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Autore: syila    24/03/2019    4 recensioni
"Questo è l'unico posto dell'edificio libero da microfoni, il rumore delle ruote e delle pulegge renderebbe impossibile intercettare eventuali informazioni." Victor lo fissò allibito e lui proseguì imperturbabile "Perciò ascoltami bene Vitya, perché non te lo ripeterò ancora: nervi a posto, qualsiasi cosa vedrai o sentirai."
"Ma..."
"Niente proteste." lo zittì l'altro "Risparmiati gli atteggiamenti indignati, non te li puoi permettere... Non ce li possiamo permettere." rettificò.
"Dove... Mi stai portando." azzardò il giovane.
"All'inferno e io sono l'unico ad avere la chiave per uscire, evitiamo inutili eroismi, siamo intesi Vitien'ka?"
L'interpellato si limitò ad annuire, aveva la gola troppo secca per rispondere.
|Questo extra fa parte della raccolta: Il Sole a Mezzanotte|
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Victor Nikiforov
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Il Sole a Mezzanotte'
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Rex non potest peccare.

L'Estate del 1950, mai abbastanza lunga e calda per i russi, aveva ceduto il passo ad un Autunno mite, dalle giornate luminose e piacevoli che aveva dato l'illusione di poter prolungare di qualche settimana la bella stagione.
L'arrivo di Dicembre perciò, annunciato da furiose nevicate e venti gelidi, aveva colto tutti di sorpresa, ma insieme al clima rigido, era arrivato alla Dacia di Kamenny anche un invito di Lilia Baranovskaja all'inaugurazione della stagione dei balletti al Bolshoi.
Inutilmente Yakov aveva tentato di nascondere a Vitya l'esistenza di quella busta; la preparazione del suo allievo alle qualificazioni del Campionato Mondiale era entrata nel vivo e voleva evitare qualsiasi distrazione dal serrato programma di allenamenti che aveva messo a punto con lui.
Per sua sfortuna Victor aveva una specie di sesto senso riguardo a svaghi, divertimenti e occasioni mondane; era riuscito a scovare l'invito e ad estorcere a Yakov la promessa di andare a Mosca usando un argomento inoppugnabile: avrebbe potuto rivedere Lilia e stare un paio di giorni in sua compagnia.
Mosca non aveva lo stesso fascino di Leningrado; l'arbitrario cambio del nome, gli ingenti danni prodotti dalla guerra avevano solo scalfito la regale bellezza di San Pietroburgo.
Si capiva perché Pietro il Grande avesse voluto farne la sua dimora e i suoi successori avessero continuato a preferirla alla vecchia capitale che, al contrario, era dura, grigia, appena ingentilita dai colori sgargianti delle chiese ortodosse e dal lungo perimetro rosso del Cremlino.
Come al tempo degli zar quelle mura delimitavano il luogo del potere; Victor a questo proposito si rammentava di un romanzo italiano dove il protagonista spiegava così il mutare delle condizioni politiche del suo tempo: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.
La Rivoluzione d'Ottobre non aveva cambiato niente; in Russiasi continuava a vivere nell'oppressione e nella paura, si dubitava di tutti, ci si sentiva fragili e isolati anche in mezzo alla folla.
Il treno della metropolitana si fermò in uno stridio di metallo e aprì le porte; parte di quella folla si riversò sulla banchina della stazione e il giovane russo si lasciò trasportare dal flusso frettoloso, che tornava a casa per pranzo.
Nessuno lo aveva riconosciuto e andava bene così, non era dell'umore giusto per stringere mani e distribuire ringraziamenti; aveva insistito per il viaggio, ma adesso cominciava a pentirsene; Yakov era corso subito appresso a Lilia e lui non sapeva come far passare il tempo in attesa dello spettacolo serale al Bolshoi.
Percorse di buon passo la Piazza Rossa, i cittadini moscoviti e i russi in generale la frequentavano solo il tempo necessario ad attraversarla, nessuno vi sostava mai oltre il necessario a parte gli sparuti gruppi di stranieri a cui era stato concesso il visto di soggiorno e che se ne stavano col naso all'insù ad ammirare le cupole colorate di San Basilio.
Prima di lasciarsela alle spalle lanciò un'occhiata invidiosa alla mole fiera e massiccia dell'Hotel Moskva.
L'albergo scelto dal suo allenatore era in una posizione più defilata e tranquilla; una struttura a metà strada tra la pensione per studenti e un hotel da commessi viaggiatori: stanza ampia, ma spartana, campanello per il servizio camera e bagno in corridoio.
La classica via di mezzo, discreta, ma che scontentava tutti.
In teoria sarebbero potuti scendere all'Hotel Moskva; coi premi vinti nell'ultimo campionato mondiale era arrivata anche una certa tranquillità economica, inoltre il direttore dell'albergo sarebbe stato entusiasta di ospitare una... Celebrità.
Invece Yakov aveva preferito essere prudente.
Anche eccedere in troppa parsimonia o in lussi eccessivi attirava attenzioni indesiderate dall'occhio onnisciente del Partito.
Tuttavia le sue precauzioni erano state inutili dal momento che davanti all'ingresso stazionava una macchina scura, tirata a lucido.
La vettura aveva magicamente creato il vuoto attorno: chi camminava sul marciapiede aumentava l'andatura e se poteva passava dall'altra parte della strada.
La gente ormai sapeva che il loro apparire non portava niente di buono; chi vi saliva infatti, di solito non tornava più.
Anche il primo impulso di Victor fu quello di affrettarsi; però, quando fece per oltrepassarla, il finestrino del lato guida si abbassò e una voce familiare lo apostrofò con sicurezza “Compagno Nikiforov, fermati per favore”
L'interpellato si bloccò sul posto e la sua espressione incredula doveva essere molto divertente, se il Colonnello Salchov, uscendo dall'auto, gli sorrise prima di andargli incontro.
"Stavo aspettando che rientrassi in albergo" disse l'ufficiale levando al giovane qualsiasi dubbio circa la sua presenza lì.
"Tu come... Sapevi che eravamo a Mosca..." Victor non riuscì a simulare o a improvvisare una risposta di facciata, nessuno era a conoscenza del loro viaggio, nemmeno i responsabili dell'impianto sportivo dove si allenava, perché nel fine settimana la struttura era chiusa.
"So sempre dove trovare chi mi interessa... Vitya"
Avevano concordato dall'ultima visita alla Dacia di Kamenny di essere meno formali, almeno quando non c'erano orecchie indiscrete nei paraggi e il Colonnello sembrava aver preso il suggerimento alla lettera.
D'altra parte attorno a loro continuava ad esserci il vuoto, la bolla di paura generata dalla presenza di un ufficiale del KGB era un ottimo deterrente alla curiosità altrui.
"Però... Yakov non c'è."
"Lo so" ammise l'uomo con la massima tranquillità "In questo momento è a pranzo con Lilia Baranovskaja al Café Pushkin."
Perché continuava a stupirsi?
Arkadji Salchov gli aveva già dimostrato di sapere molte cose su di lui e, d'altronde, se occupava quel ruolo nei servizi segreti un motivo c'era...
Ciò che rimaneva inspiegabile era l'interessamento nei suoi confronti; lo sospettava coinvolto in qualche oscuro intrigo, a torto o a ragione, oppure era davvero solo un senso di amicizia a muoverlo?
“Sai anche che io devo ancora mangiare?” si azzardò a chiedere quando da un lontano campanile uscì un solitario rintocco che annunciava l'una del pomeriggio.
“Sono qui per invitarti a pranzo in effetti” confermò il Colonnello senza scomporsi.



Il ristorante dell'Hotel Moskva li accolse coi modi sorridenti e cerimoniosi del maitre di sala, sembrava che il Colonnello fosse un ospite piuttosto conosciuto, perché gli riservarono il tavolo migliore, con vista sulla Piazza Rossa e gli affibbiarono un cameriere, che li tallonò finché l'ufficiale non espresse chiaramente il desiderio di essere lasciati soli.
“Perché tu e il compagno Feltsman non alloggiate qui?”
Victor lasciò a metà le operazioni su uno squisito astice del Mar Nero e provò ad elaborare una scusa che risultasse convincente, non poteva certo riferirgli le paranoie complottiste del suo allenatore!
“Ecco... Ha pensato che per due giorni non ne valesse la pena, magari la prossima volta ci fermeremo più a lungo e... Verremo al Moskva.”
Il vecchio volpone voleva evitare di dare nell'occhio, concluse Salchov rivolgendo un'espressione comprensiva al suo ospite, il quale tornò a godersi il pranzo e a chiacchierare di gare, allenamenti e qualificazioni col consueto entusiasmo.
Vitya era chiaramente incapace di mentire, lui forse lo ignorava, ma quando una domanda lo metteva in difficoltà o in imbarazzo la punta delle sue orecchie si tingeva di rosso e la sua voce saliva di mezzo tono diventando più acuta e sottile, tuttavia lo nascondeva bene compensando l'esitazione con la disinvoltura e l'eloquio brillante.
Lo aveva notato fin dal primo incontro, raramente gli sfuggivano certi dettagli, per dovere, abitudine o, come in quel caso, per l'interesse che gli ispirava il soggetto.
Victor era un magnete, calamitava l'attenzione di chi gli stava attorno, sapeva come diventarne il centro e restarci; era una qualità innata su cui aveva lavorato fino a farne un tratto caratteriale distintivo e affascinante, perché era impossibile capire quanto fosse frutto della spontaneità e quanto invece fosse calcolato.
Di lui sapeva tutto eccetto i fatti che riguardavano la primissima infanzia; secondo i documenti d'archivio era stato registrato come figlio di una coppia di contadini che viveva in una grande fattoria ad un paio d'ore di auto da Leningrado, ma il suo certificato di nascita, insieme a migliaia di altri fascicoli era andato distrutto durante la guerra.
Le tracce documentate su Victor Nikiforov riapparivano “magicamente” insieme a Yakov Feltsman, che si era assunto la sua tutela legale dall'età di otto anni, vale a dire da quando aveva cominciato a disputare le prime gare di pattinaggio.
Più approfondiva la sua conoscenza e meno riusciva a vederlo nei panni del figlio di un'ottusa coppia di villani di paese; tutto in lui era grazia, raffinatezza, aristocrazia.
Era un oggetto prezioso e meritava di essere posseduto solo da chi fosse stato in grado di apprezzarlo, ma soprattutto di proteggerlo.
Come lui.
E questo lo riportò al vero motivo per cui lo aveva prelevato davanti al suo modesto alberguccio.
Arkadji Salchov non era di quelle persone che amavano le cose fini a sé stesse.
Aveva goduto della compagnia del giovane Campione di pattinaggio, adesso era il momento di affrontare questioni più serie.



"Non... Torniamo in albergo?" chiese Victor notando che l'auto aveva cambiato percorso rispetto all'andata.
Pranzare col Colonnello era stata un'esperienza più gradevole di quanto si aspettasse, quell'uomo gli aveva mostrato di possedere competenze sullo sport, sul pattinaggio, sulla danza classica e sull'arte in generale, che avevano reso la loro conversazione estremamente piacevole.
In circostanze normali, potendo scegliere, non avrebbe mai speso due ore del suo tempo in compagnia di un ufficiale del KGB, invece Arkadji si era rivelato una fonte di sorprese.
"Devo mostrarti una cosa, poi ti riaccompagnerò."
Il tono serio dell'uomo fece vacillare le sue convinzioni, ma il colpo mortale glielo inferse scoprire la loro destinazione; la macchina si immise in un'altra immensa piazza e Victor riconobbe senza ombra di dubbio l'imponente mole della Lubjanka.
"Perché siamo qui?" chiese in un filo di voce appena intellegibile, mentre guardava dai finestrini il grande palazzo avvicinarsi rapidamente.
Nonostante la facciata sontuosa, ingentilita da vari ordini di finestre, quel posto celava un cuore oscuro; la sede principale dei Servizi Segreti era tanto magnifica all'esterno quanto spaventosa all'interno.
Lì venivano decise le sorti dei dissidenti o presunti tali, dei "nemici del popolo" o semplicemente delle persone scomode al Regime.
Il fatto che quasi nulla trapelasse da quelle solide mura aveva messo in circolazione ipotesi di ogni genere, che avevano contribuito alla sinistra fama del palazzo.
Purtroppo la maggior parte delle voci erano vere e il Partito, a differenza di altre occasioni, non aveva fatto nulla per zittirle.
La paura era un'arma formidabile.
Ad un certo punto Victor valutò la possibilità di tentare la fuga buttandosi giù dalla macchina in corsa, col rischio di rompersi una gamba.
Avrebbe fatto poca strada e all'euforia subentrò la terribile consapevolezza di essere in trappola.
"Te l'ho detto: devo mostrarti una cosa, poi sarai libero di andare" ribadì il Colonnello, tuttavia quando si avvide che il suo passeggero stava per essere sopraffatto da una crisi d'ansia gli posò una mano sulla spalla e aggiunse "Fa' come dico e andrà tutto bene."
Spaventarlo non era il suo obiettivo principale; o meglio, si, voleva spaventarlo, mettendolo guardia: il suo atteggiamento troppo "rilassato" e amichevole, certe... Inclinazioni da cui esitava a prendere le distanze avrebbero finito per metterlo nei guai.
La vettura varcò il primo cancello, poi un secondo ed infine entrò in un cortile stretto da pareti altissime, che componevano un quadrilatero irregolare.
La luce spenta del primo pomeriggio vi entrava a fatica arrivando a stento a toccare il selciato.
Eccettuate le guardie all'ingresso Victor notò subito l'assoluta assenza di sorveglianza armata; in questo era simile a molti palazzi e uffici pubblici in cui era entrato in passato.
Eppure l'apparente normalità rendeva quel luogo ancora più inquietante.
"Andiamo."
Appena Arkadji aprì lo sportello lui lo seguì; gli aveva detto di non perderlo di vista, di non attardarsi ad "osservare il panorama" e il giovane era troppo impaurito per disubbidire.
L'ufficiale salutò un gruppo di persone in abiti civili fermo all'ingresso, chiese loro qualcosa riguardo ad alcuni documenti e un uomo stempiato, dall'aria grigia e rassegnata, rispose affermativamente.
Dalle occhiate che gli rivolgevano dedusse che parlavano di lui e lo avevano riconosciuto, ciononostante, nessuno si mosse per andarlo a salutare o congratularsi; lì i suoi meriti sportivi valevano meno di un biglietto della metropolitana usato.
I due si lasciarono alle spalle la luce rassicurante dell'ingresso e s'inoltrarono in un dedalo di stanze disadorne e corridoi vuoti; Victor dedusse che si trovavano in un ala del palazzo abbandonata e capì anche, dalla sicurezza con cui il Colonnello si muoveva, che la conosceva molto bene.
Non aveva più osato rivolgergli la parola da quando erano entrati, né il suo accompagnatore aveva interagito con lui, forse era la paura ad influenzarlo, ma aveva l'impressione che qualcuno li sorvegliasse.
Si fermarono davanti ad un vecchio montacarichi, l'idea di salire sulla piattaforma malmessa produsse un'esitazione nell'atteggiamento di Victor, che Salchov corresse spingendolo dentro e abbassando il saliscendi.
Solo quando il marchingegno si mise in moto cigolando e sussultando l'uomo sembrò tranquillizzarsi.
"Questo è l'unico posto dell'edificio libero da microfoni, il rumore delle ruote e delle pulegge renderebbe impossibile intercettare eventuali informazioni." Victor lo fissò allibito e lui proseguì imperturbabile "Perciò ascoltami bene Vitya, perché non te lo ripeterò ancora: nervi a posto, qualsiasi cosa vedrai o sentirai."
"Ma..."
"Niente proteste." lo zittì l'altro "Risparmiati gli atteggiamenti indignati, non te li puoi permettere... Non ce li possiamo permettere." rettificò.
"Dove... Mi stai portando." azzardò il giovane.
"All'inferno e io sono l'unico ad avere la chiave per uscire, evitiamo inutili eroismi, siamo intesi Vitien'ka?"
L'interpellato si limitò ad annuire, aveva la gola troppo secca per rispondere.



Il montacarichi toccò il fondo dopo un tempo indefinito e nel buio fitto che li aspettava oltre la grata metallica Victor trovò un senso alle parole del Colonnello.
Immerso nella quasi totale oscurità fu costretto a inseguire l'ufficiale in un tragitto tortuoso, con stretti corridoi che piegavano improvvisamente ad angolo acuto secondo uno schema del tutto irrazionale.
Dopo le prime brusche svolte Victor aveva già perso il senso dell'orientamento, avrebbe voluto chiedere al suo accompagnatore di rallentare il passo, ma trovò più prudente restare in silenzio; dopo quanto gli aveva riferito sui microfoni era probabile che ce ne fossero anche lì.
Arkadji si arrestò davanti a quella che sembrava una piccola grata dell'impianto di aerazione; il giovane aveva notato la loro presenza sulle pareti, così come aveva notato la totale assenza di finestre; le piccole feritoie erano posizionate a distanze regolari e in sé non avevano nulla di sospetto, ma bastò che il Colonnello aprisse la griglia per spalancare l'accesso all'inferno che aveva preannunciato.
Insieme ad un refolo di aria stantia ne uscirono un intenso fascio luminoso e dei lamenti; un vociare confuso, strascicato, che la grata metallica in parte distorceva.
Arkadji gli fece cenno di accostarsi e Victor, che già presagiva uno spettacolo a cui non voleva assistere rispose con un secco diniego; gli occhi dell'uomo si chiusero in due fessure metalliche cariche di minaccia; l'invito non sarebbe stato ripetuto e il giovane fu costretto ad obbedire.
All'inizio non vide nulla, la luce abbagliante che trapelava dallo spioncino rendeva difficile capire cosa ci fosse dall'altra parte; intanto i lamenti erano cessati e si udiva solo il ronzio elettrico delle lampadine, ma dopo un paio di minuti di silenzio tombale un violento colpo si abbatté sulla parete opposta e lo fece trasalire.
Dal suono Victor dedusse che si trattava di lamiera metallica, forse una porta.
“Dormi compagno? Lo sai che chi dorme non piglia pesci?” echeggiò una voce sarcastica.
“Non sono i pesci che gli interessano...” rispose sullo stesso tono un'altra voce “In piedi compagno! Rispondi all'appello altrimenti sai quello che succede...”
Dalla stanza giunsero dei rumori e un ansimare affaticato, poi un'ombra scura intercettò la luce e tentennando si avvicinò alla parete opposta “Miroslav... I-ilich...”
“Più forte compagno! Non bisbigliare come le comari di paese!”
“Miro... Slav... Ilich Kuzim.”
“Sembravi più convinto quanto ti intervistavano alla radio! Che c'è, siamo diventati timidi?”
Un colpo e un altro ancora risuonarono all'interno della stanza e l'uomo che si era qualificato come Miroslav Kuzmin si accucciò sul pavimento.
“Basta! Basta! Lasciat
emi in pace! Lasciatemi dormire o ammazzatemi! Cosa volete di più da me? Cosa volete ancora?” Su quelle grida cariche di esasperazione calò il sipario; lo spettacolo era finito, almeno fino al successivo giro d'ispezione.

Funzionava così: si teneva sveglio il prigioniero finché non arrivava al punto di rottura, al crollo o al tentato suicidio.
Privare qualcuno delle giuste ore di riposo poteva sembrare una forma di tortura “morbida” rispetto a metodi ben più brutali, ma la pressione psicologica era enorme: in completo isolamento, senza riferimenti temporali il sistema nervoso collassava producendo orribili allucinazioni, mentre il corpo entrava in sofferenza e l'individuo sottoposto a questo trattamento finiva per confessare qualsiasi cosa, anche di aver messo in croce Gesù Cristo.
Quando i passi delle guardie si allontanarono Victor si rese conto di avere le dita aggrappate alla feritoia così strettamente da aver perso la sensibilità.
Già di per sé quella situazione sarebbe stata sufficiente a dargli la nausea, ma il Colonnello vi aveva insinuato una crudeltà più sottile e perciò ancora più mostruosa.
Lui conosceva Miroslav Kuzmin.
Prima che Arkadji potesse dire o fare qualcosa si costrinse a distogliere lo sguardo e a lasciare la presa sulla griglia.
Percorse alla cieca il labirinto dei corridoi sotterranei e ritrovò quasi per caso l'accesso al montacarichi, sordo alle vertigini e ai richiami dell'ufficiale che si facevano via-via più vicini e imperativi.

Miroslav era “sparito” alla fine delle vacanze di Capodanno.
Non si era presentato agli allenamenti della squadra di Hockey e al suo posto era stata messa una riserva. Nessuno era andato a chiedere notizie alla famiglia, né la madre le sorelle vennero al Palazzo del ghiaccio per dare delle spiegazioni.
Compagni e allenatore avevano le bocche cucite dalla paura e Yakov, accortosi dei suoi tentativi di investigazione, gli aveva imposto di non andare in giro a fare domande, doveva rimanere concentrato sul pattinaggio.
Victor era costernato; non poteva definire Miroslav un amico, tuttavia non poteva nemmeno far finta di nulla; quel ragazzone grande e grosso, dall'aria sempre accigliata, incuteva soggezione, invece era un gigante buono; quando si incrociavano sulla pista , perché capitava che talvolta gli orari dei suoi allenamenti e quelli dell'Hockey si sovrapponessero, aveva sempre un piccolo dono per lui: dei biscotti fatti dalla madre, limoni o arance che venivano dalla loro fattoria.
“Ti ammirano tanto, sai? Soprattutto la più piccola, sono quasi geloso...” gli diceva, porgendogli il pacchetto con la sua aria imbronciata.
Victor aveva riso pensando alla tipica gelosia del fratello maggiore.
Del resto anche lui godeva di una certa popolarità; aveva giocato nella nazionale sovietica e si era guadagnato gli onori della stampa; aveva le sue ammiratrici, nonostante a Victor non risultasse che fosse fidanzato o frequentasse qualche ragazza.
Gli impegni sportivi dovevano assorbirlo completamente, come d'altronde accadeva a lui.
Si, certo, negli spogliatoi capitava talvolta di sentire dei commenti e delle allusioni ironiche al fatto che le uniche donne che frequentava fossero la madre e le sorelle, ma erano solo “voci” nessuno aveva pensato che potessero avere delle conseguenze.
Invece eccole le conseguenze, chiuse in una cella di sicurezza, in attesa di un destino incerto, ma comunque orribile.




Entrò nel montacarichi deciso ad andarsene da lì; incurante che uscire da solo senza il Colonnello avrebbe destato perlomeno dei sospetti.
Ammesso che volessero lasciarlo libero.
Cosa poteva fare per Kuzmin?
Assolutamente niente.
Testimoniare in suo favore?
E finire direttamente nell'elenco dei sospettati di complicità con un possibile Nemico del Popolo?
Cosa aveva fatto di tanto grave da guadagnarsi una simile reputazione?
Non.
Aveva.
Fatto.
Niente.
O meglio...
Non aveva fatto abbastanza per stornare da lui sospetti, indiscrezioni, pettegolezzi.
Era quello il suo crimine.
Essere sposato ad uno sport non era sufficiente.
Un buon Compagno Sovietico doveva essere sposato o fidanzato anche sulla carta per essere credibile.

Quell'improvvisa consapevolezza arrivò insieme a Salchov, che fermò il meccanismo del saliscendi, salì sulla piattaforma e l'avviò, salvo poi bloccarla bruscamente tra un piano e l'altro.
"Ti avevo detto di aspettarmi!" esclamò trattenendolo per un braccio quando il giovane accennò a ritirarsi nell'angolo opposto, spaventato dall'espressione cupa dell'ufficiale, che non sembrava avere buone intenzioni.
Con l'ascensore bloccato era in trappola, nessuno sarebbe andato a tirarlo fuori da lì.
"Perché? Vuoi fare anche a me quello che state facendo a Miroslav?" chiese in un moto inatteso di coraggio.
"Non essere sciocco Vitya!" lo rimproverò l'altro senza lasciare la presa "Ti avrei fatto fare un giro turistico, se avessi voluto arrestarti?"
"Dimmelo tu Compagno Colonnello, sei tu quello che ha la chiave per uscire da qui, perché non la usi per lui?"
"Perché, potendo scegliere, scelgo te."
Victor, sbalordito da quella rivelazione, rimase a fissarlo alcuni istanti senza dire nulla; possibile che la natura dell'interesse di Arkadji nei suoi confronti, fosse così ovvia e pericolosa?
Il pensiero venne soppiantato in fretta da un rigurgito di rabbia e indignazione, come poteva essere così egoista e indifferente davanti a sofferenza umana?
"Ha una famiglia! La madre e le sorelle contano su di lui per tirare avanti!"
"Su di te conta la Russia intera Vitya. La mia scelta non è in discussione." fu la risposta.
"Al diavolo l'Unione Sovietica e i tuoi discorsi patriottici! Non sono un soldato!" lo interruppe il giovane, che si divincolò e gli diede le spalle "Ho una vita, delle emozioni, dei sogni, anche Miroslav Ilic li ha, con quale diritto glieli portate via?"
Probabilmente l'ufficiale aveva già messo in conto una reazione aggressiva da parte sua, perché accolse quelle invettive senza battere ciglio.
"Pensi che io non li abbia?" gli posò una mano sulla spalla e Victor non si ritrasse, però oltre la stoffa del cappotto avvertì la tensione muscolare e un leggero tremito, che lo convinsero alla cautela.
Era il momento sbagliato per forzare la situazione.
"Hai delle responsabilità, dei doveri..." continuò adottando un tono più comprensivo "E anche se sei convinto di comportarti bene sappi che questo non basta; ad un simbolo si chiede molto di più."
Poteva accettare l'idea di rinunciare alla sua compagnia, al fatto che da quel momento avrebbe avuto paura di lui e lo avrebbe guardato con sospetto e diffidenza.
Poteva rinunciare alla sua spontaneità, all'allegria e all'ingenuità, ma non di perderlo a causa del suo atteggiamento leggero e irresponsabile.
"Perciò mi aspetto che tu scelga con oculatezza le tue frequentazioni e voglio vederle circolare sulla carta stampata entro un paio di mesi."
Che razza di uomo poteva essere se dopo avergli rivelato quelle cose lo spingeva consapevolmente verso una relazione amorosa con un'altra persona?
“Mi hai... Capito?” chiese Arkadji visto il perdurare del suo silenzio.
“Sei stato molto chiaro Compagno Colonnello.” la voce di Victor suonava bassa e distaccata rispetto a prima, come quella di qualcuno che commentava da lontano un evento a cui era estraneo “E come sempre farò tesoro dei tuoi consigli.”
Non c'era bisogno di aggiungere niente di più; la mano di Salchov indugiò per qualche istante sulla sua spalla e nel ritrarsi sfiorò i setosi capelli d'argento che gli lambivano il collo.
Non erano mai stati così vicini e così lontani.
Il montacarichi ripartì e gli addetti della Lubjanka li videro uscire poco dopo, ma nessuno fece caso all'aria corrucciata dell'ufficiale ne a quella provata del giovane campione sportivo; chi entrava da lì difficilmente ne usciva e chi ne usciva aveva delle ottime ragioni per non sorridere.
Arkadji mantenne la parola, lo riaccompagnò in albergo e si salutarono con pacata cortesia, come due conoscenti di vecchia data.

Yakov rientrò a metà pomeriggio e lo scoprì intento a prepararsi per la serata a teatro; seppe del suo incontro con Salchov solo molti anni più tardi, quando ormai le loro vite avevano imboccato una strada tanto terribile quanto straordinaria e l'ufficiale era tornato a farne parte.
Quella sera, dopo lo spettacolo, invece di eclissarsi come al solito Victor sorprese il suo allenatore chiedendogli di accompagnarlo dietro le quinte, ai camerini delle ballerine; l'uomo pensava che il suo mazzo di fiori fosse per Lilia, invece rimase di sasso quando chiese all'amica comune di presentargli la più giovane e promettente danzatrice della Compagnia.



"Quel Nikiforov ha una fortuna sfacciata!"
La copia di Febbraio del Sovetskaya zhenshchina (La Donna Sovietica) planò sulla scrivania in uno sventolio di pagine; dalla parte opposta del tavolo il collega del compagno Dvornikov alzò lo sguardo dai tasti della macchina da scrivere e gli rivolse un cenno interrogativo.
"Che ti prende?"
"Guarda, leggi! Non gli basta che le donne del blocco orientale, dalla Cina, alla Romania gli muoiano appresso! Adesso si frequenta anche con Beatrisa Diagileva!"
L'uomo cercò l'articolo incriminato, lo lesse e poi emise un sospiro, ripiegando con cura il giornale "Sai non so se mi sorprende di più che tu legga una rivista femminile o che nutra qualche speranza di essere notato da una ballerina del Bolshoi."
"Come membri del Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti è nostro preciso dovere essere informati sulle notizie in circolazione e vigilare su possibili comportamenti sospetti."
"Si chiama invidia compagno Dvornikov..." concluse l'interlocutore intenzionato a rimettersi al lavoro.
"Ah e di cosa dovrei essere invidioso, sentiamo: cos'ha quel pattinatore che io non ho?"
"Vuoi l'elenco breve o quello dettagliato?"
"Solo perché si è messo al collo qualche medaglia non vuole dire che sia..." Dvornikov interruppe la sua arringa notando l'espressione preoccupata del collega, che non guardava lui, ma qualcosa dietro alle sue spalle.
O meglio qualcuno.
"Compagno Colonnello..." l'uomo si affrettò a salutare il nuovo arrivato e tornò al lavoro di battitura lasciando l'altro alla mercé dell'ufficiale.
"Continua pure compagno Dvornikov, sembrava un'esposizione interessante." Salchov prese la rivista e le diede una rapida scorsa.
"Affatto compagno Colonnello era solo alcune considerazioni preliminari su un articolo troppo... Mondano." rispose l'interpellato palesemente a disagio.
"E noi ci occupiamo di cronaca mondana?" s'informo il suo superiore in modo cortese.
"N-non nello specifico compagno Colonnello."
"Bene. E hai forse dei seri e motivati sospetti che vuoi riferirmi riguardo a questo articolo?"
"N-non al momento. No."
Salchov, che aveva affrontato la scomoda conversazione senza mai smettere di fissarlo annuì "Allora mi aspetto che per l'ora di pranzo tu abbia terminato il lavoro di trascrizione delle intercettazioni settimanali del centralino internazionale distaccato al Cremlino"
"Entro... L'ora di pranzo?" il compagno Dvornikov era impallidito; si trattava di un lavoro enorme.
"Se hai tempo da perdere leggendo una rivista devo dedurre che tu sia già molto avanti con l'esame dei brogliacci. Buon lavoro compagno."
Il Colonnello infilò la copia del giornale sottobraccio e uscì dalla stanza lasciando il sottoposto nel più totale sgomento e quando questi accennò ad aprire bocca per domandare aiuto il collega alzò le mani ed esclamò "Ah! Non guardare me! Ho già il mio da fare!"

Una volta solo, nel suo ufficio, Arkadji aprì di nuovo la rivista e si concesse di esaminare il pezzo con calma; parlava di una cena di beneficenza per le vedove di guerra a cui aveva partecipato anche Victor.
Niente che non sapesse già e nemmeno il pettegolezzo sulla Diagileva lo interessava; si soffermò invece sulla foto che li ritraeva vicini, seduti alla lunga tavola imbandita del Moskva, entrambi elegantissimi e sorridenti.
Vitya si era tagliato i capelli e ne aveva guadagnato in fascino, ma sembrava aver perso quell'aura di spensieratezza che lo contraddistingueva.
Dall'immagine in bianco e nero gli sorrideva ancora, ammiccante, eppure quel sorriso non arrivava agli occhi, tanto luminosi quanto distanti, anche da lui, che pure avrebbe continuato a proteggerlo fedelmente nell'ombra, vegliando sulla sua incolumità come un bravo soldato e badando a tenerlo al riparo da errori e futili distrazioni, perché Victor era un Re e un Re non poteva peccare.
Soddisfatto aprì la cassaforte a muro e infilò la rivista in un corposo schedario, contrassegnato da due semplici iniziali В. Н., nella malaugurata ipotesi che Vitya cadesse in tentazione voleva avere a portata di mano gli strumenti per cancellare il suo "peccato".


Fine


⋆ La voce della conoscenza ⋆

Ohi-Ohi!
Come vi avevo preannunciato l'incontro tra Victor e il Colonnello Salchov a Mosca ha avuto dei risvolti decisamente inquietanti.
L'ufficiale era deciso a far toccare con mano al giovane Campione, un po' troppo "frivolo", cosa succede a chi devia appena dalla linea dettata dal partito.
Nessuno si salva, nessuno è intoccabile, nemmeno un atleta famoso e popolare come lui.
Victor ne deduce che Arkadji nutre un interesse che va oltre l'aspetto "professionale", però non esita un attimo a metterlo da parte per spingerlo di nuovo in carreggiata, consapevole che il giovane probabilmente si allontanerà da lui, inorridito da quello che ha visto e sentito.
Questo non lo farà venire meno al compito che si è assunto nei suoi confronti: continuerà a sorvegliarlo nell'ombra e ad intervenire quando sarà necessario.
È una strana forma d'amore quella del Colonnello, che forse non riesce a spiegare nemmeno a sé stesso. La sua fedeltà non verrà mai meno, neppure quando ad anni di distanza i due si incontreranno di nuovo dopo che l'oscuro mondo di Tenebra avrà cambiato le loro vite per sempre.
Restate incollate alla vostra copertina di pile, perché sarà un autunno molto freddo nella Berlino del '52!


   
 
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