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Autore: Lala96    27/03/2019    0 recensioni
Lalage, giovanissima promessa della musica classica, a seguito di una serie di eventi dolorosi e di fallimenti professionali si trasferisce dalla capitale francese a Aix en Provence, dove si ritrova a vivere con la bislacca zia materna. Tormentata da dolorosi ricordi ma tenace, troverà ad attenderla persone, ragazzi giovani come lei, che l’aiuteranno a ritrovare l’amore mai scomparso per la musica. E le daranno il coraggio di affacciarsi investigando negli abissi della Storia, alla ricerca dell’amore perduto di sua nonna…
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Erano ormai le undici passate. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore e tenne il viso basso, tra le braccia. Ogni muscolo del suo corpo tremava, tremava sensibilmente, tanto che anche l’archetto, ancora stretto nella mano destra, oscillava come la penna di un sismografo durante un terremoto. Erano ore che ci provava. Ore, ore maledette, ore inutili che la stavano letteralmente uccidendo, rompendo la fibra dei suoi nervi e della sua anima. Tossì, ma quel senso di vertigine non passò, anzi, la nausea come un serpente viscido le percorse l’esofago tra gli spasimi. Incespicando si precipitò in bagno e fece appena in tempo a raggiungere il water, che gli spasmi si trasformarono in conati. La vista era annebbiata, macchi scure gliela offuscarono, la gola strozzata cercava tra le convulsioni di liberarsi del male, lo stomaco le diede delle fitte dolorose. Quando ebbe finito, lacrime di rabbia le scesero lungo le guance. Quasi non ebbe la forza di raggiungere il lavandino, e con enorme sollievo accolse tra i denti e sul palato il getto d’acqua fresca del rubinetto. Quando alzò la testa vide un volto stravolto e lacrimante, i lineamenti tremanti e il respiro affannoso. Tentò di abbozzare un sorriso per incoraggiarsi. “Beh è sempre dura ricominciare, quindi forza e coraggio!”. Si trascinò fino alla camera e si gettò un secondo per terra, cercando di reprimere quella sensazioni di nausea e torpore.

La scuola in quei giorni pareva un enorme alveare in attività. Gente che provava in aule deserte dopo la fine delle lezioni, la squadra di basket che dava una mano a montare il palcoscenico in aula magna, e la segreteria studenti con i due delegati che non correvano, volavano da una parte all’altra a dirigere, chiamare sponsor, affrontare lunghe discussioni con la preside e con i club del liceo. Lalage guardava le cose intorno a sé farsi e disfarsi, un vortice che le soffiava intorno la ma non la sfiorava nemmeno. L’occhio del ciclone non è come molti credono, turbolento e iracondo: ha piuttosto l’inquietante perfezione quieta di una prigione circondata di tempesta da cui è impossibile sfuggire. E quel ciclone lei se lo portava sulle spalle, nell’anima. La guardavano come una guida, come la vera responsabile di tutta quella baraonda, come la prescelta.

Nathaniel non le parlava più. Castiel non si faceva vedere quasi dopo le lezioni, stava sempre con quella…Deborah?...non importava. Gli altri la guardavano senza sapere cosa fare. Non riuscivano a raggiungerla. Anche quando le parlavi, pareva che i suoi occhi cercassero in te un altro posto, e non ascoltava nulla. “Dobbiamo fare qualcosa” ringhiò Kim stringendo i denti. Nessuno era più lo stesso, nemmeno lei riusciva e restare calma. Lysandro le afferrò una spalla e cercò le parole giuste “Vedrai che passerà, dobbiamo solo aspettare che si apra…”. Kim si voltò e tirò un pugno così deciso all’armadietto che la lamiera si piegò su sé stessa. “ E la tua brillante idea coglione qual è, aspettare che si ammazzi?”. Poi si girò e se ne andò rabbiosa inseguita da Violet. Rosalya le guardò allontanarsi e cercò gli occhi di Lysandro. Li trovò fissi sul pavimento. “Sì sistemerà tutto…ne sono sicura, Lys”. Lysandro alzò lo sguardo al soffitto e respirò profondamente “Lo spero davvero, Rosa”. Il caldo di metà giugno era un’intollerabile cappa di calore che si sommava a quella del silenzio e dell’angoscia. A mezza voce lui ripeté “Spero davvero”. Ma sia la sua voce che i pensieri di Rosa erano funamboli sul filo dell’incertezza.

La zia la guardava sempre più preoccupata perdere grammi guadagnati faticosamente. La mattina la guardava dormire e aspettava a svegliarla come se lasciarla dormire potesse preservarla…da cosa? Da sé stessa. Aveva provato a parlarne alla sorella, ma si era rifiutata di fare ciò che lei le aveva suggerito in una telefonata di cinque minuti. Quel flacone arancione era rimasto chiuso nel cassetto della zia. Non poteva credere che sua sorella affidasse sua figlia a un antidepressivo. E vedeva quella creatura fragile alzarsi, tremare, inciampare e rialzarsi. Vedeva il coraggio che riusciva a sprigionare. E non le avrebbe permesso di arrendersi.

La stanza era ormai nel buio da ore, avrebbe dovuto accendere la luce per studiare lo spartito ma non aveva la forza di volontà di andare fino all’interruttore. E poi, il problema non era leggere la musica, la sapeva già a memoria. No, il problema era eseguirla.“Coraggio” sussurrò a sé stessa stringendo i denti e alzandosi lentamente in piedi. Improvvisamente, qualcosa, dentro di lei, vacillò e smise di funzionare.

Cadde per terra ,contro il pavimento freddo, cacciando un urlo terrorizzato. Una sensazione di pericolo, come di catastrofe imminente, la ghermì, tenendo stretta tra i suoi artigli tutta la sua coscienza. Cercò di muovere le gambe ma non rispondevano, erano completamente intorpidite e al tempo stesso tremavano vistosamente, come tutto il suo corpo percorso da tremiti. La testa prese a girare insieme a tutta la stanza attorno a lei, macchie scure le annebbiavano la vista, mentre un peso insopportabile le chiudeva il petto in una morsa soffocante. Le sembrava di annegare, ma le urla di terrore che cercava di tirare fuori si trasformavano in rantoli strozzati. Doveva chiedere aiuto, in qualche modo. La crisi non accennava a calmarsi, anzi il respiro si faceva sempre più affannoso e sempre più difficile, stava letteralmente annaspando. “Lalage, ma perché non vuoi parlare alla tua mamma, eh?” .

No, non di nuovo lui, quel ricordo, quell’incubo, quel sogno figlio dell’angoscia.

Sua madre la guardava coi suoi grandi occhi verdi. Papà si chinò ad accarezzarle la testa, sorridendole ma senza nascondere un’evidente preoccupazione. “Se c’è qualcosa, qualsiasi cosa che desideri, te la portiamo subito”. Nessuna risposta. I due si guardarono in preda all’angoscia. Lei, da parte sua, non mosse un dito, non parlò. Guardava fuori dalla finestra dell’ospedale.

“Basta, basta” rantolò prendendosi tra le mani la testa. Ma la Paura, inflessibile, continuava come un coltello a incidere nella nebbia dei suoi ricordi, riportando alla luce il peggio, il male, il dolore.

“Vuoi che ti portiamo il violino? Vuoi suonare un po’?”. Fu un attimo, e si tirò su seduta nel lettino, urlando a pieni polmoni e urtando violentemente le ribaltine. “NO!!! NON LO VOGLIO,NON VOGLIO SUONARE, NON VOGLIO SUONARE BASTA!!”. E scoppiò in lacrime disperate. “Voglio tornare a casa…”. I bambini quando piangono non hanno una logica, non calcolano se le loro lacrime fanno male a chi sta loro intorno; e lei era solo una bambina che avevano costretto a crescere troppo in fretta, e che ora si trovava in quell’asettico ospedale, con una diagnosi di disturbo psicosomatico che secondo i dottori aveva l’intensità di un disturbo post traumatico, con i denti che battevano e un bisogno disperato di correre mentre le gambe erano come spente, di urlare senza voce in gola, di vomitare, di uscire fuori, fuori da quella stanza, fuori dal mondo, da quel corpo, da tutto. Mentre sua madre cominciava a piangere in silenzio, il medico allarmato dalle urla tornò con un’infermiera. Le sentì con due dita il polso, faticando a tenerlo visto che lei si agitava, poi si rivolse prima all’infermiera “Due unità di Lexotan per piacere” poi si rivolse a lei in tono più mellifluo. “Ora rilassati bambina, riposati”. Era buono, il dottore. Perché non consolava anche mamma e papà? Piangevano tutti e due…e mentre si addormentava lentamente, dopo che l’infermiera le aveva somministrato la medicina, una voce rauca le penetrò i timpani e il cuore. “Sei una fallita, una piccola stupida fallita”.

In quel momento qualcuno suonò il campanello.

“Scricciolo, sono io”. Castiel. Doveva andare, doveva chiedere aiuto. Ma le gambe la dissuasero, rifiutandosi di rispondere. Scoppiò i singhiozzi rotti dai tentativi disperati di riempire i polmoni di ossigeno. “Lalage, sei in casa?”. Doveva fare qualcosa, subito. Non poteva resistere, più di ogni cosa la Paura, la Paura la stava consumando. Avrebbe potuto uccidersi, solo per far finire quel supplizio. Si girò con uno sforzo immane sulla schiena, piangendo per ogni centimetro guadagnato, fino a che non sentì il pavimento freddo contro la sua spina dorsale. Allora prese fiato, come se dipendesse della sua vita, e straziandosi i muscoli della gola contratti urlò in una sorta di rantolo, di ululato disperato. “CASTIEL!”. Nessuno rispose. No, no, ti prego, ti scongiuro no, pensò disperata. Dopo quello sforzo, il fiato le era completamente scomparso, era praticamente in apnea, a parte un leggere respiro che non bastava a farla rimanere vigile. Le orecchie con un fischio sordo iniziarono a attutire tutti i suoni in un ronzio indistinto, sentì solo un colpo sordo. Poi, si sentì sollevare da terra. Un profumo famigliare la avvolse, un odore di nicotina e di bagnoschiuma, mentre una voce gutturale imprecando la stringeva contro il suo petto caldo.

Castiel strinse a sé quella creatura fragile, digrignando i denti per la rabbia e la paura. Tremava così tanto da far tremare anche lui, stringendo convulsamente la sua t-shirt e piangendo tra gemiti e singhiozzi. “Shhhh, calma, calmati, va tutto bene, tutto bene” . Dondolava leggermente, come se stesse cullando una bambina. Pian piano la sua voce la tranquillizzò, smise di tremare. Ma sul suo volto rimaneva un’espressione vuota, distrutta. Dovette passare una mezz’ora buona perché lei potesse gorgogliare qualcosa “Come hai fatto a entrare?” “Beh” e sorrise con espressione buffa “diciamo che domani è meglio se ti fai cambiare la porta”. Poi la prese tra le braccia e uscì. Era così stremata che quando l’ambulanza la portò in pronto soccorso captò solo che il profumo di lui si allontanavo dal suo capo pulsante, e una mano le stringeva le dita nelle sue.
   
 
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