«
la furia divina s’abbatterà sugli
eretici pagani - non lo irride, né lo insulta,
non agisce come gli uomini che
ormai s’è abituato a sopportare, ma anzi gli porge
il foglio - sei un
credente
»
Non lo
domanda, l’afferma o meglio lo
deduce, e Credence vorrebbe potergli dire che non lo sa, non sa più se esiste
davvero un Dio o se, invece, è solamente una finzione nata
da menti spaventate
dal peso d’una vita che non sa concedere spiegazioni alle
più aberranti
situazioni, ai dolori lancinanti dell’animo, come quello che,
adesso, lo sta
spezzando più di quanto riuscirebbe a fare la cinta in cuoio
della madre.
È
lui, l’uomo che gli è dinnanzi, chino
alla sua altezza, l’uomo che non ha il coraggio di guardare,
è la luce verde
che vide giorni e giorni fa.
Gli
è davanti e Credence teme che sia questa la reale punizione
di Dio o l’ultima tentazione del Diavolo, che si tratti
d’una
prova da superare o d’una punizione per essersi macchiato
d’impuri pensieri, in
quei mesi di confusione emotiva.
«
stai
bene?
»
Perché
continua a parlargli? Perché non
se ne va disprezzandolo come chiunque altri? Perché non lo
lascia lì, al suolo,
tra volantini ancora sparsi a terra e la vergogna ad infiammargli il
cuore?
Se
cessasse di parlare, forse, Credence
potrebbe alzarsi prima che la madre torni, prima che possa cedere ai
bisbigli
del demone tentare e sollevare il capo a guardare quegli occhi che,
nella
distanza d’un oceano d’insicurezza,
cercò inconsciamente ogni giorni; chiedendosi
che colore avessero.
Il verde
fascio luminoso non s’allontana
e non scompare, resta lì, ad accecarlo, e gli tende la mano,
quella stessa mano
che l’ha aiutato poc’anzi, in una tacita gentilezza.
Annuisce
Credence, è l’unica cosa
che riesce a fare, le labbra dischiuse, la gola essiccatasi e la mente
invasa
da pensieri urlanti, desideri si scontrano coi dettami appresi
nell’infanzia
«
sto bene,
signore - riesce
ad
articolare, un balbettare incerto, un soffio appena percettibile - la
ringrazio
»
«
non
ringraziarmi, non ve n’è bisogno -
è
impostata, formale, l’intonazione, ma
c’è una genuina bontà a musicarne le
parole - permettimi
di aiutarti, temo tu abbia avuto un calo di zuccheri
»
Zuccheri.
Non sa
neppure cosa siano, tutto quel
che è dolce è proibito; peccato di gola,
condannabile con l’eterna dannazione.
Credence
lo zucchero non l’ha mai
assaggiato, non sa attribuirgli neanche una forma, né un
colore, né tanto meno sapore, tutto quel che lo
stomaco ha conosciuto sono briciole di pane secco,
porzioni microscopiche di legumi galleggianti in acqua bollente e
scarne
verdure dall’aspetto inconsistente.
«
la
ringrazio, signore -
ripete,
balbuziente, meccanico, come un burattino manovrato da mani esterne - ma non
voglio arrecarle maggior disturbo
»
«
non
arrecheresti alcun disturbo, permettimi di aiutarti »
Aiutare.
Da quanto
tempo sogna di poter udire
tali parole?
Troppi
per poter credere che,
finalmente, siano divenute reali.
Troppi
per potersi illudere che
provengano dalla verde luce, da raggi di impura immoralità.
Deve
rifiutare, deve mantenere il volto
chino, deve chiudere gli occhi, deve impedirsi di guardare lo
smeraldino sole;
deve fuggire dalle tentazioni demoniache, ma è
già tardi.
Si
specchia già in iridi scure, un
nocciola così intenso, sfumate venature chiare ne contornano
la pupilla, lo inghiotte in un turbine confuso di caotiche emozioni
disordinate.
Quanti
colori esistono al mondo? Quanti
occhi? E quante tinte conosce l’iride umana?
Eppure,
malgrado la vastità cromatica,
malgrado la sconfinata quantità, a Credence sembrano tutte
inutili, ignorabili,
se confrontate alla sincera genuinità che albera negli occhi
dinnanzi a
sé.
Sbatte le
palpebre, così velocemente da
vedere solamente bagliori di forme e sagome, e mormora una preghiera
che nessun
umano orecchio può udire, ma che solo Dio può
sentire; invocando perdono per
l’errore commesso, per esser caduto nel tranello del Diavolo,
per aver ceduto alla
peccaminosa curiosità ed aver avuto impuri pensieri per
occhi estranei.
«
potresti
rischiare di svenire nuovamente, lascia che ti aiuti
»
Svanisce
l’ultimo briciolo di forza rimastagli per
negarsi una possibilità così
luminosa, forse è Credence stesso a non voler
più protestare, ad accettare i sussurri del demone tentatore
e cedere, far
collidere il tremulo palmo ruvido alla liscia mano sfilata, solamente
ora lo
nota, dal nero guanto; v’è ancora il calore
dell’imbottitura interna impresso
nella morbida pelle.
Se sua
madre lo vedesse, proprio ora,
ergersi con fatica, tentando di deglutire l’imbarazzo, la
vergogna, la paura
che quel contatto gli suscita, cercando di non sentirne il gradevole
pizzicore,
una tenue scossa elettrica, che lo sfiorarsi delle epidermidi ha
generato,
provando ad ignorare l’accentuarsi della verde luce, divenuta
un faro così
splendente da far temere che possa esser visibile a chiunque, lo
trascinerebbe
bruscamente via dal peccato che sente già di compiere; lo
costringerebbe ad
implorare, ad un Dio che forse non ascolta neppure, perdono.
Le labbra
screpolate s’incollano tra di
loro, la gola è un’arida distesa e le corde vocali
vorrebbero formare parole
che non sanno pronunciare.
Chiederebbe,
Credence, se riuscisse ad
articolare sillabe di senso compiuto, quale nome possa attribuire ad
una
visione che, ad occhi spaventati dalla vita, somiglia a quegli angeli
cui la
Bibbia narra.
Non ha il
coraggio di guardarlo, non
apertamente, ma lo spia rimpicciolendosi nelle spalle, ingobbendosi
sino a
sembrare più basso di quanto in realtà non
è, rispetto a quell’uomo,
sicuramente più adulto di lui, da cui non lo dividono che
ignorabili
millimetri; forse un centimetro, approssimando per eccesso.
In
quel fascio smeraldino è racchiusa la
sagoma elegante d’un uomo dal roseo ovale e Credence ne
ricalca, segretamente,
le linee delineate della mandibola, convergenti nel mento squadrato,
conferenti
una fisionomia matura, dura, ma tutt’altro che aspra o
spigolosa; accentuata
da sottili filamenti corvini, sfioranti gli scuri occhi, discesi dalla
folta
capigliatura.
E lo segue, lo segue a copo chino e passi tremuli, non guarda neppure
dove lo stia concudendo, si ridesta solamente quando ne sente la voce
richiamarlo
«
prego,
dopo di te
»
L’educata
voce interrompe il
peccaminoso fantasticare, esplorando inconfessabilmente quel viso che
lo reclama, come magnete incontrastabile.
Sussulta
impercettibilmente al lieve
tocco della mano destra, di quell’estraneo che pare eppur
già familiare, che
gli sfiora le scapole invitandolo garbatamente a varcare la soglia
d’un locale
ristretto, ma confortevole. Aromi mai annusati prima solleticano
l’olfatto di
Credence, una gradevole festa d’odori sconosciuti risale le
narici e le
labbra si dischiudo istintive; aspettandosi di poterne assaporare il
materiale gusto.
Incerto,
le gambe ancora instabili e la
mente intrappolata in vertigini di pensieri confusi, contrastanti, di
peccati e
speranze, di volontà e divieti, Credence imita le movenze
dell’uomo,
sistemandosi goffamente alla sedia in legno di ciliegia; ritraendosi
involontario all’arrivo d’una giovane donna,
dall’arricciata chioma bionda ed
un sorriso smagliante.
Il
menù che gli porge, Credence, non è
neppure in grado di decifrarlo, tutti quei nomi, quei frutti e quelle
diciture,
non le ha mai lette; ogni cosa è un peccato, dalla
cioccolata calda alla pasta
sfoglia ripiena di marmellata.
Tutto è un peccato,
dal dolce sino al volto
di quell’uomo che lo guarda, così
intensamente e così attentamente da farlo
sentire un'interessante formica schiacciata dal peso d’una
lente d’ingrandimento e
deglutisce Credence, infossandosi ancor di più nelle
già ricurve spalle.
don't
believe what you've been told, people lie
--------------------------------------------------------------------------
people
love, people go, but beauty lies in every soul
Dovrebbe cessare di fissarlo come fosse
una curiosa creatura meritevole d’ogni attenzione, dovrebbe
posare lo sguardo
altrove, magari al menù che Queenie gli ha gentilmente
portato; come se non
fosse già consapevole dell’usuale ordinazione.
Deve
averlo imbarazzato, quel ragazzino
introverso, al punto da spaventarlo, forse è stato troppo
insistente, forse s’è
importunatamene imposto, ma cos’altro avrebbe potuto fare
Percival?
Lasciarlo
lì, al suolo, tremante come
una foglia troppo secca distaccatasi dal ramo più alto
d’un albero?
No, non ci sarebbe riuscito,
neppure se
avesse realmente tentato d’opporsi all’istintiva
volontà d’azzerare quella
distanza che, nei passati giorni, s’era più volte
ripetuto impercorribile.
Per alcune settimane era persino riuscito a resiste all'impulso,
un'inspiegabile
tentazione, di tornare a percorre quell'usuale strada e s'era trovato
un modo
diverso, differente e lontano, per poter evitare d'intravedere il verde
fascio;
ma riusciva a sentirlo anche nella distanza, oltre i tetti delle case
ed i lampioni.
Resistette per quel che gli sembrarono un'eternità e,
infine, cedette
dicendosi forte abbastanza per contrastare ogni sconsigliabile,
irrazionale,
volontà; ma poi lo vide cadere spinto da incivili uomini,
convinti di possedere
permessi concessi dalle banconote nelle tasche.
L’ha
visto rivestirsi di timore nel raccogliere i volantini, quei ridicoli
volantini pieni di menzogne ed errate sentenze, e la verde luce
l’ha trascinato
come onde attratte, per naturale processo, dagli scogli.
Quegli
zigomi pronunciati, quei
lineamenti affilati, quel volto emaciato, le guance infossate,
sgraziatamente
accentuate dalla capigliatura eccessivamente corta, somigliano
realmente a
scogli contro cui Percival s’è ormai scontrato e
v’è rimasto, contro ogni
volere, incastrato a cercare di scorgere il colore d’un mare
nascosto nelle
iridi costantemente chine al suolo.
Nella
ravvicinata distanza d’un tavolo
rotondeggiante il pallore della pelle, così diafana da
sembrare lunare raggio,
pare ancor più fragile di quanto non sembrasse
dall’altro lato della strada; e
l’altezza ne fa risultare ancor più evidente la
magrezza, a Percival sembra
di poter scorgere i sintomi di un’insana alimentazione.
Probabilmente
è per questo, solo per
questo, che non è riuscito ad impedirsi di portarlo nel
luogo che, dopo anni ed
anni, ha etichettato come il più confortevole dopo la
propria casa o, forse, si
sta solamente vendendo scuse poco credibili nell’inutile
tentativo di non
comprendere la verità.
«
pronti
per ordinare? »
Non ha
mai ringraziato d’udire la voce
di Queenie come adesso, si costringe a riportare equilibrio nei
pensieri, che corrono
lungo una pericolosa ferrovia, incontrollata, e tenta
d’articolare parole che,
la donna, gli precede
«
il solito
– sorride, consapevole –
e
per te, caro? »
Il
ragazzino si ritrae ancor di più al
legnoso schienale, dalla postura che ha assunto, sin dal primo istante,
Percival non può impedirsi di chiedersi se non vi sia ben
altra spiegazione
della normale timidezza, una spiegazione sgradevole che lo fa
sospettare possa
esser riconducibile a violenze subite; e difficilmente sbaglia,
l’intuito è una qualità innata che ha
imparato ad affinare ancor di più negli
anni accademici
«
se sei
indeciso – interviene, gentile e
cortese, professionale come sempre, Queenie –
posso proporti la specialità della
casa, ti assicuro che è deliziosa »
Percival
è mediamente certo che,
quell’esile ragazzino, non abbia neppure letto il
menù e che, probabilmente,
non ha neanche realmente ponderato l’idea di scegliere e nel
vederlo annuire
impacciato, come se fosse una vergogna lasciarsi servire un dolce
qualsiasi,
inevitabilmente non può che confermare il sospetto non
appena gli viene posto dinnanzi il piatto.
Cerca di concentrare l’attenzione alla tazzina di
caffè, scuro ed amaro, che
gli è stata portata assieme ad un singolo biscotto
rettangolare, rivestito di
cioccolato fondente, i sapori troppo dolci non sono mai riusciti a
piacergli;
quella ciambella, la specialità della casa,
faticò a digerirla la prima volta
che fu costretto ad assaggiarla.
Il ragazzino la guarda, pare studiarla, come se non avesse mai visto la
concentrica forma rigonfia d’una ciambella priva di buco,
rivestita di bianco
zucchero e tentennano le dita, sfiorando il soffice impasto
«
la offre
il locale – gli sfugge istintivo dalle labbra,
se ne pente nell’immediato
istante successivo, ma è tardi per correggersi –
è una tradizione, la prima
volta che venni qui la fecero assaggiare anche a me, non fu di mio
gradimento
ed ordinai altro »
Non sa
perché, poi, ha scelto di raccontargli quel singolo
aneddoto, forse perché la
psicologia non è mai stato suo settore di competenza,
carente della necessaria
empatia, ma con quel fascio verde dinnanzi a sé sente di
dover tentare, vuole
tentare, e vederlo indugiare lo innervosisce; rende troppo rumorosa la
voce
della razionalità che gli ricorda d’aver ceduto ad
un errore.
Il giovane non sembra neppure averlo ascoltato, ma addenta timidamente
il
soffice impasto, e le palpebre si spalancano come finestre che
s’aprono per la
prima volta, l’iride si dilata al punto da renderne evidente
il colore persino
a capo chino.
Nocciola, così
intensi da sembrare neri, gli occhi che spiccano nella luce smeraldina.
Un nero in
cui Percival si perde, un nero che lo inghiotte, magnetico ed
incantevole, ruba
il respiro e lo sostituisce con ammonimenti personali, di rigida mente
combattuta
tra l’inspiegabile istinto e la razionale
schematicità.
«
mi pare di
intuire sia di tuo gradimento »
Azzarda,
forse perché adesso vorrebbe anche concedersi il lusso di
rubargli un sorriso,
prima di costringersi a separarsene nuovamente e, questa volta,
definitivamente; ma il ragazzo sembra intrappolato in un ciclo di
pensieri
confusionari.
Il dolce ricade al piatto e le labbra si bloccano nel sospiro
d’un colpevole,
ha l’intensità del respiro d’un
condannato e Percival odia dover confutare le
ipotesi che già aveva
«
è…molto
buono – balbetta, ha un suono così
fragile la sussurrata voce –
e le sono grato,
signore, ma…non posso...restare »
Le iridi
sembrano cercare qualcuno, ma c’è terrore in
quelle distese nere e la schiena s’irrigidisce,
è un fascio di nervi tesi e scatta come una molla storta,
deformata da pesi, pendente
e ricurva su se stessa
«
aspt…
»
«
mi perdoni
per il disturbo arrecatole – è
così eccessivamente formale, somiglia
ad una marionetta malconcia guidata da invisibili dita sempre presenti
– buona
giornata, signore »
Quel suo
ribadire, sottolineare, quell’appellativo troppo specifico
gli ricorda quanto
infattibile sia il tentare, il concedersi un lusso che credeva
riservato a
pochi, che riteneva di non volere, e mentre la mente gli impone di tace
ed
immobilizzarsi alla sedia, le gambe prendono autonome decisioni e si
muovono a
seguire la scia di piedi trascinati pesantemente al suolo.
Non può
afferrarla, la tentazione d’una verde luce che deve negarsi, che
deve fingere
di non aver mai veduto, che è obbligato da ferra
moralità ed impegni ben più
importanti, o almeno così si ripete, ad ignorare; ma può sfiorarla,
per un
istante, un effimero, fugace, istante di pace
«
come ti
chiami? – rotolano dalle labbra le parole, un
desiderio che deve realizzare,
prima di venirne schiacciato un’altra volta ancora
– concedimi solo questo »
Risponde alle
mute domande della carnosa bocca, le crepe nei labbri sono
così secche che
paiono poter sanguinare ad ogni parola, negli occhi gli legge la paura,
l’incertezza
e l’impossibilità,
un’impossibilità che riconosce, che è
la medesima che vede
in sé.
Scivola, lo sguardo del giovane, a cogliere le dita debolmente cintesi
attorno al candido polso e deglutisce qualcosa, qualcosa che non
conosce,
qualcosa che Percival non può capire, boccheggiando parole
che faticano ad
emergere; combattute
«
Credence
–
un soffio sottile, così flebile e sfuggente, lo deve
raccogliere e conservare
prima che possa volare via –
Barebone »
Credence.
Credence
Barebone.
La verde
luce, la sua verde luce, ha un nome ed un volto, ora può
lasciarla andare, può
separarsene per sempre e lasciarla vivere lontana da sé;
ma una volontà
superiore, che surclassa la ragione e la logica, che inganna il
cervello e da ordini
alle corde vocali, gli muove la lingua
“Percival
Graves”
Non glielo
ha chiesto, il giovane, Credence,
non gli ha chiesto nulla e, forse, non l’avrebbe
fatto, ma l’incosciente subconscio ha voluto ferire Percival
e l’ha spinto a
rivelarsi, a concedergli il lusso d’un illusione passeggiera
e se ne pente, se
ne pente come fosse il peggiore degli errori mai commessi, non appena
libera il
pallido polso e guarda le ingobbite spalle tentennare, vacillare e
traballare
prima di allontanarsi; se ne pente, si pente di lasciarlo andare
così come si
pente d’essersi permesso di sfiorarlo.
Percival lo
sa, non è un ingenuo, sa che quel giovane, Credence, Credence Barebone,
non ha
tutte le esperienze, la crescita serena, le possibilità che
gli aveva dipinto
addosso la prima volta che lo vide, ora sa che quel che attende il
giovane è
una paura costante del mondo, del presente e del futuro, eppure non
può permettersi l’arroganza di professarsi
aiutante; deve
credere di sbagliare, deve dirsi d’aver sbagliato sin da
principio e deve
tornare a percorrere la strada più lontana, distante dagli
occhi e dalla verde
luce.
Deve
farlo adesso, anche dopo aver sfiorato la quiete d’una pace
che non può
concedersi, che non può permettersi, la logica gli ripete
che ha troppo da
conquistare ancora e la razionalità gli ricorda che non
è un cuore la vetta cui
deve ambire; ma le dita, i polpastrelli, il formicolio che persiste sin
da
quando ha sfiorato la candida pelle, gli sussurra involontari desideri.
Le
renderà muti, si dice mentre le ricurve spalle svaniscono
all’orizzonte e
quel che resta è un raggio smeraldino ancora troppo vivido.
I wrestled by the sea, a dream of you and me
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I let it go from me, it washed up at my feet
Mi sono dimenticata di dire che, in questa "linea temporale" Credence ha intorno ai diciotto anni, più o meno come nel film, ma Percival ha, circa, trent'anni; quindi ci sono solo (si fa per dire) dodici anni di differenza.
Comunque grazie ancora, alla prossima, se vorrete.