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Autore: Merione    31/03/2019    2 recensioni
I Pooh sono stati uno tra i maggiori gruppi musicali italiani e nei loro 50 anni di carriera (1966-2016) ci hanno regalato centinaia di straordinarie canzoni. Da grande fan del gruppo, ho deciso di omaggiarli pubblicando (a cadenza irregolare) questa raccolta di brevi storie ispirate ai loro brani. Conterranno anche frasi tratte dai testi, integrate nella storia stessa e segnalate in grassetto. Per ogni storia, vengono indicati il titolo della canzone, l'album e l'anno di prima pubblicazione. L'autore sarà sempre Pooh.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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#8: "Pensiero" - Pooh, Opera Prima (1971)

La forte spinta della guardia che mi lanciava quasi di peso nella cella mi fece perdere l'equilibrio e caddi a terra, con la faccia sul sudicio pavimento della più sudicia prigione della città. Il rumore metallico delle sbarre che si chiudevano dietro di me mi fece tremare di paura. Non valse a nulla scattare in piedi e aggrapparsi al freddo metallo per chiamare l'agente di turno, non valse a nulla gridare di essere innocente o implorare se non un avvocato almeno un po' di pietà. Il corridoio buio era già vuoto. Nessuno era lì ad ascoltare le mie urla di dolore, e qualcosa mi diceva che anche se qualcuno ci fosse stato, non avrebbe di certo mosso un dito per aiutarmi.

Com'ero finito lì? Ricordo solo che quella notte ero tornato a casa, avevo cenato presto ed ero andato a dormire, come al solito. Il mio lavoro non mi permetteva di godermi le ore serali come avrei voluto. Erano anni ormai che non mi sedevo su quella poltrona polverosa nel mio salotto con un buon libro in mano. E dire che da ragazzo ne avevo divorati a decine di libri.

Durante la notte, però, fui svegliato di soprassalto da un boato mai sentito prima, quasi un'esplosione, vicinissima. Avevo cominciato a temere per la mia vita, la mia immaginazione aveva subito dipinto la scena di un'intrusione di qualche ladro o criminale venuto ad uccidermi. E adesso, col senno di poi, l'avrei quasi preferito. No, era qualcosa di molto peggio di questo. Effettivamente qualcuno aveva fatto irruzione nella mia casa, sfondando la porta, ma non si trattava di ladri, non si trattava di assassini. Gli intrusi non indossavano un passamontagna o un casco per nascondersi dalle telecamere di videosorveglianza, ma piuttosto una divisa. Erano agenti venuti ad arrestarmi.

A nulla erano servite le mie proteste, le mie richieste di spiegazioni. Gli agenti continuavano a parlare di una certa ragazza e di un certo stupro. Mi definivano un mostro, minacciavano di farmi marcire in galera. Io li ascoltavo imbambolato, non avendo ancora realizzato quello che stava accadendo. L'unica cosa che ricordo distintamente di quegli attimi concitati è il freddo delle manette attorno ai miei polsi.

Erano passati diversi giorni da quella notte. Non saprei dire con esattezza quanti: non ti concedono il lusso di un calendario qui dentro. So soltanto che il freddo della cella stava cominciando già a penetrarmi nelle ossa. Non avevo avuto il tempo di rivestirmi quando sono stato arrestato, mi avevano portato qui direttamente in pigiama e mi avevano fornito una sporca divisa che tutto faceva tranne che tenermi al caldo.

Le guardie mi avevano spiegato, con un po' di infastidita riluttanza e soltanto dopo le mie insistenze, che due notti prima del mio arresto una ragazza era stata violentata giù in città, nei pressi del porto. E a quanto pare la vittima aveva fatto il mio nome. Non avevo idea di chi fosse quella ragazza, di come facesse a conoscere il mio nome e del motivo per cui avesse deciso di incastrarmi. Possibile che basti solo un nome per incolpare una persona senza uno straccio di verifica? Possibile che basti solo la testimonianza di una ragazza evidentemente in stato di shock a rovinare per sempre la vita di un innocente? Possibile che la società sia tanto inorridita da questo barbaro crimine da non voler neanche pensare di ascoltare l'altra parte prima di condannarla ad una vita di reclusione, ingiurie ed esclusione?

Ma da quei momenti era passato tanto tempo. Avevo ormai smesso anche di chiedermi cosa ne sarebbe stato di me. Avevo perso l'appetito, bevevo appena un sorso d'acqua al giorno, per tenermi in vita, anche se la tentazione di lasciarmi morire era stata forte, in più di un'occasione. Ma non potevo farlo, non prima di averle fatto sapere che non c'entravo nulla. Lei ormai era il centro dei miei pensieri, la speranza che lei non avesse perso la fiducia in me era il motivo per cui continuavo a tenermi in vita.

Quel giorno chiesi alla guardia un pezzo di carta e una penna. Non avevo neanche io idea di cosa ne avrei fatto, ma sentivo il bisogno di sfogarmi, di gettare su di un foglio tutto ciò che avevo dentro, nella speranza di trovare un po' di pace. La guardia mi guardò con sospetto e quasi indignazione. Il suo pensiero gli si leggeva negli occhi, ma la sua voce dura mi confermò che avevo interpretato bene il suo sguardo:

- Come può un essere tanto spregevole da violentare una ragazzina avanzare una qualunque richiesta? Non sono neanche tanto sicuro che per te valgano le norme sul rispetto dei diritti umani: gente come te è al di sotto della decenza umana.

- La prego, sto impazzendo qui dentro. Non c'entro nulla! Non so neanche chi sia quella ragazza! Non vi chiederò più nulla!

Non so come accadde, ma con un po' di insistenza alla fine la guardia cedette e mi portò quello che le avevo chiesto. Probabilmente aveva solo voglia di farmi star zitto e di tornare al suo giro di ronda, ma per me questo bastava e avanzava.

Mi accucciai sul pavimento e cominciai a scrivere, febbrilmente. La mia mano correva da sola sul foglio, quasi come se avesse coscienza propria e fosse stata impaziente di scrivere quelle parole da giorni. O forse era soltanto la follia che stava cominciando a prendere il sopravvento sulla mia mente. Queste furono le parole:

"Non restare chiuso qui, pensiero, tra le mura di questa cella. Purificati dal sudiciume che mi circonda, riempiti di sole e va' nel cielo, accogli il mio messaggio per lei, l'unica donna della mia vita. Cerca la sua casa e poi, sul muro, scrivi tutto ciò che sai, che è vero.

Non posso sapere cosa tu pensi di me, cosa ti avranno detto di me, quante lacrime tu abbia versato credendomi capace di commettere un crimine così disgustoso, ma credimi, amore mio. Non c'entro nulla. Sono un uomo strano ma sincero. Questo è il messaggio che affido a questa carta, cerca di spiegarlo a lei, pensiero. Quella notte giù in città non c'ero. Non ho idea di chi fosse quella povera ragazza, male non le ho fatto mai, davvero. Davvero.

Quasi ti sento, pensiero mio. Mi rimbombi in testa da quando mi hanno rinchiuso qui. Sono giorni che non mangio, che non dormo. Solo lei nell'anima è rimasta, lo sai. Il suo volto, il suo profumo, i suoi occhi innamorati. Innamorati di me. Non posso pensare che in questo momento quegli stessi occhi stiano piangendo per me. O peggio, di me.

Questo uomo inutile troppo stanco è ormai. Stanco di lottare, stanco di piangere, stanco di vivere, se non fosse per il ricordo di lei, l'unica persona al mondo di cui gli interessa l'opinione. Solo tu, pensiero, puoi fuggire se vuoi. Vola, va' da lei, la sua pelle morbida accarezzerai e le farai sentire il mio calore, il mio conforto per le sue lacrime ingiustificate. Ormai non ha più senso preoccuparmi per me, ho già patito tutto il dolore che avevo in corpo. Ora mi interessi solo tu.

Vola, pensiero mio, trovala e portale il mio messaggio. C'è sulla montagna il suo sentiero, vola fin lassù da lei, pensiero. Spiala dalla finestra, guardala distesa sulle lenzuola, dal cuscino ascolta il suo respiro, porta il suo sorriso qui vicino, vicino. Convincila della mia innocenza, non farla soffrire."

Terminata quella lettera sconnessa, ripiegai con cura il foglio, come facevo da bambino. Un paio di pieghe sarebbero bastate e ne sarebbe venuto fuori un piccolo aeroplano, l'unica forma che la mia mente provata riuscì a concepire che fosse capace di uscire da quella cella. Quando lo ebbi terminato, mi avvicinai alla finestra e, colto un soffio di vento, lo lasciai andare.

Lo guardai volteggiare in aria e fui assalito dal dubbio che non sarebbe mai arrivato a destinazione. E infatti, dopo un po' l'aereo cominciò a perdere quota, a planare lentamente verso il terreno, prima ancora di superare le mura di cinta di questa nera prigione.

Non volli guardare. Me ne tornai sulla mia branda. Volevo continuare a sperare. Sperare che il messaggio, quasi per miracolo, riuscisse ad arrivare a destinazione, che non si fermasse nel cortile del carcere. Non seppi mai il suo destino.

E per quanto riguarda me, non c'è molto altro da raccontare. La mia vita è terminata nel momento in cui quelle fredde manette si sono posate sui miei polsi. Non scorderò mai quella sensazione.

Come vorrei avere uno dei miei libri qui, a tenermi compagnia. Magari quello che mi avevi regalato tu, amore mio, quello con la tua dedica sul frontespizio e con le pagine intrise del tuo profumo.

   
 
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