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Autore: Old Fashioned    25/03/2019    18 recensioni
Guerra del Vietnam, 1968. Dopo aver combattuto in varie battaglie, un soldato viene allontanato dalla linea del fronte e collocato in un tranquillo magazzino delle retrovie. Nonostante la situazione comoda e poco stressante, è spesso tormentato da allucinazioni, al punto che fa fatica a distinguere ciò che realmente esiste da ciò che viene prodotto dalla sua mente.
I Vietcong che vede aggirarsi intorno alla base, ad esempio, sono veri o sono allucinazioni?
Seconda classifcata al contest "Spade Incrociate" indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Giungla 1





LA GIUNGLA DENTRO





Capitolo 1

Il soldato MacFarland aprì gli occhi e per qualche secondo rimase immobile in ascolto: si udiva un rantolare lieve, irregolare, che a tratti si interrompeva e poi riprendeva con un denso crepitio di bolle.
In preda a un'improvvisa inquietudine si mise a sedere e fece girare lo sguardo sull'infermeria, debolmente illuminata dalle luci che provenivano dal piazzale. Trasalì nello scorgere una figura seduta proprio davanti al suo letto, sulla panca che correva lungo il muro. Strinse gli occhi perplesso. “Sam?” chiese infine.
Proprio io,” fu la risposta.
MacFarland aggrottò le sopracciglia. “Ma tu non eri morto a Quota 1338?”
La figura annuì, il rantolo si accentuò. Osservando meglio, il soldato si accorse che aveva un buco nel petto e metà faccia in meno. “Sam, tu sei morto,” ripeté, questa volta con tono che non ammetteva repliche.
Già.”
E allora...” MacFarland deglutì. “Allora non dovresti essere qui.” Assalito da un'improvvisa sensazione di gelo, si fece indietro fino a toccare la parete con la schiena.
Con un sinistro scrocchiare di ossa, l'altro si alzò in piedi. Emise una risata gorgogliante e replicò: “Perché? Non sei contento di rivedermi?” Mosse un barcollante passo nella sua direzione.
Il soldato fece per balzare dal letto, ma si trovò le gambe avviluppate dalla coperta, perse l'equilibrio e cadde sul pavimento.
Quello che rimaneva di Sam frattanto continuava ad avvicinarsi, lasciando a ogni passo impronte sanguinolente sul lucido pavimento di linoleum.
Sta' indietro!” ansimò MacFarland angosciato, col cuore che gli batteva all'impazzata e il fiato mozzo per l'orrore, “Non ti avvicinare!”
Perché, amico? Non vuoi rievocare i bei tempi di Dak To?”
Il soldato arretrò ancora. Ormai Sam era a un passo da lui, ma per quanto provasse, non riusciva a liberarsi della coperta che gli immobilizzava le gambe. “Vattene!” gridò angosciato, “Va' via!”
Di nuovo la risata gorgogliante, punteggiata di rantoli liquidi.
Va' via, no! No!”

A un tratto, Sam non c'era più, il pavimento era immacolato e a parte il suo ansimare convulso, nella sala di degenza c'era silenzio.
Il soldato si terse il sudore che gli imperlava la fronte e con fatica si alzò in piedi, poi gettò un secondo sguardo tutt'intorno. “Un incubo,” mormorò alla fine. Con gesti malfermi aprì il cassetto del comodino e ne trasse un pacchetto di Lucky Strike, se ne infilò una tra le labbra e l'accese con uno Zippo. Aspirò una lunga boccata di fumo, socchiudendo gli occhi la trattenne nei polmoni per qualche secondo, quindi la esalò adagio. “Un fottuto incubo del cazzo,” ripeté.
Di nuovo si guardò intorno, ma a parte lui nella stanza non c'era nessuno. Diede un altro tiro alla sigaretta, si avvicinò alla finestra e lasciò vagare lo sguardo all’esterno.
Il cielo era ancora buio. L’aria era calda, umida, carica di odori. Intorno a ogni luce si agitava un brulichio di insetti. Un geco salì lungo la parete con un lieve fruscio, fece saettare la lingua per catturare una zanzara e poi scomparve in una fessura.
MacFarland diede un altro lungo tiro alla sigaretta ed esalò lentamente il fumo.
Di notte la giungla non si vedeva, ma ovunque se ne percepiva la presenza incombente, forse addirittura con più intensità rispetto a quello che accadeva di giorno: era come il lento, lungo respiro di una creatura antichissima, di forza immane.
La sigaretta finì. Il soldato la spense sfregandola contro la zanzariera metallica che chiudeva la finestra, quindi la lasciò cadere sul pavimento.
Una sentinella attraversò lentamente il piazzale. Per un po’ MacFarland la seguì con lo sguardo, poi tese l’indice e il medio della destra a rappresentare la canna di un’arma e anche con quelli seguì il suo lento percorso. “Bang,” disse sottovoce. “Bang, bang, bang.”
Il soldato continuò a camminare e scomparve ignaro, lui abbassò la mano e per un po’ rimase immobile in preda a sentimenti contrastanti: da una parte disprezzava quello stupido marmittone, così svagato e noncurante, ma dall’altra lo invidiava. Doveva essere bello poter attraversare uno spazio vuoto semplicemente percorrendone la diagonale, senza strisciare di ombra in ombra lungo i bordi, senza fermarsi ogni dieci passi per tendere l’orecchio.
Cercò di ricordarsi di quando anche lui si comportava così, ma non ci riuscì. Abbandonò la finestra, andò alla ricerca di un’altra sigaretta.
Si sedette sul letto e riprese a fumare. Meccanicamente portava la sigaretta alla bocca, aspirava il fumo, lo tratteneva per qualche secondo nei polmoni e poi lo lasciava uscire.
Appeso alla parete c’era un manifesto di propaganda che mostrava uno scenario di distruzione e miseria: l’America dominata dal comunismo. Rimase a guardarlo per un po’, ma in breve l’immagine trasfigurò in quella della Collina 875: il linoleum diventò un terreno brullo e devastato dalle esplosioni, i pochi mobili divennero sacchi di sabbia, trinceramenti, ridotti. Si fece bruscamente da una parte quando vide un colpo di mortaio esplodere a poca distanza da lui. Si buttò per terra, in un attimo si infilò sotto il letto. Colpi di mortaio e raffiche di mitragliatrice continuavano a rintronarlo, sentiva in bocca il sapore della terra riarsa, misto a quello della polvere da sparo e del sangue.
Una luce accecante lo fece sussultare.
MacFarland, la vuoi finire?” disse una voce.
Il soldato sussultò di nuovo, di colpo non c’erano più i sacchi di sabbia e le esplosioni. Era tornato il linoleum lucido sul quale si riflettevano i neon accesi.
Due piedi calzati di Jungle Boots neri entrarono nel suo campo visivo. “Mi senti, MacFarland?” insisté la voce.
Il soldato fece un respiro profondo e si passò una mano sulla fronte, di nuovo madida di sudore. Uscì da sotto il letto e prima ancora di capire chi fosse il suo interlocutore allungò la mano verso il cassetto del comodino, dal quale estrasse lo Zippo e le Lucky Strike.
Si accese una sigaretta, quindi buttò tutto sul letto. A quel punto si girò verso il nuovo arrivato. “Rosales,” disse.
Non fare tutto questo casino,” gli raccomandò l’infermiere.
Scusa.”
Senza rispondere, l’altro andò a raccogliere una sedia che era finita contro la parete e la rimise al suo posto.
Sigaretta?” propose MacFarland. Stava ancora cercando di liberarsi delle visioni, se chiudeva gli occhi le scene di battaglia ricomparivano vivide come film in technicolor, e magari farsi una fumata con qualcuno l’avrebbe aiutato.
Ok, grazie,” rispose Rosales. Raccolse il pacchetto e si infilò una Lucky Strike in bocca, quindi prese l’accendino e lesse ad alta voce la scritta che vi era incisa sopra: “L’unica cosa che sento quando ammazzo è il rinculo del fucile.” Fece scattare la fiamma oleosa, che oltre al fumo nero spandeva intorno odore di benzina, la avvicinò alla punta della sigaretta, aspirò fino a che essa non fu incandescente ed esalando il fumo gli chiese: “È davvero così?”
Magari,” rispose cupo MacFarland.
L’infermiere si sedette sul letto. “Hai fatto di nuovo quei sogni?”
L’altro annuì. Rivolse uno sguardo torvo alla finestra.
Che c’è?” chiese Rosales.
Spegni la luce.”
Non c’è niente là fuori. Questo è solo un deposito di materiale, la zona è tranquilla.”
MacFarland aggrottò le sopracciglia e ringhiò: “Spegni, ho detto!”
Smettila, Jace. Lo vuoi capire che non c’è niente?”
L’altro emise un sospiro e a sua volta si lasciò cadere seduto sul materasso. Si puntò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa fra le mani.
Sentì l’altro battergli una mano sulla spalla e istintivamente si irrigidì. “Te li trovi addosso quando meno te lo aspetti,” esordì poi. “Prima non c’è un cazzo, e poi tutt’a un tratto la giungla ne è piena, ti sparano, ti assalgono con le armi bianche, ce li hai tutti addosso e non capisci più un cazzo, in mezzo al casino vedi solo delle sagome e non capisci nemmeno se sono i tuoi o se sono quelle fottute scimmie gialle...” Diede un altro tiro reggendo la sigaretta con mano tremante, quindi ne estrasse un’altra dal pacchetto e l’accese con la brace della precedente. Di nuovo aspirò una lunga boccata di fumo. “E poi un attimo dopo non ci sono più,” concluse cupo. “Niente, neanche un fottuto cadavere, come se non ci fosse mai stato nessuno. E tu sei lì come un idiota, in mezzo a tutti i tuoi compagni morti, e devi ancora capire che cazzo è successo.”
Diede un altro lungo tiro.
Con quella merda ti asfalterai i polmoni,” lo ammonì Rosales.
Meglio i polmoni del cervello.”
Quello mi sa che te lo sei già asfaltato.”
Vaffanculo, cosa ne vuoi sapere? Tu non hai mai visto altro che gli ospedali delle retrovie. Dove c’è la merda vera tu non ci sei mai stato.”
L’infermiere si strinse nelle spalle e piccato replicò: “La mia parte di merda l’ho vista anch’io.”
Quando vai al cesso, al massimo.”
Detto questo, MacFarland si alzò e si avvicinò alla finestra. Di nuovo lasciò vagare lo sguardo: un piazzale pulito come quello di Camp Pendleton, hangar di lamiera ondulata color olive drab. Lampioni a intervalli regolari, cartelli freschi di pittura che indicavano la mensa, lo spaccio e il comando.
Aspirò ancora una volta dalla sigaretta, e nell'emettere il fumo esalò anche un lungo sospiro. Dopo la tensione precedente, i muscoli stavano ricominciando a rilassarsi. Infastidito dal sudore che gli appiccicava al corpo la maglietta, brontolò: “Ora ci vorrebbe un goccio.”
Alle sue spalle, Rosales replicò: “Ci manca solo che ti attacchi alla bottiglia e poi siamo a posto.”

§

MacFarland si guardò intorno a disagio, soppesandosi fra le mani il vassoio con il pasto. Strinse gli occhi quando da uno dei tavoli provenne uno scoppio di risa particolarmente intenso e tentennò resistendo alla voglia di girarsi e uscire.
Si sistemò in un punto un po' appartato e cominciò a mangiare. Anche senza guardare nessuno, sentiva su di sé innumerevoli occhi: da una parte lo invidiavano perché dormiva in infermeria invece che in camerata, dall'altra lo temevano. Sapeva che erano state messe in giro voci su di lui: che aveva ammazzato dei Viet a mani nude, che era stato torturato ed era rimasto mezzo matto, che aveva ucciso un suo commilitone scambiandolo per un Charlie.
Tutto era allo stesso tempo vero e non vero: quello che non era successo direttamente a lui era successo a gente della sua compagnia, ad amici, e in ultima analisi faceva poca differenza.
Serrò gli occhi per scacciare l'immagine di quando avevano ritrovato Bobby Carver dopo che per tutta la notte l'avevano sentito urlare da ben due miglia di distanza.
Ripensò a quello che Charlie aveva lasciato loro perché capissero cosa gli aveva fatto.
In quel momento percepì un colpo sulla spalla.

Fu il vociare concitato che lo fece tornare in sé: aveva tutti intorno, mani robuste lo stavano tenendo per le braccia. Istintivamente si divincolò e la presa sui suoi arti si fece più salda. “Sta' calmo!” gridò qualcuno, decisamente meno calmo di lui.
Sbatté gli occhi, fece girare lo sguardo: c'era un tavolo rovesciato, cibo sul pavimento, sedie sparse qua e là. Era cavalcioni su Rosales, che sdraiato sulla schiena lo stava fissando con l'espressione atterrita.
È tutto ok,” bofonchiò, “potete lasciarmi, sono a posto.”
La stretta rimase invariata.
Sono a posto,” ripeté MacFarland.
Ci vollero un altro po' di rassicurazioni, poi gli altri si rassegnarono ad abbandonare la presa. Tutti si portarono comunque a rispettosa distanza, fissandolo come avrebbero fatto con una bomba inesplosa.
Sono a posto,” disse ancora una volta il soldato. Trasse di tasca il pacchetto di sigarette e se ne accese una. Si spostò all'aperto. Con la luce del giorno, la giungla in un certo senso usciva dalla mente ed entrava nella realtà: di notte la si immaginava, con la luce la si vedeva in tutta la sua imponenza, in tutto il suo spaventoso, passivo potere: la giungla non aveva bisogno di fare cose per uccidere, le bastava esistere, le bastava esserci.
Persino la base logistica in cui l'avevano spedito – innumerevoli magazzini, il traffico di uno scalo merci – con la luce del giorno diventava una misera zattera persa in un oceano verde che da un momento all'altro avrebbe potuto richiudersi su di essa e inghiottirla.
Aveva sentito dire che c'erano intere città in rovina all'interno della giungla, templi giganteschi, statue.
Finì la sigaretta, la buttò a terra e la schiacciò sotto il tacco dello scarpone. Soprattutto c'era Charlie, nella giungla.
Si accese un’altra Lucky Strike, quindi si incamminò a passi lenti.

Assiepati sulla soglia della mensa, i soldati della compagnia Bravo lo guardarono allontanarsi.
Che figlio di puttana,” commentò Minelli, un piccoletto di New York con la faccia da topo.
Accanto a lui Jackson, un nero dell'Alabama grande e grosso, rispose: “Ah, lascia stare. A quello gli si è fottuto il cervello a Dak To.”
È stato a Dak To?” intervenne un ragazzotto con gli occhiali che sembrava uno scolaro.
Il nero annuì. “Me l'ha detto O'Malley, quello che sta in fureria. Se l'è fatta dal primo giorno all'ultimo, poi l'hanno spedito a Khe Sanh, dove è rimasto ferito. L'hanno evacuato a Saigon e lì si è beccato in pieno tutta la fottuta offensiva del Têt. Ha dovuto praticamente scappare dal tavolo operatorio e combattere con le ferite aperte, se ha voluto salvarsi la pelle. Ci credo che è diventato mezzo matto.”
Si unì al gruppo anche Rosales, ancora pallido dopo la recente esperienza.
Jackson si voltò a guardarlo. “Tutto a posto, amico?”
L'infermiere si limitò ad annuire. Si passò una mano sul collo, dove si vedevano ancora i segni rossi lasciati dalle mani di MacFarland.
Quello è fuori di testa,” commentò Minelli. Poi, dopo una pausa: “Cosa gli fanno in infermeria, lo tengono legato con la camicia di forza?”
Secondo me gli danno della roba per stenderlo,” disse un altro.
Rosales scosse la testa. “Di solito è tranquillo. Ogni tanto lo trovo sotto il letto invece che sopra, ma non fa casino.”
Si udì qualche risatina e subito Jackson protestò: “Zitti, voialtri. Quello non si è mica passato la guerra a caricare elicotteri come facciamo noi.”

Seduto su una cassa di munizioni, la terza sigaretta penzoloni all'angolo della bocca, MacFarland lasciava vagare lo sguardo sul muro verde che circondava la base. C'erano alberi talmente alti che avrebbero potuto tranquillamente fare ombra alla chiesa del suo paese, con tanto di campanile.
Cercò di visualizzare la chiesa, ma si accorse di non riuscirci.
Come non riusciva a visualizzare la faccia di sua madre, della sua fidanzata, di suo fratello. Vedeva figure neutre, che esistevano formalmente, ma avevano perso ogni connotato.
Oppure vedeva i morti.
L'ultima volta che era stato in licenza, vedeva tutti morti, come li aveva visti a Quota 1338 o a Khe Sanh, quando avevano dovuto pisciare sui mortai perché a forza di sparare alle orde di Viet che si susseguivano una dopo l'altra, le canne erano talmente surriscaldate che i colpi esplodevano prima di venire sparati fuori.
A casa vedeva esattamente le stesse cose. Due ragazze che prendevano il sole erano diventate due corpi chiusi nei sacchi neri.
Gli elicotteri non riuscivano ad atterrare per caricarli e i sacchi si accumulavano. Quando erano finiti i sacchi avevano cominciato ad avvolgere i morti nei teli mimetici e alla fine si accontentavano di coprire loro la faccia con qualsiasi cosa capitasse sottomano.
Col vento quella roba volava sempre via...
La sigaretta finì. Fece per prenderne un'altra, ma il pacchetto era vuoto. Lo accartocciò e lo lasciò cadere.
A quel punto gli parve di cogliere un movimento al limite del campo visivo.
Il cuore accelerò i battiti, i muscoli divennero tesi come corde. Si trovò a stringere i denti con tale forza che dopo qualche secondo si sentì le mascelle intorpidite.
Immobile, fece girare solo le pupille.
Al margine della vegetazione c'era una figura. Non era un americano: era esile e basso di statura, portava una giacca e un paio di pantaloni scuri, sandali di fibra di bambù e un cappello a cono. Aveva l'aspetto di un contadino.
Spostò lo sguardo sulla torretta di guardia: il soldato che la occupava era girato proprio in quella direzione, ma sembrava non stesse vedendo nulla di particolare.
Tornò a fissare il vietnamita, lo vide scomparire dietro un albero. Rimase in attesa per un po', ma esso non ricomparve.
Rilassò impercettibilmente la postura ed emise il fiato che involontariamente aveva trattenuto. “Un'altra cazzo di allucinazione?” si chiese a mezza voce.
Sollevò lo sguardo sulla giungla, immobile e ammantata di una vaga foschia nella calura del primo pomeriggio. Un improvviso stormire di fronde lo fece sussultare. Meccanicamente allungò una mano come per afferrare un invisibile M-16, ma quello che si levò dalla vegetazione era solo un uccello.
Fanculo,” ringhiò MacFarland, col cuore che di nuovo gli galoppava nel petto. “Fanculo, stronzo di un uccello del cazzo.”

§

Il sergente Langley fissò il soldato sull’attenti di fronte a lui: altezza media, né magro né particolarmente muscoloso, uniforme né troppo trasandata né perfetta stile primo della classe. Uno che non si sarebbe guardato una seconda volta.
Un grugno qualsiasi.
Eppure a quanto pareva tutti ne avevano una paura fottuta. Si era bevuto il cervello sulle alture di Dak To e ogni tanto si comportava in modo strano.
Cosa c’è, soldato?” gli chiese.
Vietcong, sergente.” Impersonale, neutro. A Langley parve che stesse dicendo: ‘Piccioni, sergente,’ o qualcosa del genere.
Vietcong?” ripeté il sottufficiale.
Sono due o tre giorni che li vedo, girano qui intorno.”
Langley lo fissò poco convinto. “Come fai a sapere che sono Vietcong, soldato?”
Lo so.”
E… dove li avresti visti, questi Vietcong?”
MacFarland sembrò non accorgersi neppure del tono vagamente ironico che il sottufficiale aveva adottato. “Girano tutt’intorno alla base,” rispose, “alle volte li ho visti anche dentro. Appaiono e scompaiono in un attimo.”
Il sergente aggrottò le sopracciglia: quello era lo stesso soldato che ogni notte si rintanava sotto il letto per sfuggire a immaginari colpi di mortaio. Adesso vedeva Vietcong intermittenti, che apparivano e scomparivano. “Anche qui nella base, hai detto?”
Di nuovo, MacFarland non parve per nulla turbato dal tono scettico della domanda. “Sì, sergente. Qui nella base.”
Puoi descrivermeli?”
Piccoli, magri, vestiti da contadini, con il nón lá in testa. Li ho visti in giro.”
Il sottufficiale corrugò la fronte. “Nessun altro a parte te li ha visti?”
Non lo so, sergente.”
Ne hai parlato con qualcun altro?”
Affermativo, ma non mi hanno dato ascolto.”
Langley annuì grave. La faccenda era chiara: probabilmente quel tizio ormai vedeva i Vietcong anche al cesso. Cercando di suonare convincente, gli rispose: “Questa è una zona tranquilla, ma farò fare comunque dei controlli. Ora puoi andare, soldato.”
MacFarland non si mosse. “Io ho detto la verità, sergente.”
Il sottufficiale indurì lo sguardo. “Ti ho detto che puoi andare, soldato.”
Attaccheranno,” rispose l’altro con voce incolore, fissando un punto imprecisato alle sue spalle.
Saremo pronti a riceverli.”
Ne dubito.”

MacFarland si allontanò con una curiosa sensazione di indifferenza. Probabilmente Langley non aveva creduto a una sola parola, ma del resto non poteva nemmeno dargli tutti i torti: lui stesso non era ancora del tutto certo di aver visto quei Charlie veramente.
Forse se li era solo immaginati.
L’ultimo l’aveva colto praticamente solo con la visione periferica: un’ombra velocissima, che non aveva prodotto alcun rumore. Solo dopo, riflettendoci su, era riuscito a ricostruire che si era trattato di una forma umana.
Una cosa lo aveva colpito, facendolo dubitare che fossero allucinazioni: nessuno dei tizi che vedeva era ferito, a nessuno mancavano arti. Nessuno si lasciava dietro scie di sangue.
Pensò che in fin dei conti non gliene fregava niente. Che ci credessero o no, cazzi loro. Lui aveva già abbandonato da tempo l’idea di tornarsene a casa.
Casa era diventato un termine astratto, qualcosa come Paradiso o Inferno. Un posto dove la gente vestiva colorato e aveva preoccupazioni stupide.

§

La prima esplosione colse MacFarland nel bel mezzo di un incubo, ma il soldato non ebbe alcun dubbio che il rumore non provenisse dal suo mondo onirico. Saltò dal letto mentre un secondo scoppio faceva tremare vetri e pavimento e si infilò in tutta fretta l’uniforme e gli anfibi.
Subito dopo le luci si accesero e Rosales entrò di corsa chiedendo: “Che succede?”
In uno stato di surreale calma, MacFarland gli rispose: “Ci attaccano.”
Cosa? Chi ci sta attaccando? Dove?”
Per tutta risposta, il soldato lo afferrò per un braccio e lo costrinse a buttarsi a terra, giusto un attimo prima che una raffica di AK-47 mandasse in frantumi tutti i vetri spargendo schegge ovunque.
Fuori echeggiarono altre due violente detonazioni. “Granate a frammentazione,” disse MacFarland.
Uscirono.
Le luci del piazzale erano quasi tutte spente, ma l’ambiente era illuminato dai lampi gialli e rossi delle esplosioni. Raffiche di traccianti di un bianco vivido tagliavano il buio come colpi di artiglio.
Sagome nere formicolavano ovunque, l’aria era piena di urla e richiami, vibrava del detonare sordo delle esplosioni.
MacFarland udiva ovunque l’abbaiare secco dell’AK-47 e le raffiche nervose dell’M-16, poi subentrò la voce dell’M-60, più bassa e cupa, con la cadenza regolare dei nastri da duecento colpi.
Udì un lamento, qualcuno gli cadde addosso, un’esplosione lo costrinse a strisciare al coperto. Vide uno degli elicotteri parcheggiati sul piazzale dissolversi in una vampata color arancio carico, che sfumò nel viola e poi nel grigio cupo dissolvendosi. Un magazzino di lamiera si aprì in due come sotto l’effetto di un gigantesco maglio, mentre dal tetto fuoriuscivano fiamme che avevano il biancore sinistro del fosforo.
Nell’aria passarono altre raffiche di traccianti, ovunque stava calando un fumo sempre più denso.
MacFarland strappò un M-16 da un paio di mani irrigidite, mirò a una sagoma nera che gli stava correndo incontro, sparò tre colpi, la sagoma sussultò e cadde a terra. Il soldato passò oltre, sparò ancora una breve raffica, un altro si accasciò al suolo.
Qualcuno accanto a lui emise un urlo gorgogliante, gli parve di sentire qualcosa come “Gesù,” poi non capì se quella che seguiva era un’imprecazione o una preghiera.
Si mise in copertura contro una parete, si guardò intorno cercando di identificare qualcosa come un comando a cui fare riferimento, ma la battaglia era il caos più completo. Chi aveva avuto la fortuna o la presenza di spirito di mettere le mani su un’arma vuotava caricatori perlopiù senza nemmeno capire a cosa stava sparando mentre i Vietcong – perché quelli erano Vietcong – ammazzavano i soldati l’uno dopo l’altro come pecore al macello.
Corse all’armeria: i Charlie erano arrivati prima di lui e stavano portando via casse di materiale. Qualcuno si accorse della sua presenza, spedì una raffica nella sua direzione. MacFarland si buttò in una zona d’ombra, strisciò di nuovo fino al piazzale e individuò una postazione allestita in tutta fretta con sacchi di sabbia recuperati un po’ ovunque.
Da dove cazzo sono usciti?” sentì urlare. “Sono dappertutto!”
Un’altra esplosione fece tremare il terreno. Vampe di fuoco aranciato mostrarono per un attimo esili sagome nere e curve che correvano ovunque.
Cazzo, sono dappertutto!” ripeté la voce di prima.
MacFarland raccolse un lanciagranate M-79, corse di nuovo all’armeria. File di Charlie stavano portando fuori le casse degli M-72 anticarro.
Infilò la granata nella camera di lancio, portò la canna in posizione e spedì il colpo precisamente all’entrata del deposito.
Si buttò a terra prono, appoggiato solo tramite gomiti, ginocchia e punta dei piedi, con la bocca spalancata e le dita a proteggere gli occhi e le orecchie.
L’esplosione che seguì fece uscire dal tetto della santabarbara una colonna di fuoco bianco e giallo che salì nel buio del cielo tropicale per almeno trenta piedi. Tutta la zona fu illuminata a giorno. I Charlie che erano lì intorno furono vaporizzati all’istante, gli alberi secolari che circondavano la costruzione furono spazzati via come fuscelli.
Rintronato, accecato, con le orecchie che fischiavano e il sapore ferroso del sangue in bocca, indolenzito ovunque, MacFarland si alzò adagio e colse d’istinto, più che vedere chiaramente, un muso giallo che gli stava correndo incontro con il Kalashnikov poggiato sull’anca.
Il Charlie lasciò partire due brevi raffiche, sempre d’istinto il soldato si buttò al coperto, brandì l’M-79 ormai scarico come una specie di clava e glielo abbatté tra testa e collo. Non riusciva ancora a sentire i rumori, ma percepì comunque la vibrazione di qualcosa che si fratturava. Il suo avversario crollò al suolo come un sacco vuoto.
Il soldato abbandonò anche quell’arma e tornò al piazzale. La postazione che aveva visto allestire coi sacchi di sabbia era stata spazzata via; alla luce degli incendi che ormai divampavano ovunque, si vedevano solo corpi contorti e crateri di esplosioni. L’infermeria non esisteva più, al suo posto c’era qualcosa che sembrava un mucchio di legname mezzo bruciato.
Granate, raffiche di mitra e urla creavano una cacofonia assordante, nella quale MacFarland non riusciva a sentire nemmeno il suono dei colpi che lui stesso stava sparando. Le luci elettriche erano da tempo spente, forse era stato addirittura distrutto il generatore principale, e l’unica illuminazione proveniva dai lampi ignei delle esplosioni, che davano vita a uno scenario infernale.
Qualcosa scoppiò a breve distanza, lo spostamento d’aria lo sbatté per terra. Egli si rialzò barcollante, solo per vedere un altro magazzino scomparire in uno spaventoso oceano di fiamme. Bidoni di carburante saltarono in aria uno dopo l’altro, lasciandosi dietro lunghe scie di fuoco. Uno di essi atterrò in mezzo a un gruppo di Charlie spargendo intorno benzina incendiata: gli uomini vennero inghiottiti dalle fiamme e si consumarono rapidi come sagome di carta.
MacFarland corse via senza sapere bene che fare: non c’era un fronte, nessuno stava organizzando una linea di difesa da qualche parte.
Qualcosa lo colpì alla schiena, facendolo crollare in avanti. Cercò di rialzarsi, ma si accorse di non esserne in grado: di attimo in attimo si sentiva più stanco e una curiosa sensazione di indifferenza lo stava pervadendo. Pensò che in fondo non gli importava gran che di morire. Anzi, quasi gli parve una liberazione.
Chiuse gli occhi.


   
 
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